LE AMAZZONI, GUERRIERE DELLA LUNA: INVENZIONE O STORIA? (prima parte)

In alcuni articoli precedenti abbiamo parlato di questa leggendaria stirpe di donne guerriere, in particolare in riferimento alle testimonianze degli storici che le misero in relazione con Atlantide. A questo punto è lecito porsi una domanda: lo strano popolo delle Amazzoni, del quale hanno trattato diversi autori antichi, -quali Erodoto, Strabone, Plinio il Vecchio, Plutarco, ecc., in genere non mettendo in dubbio la loro effettiva esistenza in tempi più o meno remoti-, ha qualche fondamento storico o è solo l’espressione del timore e della riprovazione di una società patriarcale e maschilista come quella greca (ma come furono più o meno tutte le popolazioni dell’evo antico, e pure di quello moderno) per una femminilità indipendente e riluttante a farsi dominare dagli uomini, e dunque inquietante?

Analizzando gli elementi e gli aspetti che si riscontrano nel mito delle “donne guerriere”, possiamo così riassumere i risultati della nostra ricerca:

1) le aree dove le fonti antiche collocano questa popolazione sono essenzialmente due: una comprende l’Asia Minore, il Caucaso e altri paesi che circondano il Ponto Eusino (ovvero l’attuale Mar Nero), ed è quella indicata in prevalenza quale sede delle Amazzoni; l’altra è la Libia, nome che peraltro nell’antichità designava, oltre l’odierno stato nord-africano, tutta la parte dell’Africa che si affaccia sul Mar Mediterraneo, escluso l’Egitto (in pratica il “Maghreb”). Alcuni autori, tra i quali Diodoro Siculo, che abbiamo esaminato in particolare, armonizzano queste due tradizioni sostenendo che si sarebbe verificata un’emigrazione delle Amazzoni dalla Libia, loro sede originaria, alle aree pontiche.

2) possiamo osservare che nell’Asia Minore era venerata come dea principale, soprattutto dai Lidi, dai Frigi e da altre popolazioni dell’Anatolia centrale, la “Grande Madre”, una figura divina che incarna la sacralità della Terra e della Natura, che in effetti appare ed è venerata in varia misura in quasi tutte le antiche civiltà e le religioni, ma che ebbe enorme importanza soprattutto in questa area geografica. Il culto preminente di questa dea dovrebbe essere l’espressione di una civiltà matriarcale, -almeno nella sua origine-, che vede nella maternità della Terra e della Natura la suprema manifestazione del divino; tale divinità poteva essere designata con diversi nomi: Matar Kubile per i Frigi, Kybebe e Myrinna per i Lidi, Kubaba per i Luvi e gli Ittiti, Hepat per  i Khurriti, Mah in Cappadocia, Nanaia in Armenia, e altri; ma nella sostanza era sempre la stessa dea ed aveva un sicuro legame anche la famosa “Signora dei Serpenti” o “Signora degli Animali” di Creta, che fu poi chiamata Cibele dai Greci, che la identificarono con Rea, la sposa di Crono e madre della prima generazione di dei olimpici, e Magna Mater Idaea dai Romani.

Le Amazzoni per comune testimonianza degli autori adoravano soprattutto questa dea; esse erano devota pure ad Artemide, come è ben comprensibile, dato che le loro caratteristiche ed il loro modo di vivere erano assai simili a quelli della celebre divinità cacciatrice (ma nello stesso tempo protettrice degli animali e della natura in genere). In apparenza questi due aspetti della divinità e della femminilità, -“grande madre” e “vergine guerriera”-, sembrano abbastanza in contrasto; ma si deve ricordare che Artemide è pure dea della Luna, identificata con Selene, l’argenteo astro notturno divinizzato, e talora anche con Persefone, la figlia di Demetra, e regina degli Inferi, mentre la “Grande Madre”, pur essendo genitrice e procreatrice di tutti gli esseri viventi, è “sempre vergine” (come la madre di Cristo nel cristianesimo), poichè vergine ed incontaminata deve essere la Natura, per poter mantenere la sua potenza creatrice; ed è una dominatrice del sesso maschile, -tanto che spesso i suoi sacerdoti avevano caratteri femminei, o addirittura si eviravano per sottolineare la loro dedizione alla dea e la loro rinuncia a una vita propria-.

Anche la regina Onfale, della quale  Eracle fu condannato ad essere schiavo per espiare la colpa di aver ucciso la prima moglie Megara e i figli da lei avuti in un accesso di follia, -e quindi per un crimine contro la donna, la maternità e la famiglia-, di cui abbiamo già parlato, è certamente da considerarsi un’ipostasi della Madre degli Dei.

La completa fusione di questi due aspetti (maternità della Terra e verginità della Natura) si ha nella figura di Artemide di Efeso, alla quale era dedicato il più grandioso tempio dell’antichità, -una delle “sette meraviglie del mondo”-, e che era rappresentata come un simulacro femminile inguainato, vagamente mummiforme, con molte mammelle nella parte superiore del tronco, e il viso nero: una rappresentazione che ha una indubbia somiglianza con quella della Madonna venerata nel santuario di Loreto.

Un'immagine di Artemide Efesia.
Un’immagine di Artemide Efesia.

Ma non è certo un caso che secondo la tradizione Maria, madre di Cristo, si sia trasferita ad Efeso e da lì sia stata assunta in cielo: evidente legame di sovrapposizione, ma anche di continuità tra la Madonna del cristianesimo e la Grande Madre degli antichi culti, entrambe espressioni dell’aspetto femminile e materno del divino. Inoltre secondo alcune fonti il santuario di Artemide ad Efeso, chiamato “Artemision”, fu fondato proprio dalle Amazzoni: ad esempio, il poeta Callimaco, vissuto tra il IV e il III sec. a. C., nel suo “Inno ad Artemide” (vv. 237-258) ricorda lo stretto legame tra il tempio e le donne guerriere: “A te innalzarono le Amazzoni, fautrici della guerra, sulla marina d’Efeso una statua sotto un tronco… Intorno a quella statua fu poi eretto un vasto santuario”.

Secondo lo storico e geografo Strabone (64 a. C. – 21 d. C.), il quale tratta di esse nel VI capitolo dell’XI libro della sua opera “Geografia”, le Amazzoni prima di iniziare una battaglia sonavano il sistro onde ingraziarsi gli dei, ed in particolare la Grande Madre. Questo strumento musicale idiofono che assomiglia a un sonaglio, in genere fatto d’argento o di bronzo (assai più di rado in oro), non ha assolutamente nulla di guerriero o marziale, era anzi uno strumento sacro in particolare alla dea Iside e veniva di solito usato nei riti celebrati in suo onore; nell’antico Egitto, oltre che ad Iside, era un attributo della dea Hathor: aveva dunque uno stretto legame con le dee che incarnavano la maternità.

Un sistro di bronzo.
Un sistro di bronzo.

Sul numero delle Amazzoni le notizie sono vaghe e imprecise: Diodoro Siculo, a proposito della guerra da esse combattuta contro gli Atlantidi, parla di 30.000 donne che costituivano la fanteria e di 20.000 a cavallo; a queste, che erano le combattenti, devono aggiungersi le bambine e le adolescenti, nonché le donne mature e anziane, -alle quali però lo scrittore non accenna-, che presumibilmente dovevano occuparsi dei lavori domestici e delle attività produttive.

Quindi doveva trattarsi di una popolazione, tenendo conto dei tempi e dei luoghi, piuttosto consistente.

Erodoto, come gli altri autori greci, non sembra affatto dubitare che le Amazzoni esistessero, o quanto meno fossero esistite; egli afferma (Storie, IV, 110-117) che in una non meglio precisata guerra contro i Greci (che si potrebbe peraltro identificare con quella contro Teseo, o con quella contro Eracle, il quale aveva rubato la cintura della loro regina Ippolita per compiere la sua nona fatica, guerre peraltro che riguardano il mito vero e proprio e di cui tratteremo in seguito) esse furono vinte da questi ultimi presso il fiume Termodonte, ossia nelle terra loro sede originaria, collocata nell’Anatolia settentrionale, nella regione del Ponto.

Cartina della regione anatolica del Ponto ove secondo la tradizione prevalente vissero nei tempi più antichi le Amazzoni. Si noti al centro sul Mar Nero la città di Temiscira, -la loro capitale-, posta accanto alla foce del fiume Termodonte.
Cartina della regione anatolica del Ponto ove secondo la tradizione prevalente vissero nei tempi più antichi le Amazzoni. Si noti al centro sul Mar Nero la città di Temiscira, -la loro capitale-, posta accanto alla foce del fiume Termodonte.

Un numeroso gruppo di Amazzoni fatte prigioniere riuscirono però a fuggire e si diressero nel paese dei Cremni, una tribù di Sciti, che abitava nei pressi della palude Mareotide (l’attuale Mar d’Azov) e vi si stabilirono. Qui ebbero contatti sempre più frequenti con i giovani del luogo che erano stati inviati a sorvegliarle, tanto che essi chiesero loro di sposarli. Ma le Amazzoni risposero che le famiglie dalle quali provenivano non avrebbero accettato il modo di vivere proprio della loro tribù, per cui se avessero davvero voluto unirsi a loro con un durevole connubio, avrebbero dovuto trasferirsi in un altro luogo. E così avvenne: le Amazzoni e i loro nuovi compagni attraversarono il fiume Tànai (il Don) e lì, tra il fiume e la catena del Caucaso, stabilirono la loro dimora. Da quella unione nacque la popolazione dei Sauròmati, presso la quale le donne continuavano a seguire i costumi delle loro ave, e quindi a praticare la caccia, ad andare in guerra e ad esercitarsi nei combattimenti. Per questo altri autori ellenici, in particolare Efòro, storico del IV secolo a. C., chiamarono i Sauròmati con il nome di Gynecokratumenoi, “dominati dalle donne”.

Questa popolazione è in genere identificata con quella che i Romani chiamarono Sàrmati, che a partire dal IV secolo a. C. occupò le steppe sul Mar Nero, nell’odierna Ucraina, dove prima erano stanziate tribù scitiche. Secondo altri invece i Sarmati deriverebbero dalla fusione tra i Sauròmati e altre tribù iraniche (1). Tuttavia il gruppo più numeroso rimase nell’area caucasica, dove avrebbe dato origine al popolo degli Osseti, tuttora esistente (e che comunque è strettamente imparentato con le tribù iraniche delle steppe).

Combattimento tra Teseo e un'Amazzone (ceramica greca del Iv sec. a. C.)
Combattimento tra Teseo e un’Amazzone (ceramica greca del Iv sec. a. C.)

Tornando alle Amazzoni, altri autori ci offrono interessanti notizie circa il modo con il quale queste donne guerriere, presso le quali non vi erano esemplari umani di sesso maschile, perpetuavano la propria stirpe. In particolare da Strabone (Geografia, XI, 6) apprendiamo che una volta all’anno, in primavera, durante un periodo di circa due mesi, si univano agli uomini di una popolazione con essa confinante, i Gargareni; costoro in parallelo con le Amazzoni, sarebbero stati una tribù costituita di soli uomini. Dei figli nati da quei connubi, che avvenivano nell’oscurità e in forma pressoché anonima, dopo lo svezzamento esse tenevano con sé le femmine, mentre i maschi li rimandavano ai padri. Questi ultimi accoglievano nella propria dimora un bambino ciascuno, e lo allevavano con affetto senza alcun riguardo alla presumibile paternità.

Su questo strano popolo non sono riuscito a trovare altre notizie più approfondite; da quel poco che viene riferito da geografi e storici antichi sembrerebbe che vivessero in una società tendenzialmente egualitaria e pacifica, che si contrapponeva, ma era in un certo modo complementare a quella aggressiva e guerriera delle Amazzoni, in una sorta di rovesciamento delle funzioni attribuite per tradizione in tutte le società che conosciamo dalla storia ai generi femminile e maschile. Secondo alcuni studiosi moderni, in specie russi, questa popolazione sarebbe da identificare, o comunque da ricollegare, con gli antenati dei Ceceni e degli Ingusci; in questo caso tuttavia si deve pensare che non si trattasse di una tribù costituita di soli uomini, ma, -come nel caso di altre popolazioni che abitavano quelle regioni-, un gruppo umano presso il quale le funzioni sociali erano, o potevano apparire invertite allo sguardo degli osservatori esterni, le cui informazioni dovevano essere piuttosto superficiali e approssimative.

Peraltro dobbiamo osservare che, secondo gli autori più antichi che ne parlano, le Amazzoni tenevano presso di sé anche i maschi, ma destinandoli alle attività domestiche e a quelle produttive, come l’agricoltura, e vietando loro nel modo più assoluto di dedicarsi alle attività considerate di solito prettamente maschili, come la caccia e la guerra, che nel loro popolo erano di esclusiva pertinenza delle donne; anzi per evitare che qualche maschietto, sentendosi attratto dalla lotta e dal combattimento, potesse trasgredire il divieto, avrebbero fratturato loro gli arti in tenera età così che ne derivasse una invalidità permanente tale da impedire loro di dedicarsi all’esercizio delle armi. Pur nel crudele trattamento riservato ai bambini maschi, questa versione appare però più realistica, poiché, pur accentuando ed enfatizzando la supremazia delle donne, prospetta un popolo in cui esistono pur sempre una componente femminile e una maschile, e non “monosessuato”.

E’ possibile che le notizie tramandate dagli storici sulle relazioni dei Gargareni con le Amazzoni e sui figli che ne nascevano adombrino una struttura familiare “aperta”, che agli occhi dei Greci e di altri popoli poteva essere interpretata come una sorta di divisione e di “scambio di ruolo” tra uomini e donne, e che doveva essere propria di alcune popolazioni dell’area anatolico-caucasico-pontica.

Questa ipotesi è rafforzata dal fatto che Erodoto e altri autori parlano di varie tribù stanziate in queste aree geografiche nelle quali le donne detenevano una posizione dominate ed esercitavano mansioni attribuite in genere agli uomini, mentre questi ultimi si trovavano in condizione subalterna. Talora erano presenti anche uomini con abitudini strane, più o meno effeminati, che erano investiti di funzioni profetiche e sacerdotali, e che si possono inquadrare nell’ambito di una religione di tipo sciamanico, ben diversa da quella olimpica.Mappa-Scizia-e-popoli-limitrofi

Il famoso scrittore greco di Alicarnasso nella sua opera, di grande interesse geografico ed etnografico, oltre che storico, descrive molte popolazioni, in gran parte nomadi o seminomadi che abitavano nel vasto territorio posto fra l’Istro (il Danubio) e l’Arasse (forse l’Ural, ma più probabilmente il Volga) (2).

La più importante e numerosa di tali popolazione era quella degli Sciti, che era suddivisa a sua volta in diverse tribù, che occupavano sia le steppe dell’Europa orientale, sia le aree semidesertiche dell’Asia centrale (3). Sebbene avessero in genere costumi feroci e sanguinari (caccia alle teste, scotennamento dei nemici, usanza di bere il sangue del primo nemico ucciso un battaglia, ecc.), sembra che nella loro società le donne occupassero una posizione relativamente importante e che avessero anch’esse abitudini guerresche.

Tra di essi godeva di indiscussa autorità una casta di indovini, i quali pur essendo di sesso maschile, mostravano spiccate caratteristiche femminili, chiamati da Erodoto “Enarei”, e da lui definiti “androgini” (Storie, IV, 67). Essi si servivano per divinare della corteccia del tiglio; lo storico afferma che da una corteccia di tiglio ricavavano tre strisce e traevano il responso facendole srotolare tra le dita: dunque un metodo di divinazione più intuitivo di quello impiegato da altre categorie di indovini che pure esistevano anch’essi tra gli Sciti, i quali si avvalevano di verghe o di bacchette, seguendo un procedimento comune tra molti popoli dell’Asia centrale e pure tra i Persiani.

A detta di Erodoto, la condizione di questi sacerdoti era dovuta a una punizione divina: secondo quanto egli riferisce nel libro I delle Storie (cap. 105) gli Sciti nel VII sec. a. C. avevano attraversato il Caucaso, si erano riversati nell’Armenia, nella Media, nella Siria ed erano giunti in Palestina, fino alle porte dell’Egitto, dove la loro impetuosa discesa fu fermata dall’intervento del faraone Psammetico I, il quale con doni e preghiere li dissuase dall’invadere le terre del Nilo.

Di questa invasione degli Sciti, avvenuta con ogni probabilità nel 633 a. C., si ha un eco anche nella Bibbia, dove il profeta Geremia (Ger.,4-6), vede in essa un castigo divino per Israele. In quella circostanza una parte di essi, -non tutti, sottolinea Erodoto-, osò saccheggiare il famoso e venerato santuario di Ascalona, -città fondata dai Filistei, ma in seguito ampiamente semitizzata-, che nell’interpretazione di Erodoto era consacrato ad Afrodite Urania. Ma in effetti la dea adorata in quel tempio era ATAR’ATAH,

Bronzetto raffigurante Atargatis.
Bronzetto raffigurante Atargatis.

chiamata anche in forma ellenizzata Atargatis o Derketo (quest’ultimo nome è attestato solo in autori greci e latini), principale dea del panteon aramaico, dove era la sposa del dio supremo Hadad, il cui culto si era diffuso in tutto il Vicino Oriente e che più tardi i Romani designarono con il nome di Dea Syria.

Più che una forma locale di Afrodite, questa dea si può considerare un’altra ipostasi della “Grande Dea Madre”, -anche se non sempre si può fare una distinzione netta tra i due tipi di energia cosmica che essi incarnano, la spinta al connubio e il principio della maternità-. Ella talvolta, -ma sempre nel santuario di Ascalona-,  era rappresentata come una figura femminile con la parte inferiore del corpo ittiomorfa; non però nel modo in cui saranno immaginate le “Sirene” nel Medio Evo europeo (ricordiamo che le autentiche Sirene antiche avevano aspetto ornitomorfo: in pratica erano grossi uccelli con la testa di donna): era raffigurata in posizione frontale, con corpo di pesce fino alle braccia e alle spalle, così da dare l’impressione di un essere mummiforme, sul tipo dell’Artemide di Efeso, poiché le scaglie di pesce assomigliavano alle placche metalliche che rivestono il corpo di quest’ultima, con la quale condivideva anche la disposizione delle braccia: distese lungo il corpo e lievemente divaricate, con le palme rivolte in avanti in segno di accoglienza e protezione, in modo che ricorda assai la posa delle statue della Madonna cristiana quando è raffigurata senza il bambino.

Presso il santuario di Ascalona si trovava un lago nel quale nuotavano pesci sacri alla dea. Si narra infatti, secondo una tradizione, -riportata da Diodoro Siculo (Biblioteca, II, 4, 2), il quale presenta una versione evemeristica del mito e attribuisce alla protagonista il nome di Derketo-, che ella ebbe una figlia dall’unione con un giovane chiamato Simios: quella bambina sarebbe stata Semiramide, la leggendaria regina di Babilonia (che di solito è identificata con Shammuramat, consorte del re assiro Shamshi-Hadad, che governò dall’824 all’810 a. C.). Il colpevole amore le sarebbe stato provocato da una maledizione di Afrodite per una colpa non meglio precisata.

La dea, -a dire il vero non ancora dea- per la vergogna di quell’amore illecito si annegò in un lago nei pressi di Ascalona (che sarebbe quello annesso al santuario), dopo aver affidato la pargoletta alle colombe che l’allevarono nel deserto. Una volta sommersa dalle acque sarebbe stata mutata in un pesce, al quale era però rimasta la testa umana. In altre versioni Derketo fu salvata dall’annegamento da Ichtys (= “Pesce”), un essere semidivino che viveva nelle acque del lago, e diventò in  seguito una dea. Sembra però che in un’altra variante più antica del mito, peraltro anch’essa tramandata in forma ellenizzata, ella si sia gettata nel lago con il proprio figlio, che aveva anch’esso il nome di Ichthys (4).

Per alcuni studiosi moderni tuttavia questo mito sarebbe una tarda elaborazione costruita a posteriori per giustificare l’aspetto ittiomorfo di Atargatis (che peraltro come abbiamo detto non è l’unico nell’iconografia della dea, anzi nell’area siriaca settentrionale e orientale prevale quello di figura femminile normale, spesso stante su una mucca, un toro o un asino); esso sarebbe dovuto all’influenza o alla sovrapposizione con Ashera del Mare, divinità cananea della fecondità, sempre del tipo “Grande Madre”, ma legata soprattutto alle acque, e che era considerata la sposa di El (al quale abbiamo accennato sia nell’articolo sugli Hyksos, sia in quello sul declino dell’Impero Romano, dove abbiamo precisato che tale figura divina fu denominata Zeus Hypsistos  -Dio Altissimo- in età ellenistico-romana).

Altri autori, ad esempio Pausania detto il “Periegete”, scrittore del II secolo (5), attribuiscono (Periegesi della Grecia, IV, 31, 8) ad Atargatis-Derketo un altro figlio, Efeso, che ella avrebbe avuto da Caistro, semidio fluviale (il Caistro è un fiume che scorre presso la città di Efeso, l’attuale Kuciuk Mènderes = “Piccolo Mènderes” -poiché esiste poco più a sud un altro fiume più grande che porta lo stesso nome-). Caistro a sua volta sarebbe stato figlio di Achille e di Pentesilea, regina delle Amazzoni, che erano intervenute nella guerra di Troia quali alleate di Priamo (6).

Questa versione del mito sposta quindi il teatro della vicenda in Lidia, proprio nel luogo ove sorgeva il grandioso tempio di Artemide, divinità che nella forma quivi adorata ha molti punti di contatto con Derketo-Atargatis, e in generale con le dee madri della fertilità che fin da tempi antichissimi ricevevano culto in vaste aree dell’Asia minore. Si aggiunga che diversi autori (Erodoto, Strabone, Pausania) attribuiscono la fondazione della città di Efeso alle Amazzoni.

Ed infatti nell’area dove, intorno al 560 a. C. fu costruito il santuario di Artemide (detto anche “Artemision”), gli scavi archeologici effettuati nel corso del XX secolo, in particolare quelli eseguiti da una missione archeologica austriaca nel 1965 e negli anni seguenti, hanno portato alla luce importanti reliquie risalenti alle epoche precedenti la fondazione del tempio, fino al XIV sec. a. C. Quel luogo già all’epoca dei primi insediamenti umani era stato considerato sacro e avvolto in un’aura misteriosa e per questo vi si erano eretti edifici dedicati alle divinità, nonostante la scarsa stabilità del terreno, in parte paludoso. Secondo quanto tramanda Diogene Laerzio (7) (Vite dei Filosofi, II, 103), l’architetto Teodoro, -famoso per aver già edificato il tempio di Era nell’isola di Samo-, al quale fu affidata la direzione dei lavori, per risolvere il problema e assicurare stabilità al tempio in costruzione ebbe l’idea di porre sotto le fondamenta uno strato di carbone e di cenere.

ricostruzione moderna del tempio di Artemide ad Efeso.
ricostruzione moderna del tempio di Artemide ad Efeso.

Sopra di esso si collocarono dei pesanti blocchi di scisto e di lastre di marmo e di pietra già utilizzate in precedenza, che sostenevano lo stilòbate in marmo, dal quale si innalzavano le numerose colonne colossali (almeno 100) costituenti la doppia peristasi che circondava la cella dove era custodita la venerata statua della dea. Le colonne avevano la particolarità di essere circondate nei rocchi soprastanti il basamento di un alto fregio figurato ad altorilievo con scene mitologiche, e per questo definite da Plinio il Vecchio (Nat. Historia, XXXVI, 95) “columnae caelatae”: questa caratteristica è stata attribuita all’influenza dell’architettura ittita e anatolica in genere. La costruzione del tempio, in stile ionico, che fu il più maestoso e imponente del mondo ellenico, avvenne per impulso di Creso, il re di Lidia divenuto celebre per le sue favolose ricchezze, che proprio in quegli anni aveva annesso Efeso, città ionica prima indipendente, o semi-indipendente, ai suoi domini. Al determinante contributo del re si deve la ricchissima decorazione del tempio; Creso avrebbe chiamato a proseguire l’opera di costruzione e di decorazione dell’Artemision pure un altro architetto, Chersifrone, con il quale, al dire di Vitruvio, il famoso trattatista di architettura romano di età augustea (De Architectura, praefatio), avrebbe collaborato il figlio Metàgene.

Stando a quanto afferma Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XXXIV, 53) nella seconda metà del V sec. a. C. fu indetto un concorso per la fusione di una statua di Amazzone ferita in bronzo, al quale parteciparono i più eccelsi scultori di quel periodo, vale a dire Fidia, Policleto, Crèsila e Fradmone. Il vincitore fu Policleto, ma le quattro opere create dagli artisti furono tutte collocate sul frontone del tempio. Gli originali, -come quasi tutti quelli della statuaria greca classica ed ellenistica-, sono scomparsi ma sono rimaste alcune copie in marmo che fanno bella mostra di sé nei musei archeologici (tra le quali quella dell’illustrazione sopra).

Il volto nero di Artemide di Efeso.
Il volto nero di Artemide di Efeso.

Com’è noto nel 356 a. C. il santuario fu distrutto da un rovinoso incendio appiccato da un certo Erostrato, il quale avrebbe compiuto tale misfatto solo con l’intento di passare alla storia per il suo gesto clamoroso. Secondo una tradizione attestata da Plutarco (Vita di Alessandro, 3) e da Cicerone (De Natura Deorum, II, 27,69) l’incendio sarebbe divampato nella stessa notte, -tra il 22 e il 23 luglio-, in cui nasceva Alessandro Magno: questo perchè la dea Artemide volendo assistere alla nascita del piccolo principe, distrasse il suo sguardo dal tempio.

Il tempio fu però ricostruito in forma pressoché identica a quella del precedente distrutto dall’incendio: per provvedere alla riedificazione del grande monumento furono chiamati gli architetti Chirocrate, Peonio e Demetrio, mentre la decorazione scultorea fu affidata ai due maggiori scultori del tempo: Prassitele e Scopa. Le dimensioni del tempio ricostruito dopo il terribile incendio, che è quello che conobbero i Romani, secondo quanto riporta Plinio nella sua “Storia Naturale” (il quale nei libri dedicati al regno minerale tratta anche dell’arte antica) – N. H.,XXXVI, 95- erano le seguenti:

lunghezza: 425 piedi (m 125,8);

larghezza: 225 piedi (m 66,6);

numero delle colonne: 127, delle quali 36 con il tamburo sopra il basamento istoriato con i rilievi di Scopa;

altezza delle colonne: 60 piedi (m 17,76).

In effetti tempio di Efeso doveva apparire davvero imponente e suscitare giustificata meraviglia per la sua grandiosità, ed è quindi ben comprensibile che fosse annoverato tra le sette meraviglie del mondo!

L'immagine della "Madonna Nera di Loreto": si noti la somiglianza con Artemide di Efeso.
L’immagine della “Madonna Nera di Loreto”: si noti la somiglianza con Artemide di Efeso.

L’immagine della celeberrima e veneratissima statua di Artemide, sebbene scomparsa da assai lungo tempo, ci è stata tramandata da diverse copie antiche di età romana che la mostrano stante con aspetto ieratico, le palme rivolte in avanti per benedire i fedeli e donare loro le sue grazie, con la strettissima veste, -quasi una sorta di sarcofago-, e il nimbo che le circonda il capo, -nero come le mani (che sono le uniche parti anatomiche visibili) e sormontato da una corona turrita (il “kalathos” o “polos”) che ne sottolinea la regalità universale- adorni di animali reali o fantastici, quali cavalli, leoni, grifoni, sfingi, nonché api su fiori.

La veste che avvolge la figura di Artemide, -il cui nome preciso è “ependytes”-, è suddivisa in placche rettangolari: quelli centrali sono decorate con cervi, leoni ,cavalli e grifoni; quelle laterali con sfingi, api e rosette. Sotto il collo porta un largo pettorale adorno di figure zodiacali, sotto il quale ricade una collana di ghiande, che alludono probabilmente al tronco di quercia nel quale il più antico simulacro della dea era scolpito. Sul nimbo che le circonda la testa appaiono otto leoni alati.

Si presume che questa effigie sia la terza attraverso il quale la dea fu venerata .nel santuario: la più antica dovrebbe essere stata uno “xoanon”, un rozzo simulacro di legno scolpito in un tronco d’albero con gli arti aderenti alla figura e appena distinti dal corpo cilindrico, risalente all’VIII secolo a. C.; questa fu poi sostituita da una statua opera dello scultore Endoios nel VI sec. a. C. e poi replicata da un ignoto scultore (che però potrebbe essere stato Prassitele) nel IV, dopo la ricostruzione del tempio.

Questa iconografia della dea Artemide ,-così lontana da quella più usuale e conosciuta della dea degli animali, della caccia e della natura incontaminata, rivestita di un corto chitonisco e armata di arco e frecce-, identifica la dea ellenica figlia di Zeus e di Latona, e sorella di Apollo, con la Grande Madre orientale, e la ricca decorazione della veste rimanda alla complessità di simboli interiori e cosmici che dovevano caratterizzare il culto di questa polivalente divinità.

Come tutti i grandi santuari dell’antichità, in specie quelli dell’Asia Minore, anche il tempio di Efeso era per eccellenza luogo di asilo dove trovavano riparo coloro che a torto o a ragione si trovassero ad affrontare persecuzioni e gravi pericoli, poiché sarebbe stato un imperdonabile sacrilegio violare la santità di quel luogo. Nondimeno durante la prima guerra mitridatica, condotta contro i Romani da Mitridate VI Eupàtore (132-63 a. C.), re del Ponto, che aveva l’ambizione di conquistare l’intera Anatolia, e possibilmente tutte le terre circostanti il bacino orientale del mare Mediterraneo, anche uno dei luoghi più sacri del mondo antico fu orribilmente sfregiato. Infatti il sovrano pontico, animato da un odio implacabile non solo per lo stato romano, ma per qualunque persona anche di lontana origine romana o italica, nell’88 a. C. aveva dato ordine alle sue truppe e ai suoi fedeli di sterminare tutti gli Italici presenti sul suolo anatolico: invano quegli infelici si riversarono nei templi, soprattutto quello efesino, sperando che la ferocia dei loro nemici si arrestasse davanti alla pietà per gli dei: essi furono barbaramente trucidanti davanti alle are e alle statue delle divinità, certamente inorridite da quello scempio! Come riferisce lo storico Appiano, vissuto nel II secolo, ma che si avvalse di fonti dell’epoca, (in “Guerre Mitridatiche”, 23), non furono risparmiati né donne né bambini con tale furore che i simulacri degli dei ai quali le vittime tendevano supplici le palme furono irrorati dal loro sangue!

Pur tra alterne vicende il santuario di Artemide ad Efeso continuò a godere di fama e venerazione nell’età romana; ma subì gravi devastazioni ad opera dei Goti che avevano invaso la Grecia nel 263 (si veda quanto abbiano detto nella trattazione sul declino dell’Impero Romano), che lo depredarono di molti dei suoi preziosi ex-voto e ne causarono una parziale rovina. Dopo il turbine dell’invasione gotica, il tempio fu restaurato, ma con il prevalere del cristianesimo la sua fama e potenza cominciarono a decadere. Dopo la messa al bando delle religioni cosiddette “pagane” ad opera di Teodosio nel 381, la sorte del tempio, come quella di tutti gli altri luoghi di culto che non fossero cristiani (ed “ortodossi”), fu segnata: esso divenne soltanto una cava di pietre e di marmo che servirono per edificare chiese ed altri edifici, in particolare la basilica che racchiuse il mausoleo sorto nel luogo della presunta sepoltura dell’apostolo S. Giovanni.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) dei Sarmati e dello stanziamento di alcuni gruppi di tale popolazione nell’Italia settentrionale durante il IV secolo abbiamo detto anche nell’articolo sul declino dell’Impero Romano.

2) questo Arasse non è da confondere con l’omonimo fiume dell’Armenia, l’odierno Araks, che sfocia nel Mar Caspio a sud del Caucaso.

3) nel gruppo orientale si annoverano Saci, Sogdiani e Massageti, popolazioni che furono in parte assoggettate dall’Impero Persiano. Un ramo della popolazione dei Saci (detti “Saka” in persiano e nelle lingue indiane) nel I secolo a. C. conquistarono una parte (nell’attuale Pakistan) del regno indo-greco di Battriana e vi fondarono un regno, il “Sakastan”, detto anche “regno indo-scita”.

4) questa storia ricorda quella di Ino, figlia di Cadmo e di Armonia, moglie di Atamante, che in un accesso di disperazione si gettò in mare da una rupe con in braccio il figlioletto Melicerte, e fu poi mutata in divinità marina con il nome di Leucotea (Bianca Dea).

5) detto “Periegete”, dal nome della sua opera principale “Periegesi della Grecia”, una sorta di guida turistica -ed infatti “periegesi” significa “esplorazione”- dove descrive le città, i monumenti, le bellezze e le curiosità della Grecia. Tale opera, in dieci libri, è ricca di notizie riguardanti la storia, le leggende e l’arte delle località più celebri e affascinanti del mondo ellenico.

6) nell’Iliade si accenna in alcuni passi (Iliade, III, 188-190; VI, 186) all’intervento delle Amazzoni, ma è soprattutto nei poemi che trattano degli eventi delle guerra di Troia successivi a quelli narrati da Omero, in particolare in “Posthomerica”, poema in 14 canti, opera di Quinto Smirneo (poeta vissuto tra il II e il III secolo), che le vicende relative alle Amazzoni e soprattutto alla loro regina Pentesilea vengono sviluppate, -come avremo modo di vedere in seguito-.

7) che abbiamo più volte citato, in particolare negli articoli sugli enigmi, misteri e paradossi.

 

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2 Risposte a “LE AMAZZONI, GUERRIERE DELLA LUNA: INVENZIONE O STORIA? (prima parte)”

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