LE PIETRE SACRE (seconda parte) -la pietra BENBEN e la FENICE-

LA PIETRA BEN-BEN

Secondo la cosmogonia (e teogonia) di Heliopolis in Egitto BENBEN era il nome della collina che emerse dall’oceano primordiale, il NUN (1), e sulla quale il dio creatore ATUM generò sé stesso e la prima delle quattro diadi divine sulle quali si fonda la dottrina mitologica e metafisica della teologia eliopolitana, una delle più conosciute (anzi la più nota) e complesse della religione egizia (2). Nei “Testi delle Piramidi”, -i più venerati testi religiosi egizi, risalenti all’Antico Regno-, si dice anzi (nella riga 1587) che lo stesso Atum si trasformò in collina, situata ad Awanu (o Iwno), poi detta ON da Ebrei e Greci, -città posta nel delta del Nilo, sul luogo ove ora sorge un sobborgo del Cairo (3)-, e infine ribattezzata “Heliopolis” =la Città del Sole, donde irradiò le sue energie creative dalle quali nacque l’intero Universo. Per questo si ritiene che “Benben” significhi “radiante”; secondo altri tale nome avrebbe invece (“ben” ripetuto due volte) il significato di “Fuoco della doppia generazione”; il carattere doppio allude al fatto che quivi Atum generò la prima coppia di divinità, SHU e TEFNUT, l’Aria e l’Umidità, le quali a loro volta diedero vita a GHEB e NUT, la Terra e il Cielo; essi divennero poi i genitori di Osiride, Iside, Seth e Nephtys. Tutti questi nove dei costituiscono nel loro insieme la cosidetta “Enneade eliopolitana”.

Questa mitica, e mistica, collina, fu dunque rappresentata sulla Terra come una grande pietra conica che si trovava nel cortile del tempio del Sole a Heliopoli, dove la creazione divina avrebbe avuto inizio e che godeva di profonda venerazione, poiché era il centro o l’ombelico del mondo (così come Delfi, La Mecca, Gerusalemme, ecc.). Secondo alcuni studiosi la pietra “Benben” sarebbe stato un meteorite composto di minerali ferrosi (siderite) caduto sulla Terra in epoca prestorica, Per il suo significato simbolico fu riprodotta in molti templi dell’Egitto e fu il modello di diverse strutture architettoniche, in primis delle enormi piramidi che furono edificate in vari luoghi dell’Egitto (4). La forma conica originale fu però trasformata in piccola piramide (“pyramidion”), costituita da un unico blocco di pietra, con la cuspide spesso ricoperta di lamine d’oro. Essi venivano collocati alla sommità delle piramidi e degli obelischi, costituendone il coronamento e la sintesi, che con la punta catturava le energie cosmiche.

I “pyramidia” durante l’Antico Regno (che durò dal 2700 al 2190 a. C.) erano fatti in genere di diorite o di basalto nero, creando così un forte contrasto policromo con il bianco calcare del rivestimento delle piramidi e degli obelischi.

Il "pyramidion" della piramide di Dahshur nel Museo Egizio del Cairo.
Il “pyramidion” della piramide di Dahshur nel Museo Egizio del Cairo.

Nel Medio Regno venne usato di preferenza il granito ed il pyramdion era spesso inciso con iscrizioni geroglifiche  Uno dei più belli e famosi è quello proveniente dalla piramide di  Dahshur, di Amenemhet III -faraone appartenente alla XII dinastia che regnò dal 1842 al 1797 a. C.-,, custodito al Museo del Cairo; esso è splendidamente decorato con il disco solare alato dal quale si dipartono due urei (5). Tra le ali del disco solare, che si aprono e si chinano in un gesto protettivo, si stagliano i due occhi: l’occhio di Ra a sinistra e l’occhio di Horus a destra (che poi sono rispettivamente un occhio destro e un occhio sinistro). Sotto gli occhi si vedono tre “nefer” (6), simbolo dell’Enneade di Heliopoli, al di sopra dei cartigli e delle formule di immortalità.

Nelle piramidi del Nuovo Regno costruite a Deir El-Medina i pyramidia avevano tutte le 4 facce decorate con scene di culto solare, nelle quali il defunto appariva in adorazione di Ra; erano sempre fatti di calcare estratto dalla vicina cava di Tura, come quello, frammentario, rinvenuto presso la tomba di Sennedjem. Il pyramidion che coronava la piramide di Cheope, rivestito d’oro, si presume dovesse pesare circa 7 tonnellate. La cuspide che sormontava gli obelischi era spesso senza iscrizioni e ricoperta di lamine di rame, d’oro o di elettro (lega di oro ed argento).benben

Strettamente connesso alla pietra Benben è l’uccello BENNU (o Benu, o Benhu, o Benev, a seconda delle trascrizioni dall’antico egiziano), chiamato poi “Phoenix” (Fenice) da Greci e Latini.  Questo mistico volatile, la prima creatura che si sia librata nel neonato Universo incarnava nella dottrina egizia, quale è espressa nei venerabili “Testi delle Piramidi”, il “Ba” (7), ovvero l’anima, di Atum e/o di Ra -il grande dio solare con il quale il principio creatore Atum venne identificato-; egli per primo spiegò le sue ali sulle profonde acque del NUN, che esistevano “ab aeterno”, prima della creazione operata da Atum, poi posarsi sulla collina primordiale Benben. Per questo nella tradizione successiva, a partire dal “Nuovo Regno”, Bennu tornava periodicamente a posarsi sulla pietra Benben nel tempio di Heiiopolis dove era nata, divenendo simbolo di ciclico rinnovamento cosmico.

Nei “Testi delle Piramidi” (n. 600) si legge questa preghiera nella quale la Fenice. -ovvero Bennu-, appare come manifestazione e spirito di Atum: “Atum! Creatore tu sei. Alto nell’altura/ sorge da te la Fenice/ dalla Fenice come pietra Benben/ nel suo palazzo in On./ Tu hai starnutito Shu/ tu hai tossito fuori Tefnut”.

Il nome di questo essere divino è probabilmente da collegare con il verbo egiziano W(e)B(e)N, che significa brillare, risplendere, -ed avrebbe quindi la medesima etimologia del nome della pietra Benben-, ma anche sorgere, librarsi in volo verso il cielo: onfatti nelle raffigurazioni trovate nel “Libro dei Morti” e in molti affreschi lo strano volatile sembra elevarsi maestoso dalle acque.

Una cutrettola (Motacilla flava).
Una cutrettola (Motacilla flava).

Alcuni dei titoli con i quali lo si onorava erano “Colui che è venuto in essere da sé” e “Signore dei Giubilei”: quest’ultimo epiteto è da attribuire al fatto che Bennu si rinnovava con un ciclo periodico come il Sole, incarnazione di Ra, a sua volta ipostasi di Atum. Per questo divenne anche simbolo di rinascita e in tale veste fu associato ad Osiride, il dio che muore e risorge.

Nei “Testi delle Piramidi” il Bennu è descritto come un uccellino, presumibilmente una cutrettola (Motacilla flava) o una ballerina gialla (Motacilla cinerea), entrambi passeriformi appartenenti alla famiglia dei Motacillidi, e peraltro assai simili, caratterizzati come sono da una lunga coda giallastra, che spesso agitano con aggraziate movenze, in seguito però, specie nel “Nuovo Regno” (1552-1069 a.C.), il pennuto simbolo e incarnazione di Atum viene identificato nell’airone cinereo (Ardea cinerea), raffigurato di solito nei numerosi dipinti nei quali appare con il capo adorno della corona “atef”, o l’emblema del disco solare (8), appollaiato sulla pietra Benben (che rappresenta Atum), ovvero su un salice (che rappresenta Osiride).benu1 Secondo alcuni, il Bennu sarebbe da identificare con una specie di airone ora estinta, simile all’ airone cenerino, ma di dimensioni maggiori, vissuta in tempi remoti nella penisola arabica e che compariva talvolta in Egitto, e alla quale fu dato il nome scientifico di “Ardea bennuides”. Questo uccello, del quale sono state ritrovate alcune ossa, avrebbe raggiunto in alcuni esemplari l’altezza di due metri e un’apertura alare di oltre un metro e mezzo. In effetti i trampolieri che con in volo maestoso si levano dalle isolette dei laghi e dei fiumi, o dai loro grandi nidi, non appena il Sole sorge all’alba esprimono in modo mirabile l’essenza dell’astro datore di vita che quotidianamente sorge e tramonta; non solo ma apparvero simbolo della potenza di Atum-Ra che ai primordi della creazione si mostrava nella sua potenza per espandere l’Universo. Inoltre l’airone era solito comparire sulle alture che rimanevano emerse dopo la periodica inondazione con la quale il Nilo fecondava le terre d’Egitto con il benefico limo.

Come abbiamo detto, esprimendo l’idea della rinascita e del rinnovamento ciclico,  Bennu fu ben presto accostato anche ad Osiride -che d’altro canto è discendente e in certo qual modo ipostasi di Atum-Ra-, che muore a causa delle insidie del suo fratello rivale Seth, poi risorge grazie all’intervento della sua sorella e sposa Iside: Egli prima di divenire il re e il giudice dei defunti nell’al di là ha da Iside il figlio ed erede Horus. Accanto al sarcofago di Osiride negli affreschi delle tombe si vede non di rado l'”Albero della Vita”, sopra il quale sta appollaiato il mistico volatile. Infatti mentre nei Testi delle Piramidi (testo 1652) il tempio di Bennu era la pietra sacra dalla quale era sorto nei primordi Atum-Ra, in altri testi il mitico uccello era nato sul salice che si trovava nel “Grande Castello del Principe” ad Eliopoli, -come si legge ad esempio nella riga 77 della “stele Metternich” (9).bennu

Nel “Libro dei Morti”, -che contiene le liturgie funerarie e le “istruzioni”  per l’Al di là in uso nel periodo del “Nuovo Regno”-, si trova una formula grazie alla quale il defunto potrà assumere la forma e l’essenza di Bennu, o meglio trasfigurare e sublimare la sua natura terrena in quella dell’animale che incarna il Principio Assoluto che tutto comprende: “Io sono Bennu, l’anima di Ra, la guida degli dei nel Duat [il regno dell’Oltretomba]. Che mi sia concesso entrare come un falco, che io possa procedere come Bennu, la Stella del Mattino”. E ancora: “Io sono puro. La mia purezza è la purezza del grande Bennu”.

E sempre nel “Libro dei Morti”, al capitolo XVII, il Sole, parlando di sé medesimo, così proclama: “Io sono RA al suo primo apparire, il grande Iddio che ha generato sé stesso: sono Osiride, sono la Fenice, conosco il Ieri e il Domani… sono il grande Bennu che è in Eliopoli, il quale governa tutto quello che è e tutto quello che sarà, sono AM-SU nelle sue manifestazioni; due penne mi sono state poste sul capo”. E in un altro testo si legge: “Io esco fuori come il Bennu, il Dio dell’Aurora”.

Di questo meraviglioso pennuto nella credenza egiziana esisteva solo un esemplare per volta (“Unica…avis” la definirà il poeta Marziale -Ep. X, 17, 69), che era sempre di sesso maschile e si rigenerava da sé stesso in un’oasi dell’Arabia (da cui l’appellativo di “Araba Fenice” attribuitogli in età greco-romana e, con il quale divenne proverbialmente noto) nella tradizione più comune, ovvero dell’Etiopia o dell’Assiria, ove si tratteneva abitualmente in prossimità di una sorgente di limpida acqua. In quella fonte cristallina egli si bagnava tutte le mattine intonando una melodia così soave che il Sole fermava il suo corso per ascoltarla, mentre tutti gli altri volatili, dei quali era il sovrano, lo attorniavano unendo al suo il proprio canto.

Raffigurazione dell'estinto airone "Ardea bennuides".
Raffigurazione dell’estinto airone “Ardea bennuides”.

In un’altra versione egli viveva nei pressi delle sorgenti del Nilo -che, nonostante le ricerche compiute nel corso dei secoli rimasero ignote fino al XIX secolo, quando furono scoperte dall’esploratore inglese David Livingstone (1813-1873)-.

Secondo la leggenda, allorché sentiva approssimarsi la fine della sua lunga esistenza, -la cui durata era nella tradizione prevalente di 500 anni (ma che nei diversi racconti variava notevolmente: 540, 654, 1000, 1461, 7006, ecc.)-, costruiva su una quercia o su una palma un nido di ramoscelli tratti da arbusti resinosi e profumati -cannella, mirto, incenso, mirra, sandalo, e altri- e deponeva il suo uovo. Poi, quando i raggi del Sole al tramonto facevano sprigionare per combustione dagli arbusti aromatici di cui era circondato i loro gradevoli effluvi, egli spirava cantando una meravigliosa canzone. Dall’uovo nasceva un pulcino che cresceva rapidamente nutrendosi solo con la rugiada mattutina. Appena divenuto adulto, il Bennu volava nella città di Heliopolis dove si posava sulla pietra Benben o sul salice sacro del tempio del Sole; nel suo lungo volo egli era attorniato da miriadi di altri uccelli che salutavano in lui il loro re e lo seguivano nel suo percorso. La caratteristica per la quale la Fenice è divenuta soprattutto nota nelle età successive, -ovvero che ella si dia fuoco e risorga poi dalle proprie ceneri-, non si trova nell’antico Egitto e neppure negli autori greci e latini classici che ne parlano; questa leggenda appare in epoca tarda ed è attestata per la prima volta, -come avremo modo di vedere meglio nel seguito della nostra trattazione-, nel “Carmen de ave Phoenice” dello scrittore e poeta latino cristiano Q. Cecilio Firmiano Lattanzio (250-330 circa)(10)

Bennu-Fenice era associato anche con il pianeta Venere -in egizio “Pe-Nutar- Duat”-, la stella che precede, -al mattino-, o segue, -al tramonto-., il Sole, e che indica la via per il Duat, il regno dei defunti, la quale era considerata dagli Egizi un aspetto o un’incarnazione di Osiride, e poi anche di Iside, ma vista pure come “stella errante della Fenice”. In iscrizioni rivenute nelle tombe dei faraoni Seti I e Ramesse VI il pianeta Venere è chiamato la barca di Bennu-Osiride: questa barca teneva il luogo presso gli Egizi del carro nel quale i Greci asserivano compisse il Sole il suo giro nella volta celeste. Bennu-Osiride è quindi il Sole che si leva e la stelle che precede e guida la sua barca è un immagine appropriata di Venere mattutina o Fosforo che annuncia l’apparire dell’astro datore di vita. Quindi sembra plausibile ritenere che il periodo della Fenice sia legato al ciclo di Venere.

Quattro sono le piramidi d’Egitto che furono dedicate alla Fenice-Bennu:

la piramide di Cheope a Ghiza, -della quale abbiamo trattato diffusamente in un precedente articolo-, “dove il Sole sorge e tramonta”;

quella di Neferkara, faraone della III dinastia, presso Menfi, “dello spirito di Bennu”;

quella di Sahura, appartenente alla V dinastia, ad Abu Sir, “splendente come lo spirito della Fenice”;

la piramide di Reneferf (o Neferefre), parimenti della V dinastia, anch’essa ad Abu Sir, “divina come lo spirito della Fenice”.

Nel mondo ellenico la prima menzione di questo misterioso uccello. -al quale i Greci, e poi i Romani diedero il nome di Phoenix, da cui Fenice con il quale la sua figura è stata tramandata nella cultura europea medioevale e moderna- si trova in un enigmatico frammento poetico (n.50) di Esiodo (VIII-VII secolo a. C.) che così recita: “Di nove uomini forti così la ciarliera cornacchia/ vive la vita; il cervo di quattro cornacchie, e il corvo/ diventa vecchio quanto tre cervi, La fenice, poi, vive/ per nove corvi; per dieci fenici viviamo noi Ninfe,/ ricciole belle figlie di Giove dell’egida sire” (traduzione di Ettore Romagnoli). E’ difficile dire con esattezza, o anche con una certa approssimazione, che idea avesse l’arcaico poeta della Fenice, nei versi che abbiamo testè citato egli vuole mettere in risalto la longevità di questo essere del quale aveva probabilmente una conoscenza vaga e imprecisa, ma che deve aver colpito la sua fantasia: facendo i calcoli risulta che, pure assegnando al ciclo vitale dei “nove uomini forti” un termine molto contenuto, la durata della vita della Fenice supererebbe comunque i 60000 anni! Quanto alle “nove Fenici” non si sa se questo dato numerico voglia esprimere soltanto un’estensione temporale o Esiodo credesse nell’esistenza di più di una fenice, ma ritengo più probabile la prima ipotesi.

Con la testimonianza che Erodoto ci offre nella sua ampia opera (Le “Storie” in nove libri) cominciano le descrizioni più accurate della Fenice e del suo mito nella letteratura greca. E’ curioso osservare che mentre nell’antico Egitto, come abbiamo visto, la Fenice, -ovvero Bennu- è sempre descritta e raffigurata nelle numerose testimonianze pittoriche e grafiche che gli Egizi ci hanno lasciato come un grande airone grigio-azzurro, nelle descrizioni degli autori greci e latini il meraviglioso volatile ha un aspetto del tutto diverso: infatti secondo loro è simile a un’aquila, oppure a un fagiano o un pavone (o una sorta di ibrido tra fagiano e pavone), con una sfavillante colorazione nella quale predominano le tonalità dello scarlatto del porpora e del giallo dorato, immagine questa che è quella divenuta tradizionale per rappresentare la Fenice. Da questa idea che avevano del sacro pennuto deriva di certo anche il nome che essi gli diedero, che allude appunto alla sua colorazione purpurea, sebbene in origine vi possa essere stato il nome egizio Bennu (o Benev) nella pronuncia greca. I colori attribuiti alla Fenice. -ai quali si aggiungevano talora anche il roseo e il ceruleo-, possono trovre una logica spiegazione qualora si pensi che essi sono quelli dei quali si tinge il cielo ad oriente allorché sorge il Sole.

Perché la descrizione dell’aspetto della Fenice, -e in parte delle sue abitudini- data Erodoto e dagli autori successivi si distacca in modo così notevole da quella attribuitale dagli Egizi? Dalle mie ricerche non ho trovato finora elementi che possano illuminare le ragioni di questo cambiamento, ma è probabile che nel mito egiziano sia confluita un’altra tradizione di origine mesopotamico-anatolica, nella quale appaiono altri uccelli divini, simili nell’aspetto a quello attribuito alla Fenice dagli scrittori greco-romani, quali il Simurgh della mitologia iranica, il Malak Ta’us (Re Pavone), incarnazione della divina potenza per gli Yezidi (11), il Milcham delle narrazioni mistiche ebraiche, e forse pure il Garuda indiano e il Feng-huang cinese.

Ma vediamo che cosa dice Erodoto della Fenice nel II libro delle sue “Storie” (cap. 73), ove tratta dei costumi, della storia e della religione egiziane: “V’è pure un altro uccello sacro che ha nome Fenice. Io non l’ho mai visto, se non dipinto, chè assai di rado compare tra di loro [gli Egizi], ogni 500 anni, come affermano gli Eliopolitani; e si fa vedere, dicono, solo dopo la morte del suo genitore. Se è simile a come viene dipinta, queste sono le sue dimensioni e il suo aspetto: una parte del suo piumaggio è dorata, l’altra rossa; nel complesso per forma e grandezza è assai somigliante ad un’aquila. Si racconta che la Fenice riesca a compiere tale impresa. -ma a mio parere riportano notizie non degne di fede-: partendo dall’Arabia, ella trasporta la salma della Fenice che l’ha preceduta, dopo averla tutta rivestita di mirra, nel tempio del Sole a Heliopolis e quivi le dà sepoltura. Per trasportarla in volo compirebbe queste operazioni: dapprima plasma un uovo con la mirra, grande quanto le sue forze le consentono di portarlo; indi tenta di tenerlo sollevato; riuscita la prova, svuota l’interno dell’uovo e vi introduce il padre. Poi con altra mirra spalma la parte dell’uovo che aveva svuotato per riporvi il corpo del genitore in modo che l’uovo raggiunga il peso precedente. Dopo averlo così avvolto lo porta in Egitto nel santuario del Sole. Questo è quanto dicono compia tale uccello.” (traduzione di Tammuz).400_F_33003586_YSQF3zauT0EUR0i7r2wOyaFzgc3m0WxO

Dove avrà osservato Erodoto questa immagine della Fenice che tanto si discosta da quella usuale in Egitto? Esisteva forse un altro tipo iconografico del sacro volatile del quale non è rimasta alcuna testimonianza figurativa o letteraria? L’ipotesi appare poco probabile. Si potrebbe ipotizzare che il dipinto del quale parla non l’abbia visto nella terra del Nilo, ma in un altro luogo (in Siria, in Anatolia) e che gli sia stato detto, o che lui abbia capito, che esso rappresentasse la Fenice egiziana, forse perché si era già verificata una sovrapposizione o un’identificazione tra la Fenice egiziana ed altri uccelli mitici. Infatti secondo alcuni la Fenice che lo scrittore descrive non sarebbe Bennu, ma una variante o un adattamento greco del mito orientale dell’Uccello del Sole, simbolo del “Grande Anno”, ovvero del periodo di 25980 anni durante il quale il punto vernale compie un giro completo dell’eclittica. Per altri la descrizione di Erodoto, come in genere i primi 4 libri della sua opera, quelli di carattere soprattutto geografico ed etnografico, sarebbe influenzata degli scritti di Ecateo di Mileto (560-490 a. C. circa), lo storico e geografo ionico considerato il precursore d Erodoto.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) il Nun degli Egizi corrisponde dunque all’Apsu (o Abzu) della religione mesopotamica e alle acque primordiali “sulle quali aleggiava lo spirito divino” prima della creazione della “Genesi”. Osserviamo che il termine “nun” nelle lingue semitiche significa sia una grande distesa d’acqua, sia un essere acquatico di enormi dimensioni,-come una balena o un grosso pesce-; da tale nome è derivata la quattordicesima lettera dell’alfabeto fenicio, che ha dato poi origine alla “ny” greca e alla “enne” dell’alfabeto latino.

2) gli altri più importanti sistemi teologici dell’antico Egitto erano la teologia menfita, che si incentrava sulla figura del dio Ptah, quella tebana, che faceva capo ad Amon, e quella ermopolitana, che contemplava una coppia divina primigenia Nun e Nunet, -nella quale il Nun unico e impersonale della teologia eliopolitana si era sdoppiato- dalla quale discendevano altre tre diadi divine, che costituivano nel loro complesso un'”Ogdoade”.

3) come in tutte le antiche città che sorgevano nell’area del delta del Nilo, di Heliopolis sono rimasti pochissimi reperti archeologici. Infatti la composizione e l’umidità dei terreni di quella zona hanno impedito la conservazione di significative testimonianze, a differenza di quanto è accaduto è accaduto per le contrade site nei deserti, dove l’aridità dei luoghi ha consentito che esse giungessero a noi in condizioni relativamente buone.

4) sul significato e il simbolismo della piramide e il suo probabile legame con la civiltà di Atlantide abbiamo già parlato nell’articolo sulla Piramide di Cheope e in altri.

5) questo simbolo, assai comune nei monumenti dell’antico Egitto, specie sulle architravi delle porte, è chiamato “behdeti”. Esso in origine era l’emblema del dio solare Behdet. In seguito tale divinità si fuse con Horus, diventando Horus di Behdet (processo tutt’altro che insolito nella storia delle religioni, quando una divinità divenuta più importante ne assorbiva una locale, trasformando il nome proprio di quest’ultima in un proprio attributo), In tale nuova veste divenne il vittorioso condottiero degli eserciti di Ra. Il suo simbolo assunse il significato di talismano contro i pericoli e si si riscontra n quasi tutti i templi, nonché sulle prue delle navi.

6) “nefer” significa propriamente “bello”. Oltre che inciso come geroglifico, era usato come talismano che assicurava felicità e buona fortuna; in genere era fatto di corniola o di altra pietra rossa e spesso impiegato come pendente per monili.

7) nella concezione egizia, l’uomo, ma anche le divinità, sono dotati di 6 componenti immateriali: a) il KA, l’energia vitale (rappresentata da una figura umana con due braccia levate sul capo); b) il BA, l’anima (rappresentata da un uccello con testa umana); c) l’ANKH, la vita immortale, il cui emblema è la croce ansata, simile ad una croce latina con il braccio superiore ad anello, e che è costante attributo delle divinità; d) l’AKH -da non confondere con la precedente-, raffigurato come un ibis, era la potenza spirituale e soprannaturale, un elemento solare e luminoso che consentiva all’individuo di accedere alla sfera delle stelle dopo la morte fisica;  e) il SHEUT, l’ombra, -l’opposto del Ka-; f) il REN, il nome proprio. A questi si può aggiungere anche l’AB, il cuore, simboleggiato da un piccolo contenitore, considerato sede dei sentimenti, del pensiero e della memoria, e che per questo era chiamato come testimone delle azioni del defunto nel tribunale di Osiride, e sottoposto da Thoth ed Anubi alla “pesatura” (chiamata poi con termine greco inesatto “psicostasia” = pesatura dell’anima), che doveva decidere della sua sorte ultraterrena.

8) in tarde raffigurazioni del periodo romano appare anche con la testa circondata dal nimbo.

9) la “stele Metternich” è una grande stele di granito che risale all’epoca di Nectanebo II, penultimo faraone d’Egitto dal 378 al 360 a. C. E’ così chiamata perché nel 1828 fu donata dal pascià d’Egitto Mehmet Alì al principe di Metternich, il quale, -dimostrando davvero profonda sensibilità culturale e generoso patriottismo-, la vendette al Metropolitan Museum di New York dove tuttora si trova. In essa sono inscritte diverse formule magiche e per questo sarebbe dotata di poteri occulti: si dice ad esempio che facendo bere acqua lasciata scorrere sopra di essa a qualcuno che sia stato morso da serpenti velenosi o punto da scorpioni scamperebbe senza danno alcuno al pericolo.

10) peraltro in un passo della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (XIX, 29) e in un verso della “Pharsalia”, poema epico di M. Anneo Lucano (39-65), si allude all’uso della cenere della Fenice e del suo nido in pratiche terapeutiche e magiche. In particolare nel poema di Lucano (Phars. VI, 680) la “cinis… Phoenicis” compare nell’elenco degli ingredienti di una pozione magica che una strega, Eritto, -alla quale si era rivolto Sesto Pompeo prima della battaglia di Fàrsalo per conoscere l’esito dello scontro-, prepara per somministrarla ad un cadavere, il quale, temporaneamente vivificato dall’operazione negromantica, dovrà dare il responso. Tuttavia questa cenere non deriva dal rogo in cui la Fenice si autoimmola nella evoluzione tarda della leggenda, ma da quello che ella faceva per le esequie del genitore -secondo quanto affermano diversi autori posteriori e che avremo modo di esaminare-.

11) gli Yezidi sono i seguaci di un’antica religione che si riallaccia alle credenze  iraniche zoroastriane, ma con molteplici influenze ebraiche, cristiane, islamiche, gnostiche, nonché elementi derivati addirittura dalla religione assira. Da notare che gli Yezidi, -che risiedono nella maggior parte in Iraq-, appartengono nella quasi totalità alla stirpe dei Curdi.

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2 Risposte a “LE PIETRE SACRE (seconda parte) -la pietra BENBEN e la FENICE-”

  1. Non dimentichiamo che anche i funghi o serpenti della tau erano chiamati pietre ed i culti precedenti usavano il cannibalismo rituale persino dei propri figli o primogeniti concepiti durante i rituali del capo inebriato di droghe che aveva il diritto della prima notte di nozze come ricordato sui testi di gilgamesh che praticava sacrifici umani e decapitazioni rituali e libbaggini al dio shamash o sole nero dei culti saturniani e per fortuna icq sono ricercatori che stanno studiando gli uomini fungo o sacerdoti delle grandi pietre o massi massoni dai tanti culti che sono q stati illusi divisi accecati da shamash dopo averli utilizzati per templi piramidi caverne e ziggurats….

    1. A quanto mi risulta nell'”Epopea di Gilgamesh” non si fa riferimento a sacrifici umani, né si è mai saputo che fossero praticati nell’antica Mesopotamia. E’ probabile però che in età più remote fossero praticati talvolta anche in aree del Vicino oriente ed egeo-anatolica -come si evince dalla Bibbia (in Genesi -XXII, 2-13- sacrificio di Isacco da parte di Abramo; sacrificio della figlia di Jephte -Giudici, 11-12-); nella mitologia greca(sacrificio di Ifigenia in Tauride)-, sebbene poi talvolta tali sacrifici umani siano poi impediti dalla divinità stessa per la quale erano compiuti (Isacco sostituito da un ariete; Ifigenia da una cerbiatta), segno che nel progredire della civiltà essi non furono più accettati e dunque anche le narrazioni mitiche, pur tramandando il ricordo del sacrificio umano, ne indicano il superamento.

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