L’ETA’ DELL’INCOSCIENZA -seconda parte-

Aristotele sottolinea come la “comunicazione politica” sia per sua natura ingannevole; già Platone aveva condotto una spietata critica contro l’arte oratoria, rilevando come essa sia veicolo di “demagogia”, mezzo per adulare le masse e indurle ad accettare le proposte e dell’oratore ed attuare i suoi fini. Sempre Platone (Repubblica, 565,d) osserva che il tiranno discende dal demagogo, proviene dai “capi popolari”, i quali, con la loro abilità nel “sedurre” il popolo con proposte accattivanti e rispondenti alle sue aspettative, riescono ad ottenere un potere illimitato.

La critica di Platone evidenzia l’antitesi tra discorso filosofico-scientifico -che si fonda su osservazioni e riflessioni disinteressate (1)- e discorso politico, che si fonda al contrario sulla volontà dell’oratore di persuadere gli uditori della bontà delle sue affermazioni, suscitando le loro emozioni e blandendo i loro desideri; il discorso politico si incarna dunque e si uniforma ai principi della retorica, -sebbene questi ultimi possano ovviamente cambiare secondo le circostanze ed adattarsi ad esse-. Ne consegue che la politica in quanto tale, specie in uno stato democratico, non può adottare un discorso “scientifico”, ovvero imparziale e disinteressato, nonché espresso in termini precisi ed univoci, e che dunque è sempre espressione di parte, anche quando determinati soggetti politici (2) hanno preteso di assumere e di rappresentare istanze considerate universali.

Come corollario di tale osservazione, deriva di necessità che deve essere inclusa nella demagogia l’intera attività politica, che anzi demagogia e politica vengono in definitiva ad identificarsi (sempre ovviamente in un regime ove l’esercizio del potere si fondi sul consenso del popolo) (3); non solo, ma si potrebbe affermare che al politico sia lecito mentire, o meglio essere insincero (4), sia per difendere le proprie tesi sia per combattere quelle altrui: dovendo cercare e inseguire il consenso del popolo non potrà dire quello che pensa davvero, ma solo quello che gli conviene, non sceglierà la giustizia, ma quello che sembra tale, o che egli fa credere essere tale, ai suoi potenziali elettori.

Da qui il fatto che le “promesse elettorali” delle quali ciascun aspirante ad una carica politica o amministrativa è di consueto assai prodigo, vengono spesso disattese, e pure quando vengano mantenute, non di rado scontentano coloro medesimi che le avevano sollecitate. e questo è l’aspetto più nefasto della democrazia: è come se un genitore accontentasse tutti i capricci dei figli e cedesse alle loro richieste senza curarsi degli effetti che tale comportamento  potrebbe avere; effetti che la prole, con tutta evidenza, non può prevedere, ma che egli dovrebbe bene valutare. Ed in effetti il popolo, ora come nei tempi antichi, oltre che come un vecchio rimbambito, come lo rappresentava Aristofane, si può considerare un fanciullo capriccioso a cui non è la capacità e la consapevolezza per autogovernarsi e che deve essere guidato con lungimirante autorevolezza, al quale si devono concedere sì premi e balocchi, ma che deve ricevere pure qualche salutare sculacciata ogni tanto!

Tuttavia anche l’aristocrazia, sia quella “classica”, sia nelle versioni “aggiornate” della meritocrazia e della tecnocrazia, è un’ideale senza dubbio utopistico. perché i supposti “migliori”, ammesso che lo siano davvero, sono pur sempre uomini pieni di debolezze e difetti e pertanto un regime aristocratico è anch’esso soggetto a corrompersi inesorabilmente. Già il modello di stato “perfetto” descritto da Platone nella “Repubblica”, -che però avrebbe potuto e dovuto essere realizzato e non era da lui ritenuto una mera utopia o soltanto un punto di rifermento ideale a cui tendere nella costituzione e nel governo di uno stato-, era stato aspramente criticato non solo per la sua scarsa aderenza alle peculiari esigenze della natura umana, ma anche per la difficoltà o impossibilità di perpetuare le condizioni -in particolare di una “casta” di filosofi che si trasmettono per via ereditaria la loro superiorità morale e intellettuale-  che ne avevano consentito la costituzione, ammesso che si fosse potuto realizzarlo. Quindi una società pienamente “aristocratica” può trovare pratica realizzazione, forse, solo in una piccola comunità di persone che abbiano liberamente scelto di consociarsi per finalità filosofiche o religiose.

Per questo, come già sosteneva Polibio, il regime di governo meno imperfetto, per quanto non certo ideale, è quello che riesca a fondere armoniosamente la guida illuminata degli “esperti” con la volontà dei comuni cittadini; in cui i rappresentanti di questi ultimi (a differenza di quanto avviene ora) sappiano sublimare le pulsioni più rozze e bassamente egoistiche, mentre la parte “aristocratica” sia in grado di ascoltare e interpretare i bisogni e le aspirazioni del popolo.

Nel corso dell’800, soprattutto in Francia, i termini “demagogia” e “demagogo” tornarono in auge per definire in particolare i capi giacobini della Rivoluzione francese. -quali Robespierre, Marat, Danton-, e da allora hanno mantenuto una certa vitalità e fortuna nel lessico storico-politico, peraltro con significato generico e spesso nebuloso, ma dotato di forte intonazione polemica.

“Anti-politica” è di certo il termine più ambiguo ed anche fuorviante tra quelli presi in esame, oltre ad essere il più recente, dal momento che esso appare più che altro nelle cronache giornalistiche solo negli ultimi decenni; il suo significato più evidente e che sembrerebbe del tutto ovvio, è “essere contro la politica”: pertanto per stabilire in modo abbastanza univoco il significato di questo sostantivo dall’area semantica nell’insieme alquanto incerta e sfumata, occorrerebbe prima definire il significato di politica.

Secondo la maggior parte dei Dizionari italiani, fin da quello di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini, si dà una definizione del lemma “politica” che in sintesi si può riassumere come “arte e scienza di governare uno stato”, ovvero la teoria e la pratica atti a conseguire i fini a cui tende lo stato e la direzione della vita pubblica. Avremo poi modo di vedere come il prevalere nel concetto di “politica” di quanto attiene all'”arte”, ovvero di quanto attiene alla “scienza” è foriero di importanti conseguenze sul modo di intendere e di attuare nella pratica il governo, l’organizzazione e l’amministrazione dello stato. Anche il modo di concepire quest’ultimo, se cioè lo si considera un ente “naturale”, insito nella natura sociale dell’uomo, com’è proprio di tutto il pensiero filosofico e giuridico antico, ovvero “contrattuale”, derivante da un implicito o esplicito atto di costituzione formulato dai membri del corpo sociale, com’è proprio del pensiero moderno, influisce sull’idea e la nozione di “politica”.

Sul piano etimologico la parola “politica” è un aggettivo sostantivato derovante evidentemente da “polites” = cittadino, membro della “polis”, la città-stato ellenica, intesa come insieme degli abitanti che sono i protagonisti del suo sviluppo e della sua vita civile e non semplici sudditi (il suo equivalente latino è quindi “civitas”); è impotante osservare che il trermine “polis” contiene la radice indoeuropea “pol-” che si ritrova in greco in “polys, pollè, poly'” = tanto, molto, così come nel sanscrito “puruh” e nel latino “plus”, “plurimus”, “plebs” e sottolinea quindi la pluralità dei soggetti coinvolti; notiamo altresì che “polis” ha un perfetto equivalente in sanscrito nel sostantivo “pur(a)”, ugualmente connesso all’idea di molteplicità, e che parimenti significa “città” e che è dato rinvenire in numerosi toponimi in India (Jahipur, Jodpur, Udaypur, ecc.). Il termine nel significato attuale entrò in uso appunto nella “polis”, la città stato greca, e si generalizzò poi a partire dall’opera di Aristotele.

Nella Grecia antica la politica era la “politikè techne”, -espressione dalla quale è derivato l’attuale sostantivo-, ovvero l’arte del governo (della città, che era anche stato); ma talvolta l’aggettivo “politikè” era accostato pure ad “episteme” = scienza (“politikè episteme” ad esempio in Platone, Pol., 239): come abbiamo già accennato, la definizione della politica come “arte” o come “scienza” è ricorrente ed oscillante in tutta la trattatistica posteriore. Ora non entriamo nello spinoso problema della definzione di “arte” e di “scienza”, del loro oggetto, dei loro fini e dei loro limiti, che ci porterebbe troppo lontano dal presente discorso. Osserviamo peraltro che se accettiamo la definizione della scienza come “conoscenza oggettiva” (distinguendosi in tal modo dall’opinione) e/o come complesso coerente di nozioni coordinate in una visione unitaria sia negli obiettvi sia nei metodi onde conseguirli, ne deriverebbe che la poltica dovrebbe analizzare e risolvere i problemi secondo uno schema universale ed astratto, applicato a situazioni concrete che non sono però del mondo della Natura -che si poteva considerare immutabile, secondo una concezione ormai superata- ma del mondo umano, quanto mai mutevole e soggetto a pulsioni, passioni ed interessi miltiformi e contraddittori. Se si concepisce invece la politica come “arte”, la conseguenza sarebbe che il politico debba affrontare le situazioni sempre nuove che gli si presentano in modo del tutto originale e creativo, senza seguire schemi precostituiti, seppure incanalando le soluzioni da lui proposte entro regole generali (leggi, costituzioni, consuetudini) le quali però vrebbero anch’esse un carattere indicativo e non tassativo potendo a loro volta essere modificate o cambiate dal potere politico.

Di certo se la politica è scienza, essa ha carattere squisitamente empirico, legato, anzi derivante dall’esperienza, e pratico, strumento della “praxis”, dell’agire concreto, e non teorico o contemplativo, tal che lo studio e l’interpretazione dei dati in essa non deve servire a formulare ipotesi, ma a prospettare soluzioni concrete. Si potrebbe affermare che la politica presenta strette affinità con il diritto, tanto che spesso il confine tra i due ambiti, sia in senso concettuale sia in senso pratico, appare labile e incerto; tuttavia mentre quest’ultimo si basa sull’applicazione di principi astratti a situazioni concrete e storiche, nella politca non vi possono essere principi astratti e universali a priori, tranne la salvaguardia delle forme di coesistenza e di organizzazione civile. Al contrario, la supposizione di principi di tal genere porterebbe all’adozione di strutture rigide e antistoriche e quindi destinate ad un rapido deterioramento o fallimento. Dunque peculiarità costante della politica deve essere l’adattabilità alle diverse e molteplici condizioni sociali, culturali e storiche nelle quali si trovi ad operare; mentre nel diritto dal principio generale (a sua volta fondato su presupposti religiosi, filosofici, etici e quant’altro) dipende e discende l’applicazione al caso concreto, nella politica è dalla situazione particolare che si può in un secondo tempo risalire ad una rilfessione astratta; comunque le situazioni e le condizioni diverse nelle quali possono trovarsi lo stato ed il popolo non dovrebbero mai essere analizzate e tanto meno gestite secondo dei principi precostituiti, ma essere attentamente considerate nella loro specificità.

Quanto gli antichi autori considerarono il peculiare oggetto della trattatistica politica, ovvero lo stato, nelle epoche più recenti costituisce l’oggetto anche del diritto pubblico e dell’economia politica.

Tra i moderni, per un gruppo di dottrine (rappresentate ad esempio dal Bluntschli e dal Frobel)  la politica è la teoria della vita dello stato e delle sue trasformazioni, mentre il diritto è la teoria delle istituzioni: l’una può dirsi l’elemento dinamico dell’ente pubblico, l’altro è l’elemento statico.

Secondo un altro gruppo di teorie, tra le quali spicca quella avanzata dal von Mohl (5), la politica è la scienza dei mezzi con i quali gli stati adempiono ai compiti loro propri, in primo luogo amministrare la “res publica” a beneficio di tutti i cittadini; questa teoria peraltro fu ritenuta troppo ristretta e pertanto l’Holtzdendorff (6) ne tenta un’integrazione: la politica ha come oggetto l’impiego giudizioso e l’efficacia dei mezzi dei quali lo stato dispone per conseguire i suoi compiti, tenendo conto delle situazioni come si presentano, lasciando da parte quanto attiene l’amministrazione della giustizia.

La scienza giuridica mostra il governo come una volontà collettiva sovrana indipendente dalla nazione, la politica lo presenta come una volontà agente, limitata e determinata nelle sue soluzioni dalle circostanze e dai precedenti storici. La relazione tra diritto pubblico e scienza (o arte) politica è senza dubbio complicata e difficile poiché per forza di cose il primo fa riferimento a schemi astratti e non può contemplare tutti i molteplici e multiformi aspetti della vita umana, che da ogni parte trabocca per rifluire nel continuo divenire politico.

Notiamo altresì come con l’affermarsi del diritto positivo (cioè quello derivante dalla volontà di un legislatore unico e promanante quindi dallo stato) e con la sua completa codificazione, si assiste ad una progressiva influenza della politica -ovvero delle forze sociali che assumono il governo delle stato- sul diritto stesso, nel senso che l’ispirazione che un tempo veniva esercitata dalla morale e dalla religione vengono gradualmente sostituite dalla preponderanza dell’ideologia, o delle ideologie, dominanti.

In senso lato, la politica compare con il costituirsi delle prime forme di organizzazione sociale di una certa complessità e dunque, come sostiene Aristotele, è connaturata all’agire e alla vita stessa dell’uomo, il quale pertanto è definito dal filosofo “animale politico” (“anthropos… politikòn zoon”). Tuttavia si potrebbe affermare a buon diritto che pure in quegli Animali la cui stabile condizione è vivere in gruppi più o meno ampi e numerosi, e hanno al loro interno una gerarchia sociale più o meno complessa, ma in qualche misura dinamica e suscettibile di mutamenti, si riscontra in forma embrionale una sorta di politica: basti pensare alle società articolate degli Elefanti, dei Lupi, di molti Uccelli e Scimmie in cui esistono situazioni di “dialettica sociale”, anche di una certa complessità (diversificazione di compiti, capi che devono non solo guidare, ma pure difendere il gruppo, conquista del “potere” attraverso forme di confronto anche vivace, come un combattimento, -che però è quasi sempre una prova per misurare le proprie energie e non un brutale scontro-, ecc.), in cui emergono in genere non tanto gli individui più forti, ma quelli più abili, intelligenti e capaci, nonchè che sappiano in qualche modo sacrificarsi per il bene comune. In questa categoria, che riguarda essenzialmente i Vertebrati, non rientrano peraltro le società degli Insetti sociali, perchè, sebbene siano spesso alquanto complesse, in queste le funzioni sociali sono già stabilite alla nascita in base a una tipologia biologico-strutturale e sono dunque immutabili, così che in tali società non esiste alcuna dialettica interna che le possa avvicinare a quelle umane (tanto per intenderci è impossibile che le api operaie facciano sciopero!).

Pertanto non condivido quanto affermato da alcuni insigni studiosi, -quali ad es. Felice Battaglia-, secondo i quali le antiche civiltà del Vicino e Medio Oriente non avrebbero conosciuto la politica intesa come categoria distinta dalla morale, dal diritto e dalla religione (a loro volta scarsamente distinguibili tra di essi), e che quindi in pratica la poltica sarebbe nata nella Grecia antica -ovvero che il concetto sia nato dove nacque il nome (o viceversa)(7). Certo nell’antica Ellade si fece strada al nozione di politica quale essa è tuttora concepita di norma ed il termine è impiegato nel medesimo senso che allora ebbe. Possiamo affermare che in quelle venerabili civiltà se non v’era consapevolezza della politica quale categoria distinta e autonoma ( e d’altra parte la consapevole e convinta proclamazione dell’autonomia della politica l’avremo solo col Machiavelli agli inizi del XVI secolo), nei fatti essa fu non solo praticata secondo proprie regole, ma pure teorizzata, sebbene nell’ambito di più ampie e complesse concezioni culturali.

“Mutatis mutandis” si potrebbe affermare per la politica quanto lo è per la filosofia. Infatti anche di quest’ultima si continua a sostenere che essa sarebbe nata in Grecia senza alcun vero precedente nelle civiltà anteriori; ma questo punto di vista è senza dubbio troppo “eurocentrico”: se per filosofia si intende una riflessione puramente razionale questo è vero; ma se si attribuisce a questo termine un significato, e una valenza, più generali e meno ancorati ad un preciso schema di pensiero (tra i tanti possibili) si possono far rientrare nella “filosofia”, nell’amore per le saggezza e nella ricerca della conoscenza anche altre forme di formulazione intellettuale: ad esempio quella espressa dalle civiltà asiatiche e circum-mediterranee è una filosofia per immagini e simboli e non per concetti e ragionamenti, ma non di meno esprime una concezione del mondo, della natura e dell’uomo, non basata su presupposti di carattere puramente “fideistico”, ma pure su una riflessione “scientifica” (non si dimentichi che le civiltà mesoptamiche e quella egizia conobbero uno straordinario sviluppo scientifico). D’altra parte anche i filosofi greci, in primis Platone, riconobbero sempre la “sapienza” che si diffondeva da quegli scrigni di civiltà, in specie dal mondo egizio e ne diedero testimonianza nelle loro opere.

Alla fine di questo breve, e necessariamente assai incompleto, “excursus” in cui abbiamo tentato di esplorare l’autentico significato del sostantivo “politica”, spesso nell’uso comune e nelle cronache giornalistiche abusato, o comunque usato con superficialità e imprecisione, potremo cercare di comprendere che cosa si debba intendere per “antipolitica”. Se, come abbiamo visto in precedenza, la “politicità” è una condizione connaturata e ineliminabile dell’uomo, è del tutto pacifico che l'”antipolitica”, assunta nel suo significato letterale, con il prefisso oppositivo “anti” che nega il termine a cui venga premesso, non potrà essere intesa quale opposizione permanente e generalizzata alla vita pubblica in quanto tale, ma solo come estraneità soggettiva, ovvero volontà di estraniarsi del singolo dalla vita della comunità sociale e dello stato in particolare, che deriva da scelte personali e in esse si esprime, come quella di votarsi ad una esistenza totalmente spirituale o dedita alla ricerca filosofica o del proprio “Io” interiore, come distacco dalla dimensione mondana e terrena abituale tra i comuni esseri umani. Una “antipolitica” di questo genere è quella proclamata da varie scuole filosofiche dell’antichità, specie quelle post-aristoteliche dell’età ellenistica – e in particolare dall’epicureismo-; come quella propria delle vie mistiche perseguite per raggiungere la Divinità e la pienezza dell’Essere in diversi ambiti religioso-culturali.

Ma l'”antipolitica” della quale stiamo trattando in questo articolo non ha di certo nulla a che vedere con la filosofia e con la mistica; al contrario, è qualcosa di molto carnale e terreno ed espressione di pulsioni prettamente egoistiche. Come dicevamo all’inizio, questo sostantivo, è entrato nell’uso in epoca assai recente, non solo, ma possiamo notare che esso, a differenza degli altri due esaminati in precedenza, pur non essendo peculiare della pubblicistica italiana, è ben poco diffuso in altri paesi europei e con un significato piuttosto diverso: infatti esistono “anit-politique” e “antipolitik” rispettivamente in francese e in  tedesco, che però hanno una connotazione orientata verso un’ideologia di tipo anarchico; in Francia e in Germania vi sono pure dei piccoli “partiti dell’antipolitica” (espressione alquanto contraddittoria, quasi un ossimoro), che hanno poco o nulla di comune con i movimenti o i partiti nei quali si incarna in Italia l’antipolitica, si potrebbe anzi dire che nella stampa dei paesi europei il termine è impiegato più in riferimento alla situazione italiana che a quella interna o come nozione generale.

Nei paesi anglosassoni si parla poi  di “antipolitica” in riferimento ad un libro (poco noto in Italia) dell’antropologo americano James Ferguson “La macchina dell’anti-politica”, uscito nel 1990, nel quale l’autore formula forti critiche ai programmi di sviluppo nei paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”, prendendo come esempio -negativo- l’esperienza del Lesotho, dove tali programmi si risolsero in un quasi totale insuccesso, appunto perchè vincolati a schemi politici e valutazioni economiche estranee alle autentiche esigenze di quelle nazioni. Anche in questo caso dunque siamo lontani dal significato corrente, ancorché vago, che il termine ha assunto nel nostro paese.

Nel “Dizionario Treccani” “antipoltica” è definita “l’atteggiamento di chi, in ambito politico, propugna un rinnovamento dei metodi e dei comportamenti basato sul rifiuto degli aspetti deteriori del fare politica”. Ad un attento esame questa definizione, oltre che generica, risulta contraddittoria ,- “atteggiamento…in ambito politico”: sarebbe come dire che un medico è contrario alla medicina-, nonchè imprecisa e opinabile -: “rifiuto degli aspetti deteriori del fare politica”: quali sono gli aspetti deteriori e quale sarebbe il modo migliore di combatterli ed eliminarli?- per cui rivela e riflette l’intima polivalenza della nozione che designa e l’ambiguità del suo significato che si presta a indicare idee e comportamenti pratici assai diversi.

Questi ultimi tuttavia, -e questo è l’elemento che consente, entro certi limiti, di accomunarli in una valutazione complessiva-, sono rivolti essenzialmente a svalutare e ad avversare non la “politica” in quanto tale, fattore costante delle civiltà umane, e che abbiamo cercato di definire nella parte precedente della nosra trattazione (o per meglio dire, abbiamo cercato di sintetizzare brevissimamente le concezioni e le interpretazioni che ne sono state date), ma uno o più modi determinati di concepire in teoria e soprattutto di mettere in atto ed esercitare la politica.

In particolare, -e qui torniamo alla situazione italiana attuale,- nella pubblicistica e nelle cronache giornalistiche, quasi sempre approssimative e superficiali, si vuole indicare con tale termine un sentimento, di solito confuso e poco consapevole dei suoi reali fondamenti, ma senza dubbio assai diffuso e radicato, di insoddisfazione, di delusione, di insofferenza verso la classe dirigente, sulla quale si dà un giudizio negativo nel suo complesso. Tale giudizio negativo, che talora diviene pregiudizio, viene emesso senza distinzioni di tipo ideologico (e vedremo poi quanto il tema della “crisi” o della “fine” delle ideologie politiche o filosofico-politiche dell’800 e del 900 si intersechi e sia anzi fondamentale nell’analisi di fenomeni quali il populismo e l’antipolitica) e spesso senza neppure un’adeguata valutazione dell’operato dei singoli individui, perchè considerati comunque dei rappresentanti di un “sistema” giudicato intrinsecamente corrotto e inadeguato ad esprimere le esigenze della società e dei singoli cittadini.

Questa radicale svalutazione della classe dirigente, al di là dei numerosi esempi negativi di corruzione, di avidità, di incompetenza delle quali i nostri politici hanno saputo dare ampia dimostrazione, muove essenzailemte dalla sfiducia, ma soprattutto dal non riconoscersi più della maggior parte dei cittadini in quelle strutture politiche non istituzionali, ma assai importanti nella vita pubblica delle moderne democrazie, chiamate “partiti”, entro i quali  si esprimevano le classi dirigenti e dai quali a loro volta provenivano i governanti e i rappresentanti istituzionali delle amministrazioni periferiche. Per “partiti” intendiamo ora quelli che hanno dominato la vita pubblica nazionale dalla fine della seconda guerra mondiale -ed in effetti proprio dall’aver animato la lotta contro il nazifascismo e dall’aver creato la Costituzione della Repubblica Italiana questi partiti trovavano la loro legittimazione eil loro principale fondamento (8)- fino  all’inzio degli anni ’90. Da quel momento, con l’entrata in crisi di quella che con espressione giornalistica venne detta “prima repubblica”, i “vecchi” partiti scomparvero -nel senso che o vennero meno del tutto o subirono una profonda trasformazione-, mentre nuove formazioni politiche, tutte dal carattere più o meno spiccatamente populistico e demagogico, -nel senso che abbiamo cercato di definire in precedenza- diventavano le protagoniste della scena pubblica.

La critica e l’opposizione alla “politica” così come era stata praticata fino a quel momento nella repubblica italiana e che era entrata in profonda crisi per ragioni che approfondiremo in seguito, si esprimeva allora in un rifiuto delle strutture e della prassi dei partiti tradizionali, ma senza rinnegare del tutto le ideologie che essi rappresentavano come tessuto sul quale costruire la dialettica sociale e politica. Precisiamo che per “ideologie” intendiamo delle concezioni generali della società e dello stato, che a loro volta sono ancorate o prendono le mosse di solito -ma non necessariamente- da una dottrina antropologica ed ontologica. In senso lato le ideologie si possono considerare una costante afferente al potere politico e pertanto presenti fin dall’antichità in ogni civiltà e società sviluppata (e dunque si può parlare di “ideologia del potere divino del monarca”, di “ideologia aristocratica”, ecc.); in senso stretto, cioè come elaborazioni complesse, sono peculiari dell’età moderna e contemporanea, in particolare a partire dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese (ed infatti la parola entrò nel lessico filosofico e politico a partire da quel periodo).

Ed infatti le principale formazione della “nuova”  politica affermatasi in Italia negli anni ’90 proclamava di voler restaurare il liberalismo autentico, anzi di voler promuovere una “rivoluzione liberale”, sia contro le insidiose minacce di una sinistra dipinta ancora come pienamente marxista-leninista, sia contro le distorsioni e gli abusi del precedente “sistema”.

Ma realtà questa ed altre formazioni politiche che andarono al governo in quegli anni avevano poco o nulla in comune con il vero liberalismo, dato il loro carattere fortemente populistico e personalistico. L’unico elemento che possedevano, e possiedono tuttora, del liberalismo è il “liberismo economico”; ma, com’è noto, liberalismo politico e liberismo economico, pur avendo senza dubbio una stretta connessione storica e teorica, sono due cose diverse e distinte -sebbene il più delle volte tendano ad affiancarsi e a sovrapporsi-.

Ad onta però del conclamato liberismo venivano però proposti e promessi provvedimenti in campo sociale che non avrebbero potuto realizzarsi senza un massiccio intervento dello stato nel settore economico (quali notevole aumento dei posti di lavoro, delle retribuzioni e dei trattamenti previdenziali minimi), e soprattutto senza un aumento della pressione fiscale, che però in modo alquanto contradditorio si sosteneva di voler ridurre. In questo caso dunque abbiamo avuto un esempio di politica prettamente demagogica, alimentata da promesse prive di fondamento.

Dal prevedibile fallimento di queste politiche, e in concomitanza dello “scoppio” della crisi economico-finanziaria nel 2008, con abile senso dell’opportunità colta al balzo dai nuovi tribuni che si apprestavano a scalzare quelli vecchi, prese le mosse la “seconda ondata” populista, assai più radicale e “rivoluzionaria” della precedente. In essa venivano rigettate non solo le strutture partitiche, -sia quelle vecchie “burocratiche” sia quelle nuove “aziendali”- ma la funzione stessa dell’uomo politico nell’ambito di una democrazia liberale rappresentativa. In effetti la critica alla “politica di professione” era già uno dei punti qualificanti del programma dei populisti italiani degli anni 90 (anche perchè la dicotomia, -assolutamente artificiosa- tra la cosiddetta “casta poltica” e la “società civile” è in fondo, come abbiamo visto in precedenza uno dei motivi di fondo dei vari movimenti populisti apparsi nella storia recente, soprattutto quelli americani), ma ora veniva condotta con toni molto più aggressivi e roventi; senza contare il fatto che quanto veniva affermato a parole era spesso smentito dai fatti, nel senso che in tali raggruppamenti politici (cioè quelli della prima “ondata populista”), in contrasto con le dichiarazioni programmatiche, erano rifluiti un notevole numero di “poltici di professione”, residuati della “prima repubblica” Inoltre nella polemica condotta con asprezza dal “nuovo populismo”, -che in tal senso incarna l'”anti-politica” in modo molto più rigoroso del precedente-, venivano respinti come ormai superati e privi di riscontro nella società reale i “punti di riferimento” e le “appartenze ideologiche” ritenuti fino ad allora validi (e soprattutto la consolidata contrapposizione “destra”-“sinistra”), in un completo dissolvimento di tutti gli schemi dialettici e le articolazioni politico-sociali. Il contrasto e la dialettica venivano ridotte alla dicotomia “politici” (ovviamente esclusi i militanti di questi movimenti), o “casta politica” (come viene da essi definita), ricettacolo di tutti i mali – “popolo” -nel quale sono accomunate varie categorie sociali, che secondo le ideologie tradizionali, venivano considerate portatrici di valori e interessi diversi, per quanto non necessariamente inconciliabili.(altro tema peraltro presente nei “populismi storici”)-.

Per questo nel “nuovo” populismo italiano, e in particolare nel principale movimento nel quale esso si incarna, trovano posto e collocazione motivi ideologici e persone delle più disparate provenienze culturali e politiche, che conferiscono ad esso un carattere assolutamente eterogeneo, e l'”unità” di tale movimento risulta solo dalla consonanza di intenti, ovvero la violenta polemica contro lo “status quo”, contro il sistema. Al di là di questo le poche “proposte concrete” non sono altro che “slogan” superficiali, banali proclami con i quali blandire furbescamente un popolo che, come nell’antica Grecia, si lascia con facilità prendere per il naso dal demagogo di turno.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) per il momento non entriamo nel tema delicato e complesso del valore gnoseologico della scienza, che peraltro abbiano sfiorato in altri articoli apparsi nel mio blog.

2) come avremo modo di vedere oltre, la “politica” sebbene sotto l’aspetto etimologico, derivando da “polis”, riguardi il governo di uno stato, la sua area semantica e di azione si riferisce a qualunque organizzazione sociale complessa, -dalla chiesa ai sindacati, dallle grandi industrie ai gruppi che gestiscono i mezzi di comunicazione (che sono questi ulitmi potenti centri di potere)-, sia al suo interno, sia alle relazioni con altri enti.

3) ma è evidente che pure in un sistema politico non democratico, devono avere comunque una “base di consenso”, senza la quale non potrebbero mantenersi al potere.

4) in questa sede ovviamente non possiamo affrontare il tema della “verità”, se esista o meno una verità “oggettiva”, indipendente dalla coscienza del soggetto.

5) Robert von Mohl (1799-1875), giurista e uomo politico tedesco.

6) Franz von Holtzendorff (1829-1889), giurista tedesco.

7) notevoli esempi di precettistica politica li troviamo ad esempio nell’antico Egitto negli insegnamenti impartiti dal faraone Uahkara (Khety III) della X dinastia (intorno al 2100 a.C.) e dal faraone Amenemhet I (1991-1962 a. C.) della XII dinastia ai rispettivi figli Merikara e Sesostri I-.

8) e infatti un tempo si parlava di “arco costituzionale”, che in pratica comprendeva quasi tutti i partiti rappresentati nel parlamento nazionale, ad eccezione del Movimento Sociale Italiano, erede più o meno legittimo del fascismo.

 

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