L’ULTIMA THULE E IL MISTERO DEGLI IPERBOREI -seconda parte-

Anche Diodoro Siculo nella sua “Biblioteca Storica” (II, 47) tratta del misterioso popolo degli Iperborei e delle sue usanze, fornendone un’accurata descrizione e confermando gli stretti rapporti tra Iperborei e Greci: “[Alcuni autori] affermano che nell regioni poste al di là del paese dei Celti trovasi un’isola di non minore grandezza della Sicilia; essa si distenderebbe sotto le Orse [le costellazioni dell’Orsa Minore e dell’Orsa Maggiore] e sarebbe abitata dagli Iperborei, cosi detti poichè albergano al di là della terra donde spira il vento di Bòrea. Quest’isola sarebbe assai fertile e produrrebbe qualunque genere di frutto; godrebbe inoltre di un clima sommamente temperato, così che in essa si mieterebbero due raccolti all’anno. Narrano che qui sia nata Leto [o Latona, la madre di Apollo e Artemide], e per questo Apollo vi sarebbe venerato più di tutti gli altri dei: anzi tutti i suoi abitanti sarebbero in qualche modo sacerdoti di Apollo, poiché a lui si elevano inni con canti quotidiani e ininterrotti e gli si tributano onori eccezionali. Sull’isola si erge poi uno splendido recinto consacrato ad Apollo e un grandioso tempio di forma sferica, adorno di molte offerte votive. Si dice inoltre che esisterebbe ivi una città sacra al figlio di Leto, dei cui abitanti la maggior parte sarebbe costituita da sonatori di cetra, che accompagnandosi con il loro istrumento incessantemente cantano nel tempio inni al dio, celebrandone le gesta. Gli Iperborei avrebbero una lingua loro propria e sarebbero in grande familiarità con i Greci, in particolare con gli Ateniesi e i Delii. Raccontano poi che alcuni dei Greci siano giunti presso gli Iperborei, lasciandovi splendide offerte, con iscrizioni in caratteri ellenici.

Allo stesso modo anche ‘Abari sarebbe venuto da quel paese in Grecia, rinnovando la benevolenza e le relazioni con i Delii. Dicono poi che da quest’isola la Luna appaia a pochissima distanza dal suolo terrestre, tanto che si possono vedere chiaramente su di essa alcuni rilievi simili a quelli della Terra. Si afferma altresì che il dio Apollo venga a dimorare sull’isola ogni 19 anni, periodo in cui giungono a compimento le rivoluzioni degli astri (1). In questa sua apparizione il dio sonerebbe la cetra e danzerebbe di continuo dall’equinozio di primavera fino al sorgere delle Pleiadi (2)… Regnerebbe sulla città santa e governerebbero sul sacro recinto i cosiddetti “Boreadi”, discendenti di Bòrea, i quali si trasmetterebbero le cariche per via ereditaria”.

A quanto sembra, Diodoro Siculo riferisce e accredita una tradizione diversa da quella più comune, secondo la quale Apollo si trasferiva nelle regioni iperboree tutti gli anni dal solstizio d’inverno all’equinozio di primavera, e che riconnetteva la permanenza di Apollo tra gli Iperborei a un ciclo cosmico. Lo storico accenna poi ad Abari: costui è una leggendaria figura di indovino e taumaturgo, vissuto probabilmente tra il VII e il VI secolo a. C., di cui parlano Erodoto (Storie, IV, 36), Pindaro (frammento 270b) e Platone (Carmide, 158 B). Egli aveva ricevuto da Apollo Iperboreo, del quale era sacerdote, il dono dell’ispirazione profetica e altre virtù miracolose, nonché una portentosa freccia d’oro che portava sempre con sé. Di questo strale fatato si serviva quale mezzo di trasporto spostandosi in volo in vari luoghi della Terra, – ragion per cui a detta di Porfirio di Tiro era chiamato “Aeròbata”, perché camminava per così dire nell’aria-, dove esercitava la sua opera di guaritore e di indovino, senza avere mai alcuna necessità di toccare cibo; tuttavia nella versione data da Erodoto il leggendario profeta non cavalcava la freccia, ma la teneva in mano come segno del suo divino potere. Secondo quanto leggesi in una voce del “Suda” (o “Suida”), una specie di enciclopedia scritta in età bizantina, intorno al X secolo, Abari partecipò ad una missione ufficiale inviata dagli Iperborei ad Atene all’epoca della III Olimpiade (nel 768 a. C. circa); nella stessa opera gli viene attribuita la redazione di alcuni libri, tra i quali un volume di “Oracoli Scitici”, una “Teogonia” in prosa e un poema su Apollo -testi dei quali non è rimasto nulla-. I Pitagorici lo consideravano il maestro di Pitagora, o quanto meno un ispiratore dei suoi insegnamenti: a quanto si legge nella “Vita di Pitagora” di Giamblico, egli avrebbe incontrato il filosofo di Samo alla corte di Falàride, tiranno di Agrigento, e durante quell’incontro avrebbe scambiato il suo mitico dardo aureo con la coscia, parimenti aurea, che secondo una leggenda Pitagora aveva quale tangibile segno della sua natura divina (3) ; inoltre avrebbe guarito moltissimi ammalati e in particolare sconfitto la tremenda pestilenza che infuriava in Grecia, specie a Sparta e a Cnosso.

Plinio il Vecchio tratta degli Iperborei nel IV libro della “Naturalis Historia” (capitoli 89-91), dove afferma, in accordo con gli autori precedenti, che essi dimoravano oltre gli Issèdoni e gli Arimaspi, nonché al di là di un paese che, a causa della continua e incessante precipitazione di fiocchi di neve, simili a candide piume, veniva chiamata, a suo dire, “Pteròphoros” (ovvero “portatrice di piume”), terra ingrata anche perché perpetuamente flagellata dai gelidi soffi di Aquilone (il vento di tramontana, corrispondente al greco Bòrea), esprimendo peraltro un’ombra di dubbio su quanto riferito dagli altri geografi: “Al di là di quei monti [i monti Rifei] e di Aquilone, dimora -se ci vogliamo credere- un popolo fortunato, a cui fu dato il nome di Iperborei, che prolunga la sua esistenza per innumerevoli anni e del quale si dicono meraviglie. Lì si ritiene si trovi uno dei due poli sui quali il mondo è imperniato e termini il giro delle stelle: la luce diurna vi durerebbe sei mesi, allorché il Sole risplende di fronte a quel luogo, non però, -come sostengono gli ignoranti-, dall’equinozio di primavera all’autunno, Una sola volta durante l’anno gli Iperborei vedono il Sole sorgere, al solstizio estivo, ed una sola volta lo vedono tramontare, a quello d’inverno. La regione è esposta all’illuminazione solare, di clima felicemente temperato, privo di qualunque vento nocivo. Sono dimora degli abitanti boschi e foreste; il culto divino vi è celebrato sia dai singoli individui, sia in forme comunitarie. Le discordie sono colà sconosciute, come qualunque malattia o disgrazia: la morte sopravviene soltanto per sazietà della vita ed essi le vanno incontro gettandosi da una rupe”.

Da questa descrizione appare evidente che la terra degli Iperborei doveva essere immaginata come una sorta di eden, un luogo dove ancora permanevano le felici condizioni proprie dell'”età dell’oro”, dove erano ancora ignote le sofferenze e le preoccupazioni, come pure gli smodati desideri, le ambizioni e l’avidità che spesso le arrecano, e dove gli abitanti vivevano “secondo natura”, lontani dalle cure mondane, guidati senza sforzo alcuno da quell’ideale di autentica realizzazione di sé che i filosofi, pur se in modo diverso, proponevano all’umanità brancolante nelle tenebre dell’ignoranza.

La descrizione degli Iperborei e del loro paese fatta da Diodoro e da Plinio inducono a cedere che esse si riferiscano non alle popolazioni esistenti in quei luoghi nell’epoca in cui vissero i due autori (cioè I secolo a. C. e I d. C.), -in cui le condizioni climatiche non dovevano essere molto diverse da quelle attuali-, ma ad un’età assai più antica della quale si conservava la memoria, per quanto trasfigurata da un alone di leggenda.

Nella letteratura antica si trovano molti riferimenti ad isole situate nell’Oceano, -ovvero il grande fiume circolare che circonda tutte le terre emerse secondo la cosmologia classica-; ad esempio Claudio Eliano (165-235 circa),  -che abbiamo già citato a proposito della Fenice-, nella sua “Storia Varia”, riferendosi a un brano tratto dalla “Storia Filippica” (della quale rimangono solo frammenti e testimonianze in altri autori) di Teopompo di Chio (sec. IV a. C.) parla di un’altra isola misteriosa, o per meglio dire continente, che si troverebbe nel mezzo dell’Oceano:

“L’Europa, l’Asia e l’Africa non sono che isole circondate dall’Oceano; vi è solo una terra che si possa davvero chiamare continente ed è la Meropide, che si trova fuori dal nostro mondo. La sua ampiezza è enorme; tutti gli animali che vi dimorano sono di grande mole; anche gli uomini sono alti il doppio della statura normale e la durata della loro vita è doppia rispetto alla nostra […]. Gli abitanti di Eusebes,  -una delle città che trovansi in questo continente-, vivono in perpetua pace, godono di immense ricchezze e raccolgono i frutti della terra senza dover ricorrere all’aratro e ad ai buoi: arare e seminare non costano loro alcuna fatica. Vivono sempre in buona salute e trascorrono il loro tempo in letizia e diletto. La loro giustizia è superiore ad ogni discussione, per cui anche gli dei amano rendere loro visita.

Gli abitanti di Màchimos (4) al contrario sono assai bellicosi, sono sempre in guerra e tendono a sottomettere le popolazioni confinanti, così che la loro città detiene ora il dominio di molti popoli diversi […]. Una volta decisero di invadere le nostre isole e, attraversato l’Oceano con migliaia e migliaia di uomini, giunsero presso gli Iperborei. Ma avendo saputo che essi erano considerati il popolo più felice della Terra, dopo aver costatato la semplicità delle loro condizioni di vita, reputarono inutile procedere oltre”.

Secondo quanto narra Teopompo, queste informazioni circa il misterioso continente sarebbero state date a Mida, famoso re di Frigia, da Sileno, l’essere con tronco umano e zampe equine, che fu precettore di Dioniso, allorché questi l’aveva trovato ubriaco. Nel suo racconto Sileno aveva aggiunto anche che la terra di Meropide era perpetuamente avvolta da una coltre di foschia rossastra ed era attraversata da due fiumi: il Fiume del Piacere e il Fiume del Dolore.

Questa descrizione di Meropide fatta dallo storico e l’accenno al loro tentativo di invadere le terre al di qua delle colonne d’Ercole, rimembra per molti aspetti l’Atlantide descritta da Platone nel Timeo e nel Crizia -tanto che alcuni hanno pensato che la descrizione di Teopompo sia una sorta di parodia o di ironica imitazione di quanto scritto da Platone (per quanto la “Storia Filippica” non abbia affatto un carattere satirico o grottesco)-. La nebbia rossastra che ricopre il continente sarebbe la nuvola di fumo e ceneri derivata dalle eruzioni vulcaniche che sconvolsero Atlantide e che impedirono per lungo tempo alla luce solare di giungere fino al suolo, oscurando l’intera regione. L’oscuramento del Sole a causa delle ceneri vulcaniche è un fenomeno purtroppo ben conosciuto da numerose popolazioni che vivono in luoghi colpiti da frequenti fenomeni vulcanici, come ad esempio l’Indonesia, una delle regioni in cui manifesta l’attività vulcanica più intensa di tutto il mondo.

Nei miti Hindu, la città associata con le esplosioni vulcaniche e la conseguente coltre di fumo tenebroso che la ricopre, è chiamata Dhumadi, nome che significa appunto “Ammantata di fumo ” in sanscrito. Questo nome e questo mito peraltro richiama alla memoria le bibliche Sodoma e Gomorra, allo stesso modo ricoperte da colonne di denso fumo che si elevavano da esse dopo la punizione divina. E Dhumadi potrebbe essere l’archetipo sia di Atlantide sia di Sodoma e Gomorra; anche in Egitto ritroviamo la medesima tradizione con la leggenda dell’enigmatico “Paese di Hanebut”, nome che dovrebbe significare nella lingua egizia “gli Abitanti delle Regioni Nebbiose” (oppure “dietro le isole”).

Ma Hanebut è il nome di una popolazione davvero esistita, la cui regione fu visitata con frequenza dagli Egiziani, i quali intrattenevano con essa relazioni commerciali attraverso l’oceano. Questo popolo enigmatico avrebbe invaso e conquistato l’Alto Egitto nel periodo predinastico, ma fu poi cacciato quando l’Egitto fu unificato da Menes (chiamato anche Narmer), che è considerato il primo faraone. Diversi dinasti egiziani proclamarono la loro sovranità sul Paese di Hanebut, e il faraone Thutmosis III si vantò di aver costretto alla resa gli Hanebut e assoggettato coloro che vivevano nel mezzo del “Grande Mare Verde”; in un solo anno egli si vanta di aver raccolto nei paesi conquistati ben 36.692 “deben” (5) d’oro -che equivalgono a più di tre tonnellate-, di questa enorme quantità di metallo prezioso ben 27.000 kg provenivano dall’Asia Minore e dalle isole dell’Egeo. Questo popolo dall’incerto profilo è dunque da collocarsi nel Mediterraneo Orientale o nell’Oceano Indiano? Per quanto le testimonianze siano frammentarie e contraddittorie, sembra assai più probabile che il paese di Hanebut si trovasse in mezzo, o sulle coste dell’Oceano Indiano.

I vari miti e leggende che riguardano queste terre (Atlantide, Thule, Meropide, il Paese degli Iperborei, ecc.) si potrebbero forse conciliare nel modo seguente: gli Atlantidi nella loro fase di espansione conquistarono la terra degli Iperborei, rendendoli loro sudditi; essendo però questi ultimi più evoluti nella cultura e nello sviluppo spirituale, esercitarono una preponderante influenza sui conquistatori, contribuendo a creare e a promuovere la civiltà atlantidea nelle sue forme più elevate. Thule, -che forse in quell’epoca era molto più estesa ed unita ad Atlantide in un unico continente-, divenne parte integrante dell’Impero Atlantideo e rimase soggetta ad esso fino alla catastrofe che ne provocò la fine. Il clima cambiò e le terre dell’Europa settentrionale divennero fredde e inospitali. Possiamo notare peraltro che la rappresentazione degli abitanti della Meropide, per quanto vaga, ricorda un po’ quella dei “Lemuriani” fatta dagli esoteristi e dai teosofi dell’800 e del 900, per cui verrebbe da pensare che la Meropide non corrisponda ad Atlantide, ma alla “Lemuria”, cioè al continente -e allo stadio dell’evoluzione umana che precedette Atlantide secondo queste ipotesi-.

Osserviamo ancora che nelle dottrine dei pensatori suddetti l’età Iperborea fu quella anteriore all’età Lemuriana, che fu poi a sua volta seguita dall’età Atlantidea: Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), una della principali esponenti del movimento teosofico così si esprime nella sua opera più importante, “La Dottrina Segreta”: “Questo [Iperboreo] sarà il nome scelto per il secondo continente, la terra che si protendeva a sud e a ovest del polo nord per accogliere la seconda razza e corrispondente all’attuale Asia settentrionale. Questo era il nome dato dagli antichi Greci alla regione remota e misteriosa dove Apollo […] si recava ogni anno. Dal punto di vista astronomico Apollo è senza dubbio alcuno il Sole che, lasciati i santuari ellenici, tornava a visitare il suo lontano paese, dove si diceva per metà dell’anno non tramontasse… Ma dal punto di vista storico ed etnologico, nonché geologico, il significato è diverso. La terra degli Iperborei, il paese che si estendeva oltre Bòrea, il dio dal cuore di ghiaccio, il dio delle nevi e delle tempeste, che amava dormire profondamente sulle pendici dei monti Rifei, non era né un luogo ideale [cioè un astrazione], né una regione situata nei pressi della Scizia o oltre il Danubio. Era un vero continente […] che in quei primi tempi non conosceva l’inverno […]. Le tenebre notturne non scendevano su quella terra. -così affermavano i Greci-, perché essa è il “Paese degli Dei”, la dimora favorita di Apollo, il dio della luce, e i suoi abitanti sono i suoi sacerdoti e servitori prediletti. Questa ora potrà apparire un’invenzione poetica, ma allora era una verità poetizzata”.

In effetti Atlantide, Meropide, Thule, Iperborea appaiono come i mondi storici nei quali, secondo le testimonianze concordi degli autori antichi, si perpetuò, sebbene in forma imprecisa e talora confusa, la memoria di civiltà umane che precedettero quelle propriamente “storiche”, -ovvero ricostruibili in modo attendibile se non certo con le ricerche e i metodi accademici-, una sorta di poli spirituali aventi una matrice comune; si trattò comunque di altissime espressioni civili e culturali (a cui accompagnava con tutta probabilità pure un eccezionale sviluppo tecnologico), e tramontate in seguito al cataclisma noto nei miti e nelle tradizioni di svariati popoli come “Diluvio universale”.

I “Veda” -i libri sacri della religione indù- (6), l'”Edda” -l’epopea del mondo scandinavo- e l’epos omerico -che sia nelle descrizioni geografiche, sia nel tipo fisico dei protagonisti, sia negli elementi culturali che vi compaiono rivela un’origine senza dubbio più “nordica” che “mediterranea”- rivelano l’inequivocabile traccia di quella che fu quasi certamente la primitiva patria degli Indoeuropei. In questo contesto assume grande importanza la teoria di Bal Gangadhar Tilak (7), che ha parlato di una “dimora artica” dalla quale sarebbero venuti gli Arya dell’antica India: a formulare una tale ipotesi egli è stato indotto da una accurata e minuziosa analisi dei Veda, poema sacro (o, meglio, insieme di quattro poemi), che pullula di riferimenti astronomici e climatici a un primordiale ambiente settentrionale. Esistono diversi indizi di una civiltà, situata originariamente nell’area polare, in cui si manteneva l'”Età dell’Oro”, altrove scomparsa, e da porre in relazione con la dimora degli Dei.

Nel “Mahabharata”, grandioso poema che comprende ben 110.000 strofe suddivise in 18 libri-, corrispettivo indiano dell’Iliade, si trovano parecchi accenni alla “terra dell’estremo nord”, in sanscrito “Uttaràkuru”, e che appare anche nella tradizione iranica con il nome di “Airyana Vaèyo”, il “seme degli Arya”, o anche “Pairidaeza”, -“luogo di delizie”-, derivato a sua volta dal sanscrito “Paradesha”, il “Paese Eletto”. Si noti che da questo termine, che già nell’antica Persia aveva assunto il significato di ampio parco ricco di piante e di animali, quali si trovavano presso le favolose regge dei sovrani Achemenidi, derivarono sia il greco “paràdeisos” (da cui il latino “paradisus”), sia l’ebraico “pardesh”.

L’Uttaruku è descritto con caratteristiche assai simili a quelle di Iperborea, la terra estrema posta ai confini del mondo, che godeva tuttavia, come abbiano visto, di un clima assai mite ed era del tutto libera dai ghiacci perenni che avrebbero poi reso desolata e inospitale quell’area. La stirpe leggendaria, ma con indubbi fondamenti storici, degli Iperborei viveva in un luogo illuminato dal Sole per sei, o addirittura dieci mesi all’anno, e con un’unica lunga notte della durata di sei, -ovvero di due- mesi, proprio come nella terra di origine degli Arya, secondo le testimonianze contenute sa nell’Avesta persiano, sia nei Veda indiani.

Come gli Iperborei, gli Arya veneravano divinità celesti e solari, come Apollo, e professavano una religione di tipo uranico, che è considerata peculiare degli Indoeuropei. Anche l'”Inno ad Hermes”, -uno dei famosi “inni omerici”, attribuiti dalla tradizione al vate ellenico, ma quasi certamente apocrifi-, che menziona le regione della Pieria, confinante con il sacro monte Olimpo, come luogo ove nacque il divino messaggero, contiene strane anomalie astronomiche relative alle fasi lunari, che possono trovare adeguata spiegazione solo se ambientate in prossimità dell’Artico, dove la notte solstiziale dura quasi sei mesi.

La memoria di un brusco cambiamento climatico è tramandata pure nel mito del “Crepuscolo degli Dei”, il “Ragnarok”, che appare nella sua forma tipica nella religione germanica, -sebbene si riconnetta alla teoria dei grandi cicli cosmici, presenti sia nella cosmologia ellenica, sia in quella indù, e in forme diverse in molte altre tradizioni mitiche-: come possiamo leggere nell'”Edda”, “verrà un inverno chiamato Fimbulvetr [l’inverno spaventoso], la neve cadrà con moto vorticoso provenendo da ogni dove; vi sarà un terribile gelo e venti pungenti sferzeranno la terra; il Sole sparirà; giungeranno tre lunghi inverni non interrotti dall’estate”.

La fine dell'”Airyana Vaeyo”. -l’eden primordiale della religione iranica-. sembra essere stata anch’essa causata da un’immane disastro climatico: come narra l'”Avesta”, la divinità suprema Ahura Mazda comunicò al re Yima, primo sovrano degli uomini, che una sequela di gelidi inverni avrebbe condotto alla distruzione il suo regno di beatitudine. Il re Yima (8) era un principe giusto e saggio, soprannominato il “Buon Pastore,” ed il suo regno era conosciuto come l’età dell’oro, in cui non esistevano malattia, morte e alcun altro lutto o sciagura. Sotto la sua guida, il numero degli immortali crebbe a tal punto che egli decise di triplicare l’estensione della terra. Il demone Mahrkusha però inviò un terribile maremoto, seguito da torride e interminabili stagioni estive; esse provocarono una siccità così catastrofica che solo l’intervento di Ahura Mazda potè impedire la totale scomparsa del genere umano; egli consigliò  a Yima di scavare una dimora sotterranea nella quale gli umani e gli altri animali potessero ricoverarsi e dove acqua, alberi, fiori e frutti abbondassero.

Ma Yima si lasciò vincere dal demone della superbia e dell’orgoglio, cominciò a credere di essere un dio e pretese di essere adorato; così ebbe termine l’età dell’oro: Yima acquisì la misera condizione di mortale e da re dei viventi divenne il primo re dei morti, mentre la luce spirituale della gloria ( la “Xvarnah”) si ritirò per sempre nel Cielo; sebbene ciascun sovrano giusto possegga un riflesso di quella gloria.

E’ interessante notare che il nome di Yima è molto simile a quelli di Yama e di Yimir. Il primo di essi si riferisce al primo umano che soccombette alla morte nella credenza indù e che divenne poi divinità, re e giudice degli Inferi; egli era anche il fratello di Manu il giusto che sopravvisse e salvò il genere umano nel diluvio vedico, ed è quindi da identificare con lo Yima avestico. Il secondo nome, Yimir, è attribuito nella mitologia germanica al gigante cosmogonico dal quale, con la mediazione degli dei, trasse origine, oltre alla prima coppia umana archetipica, tutto il mondo: la sua carne divenne la terra, le ossa le montagne, il sangue i mari, i laghi e i corsi d’acqua, e così via dicendo. Per questo, data la sua natura di macroantropo ancestrale, sebbene la sua trasformazione sia stata più profonda, è da ritenersi derivato dalla medesima figura dalla quale derivarono anche le due precedenti.

Note

1) si tratterebbe quindi del “ciclo di Metone”, così detto dall’astronomo ateniese del V sec. a. C. che lo scoprì, nel quale 19 anni solari corrispondono a 235 lunazioni e che è quindi la base dei calendari luni-solari, quelli di gran lunga più frequenti nell’antichità.

2) la costellazione delle Pleiadi, che prende il nome dalle sette figlie di Atlante e Pleione, si trova nei primi gradi della costellazione del Toro, per cui a quel tempo il loro sorgere eliaco, cioè insieme al Sole, avveniva negli ultimi giorni di aprile, Ora, a causa della precessione degli equinozi è anticipato di circa un mese.

3) si vedano al riguardo quanto dicono Diogene Laerzio, Apollonio (Mirabilia, 6) e Claudio Eliano (Varia Historia, IV, 17).

4) Eusebes significa in greco “pio, pietoso, ossequente agli dei”; Màchimos vuol dire invece “bellicoso, aggressivo”: il nome delle due città esprime dunque il carattere degli abitanti.

5) il “deben” era la principale misura di capacità dell’Antico Egitto e corrispondeva a 91 gr.; il “deben” era suddiviso in 10 “kite” (o “kèdet”) o 12 “snatj” (“anelli”).

6) i quattro libri di inni e strofe sacre si chiamano rispettivamente: Rig Veda, Sama Veda, Yajur Veda e Atharva Veda. Essi trattano tutti soprattutto dei riti e della liturgia, ma offrono importanti informazioni sia sugli dei, sia sulla civiltà e sui luoghi in cui vissero gli antichi “Arya”.

7) Bal Gangadhar Tilak (1856-1920), scrittore, pensatore e politico indù, promotore del “risveglio” culturale e civile degli Indiani contro la dominazione britannica.

8) in pahalavico e neopersiano questa figura di eroe è chiamata Jamshid, e con questo nome appare nella nello “Shahnanameh” (IL Libro dei Re), il grandioso poema del poeta Firdusi (935-1020) nel quale è esposta la storia mitica e antica dell’Iran.

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