LE PIETRE SACRE (terza parte) -LA FENICE-

A Roma il mito della Fenice fu conosciuto fin dall’età repubblicana; nella letteratura latina la prima citazione del mitico volatile la troviamo in un perduto carme del poeta Levio, vissuto tra il II e il I secolo a. C. Della produzione di questo poeta rimangono solo frammenti, ma la sua opera dovette essere importante  poiché è considerato un precursore dei cosiddetti “neoteroi” o “poetae novi”. Egli si distinse per aver scritto carmi figurati, -detti con voce greca “technopaegnia”-, poesie che nella stesura e nella disposizione dei versi riproducono il soggetto che viene in esse cantato. E Levio compose un carme figurato sulla Fenice che voleva raffigurare due ali spiegate.

Delle abitudini, della morte e della nascita della Fenice trattò poi Ovidio in un passo delle “Metamorfosi” (XV, 392-407), senza peraltro dare una descrizione dell’aspetto del mitico pennuto: “Esiste un solo volatile che da sé stesso si ricrei e si rigeneri:/ “Fenice” gli Assiri lo chiamano; non di granaglie, né di erbe,/ ma di lacrime d’incenso e di succo d’amomo si nutre./ Allor che i cinque secoli della sua vita ha compiuto,/ vola al sommo di una tremula palma tra i rami,/ e quivi con gli artigli e col becco il nido si fa./ Non appena di cassia e di spighe di nardo delizioso/ ne ha cosparso il fondo, e di cinnamomo trito e dorata mirra,/ sopra vi si adagia e tra soavi effluvi chiude il suo tempo,/ E poi, -così viene detto-, dalle spoglie paterne un piccola Fenice rinasce/ che altrettanti dovrà vivere anni./ Quando le abbia dato le forze l’età per portare quel peso,/ dai rami frondosi della pianta solleva l’ingombro del nido,/ -che fu già la sua culla e il paterno sepolcro- e con devota pietà/ lo trasporta attraverso le brezze gentili nella città di Iperione/ dove lo depone davanti alle sante porte del tempio.” (traduzione di Tammuz).

Questo passo delle “Metamorfosi” ovidiane è inserito in una lunga dissertazione del filosofo Pitagora che conclude il poema, offrendo al lettore la chiava per coglierne, al di là dell’aspetto letterario e narrativo di immediata comprensione, il più profondo significato.Feng321 In essa viene esposta la dottrina del perpetuo mutamento di tutti gli esseri viventi come effetto della trasmigrazione (1) attraverso la quale gli innumerevoli spiriti individuali nei quali si è frazionato lo Spirito Universale tornano a ricongiungersi con la fonte dalla quale nacquero che è anche il fine ultimo al quale tendono; ovvero della loro evoluzione trans-individuale e transpersonale attraverso molteplici forme corporee che è il fondamento filosofico delle tante trasformazioni narrate nella mitologia. Pitagora cita la Fenice come esempio di un essere che si autogenera e rinasce rimanendo sempre sé stesso, a differenza di tutti gli altri che nascono da altre creature ben distinte da essi.

Rispetto al brano di Erodoto esposto in precedenza, nei versi di Ovidio notiamo innanzitutto che la credenza nella Fenice è attribuita agli Assiri -mentre non sono menzionati gli Egizi-, ma il luogo ove ella si reca appena nata è il santuario di Eliopoli, che il poeta chiama città di Iperione, identificando il titano associato al Sole e padre di Elio della mitologia greca con Ra; la nuova Fenice non plasma un uovo di mirra onde riporvi la salma paterna, ma il trasporto del genitore durante la trasvolata è effettuato nel nido nel quale sono avvenute la morte dell’una e la nascita dell’altra; tuttavia non vi sono enormi differenze rispetto a quanto aveva narrato Erodoto.

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La Fenice in un affresco del I secolo.

Notiamo altresì che le spezie e gli arbusti aromatici con i quali la Fenice costruisce il suo nido dall’erudito poeta elencati sono difficilmente reperibili allo stato naturale nelle medesime aree terrestri. E’ bene precisare che spesso l’identificazione delle piante, specialmente quelle esotiche, e delle resine, essenze e spezie che se ne traevano, citate nei testi degli autori antichi, è spesso incerta, sia per il grandissimo numero di tali prodotti del regno vegetale utilizzati nelle antiche civiltà e nel mondo greco-romano, sia perché non di rado le piante ed essenze indicate allora con un determinato nome non coincidono con quelle designate attualmente con quei medesimi termini.

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Pi.anta della cannella (Cinnamomum zeylanicum”)

La “casia” citata, -che non è certamente la “Cassia angustifolia”, appartenente alla famiglia delle Papilionacee, (o secondo altri delle Cesalpinacee), pianta nota e impiegata in erboristeria per le sue proprietà digestive e lassative- è quasi certamente da identificare con la “Laurus cassia” (o “Cinnamomum cassia”), albero appartenente alla famiglia delle Lauracee che vive in India, Indocina e Cina meridionale, con la cui corteccia si ricava una spezia simile alla cannella (chiamata con espressione commerciale “cannella cinese” e meno pregiata e aromatica della “cannella vera” o “cannella regina”); quest’ultima peraltro è anch’essa presente nel nido, poiché si tratta del cinnamomo (“Cinnamomum zeylanicum” o “Laurus cinnamomum”, parimenti della famiglia delle Luracee), pianta anch’essa proveniente dall’Asia sud occidentale, la quale dà la cannella vera (o “cannella di Ceylon”).

Per quanto riguarda il nardo, questa essenza in senso proprio deve considerarsi l’olio essenziale spremuto dal rizoma di una pianta che vive nell’India settentrionale, in particolare nelle aree himalayane, la “Nardostachys grandiflora”, o della “Nardostachys jatamansi”, appartenenti alla famiglia delle Valerianacee; questo olio, assai profumato, era uno dei più rinomati e costosi conosciuti nei tempi antichi (2).  E’ tuttavia assai improbabile che le “nardi lenis aristas” con le quali la Fenice tappezza il suo nido secondo Ovidio siano quelle di tale pianta: in effetti le “Nardostachys” producono spighe, ma l’olio essenziale è contenuto solo nel rizoma -ossia il fusto sotterraneo-, per cui le parti aeree della pianta ne sono prive e non avrebbe senso aggiungerle in un nido che dovrebbe diventare tutto olezzante di profumi. Plinio il Vecchio nel libro XII della “Naturalis Historia” descrive ben 12 specie di nardo identificabili con diverse piante, delle quali la maggior parte appartenenti alla famiglia della Valerianacee; ma in effetti quella di cui si tratta nel verso ovidiano con tutta probabilità altro non è che la lavanda (“Lavandula vera” e altre piante del genere “Lavandula”, della famiglia delle Labiate), la quale, com’è risaputo, ha infiorescenze a spiga dotate di un intenso e penetrante profumo. L’areale di distribuzione della lavanda si estende ai paesi che circondano il mar Mediterraneo centro-occidentale.

Quanto alla mirra. -della quale abbiamo giù parlato a proposito del mito della nascita di Adone-, la profumata essenza si estrae da un arbusto che vive nell’Arabia meridionale e nell’Africa orientale, -la “Commiphora myrrha” e altre specie del genere “Commiphora”-. La mirra è una gommoresina che stilla dai noduli che compaiono sulla corteccia dell’alberello alla fine dell’estate in forma di gocce giallastre che rapprendendosi assumono un colorito più scuro, brunastro o dorato. La mirra, oltre che essere impiegata nella preparazione di unguenti e profumi e per l’imbalsamazione dei morti, -specie nell’antico Egitto-, aveva ed ha tuttora un utilizzo terapeutico, date le sue proprietà anti-infiammatorie, analgesiche, espettoranti e disinfettanti, -sebbene ora si tenda ad evitarne l’uso per via orale-. Nell’antichità, grazie alle sue virtù sedative, veniva talora aggiunta al vino o ad altra bevanda per farne un liquore ansiolitico, che spesso era somministrato ai condannati a morte per alleviarne le sofferenze (come risulta anche dai  vangeli di Matteo -XXVII, 34- di Marco -XV, 23-). Da un’altra pianta del genere Commiphora, la “Commiphora gileadensis”, si ricava il cosiddetto “balsamo della Mecca”, chiamato anticamente “opalobalsamon” -o “opobalsamon” ( si veda Dioscoride, De materia medica, I, 18)  simile alla mirra vera e propria.

Veniamo ora ad esaminare gli aromi che secondo Ovidio sarebbero il nutrimento della Fenice (in contrasto con la tradizione che la vorrebbe nutrirsi di null’altro che di rugiada mattutina). Cominciamo dall’amomo:  questo termine, -di origine indiana, ma che alcuni riconnettono anche al greco “amous” (irreprensibile)- è stato dato negli ultimi secoli a diverse piante della famiglia delle Zingiberacee (quella dello zènzero) e ai loro semi, con frequenti cambiamenti e spostamenti di genere e di specie, -tanto che non di rado queste piante hanno diversi nomi scientifici, che variano a seconda dell’epoca e degli autori-. Il più noto di essi è l'”Amomum racemosum”, vivente in India e nella penisola di Malacca, che però nella classificazioni botaniche più recenti è stato chiamato “Elettaria cardamomum”, ed ha il nome comune di “cardamomo vero” (“vero” per distinguerlo da altri frutti similari, ma meno pregiati). Questa spezia è costituita dalle capsule, ripiene di piccoli semi neri, che vengono usati nelle cucine asiatiche (araba, persiana, indiana, indocinese) per insaporire vari piatti e per aromatizzare thè e caffè; essi hanno pure un impiego terapeutico poiché hanno proprietà digestive, regolarizzatrici ed antisettiche; inoltre vengono masticati, come una sorta di “chewing-gum”, per tenere puliti denti e gengive, combattere e lenire afte e infiammazioni gengivali e rinfrescare l’alito.

Tra gli altri “amomi” possiamo ricordare l'”Amomum cardamomum” -o “A. compactum”, noto come “cardamomo del Siam”; l'”A. subulatum”, detto “cardamomo nero” e l'”A. granum-Paradisi”, i cui semi, simili a quello del pepe, ma con sapore più delicato, vengono definiti “grani del Paradiso”. Un altro tipo di amomo è l’amomo germanico (“Sison amomum”), appartenente alla famiglia delle ombrellifere, -come le carote, il prezzemolo e il sedano, al quale ultimo è simile (e quindi ben diverso dai precedenti)-, utilizzato un tempo come diuretico e stomachico.

Tuttavia quello menzionato da Ovidio nel passo sulla Fenice non è nessuno di questi! Infatti risulta in modo del tutto chiaro e inequivoco che qui si parla di un succo (“suco vivit amomi”) che costituisce la bevanda del divino uccello, – così come il nettare è la bevanda degli dei-, mentre l’incenso ne è il cibo -similmente all’ambrosia che è il nutrimento dei Celesti-.

Pianta di "Cissus vitiginea".
Pianta di “Cissus vitiginea”.

E dunque l’identificazione più verosimile, -sebbene non certa- di questa pianta è con la “Cissus vitigìnea”, appartenente alla famiglia delle Vitacee (3) che cresce in India e aree limitrofe, della quale Plinio il Vecchio ci fa sapere (Nat. Historia, XII, 28) che dai suoi frutti si estraeva un succo di inusitata gradevolezza e soavità.

Infine, l’incenso, il nutrimento solido della Fenice; esso è la gommoresina più famosa e di più largo impiego nell’antichità, non solo nei riti religiosi, nei quali era indispensabile, ma pure come essenza per profumare e deodorare gli ambienti e quale ingrediente di innumerevoli unguenti e balsami, sia di uso cosmetico che curativo. Per queste ragioni in tutti i paesi circum-mediterranei e del Vicino e Medio Oriente il consumo di incenso era elevatissimo e assai fiorente il commercio che ne facevano i paesi dell’Arabia meridionale, che fondavano su di esso la loro economia. Dai regni di Saba e dei Minei, dall’Hadramaut partivano lunghe carovane con migliaia di dromedari carichi della preziosa essenza, i quali dopo un lungo cammino, attraverso l’Arabia Deserta, l’A. Petraea, la Nabatea e l’Idumea, dopo aver toccato le città di Yatrib e di Petra, giungevano infine ai porti della Palestina meridionale , soprattutto a quello di Gaza, -che allora era una città assai prospera-; oppure proseguivano alla volta di Damasco e di Bostra in Siria, altre località decantate come oasi di delizie. Da Gaza o da Ascalona partivano navi che trasportavano il prezioso “olibano” (“Lìbanon” era il nome dato dai Greci all’incenso, “Tus” dai latini) in tutte e province dell’Impero Romano.

Eppure, sebbene sembri strano a dirsi, fino agli inizi del XIX secolo, al di fuori dei paesi di provenienza, si ignorava da quali alberi fosse prodotto l’incenso. Per cui gli antichi naturalisti che ne trattano, -quali Teofrasto, Plinio il Vecchio e Dioscoride-, descrivono solo la gommaresina e le numerose varietà commerciali reperibili sul mercato, oltre alle sue virtù e agli impieghi ai quali era destinato, ma accennano in modo assai generico alla sua origine (4). Erano però ben consapevoli che veniva estratto dal tronco e dai rami di alcune piante. Queste piante sono tutte ascritte al genere Boswellia -nome che fu loro dato in onore dello scrittore inglese James Boswell (1740-1795)-, appartenenti, come la mirra, alla famiglia botanica delle Burseracee. che crescono quasi tutte nell’Arabia meridionale e nell’Africa orientale (specie la Somalia e l’Eritrea).

Fiori di incenso (Boswellia sacra).
Fiori di incenso (Boswellia sacra).

Plinio il Vecchio afferma che vi sarebbero state non più di tremila famiglie nelle quali si tramandava il diritto di raccogliere e vendere l’incenso e che coloro che praticano le incisioni nei trochi degli alberi da cui estrarre la preziosa resina dovevano essere in condizione di purità, non contaminate da contatto carnale o reduci da esequie o mortori, come se avessero compiuto un rito.

Di incenso esistono, -e più ancora esistevano, quando la produzione, il commercio e il consumo di questa resina erano incomparabilmente più estesi di quanto non sia ora-, diverse varietà e diverse qualità, in ragione sia delle diverse specie vegetali che le producono (Boswellia Carteri – o B. sacra-, B. resinifera, papyrifera, thurifera, floribunda, ecc., più la Boswellia serrata, che è l’unica che vive in India e dà l’incenso indiano), sia del periodo e delle modalità di raccolta, sia della forma in cui si presenta e dello stato di conservazione.

La qualità di incenso considerata migliore è il cosiddetto “incenso maschio” (thus masculum); per quale ragione sia chiamato così non è affatto chiaro -anche perché non esiste un incenso “femmina”-.(5). Plinio dà una possibile spiegazione con una sorta di tabu religioso; esso è comunque quello che si presenta in forma di grosse gocce color giallo chiaro, lo stesso autore ricorda poi altre forme più piccole fino al tipo chiamato manna costituito da minute scaglie, ed ovviamente venduto a prezzo inferiore. Nella Naturalis Historia (XII, 58-62) Plinio ci informa che in origine si effettuava una sola raccolta annua della preziosa essenza, ma poi in seguito all’aumentata richiesta del prodotto i raccolti divennero due: in autunno dell’incenso derivato dalle incisioni praticate nel tronco durante l’estate, candido e purissimo, chiamato “carfiato”; e in primavera di quello ottenuto con le incisioni dell’inverno, rossastro e reputato di qualità inferiore, detto “dartiato”. Sempre lo stesso autore riferisce che l’incenso prodotto da un albero giovane era ritenuto più bianco, quello derivato da un albero vecchio più profumato.

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Incensiere etrusco di bronzo del V secolo a. C.

Oltre che nei riti religiosi di quasi tutte le religioni, l’incenso per le sue virtù anti-infiammatorie e antisettiche veniva largamente impiegato per fumigazioni domestiche e quale deodorante degli ambienti: dalla funzione del purificare in senso fisico da odori sgradevoli ed esalazioni nocive divenne strumento di purificazione in senso spirituale, che combatte anche influssi malefici e demoniache presenza, simboli dei pensieri elevati e dei nobili sentimenti che innalzano alla divinità. Veniva di solito conservato in scatole di forma quadrangolare o rotonda, di solito di legno, ma talvolta di materiali preziosi, chiamate “thymiateria” dai Greci (6) e “acerrae” dai Romani, il termine “acerra” è di origine etrusca, mentre il nome greco deriva da “thymìa” profumo; si noti che tale termine ha la stessa radice semantica di “thymòs”= spirito, animo, nonché di “theos”= dio, dal che si comprende come l’idea dell’odore fosse strettamente legata a quello della spirito, dell’esalazione immateriale.

L’incenso entrava pure nella composizione di moltissimi balsami e unguenti (ricordiamo che nell’antichità non esisteva il profumo alcoolico), tra i quali famosissimo il KYPHI egiziano che consisteva di incenso, mirra, cinnamomo, sandalo, cipero (papiro), ginepro, càlamo (canna palustre), coriandolo, mastice di Chio (resina prodotta dalla “Pistacia lentiscus”, alberello della famiglia delle Anacardiacee), storace (7) e uva passa macerati in vino forte; e il MEGALLION greco, a base di incenso, mirra, nardo, zafferano, cardamomo, cinnamomo e cassia.

Il commercio di spezie, profumi, balsami ed altri prodotti esotici occupava allora nell’economia mondiale il posto che ai giorni nostri ha quello del petrolio e altri combustibili fossili, ma con l’importante differenza che tali sostanze non sono causa di inquinamento e di emissioni di gas serra, non provocano degrado ambientale e sconvolgimenti climatici!!

Tuttavia l’enorme consumo di prodotti esotici che veniva fatto nell’Impero Romano provocò un’emorragia monetaria sempre più grave che fu tra le non ultime cause della decadenza e della caduta dell’impero stesso. Infatti esso importava moltissimo, specie dai paesi asiatici, ma esportava ben poco e questo condusse ad una rarefazione sempre più accentuata della moneta circolante e all’emissione, soprattutto dal governo di Caracalla in poi, di moneta il cui valore effettivo era inferiore (e talora assai inferiore) al valore nominale, con conseguente aumento dell’inflazione che nel III secolo divenne sempre più galoppante.

Purtroppo la pianta che secerne la resina da cui ricava l’incenso è oggi in grave pericolo di estinzione, -soprattutto nelle aree del cosiddetto “Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea, Somalia)-.Gli incendi, l’allevamento del bestiame (che bruca spesso le giovani piante, o provoca comunque danni) e la preoccupante diffusione di un insetto coleottero parassita della famiglia dei Cerambicidi, che distrugge le radici ed il tronco degli alberi di Boswellia (similmente a quanto fa il famigerato “punteruolo rosso” alle Palme nell’area mediterranea) ne minacciano gravemente l’esistenza, così che, se non verranno adottati efficaci provvedimenti, di questa pianta e dell’essenza che produce entro pochi decenni rimarrà solo un ricordo. E così se ne andrà non solo una parte di un ecosistema, ma pure un pezzo di storia e di cultura millenaria…

Ma dopo questa lunga digressione torniamo alla nostra Fenice. Da quanto abbiamo detto sugli aromi citati nel poema ovidiano risulta evidente che le piante che li producono crescono in diverse aree del globo: l’amomo, il cinnamomo e la cassia vivono in India: l’incenso e la mirra nell’Arabia meridionale e nell’Africa orientale; il nardo, -che in questo caso, come abbiamo detto, è da indentificare nella lavanda- nell’area nord-mediterranea. E dunque non sarebbe possibile per la Fenice trovarle tutte in un medesimo luogo, ossia quello ove vive. Peraltro Ovidio era un poeta e non uno scienziato, per cui non deve aver riflettuto su tale incongruenza ed ha elencato le profumate piante più che altro a scopo esornativo ed evocativo.

Dopo Ovidio, un altro autore romano che parla del meraviglioso volatile è Plinio il Vecchio, il quale nel X libro della sua Naturalis Historia, -quello dove tratta della classe degli Uccelli-. ce ne dà una descrizione abbastanza accurata. Egli al riguardo della “famosa Araba Fenice” afferma che ha le dimensioni di un aquila, con fulgido oro intorno al collo e nel resto del corpo purpurea, con penne rosee che screziano la sua coda cerulea, la gola adorna di bargigli e il capo di un ciuffo di penne: descrizione che senza dubbio ricorda molto quella di un pavone, salvo le peculiarità cromatiche. L’autore continua riportando notizie che sarebbero state divulgate la prima volta tra i Romani dal senatore Manilio (8): che nessuno mai l’aveva vista nutrirsi, che in Arabia è sacra al Sole, che vive 540 anni e che quando sente che stanno venendo meno le forze si costruisce un nido con rametti di cassia e di incenso che riempie di profumi dopo di che in esso esala l’anima. Poi dalle sue ossa e dalle sue viscere sembra che si sviluppi una sorta di vermiciattolo, o di larva, che però diventa rapidamente pulcino e non appena è cresciuto celebra oneste esequie alla Fenice dalla quale si è generato, indi porta tutto il nido nella città del Sole, sita nei pressi di Panchaia (9), e quivi lo depone sull’altare. Secondo lo stesso Manilio la vita di questo uccello coincide con la durata di un “Grande Anno” quando le costellazioni tornano alle loro posizioni iniziali.

A detta di Plinio, -il quale peraltro cita la testimonianza di un certo Cornelio Valeriano-, sarebbe volata in Egitto durante il consolato di Quinto Plauzio e Sesto Papinio, vale a dire nell’anno 789 “ab Urbe còndita” (36 della nostra era); aggiunge anzi che durante la censura dell’imperatore Claudio, ovvero nel 47, la Fenice sarebbe stata addirittura portata a Roma, ma lo scrittore dichiara di ritenere la notizia del tutto priva di fondamento.

Rispetto ai precedenti racconti, nella narrazione di Plinio appiano nuovi e diversi elementi: innanzitutto il ciclo vitale della Fenice è non più di 500 ma di 540 anni; non nasce da un uovo, ma direttamente, nella forma di una sorta di larva, dal corpo dell’uccello dal quale si reincarna; il primo luogo dove essa si reca dopo la nascita a depositare il nido non è Heliopolis in Egitto, ma nell’isola di Panchaia al largo delle coste sud-orientali dell’Arabia: la durata della sua esistenza è connessa con un ciclo cosmico. Infine dichiara che la sua ultima apparizione in Egitto, -dal che si deduce che, dopo la visita a Panchaia, anche per Plinio volava in quel paese- sarebbe avvenuta nel 36. Questa notizia è assai importante perché essa è confermata da Dione Cassio Cocceiano -nella sua “Storia Romana” (LVIII, 27)-, il quale considera l’avvistamento della Fenice un presagio della morte di Tiberio, avvenuta nella primavera seguente; e pure da Tacito (Annales, VI, 28)  il quale, pur segnalando l’evento prodigioso come avvenuto durante il consolato di Lucio Vitellio e Fabio Persico, -ovvero nel 34-, nella sostanza aggiunge la sua autorevole testimonianza a quella degli altri due scrittori, tanto che non si può dubitare che in quel periodo la Fenice si sia davvero fatta vedere.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) il termine impiegato da Pitagora e dai Pitagorici antichi per indicare tale processo è “palingenesi” (rinascita); poi si affermò anche quello di “metempsicosi” o di “metensomatosi” (che è quello usato dai pitagorici tardi e dai neoplatonici). Sulla dottrine pitagoriche si veda quanto abbiamo detto negli articoli su Virgilio e Orfeo.

2) è questo il nardo citato anche nei Vangeli che la Maddalena o un’altra donna “peccatrice” (che alcuni identificano con Maddalena ed altri no) offre a Gesù Cristo. Si noti che nella narrazione di questo episodio ciascuno dei quattro evangeli canonici presenta una versione diversa: secondo Matteo (XXVI, 7-9), il quale parla genericamente di “profumo prezioso” (“alàbastron myrou […] barytimou”), la donna l’avrebbe versato sul capo di Cristo in casa di un certo Simone il Lebbroso, presso il quale ambienta la scena pure Marco (XIV, 3-5), il quale precisa però che l’unguento era autentico nardo; in Luca (VII, 36-38) invece l’episodio avviene nella casa di un fariseo non meglio identificato che aveva invitato a cena Cristo, al quale la donna unge con olio profumato non il capo, ma i piedi, così come per Giovanni (XII, 3-5). il quale specifica a sua volta che l’essenza era puro nardo, e che colloca l’evento a Betania nella casa di Lazzaro, fratello di Maria Maddalena, che fu per questo inondata di effluvi. E’ singolare la netta discordanza tra le versioni di Matteo e di Giovanni, i quali, essendo entrambi apostoli, si presume fossero stati testimoni oculari dell’episodio e pertanto avrebbero dovuto fornire una versione univoca dello stesso. Si potrebbe allora ipotizzare che gli episodi siano stati almeno due, e non uno solo, -tanto più che mentre tre evangelisti lo pongono nell’imminenza della Pasqua e della crocifissione, Luca lo colloca in un momento assai anteriore-; ma essi sembrano troppo simili nella situazione e nelle circostanze (una cena in casa di un discepolo o ammiratore di Cristo), nonché nella reazione negativa degli apostoli -che rimproverano la donna per quello che ad essi appare un inutile spreco, a loro volta redarguiti da Cristo- per pensare che se ne siano verificati più di uno così simili.

3) il nome “Cissus” significa propriamente “edera” (greco “Kissos”).

4) Plinio, secondo il quale nessun Latino l’aveva visto, riporta (Nat. historia, XII, 56-57) alcune contraddittorie descrizioni fatte da autori greci di presunti alberi di incenso offerti ad antichi sovrani che paragonano tali alberi al pero, al terebinto, al lentisco, all’acero.

5) a mio avviso una possibile spiegazione a questo attributo si potrebbe forse trovare in una errata traduzione o fraintendimento di termine locale per indicare questo tipo di incenso. Per approfondire il tema dell’impiego delle resine profumate nell’antichità si consiglia la lettura di “INCENSO E MIRRA, GLI AROMI CHE SCRIVONO NELL’ARIA” (15 e 29 aprile e 12 maggio 2015).

6) con il nome di “thymiaterion” i Greci designavano anche il bruciaprofumi, quello che in latino era il “turibulum”.

7) con il nome di “storace” si designano due resine: una, detta “storace liquido”, che si ricava dallo “Styrax offcinalis”, -pianta della famiglia delle Stiracacee-, e una solida, -detta anche “storace nero”-, che si ottiene dal “Liquidambar orientalis”, -appartenente alle Amamelidacee-. E’ incerto stabilire a quale delle sue si intenda, propenderei per lo storace nero solido, sia perché l’areale della pianta che lo secerne è più orientale, sia perché il suo aroma è più intenso.

8) questo Manilio non è di certo il famoso giurista romano Manio Manilio Nepote vissuto nel II secolo a.C., né tanto meno il poeta Manlio Manilio vissuto al tempo dei Augusto a Tiberio e autore del poema didascalico di tema astrologico “Astronomica”.

9) questa isola leggendaria fu descritta dallo scrittore greco Evèmero di Messene (340-260 a. C.) “Ierà Anagraphè” (Sacra Scrittura). Egli afferma di aver trovato durante la sua navigazione nell’Oceano Indiano tre isole sconosciute, delle quali la principale era Panchaia dove vigeva un regime collettivistico instaurato da una società utopica. Quest’isola, citata poi da anche da Virgilio nelle Georgiche (II, 139) -“totaque turiferis Panchaia pinguis harenis”-, è stata identificata con Socotra, -celebre tra l’altro per la coltivazione dell’incenso-; o con Fallaka, isoletta al largo del  Kuwait, che fu sede più di 3000 anni fa di una misteriosa civiltà, la “civiltà DILMUN”, citata in iscrizioni sumere e che fu poi assoggettata dagli Assiri.

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