L’ETA’ DELL’INCOSCIENZA – terza parte-

Lo storico e sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) nella sua opera principale (“Economia e Politica”) afferma che esistono tre tipi di potere:

1) potere politico in senso stretto, basato sulla forza e/o sul consenso;

2) potere economico, derivante dal possesso delle risorse produttive e finanziarie;

3) potere ideologico, o culturale, basato sulla capacità di diffondere idee, opinioni, modelli comportamentali e di esercitare quindi un’influenza più o meno profonda su vasti strati della popolazione o su determinate categorie della stessa.

In quest’ultimo caso abbiamo quel tipo di potere definito comunemente,- ma in modo assolutamente improprio-, “carismatico” (1): questo è il potere che esercitano i “leader” populisti.  Questo genere di influenza non è esclusivo di personalità che agiscono nel mondo politico, ma “lato sensu” si riscontra in altri ambiti, in specie quello dello spettacolo. Ed in effetti una delle qualità più evidenti e caratterizzanti della “nuova” politica (la quale però per certi versi riprende quella “antica”, del mondo greco-romano e di certi peridodi della storia, -come quello della Rivoluzione francese-, nei quali l’enfasi tribunizia ritornò in auge) è proprio il suo avvalersi di stili, mezzi e moduli comunicativi propri dello spettacolo, oltre che della pubblicità commerciale, con i quali mostra numerosi punti in comune.

Osserviamo altresì che nella nostra epoca il potere politico in senso stretto tende a venire meno per risolversi negli altri due elencati da Weber: chi riesce a detenere uno o entrambi di essi, riesce a controllare “de facto”, se non “de iure”, la “res publica”, poichè riesce a condizionare in modo potente i comportamenti  e le scelte dei cittadini. Questa è la situazione che sempre più sembra affermarsi nelle cosiddette “democrazie occidentali”, ed in effetti questa è una delle definizioni più adeguate e calzanti che si potrebbero dare  dell'”antipolitica”: lo scomparire, o quanto meno l’indebolirsi della politica come categoria a sè stante che pertiene alla gestione (arte o scienza che sia) del governo a favore da un lato dell’economia, dall’altro dalla comunicazione di massa, -che spesso a loro volta si integrano e si influenzano a vicenda-, le quali invadono l’area che dovrebbe essere riservata alla decisione politica e ne vengono in pratica ad esercitare le funzioni.

ll “potere carismatico”,- ovvero demagogico-. del leader si manifesta nelle sue doti oratorie, si estrinseca nella sua capacità di fare appello non alla facoltà logiche e  critiche dei suoi uditori, ma alle loro passioni ed emozioni, di evocare le loro paure e le loro speranze, le avversioni e gli entusiasmi  ed incanalarli nella direzione da lui voluta e che risponde ai suoi interessi e alle sue ambizioni.

Essenziale è dunque il modo di porsi e  la personalità del leader, la sua capacità di entrare in sintonia a livello emotivo ed empatico  con i suoi seguaci, interpretarne le più o meno confuse aspirazioni; ma soprattutto la sua abilità nell’offire loro degli obiettivi che essi ritengono propri o coincidenti con i propri. Un medesimo mesaggio risulta invero assai diverso secondo le modalità con le quali viene proclamato ed esso provocherà ed indurrà degli effetti assai differenti, sia per qualità sia per intensità, in dipendenza del tono, delle forme, delle parole con le quali viene proposto, ma soprattutto secondo la persona che lo esprime, lo manifesta e per così dire lo invera. In altre parole quello che conta davvero non è quello che si dice, ma il modo con cui lo si dice, e sopratutto chi lo dice: la medesima cosa verrà accolta con entusiasmo se proclamata da un personaggio dotato di fascino personale, di capacità comunicative o cominque in grado di imporsi anche “urlando”; con freddezza, disinteresse, o disprezzo se suggerita da qualcuno privo di tali qualità. Questo vale non solo nella politica, o comunque nella comunicazione pubblica, ma anche nelle relazioni sociali e umane in generale, ed è spesso il fattore determinante del successo personale più che le qualità o le capacità morali, intellettuali o professionali possedute dal soggetto, che, qualora non siano accompagnate da un certo fascino personale e da una efficace capacità di “autopromuoversi”, quando non di operare una vera e propria manipolazione psicologica, non arrecano invero grandi benefici a chi non ne sia dotato in  cospicua misura .

E dunque non è il contenuto logico della comunicazione, ma gli elementi emotivi che la veicolano il fattore più importante e decisivo per la sua efficacia, non il “significato”, ma il “significante”, tanto che il secondo viene a sostituire il primo in ordine ai fini che l’oratore, o meglio il “comunicatore”, si propone di conseguire, ovvero la persuasione dell’uditorio (intendendo con tale termine non tanto l’uditorio “fisico”, ma soprattutto quello “mediatico”, di stampa, tv, internet).

Torniamo così al tema della “retorica”, come fondamentale mezzo attraverso il quale si esplica e si esercita la “demagogia”, la capacità di influenzare e di persuadere, non solo il “popolo” inteso come una sorta di indistinta unità promordiale, ma i singoli individui -poichè il messaggio, la comunicazione deve sembrare diretto a ciascuno di essi personalmente- a compiere a determinate azioni, ma soprattutto a provare determinati sentimenti e a pensare in un determinato modo.

La retorica, sebbene questo possa forse apparire paradossale, con l’odierno populismo è tornata ad essere l’essenziale strumento della comunicazione politica, anzi si identifica con la politica stessa. Certo la “retorica” degli inizi del secolo XXI non ha nulla a che vedere con quella codificata dalla precettistica dei maestri di eloquenza del mondo greco-romano, con quella che era una delle “arti del trivio” nel Medio Evo e costituì materia di studio nelle scuole fino all’inzio dell’800. E’ una retorica che, al contrario dell’antica, rifugge -salvo rare eccezioni che hanno per lo più intento sarcastico e caricaturale-, dal lessico e dai modelli aulici e letterari; al contrario si nutre e si sostanzia di sciattezza, di aggressività e violenza verbale, di oscenità e di rozza icasticità plebea, che in realtà non sono affatto spontanee e casuali come si potrebbe pensare; al contrario sono studiate, affettate, elaborate: come mezzo per esprimere l'”antipolitica” si è inventata, seppure non teorizzata ufficialmente, almeno fino ad ora, un”antiretorica” che ha elevato l’insulto, meglio se grossolano ed osceno, e la trivialità più turpe alla dignità di figure (o per meglio dire “figuracce”) retoriche. Questa “antiretorica” dellla quale vengono mostrati numerosi esempi in molte orribili trasmissioni televisive che sono il trionfo del cattivo gusto, oltre che della menzogna e dell’insipienza, è una testimonianza quanto mai eloquente dell’impressionante volgarità e dell’imbarbarimento della società nel suo complesso,

Spesso iniziative, dichiarazioni e proposte che a prima vista potrebbero sembrare improvvide e controproducenti, o francamente assurde, sono in realtà parte integrante della strategia propagandistica dei leader populisti e non sono affatto uscite estemporanee e infelici, come potrebbe supporre un  osservatore ingenuo e superficiale, anche quando esse vengono poi corrette o ridimensionate. Al contrario costoro sanno avvalersi con consumata abilità della collaborazione, volontaria o involontaria, della stampa, della tv e del web, i quali, dando di solito grande ed eccessivo rilievo alle dichiarazioni di questi leader, le amplificano e ne divengono cassa di risonanza, in nome di un malinteso diritto di cronaca, accampato spesso a sproposito per giustificare l’attenzione che dedicano a questi discutibili personaggi. 10013925_511286405655309_1743711639_nInfatti i mass media riportano con fragore  soprattutto le notizie che presentino un forte impatto emotivo sul pubblico, mentre al contario altre notizie che sarebbe assai più opportuno, o addirittura necessario, portare a conscenza dell’opinione pubblica, ma che non rivestono una forte valenza emozionale e non suscitano quindi nel lettore o nell’ascoltatore sentimenti di notevole intensità (quali entusiasmo, sdegno, irritazione, ira, ecc.) vengono messe in secondo piano, o neppure riferite.

La finalità di tutto questo è in primo luogo di essere sempre presenti in quello che viene chiamato l'”agone mediatico”, di ricordare a nemici ed eventuali alleati di “esserci”, secondo uno dei principi fondamentali del “marketing”: il primo scopo della pubblicità è quello di informare e di tenere desta l’attenzione del consumatore sul prodotto; in questo osserviamo uno degli aspetti essenziali assunti dal linguaggio e dall’approccio comunicativo in questi ultimi due decenni dalle forze politiche e soprattutto da quelle “populiste”, che è appunto mutuato dalla pubblicità commerciale: i programmi, le battaglie, le “idee” delle formazioni politiche sono proposte come veri e propri “prodotti” che il cittadino è invitato a “scegliere” e ad “acquistare”, facendogli credere che i propri sono i “migliori”.

Dopo di questo, che è il fine principale del “marketing” politico, l’intento è quello di suscitare ed alimentare ad arte polemiche, discordie e incompresioni, spesso fondate sul nulla, o comunque esagerate, che sono l'”humus” nel quale i movimenti populisti si nutrono e prosperano.

Dunque le modalità di comunicazione dei laeder populisti sono del tutto diverse da quelle della politica “tradizionale” (per quanto riguarda l’Italia quelle proprie della “prima repubblica”) poiché sono desunte da un lato dalla pubblicità commerciale, dall’altro dallo spettacolo, che a loro volta presentano molti aspetti comuni. La pubblicità è una forma di spettacolo, non solo perché si avvale dei mezzi propri di quest’ultimo, ma perché l’idea stessa che si vuole dare del prodotto pubblicizzato ha profonde connotazioni psicologiche e vuole creare una suggestione tesa a influenzare il potenziale acquirente: la pubblicità conferisce un'”anima” e una “personalità” al prodotto che vuole vendere, per renderlo appetibile ad un segmento di potenziali consumatori che si ha ragione di ritenere sensibile a un determinato “messaggio” pubblicitario. Mutuato dalla pubblicità è dunque anche il concetto di “target” al quale il “messaggio” politico (o pseudo-politico) viene rivolto: esso non coincide più con determinate categorie sociali delle quali il politico intende interpretare e rappresentare interessi e valori, ma, -al pari di quanto avviene per un oggetto o un comportamento che si voglia promuovere- ha connotazione assai più psicologica e culturale che sociale. Il leader “populista”  cerca non di rappresentare i suoi seguaci sublimandone le aspirazioni e adattandone le richieste secondo le circostanze e le opportunità, ma al contrario ne riporta ed amplifica gli umori, dando voce anche ai loro sentimenti e risentimenti più meschini; non solo, ma tende con abile astuzia a fomentarne e istigarne le pulsioni inferiori, anziché decantarle.

Per questo i “mass media” hanno una enorme responsabilità nella nascita e nell’affermarsi di questi movimenti, perchè ne sono uno strumento indispensabile; non danno una testimonianza, non sono uno specchio degli avvenimenti ma ne sono una causa efficiente, contribuiscono a crearli.

Un’altra affinità la “politica populista” la presenta con la religione: non a caso prima ho parlato di seguaci: il leader predica le sue idee come un verbo salvifico, pronuncia i suoi anatemi come un nume irato, dispensando con la sua abituale enfasi oratoria lusinghe per i suoi “devoti fedeli” e terribili minacce verso i “nemici” che osino contrastarne la marcia verso il potere. Siamo quindi in presenza di un rapporto leader-popolo di carattere fortemente fideistico, -specie nella seconda “ondata” populistica, sebbene tale elemento fosse già ampiamente annunciato nella prima-, una sorta di “credere, obbedire, combattere”, opportunamente aggiornato al secolo XXI, ma nella sostanza non molto diverso dall’imperativo mussoliniano.

Dunque con l’ambiguo termine “antipolitica” si intende attualmente in Italia una concezione e una prassi della poltica diversa, per non dire opposta, a quella prevalente nei decenni che vanno dagli inizi della Repubblica agli anni 80, sia negli strumenti dialettici, sia negli obiettivi, sia nella forme di partecipazione. A quest’ultimo riguardo, i movimenti populisti propongono e sostengono il ricorso alla “democrazia diretta” in polemica con la “democrazia rappresentativa”, almeno nella forma assunta nel sistema italiano, accusata di essere l’espressione di oligarchie partitiche ed economiche, e di aver espropriato i cittadini dei loro diritti.

A questo punto possiamo tentare una sintesi tra i termini che qualificano e definiscono i movimenti politici venuti alla ribalta negli ultimi decenni e caratterizzano la situazione della vita pubblica italiana -ma, con le dovute differenze, anche di quella  europea in  generale:

POPULISMO: contrapposizione dialettica, di tipo quasi ontologico, più che storico, tra il “popolo” -detentore esclusivo e legittimo di tutte le virtù- e “casta” (2) -considerata a sua volta la sintesi di tutti i mali, un vero “vaso di Pandora”-. Per “popolo” si intende l’insieme di tutti i cittadini “medi” (e di qui l’avversione più o meno forte e dichiarata per tutti coloro che escono dal “comune sentire” e soprattutto per coloro che pensano con la propria testa, senza farsi condizionare dai luoghi comuni propalati dal “capo”), in particolare le “categorie produttive”, per “casta” si intende la classe dirigente non solo politica, ma pure imprenditoriale e intellettuale, i grandi gruppi industriali e finanziari (3). Queste due entità sono considerate due mondi diversi e distinti, e non strettamente interdipendenti, come è in vero, ed inoltre come entità omogenee e monolitiche e non articolate e sfumate al loro interno, così che l’una diviene il capro espiatorio dell’insoddisfazione e del malcontento dell’altra.

DAMAGOGIA: fiducia nel leader forte che incarna i valori e le virtù del “popolo” vessato e calpestato dalla “casta” e lo guida verso la vittoria finale, che nelle ultime formulazioni di certi tribuni assume un colorito ridicolmente messianico. Il suo rapporto con il “popolo” che lo sostiene è di carattere essenzialmente emotivo e non razionale; in sostanza egli distribuisce suggestioni e illusioni: per questo la veridicità e la validità dei suoi asserti non è sottoposta a verifiche e non teme la smentita dei fatti (come avviene invece per un  leader serio, che, non disponendo di un fascino personale potente e di forza psicagogica, è sempre chiamato a rispondere delle sue promesse).

ANTIPOLITICA: avversione per il sistema rappresentativo e per i “partiti” di tipo “tradizionale”, giudicati organismi burocratici che promuovono solo gli interessi personali dei loro esponenti, o comunque associazioni inutili e parassitarie.

Questi tre termini designano quindi tre aspetti o tre diversi punti di vista con i quali si può guardare ad un unico fenomeno.

A questo deve aggiungersi che non essendo il “populismo”, nel senso che abbiamo cercato di definire, una ideologia precisa, esso può assumere camaleonticamente vari aspetti e prendere elementi disparati dalle più diverse fonti politiche, ideologiche e culturali senza peraltro tentarne una sintesi armonica e organica. Inoltre, pur costituendo la base e la sostanza di formazioni politiche nate, o comunque affermatesi negli ultimi decenni, sembra aver contaminato anche gruppi politici non propriamente populisti, che ne hanno spesso adottato alcune delle tematiche e soprattutto dei moduli comunicativi nella loro strategia propagandistica. Risulta evidente che questo è avvenuto poiché la mentalità e la sensibilità della popolazione si è profondamente modificata in coincidenza e in seguito ai cambiamenti culturali sopravvenuti nella società soprattutto a causa dello strapotere e dell’onnipresente invadenza dei mass media, e dell’avvento di nuovi mezzi di comunicazione (supporti audio-visivi, tv satellitari, pc, internet), e del progredire, per quanto a ritmi meno veloci che negli anni 60-80, della “società dei consumi” (la quale, ad onta di tutto quanto si continua a proclamare, parlando di crisi economico-sociale, è ancora ben lontana dall’aver iniziato un vero processo di declino -che però, prima o poi, verrà..-). Pertanto anche i partiti “tradizionali” (i quali peraltro negli ultimi decenni hanno subito a più riprese mutazioni e metamorfosi per tentare di adeguarsi alle mutata situazione culturale sociale) hanno dovuto adeguarsi in qualche modo al “trend” (come sapete, io non amo i forestierismi, ma in questo caso, visto l’argomento e la situazione, direi che è appropriato) per non restare isolati dalla “società civile” e considerati estranei ad essa, e quindi a anche la “leadership” di questi ultimi ha in qualche caso assunto connotazioni personalistiche e “demagogiche” (nel senso che abbiamo illustrato nella prima parte dell’articolo).

Ma quali sono le cause che hanno condotto a questa situazione? In sintesi si può dire che esistono due ordini di cause, le quali peraltro si intrecciano in modo piuttosto stretto.

Un primo ordine di cause deriva da quella che è stata chiamata la “crisi”, o addirittura “morte” delle ideologie; in effetti anche questa espressione è piuttosto impropria e fuorviante: se per “ideologie” si intendono delle grandi elaborazioni teoriche a matrice filosofica, -come abbiano detto in precedenza-, questo è vero (e vedremo poi il perché). Ma se con questa parola si vuole indicare un progetto, uno schema, un indirizzo di governo, sia pur esso semplice, o anche semplicistico, questo è con tutta evidenza insito nella dialettica politica: in tal senso l'”ideologia” non è affatto “morta”, benché possa assumere una forma rozza, elementare, fondata non su analisi complesse e approfondite, su ragionamenti pacati, su riflessioni attente, ma fatta di slogan urlati, di luoghi comuni, di banalità spesso insulse, ma efficaci se pronunciate da qualcuno in grado di dare a loro un significato e un valore, e per questo facilmente accessibili al “popolo”.

Non si commetta poi l’errore di confondere le ideologie con gli ideali, nobili aspirazioni (la patria, la libertà della nazione, la lotta contro un regime oppressivo, ma anche la comprensione universale, la pace tra gli individui e tra i popoli, ecc.), per le quali il singolo sia disposto a sacrificare anche i suoi legittimi interessi e necessità, pur se essi possano talvolta trovare uno sbocco, per tentare di conseguirne un concreto effetto, in una scelta ideologica. Tuttavia negli attuali populismi di ideali non vi è alcuna traccia.

Come abbiamo accennato sopra, le grandi ideologie dell’800 e 900 (marxismo-leninismo, socialdemocrazia, liberalismo classico, liberalismo sociale, democrazia cristiana, ecc.) si possono considerare finite -sebbene molti continuino a proclamare di rifarsi ad esse- poiché il mondo e le società moderne -e “post-moderne”- sono profondamente cambiate rispetto all’epoca nella quale furono formulate e proposte come strumento di dialettica politica e di progresso sociale e culturale. Anzi il mondo si è modificato anche in conseguenza della loro azione, sebbene spesso non nella direzione prevista o auspicata da esse, per cui si può affermare che la loro “morte” era già inscritta nel successo che ebbero nel passato e nelle trasformazioni che hanno provocato.

Un esempio classico di questo fenomeno lo possiamo vedere nello sviluppo storico del comunismo marxista e del socialismo rivoluzionario in genere: l’opera intrapresa dai partiti che ad essi si ispiravano diede un enorme contributo al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ma questo miglioramento, soprattutto nell’Europa occidentale, e massime in Italia, anziché preludere all’avvento di una società comunistica, contribuì ad integrarli nel mondo capitalistico che nella seconda metà del XX secolo stava diventando rapidamente “consumistico”.

E proprio all’avvento della cosiddetta “società dei consumi” è da attribuire il secondo gruppo di cause che hanno portato all’esaurimento delle ideologie e al declino degli strumenti dialettici e organizzativi propri della politica dell’800 e 900.

La “società dei consumi” ha il suo presupposto sia teorico-etico sia pratico nel cosiddetto “fordismo”. Tale termine, -uno dei moltissimi “-ismi” coniati nel corso del 900, a dispetto della sua relativamente scarsa diffusione (poichè non è certo uno degli “ismi” più noti)- indica però un fenomeno importantissimo nella storia economico-sociale dell’età contemporanea. Esso, come si può facilmente arguire, prese il nome dal celebre imprenditore americano dell’industria automobilistica Henry Ford (1863-1947), e cominciò ad essere impiegato negli anni 30 nell’ambito della pubblicistica “di sinistra” senza peraltro diventare, come abbiano detto, un termine di uso comune.

In esso si riassumono tre fondamentali significati: con il primo si intende un’organizzazione specializzata del lavoro di fabbrica che in pratica è quella chiamata in seguito “catena di montaggio”; questo sistema di produzione industriale, che sarebbe poi divenuto sinonimo di lavoro compiuto al mero fine di sostentamento e quindi fonte di alienazione, quando fu ideato da Ford agli inizi del 900 appariva invece un grande progresso non solo perché razionalizzava il processo produttivo, ma anche perchè sembrava rendere il lavoro meno pesante e più adattabile alle attitudini del lavoratore stesso.

In senso più ampio il termine indica la strategia introdotta sempre da Ford di concedere ai lavoratori alte retribuzioni affinché essi potessero acquistare quanto producevano e divenire in tal modo un elemento fondamentale non solo nella fabbricazione ma pure nel consumo dei beni, e quindi protagonisti attivi, e non solo passivi, del processo economico.  In senso ancora più lato si identifica nel “consumismo” come fase più avanzata del capitalismo, in cui tutta l’economia si fonda sui consumi di massa, anche delle fasce inferiori (o un tempo inferiori) della popolazione, così che gli interessi degli imprenditori e quelli dei lavoratori anziché essere contrapposti divengono complementari. Nella sua forma più estrema, ma anche più conseguente, il “fordismo” si potrebbe riassumere nella formula del “tutto per tutti”, -o quanto meno del “molto permolti”-, ovvero del benessere generalizzato nel quale, almeno tendenzialmente, ciascuno può sperare di possedere e beneficiare di quanto il progresso tecnologico ha messo a disposizione dell’umanità, pur se a costo del depauperamento delle materie prime e delle fonti di energia e della inarrestabile distruzione degli ambienti naturali.

Tuttavia, mentre in una società alquanto dinamica ed efficientistica come quella americana questo sistema aveva dato un grande impulso alla crescita economica, nei sistemi europei, e in quello italiano in particolare, non poteva funzionare senza un significativo intervento dello stato, il quale tramite la progressiva costruzione del cosiddetto “welfare state”, lasciava che cospicue risorse dei cittadini fossero impiegate per acquisti e consumi. Infatti addossandosi una parte notevole delle spese per l’assistenza sanitaria e per la previdenza lo stato “sociale” consentiva che, a differenza di quanto era avvenuto fino a tutta la prima metà del 900, la popolazione potesse spendere con più larghezza per beni di consumo; questo aveva a sua volta ripercussioni positive nell’espansione delle imprese industriali e commerciali e quindi favoriva l’occupazione.

In realtà questo sistema assistenziale-previdenziale, in sé buono, espandendosi sempre più, diede poi luogo a numerosi sprechi ed abusi, che ripercuotendosi nel sistema politico, contribuirono a farlo entrare in crisi.

All’opera in campo assistenziale e previdenziale si aggiungeva poi un intervento diretto dello stato in materia economica, ispirata in larga parte alle tesi dell’economista Keynes (4), secondo il quale, in contrasto con gli assunti del “liberismo” classico, il sostegno e la presenza dello stato nella vita economica di una nazione, specialmente se non caratterizzata da una forte e consolidata industrializzazione e carente di materie prime, è fondamentale per garantire lo sviluppo economico-sociale e soprattutto per garantire a quelle che erano un tempo le “classi subalterne” adeguate condizioni di vita.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) propriamente il greco “charisma” (da “charis” = grazia) significa dono soprannaturale.

2) osserviamo peraltro che il termine “casta”, che costituisce di fatto un neologismo semantico, appare del tutto improprio ed ingiustificato, sebbene senza dubbio evocativo. Infatti “casta” indicherebbe un gruppo del tutto chiuso ed ereditario, nel quadro di una dimensione sociale assolutamente statica e immutabile, il che non è nella società italiana e in quelle occidentali in gnenerale. Ma d’altra parte l’impiego di tale termine rende in modo assi efficace l’dea che intendono esprimere della classe dirigente passata ed attuale -per quanto a ben guardare pure essi ne siano parte-  e che, nelle intenzioni dichiarate, vorrebbero sostituire.

3) è opportuno notare e sottolineare come nella cosiddetta “casta” non sia mai stato incluso, da nessuna formazione populistica, il clero cattolico, nonostante che esso sia uno dei “poteri” più forti che esistano in Italia ed abbia anzi esercitato un’influenza determinante nelle scelte e nell’indirizzo politico della nazione, Si sono avuti sporadici spunti polemici nei confronti di alcuni aspetti dell’azione della chiesa cattolica (esenzioni fiscali, questioni legate all’immigrazione, ecc.), ma sempre molto limitati e con toni assai blandi, specie se confrontati con l’abituale modo di agire e di polemizzare di tali formazioni politiche; anzi, al contrario alcune di queste hanno concesso ampi privilegi al clero nelle zone da loro governate (oltre quelli già oltremodo estesi di cui godono in grazia del concordato). Inversamente la chiesa cattolica si è sempre ben guardata dal muovere ad esse forti critiche o rilievi, nonostante il loro linguaggio e i contenuti della loro “predicazione” siano tutt’altro che “evangelici”. Questo è altamente illuminante sulla reale natura del rapporto tra “potere ecclesiastico” e “potere laico” nel nostro paese.

4) John Maynard Keynes (1883-1946) economista inglese, fautore dell’intervento statale nell’economia attraverso politiche monetarie a sostegno della domanda interna.

 

 

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