LE AMAZZONI AD ATLANTIDE (terza parte) -Le isole Fortunate e le isole Canarie

LE ISOLE FORTUNATE

L’isola dove si estendeva il giardino delle Esperidi era anche accostata, quando non indentificata, con le cosiddette “Isole Fortunate” o “Isole dei Beati” (“Fortunatae Insulae in latino; “Makarioi Nesoi” o “Makarion Nesoi” in greco, che si pensava fossero poste oltre le “Colonne d’Ercole” -“Herakleies steles”- (1), e delle quali parlano diversi autori classici, Queste isole paradisiache furono anche considerate talvolta sede dei “Campi Elisi”, la felice dimora di coloro che avevano ben meritato nella loro vita terrena, e si trovano citate già nel poema “Le Opere e i Giorni” (vv.166-173) di Esiodo, ma si ritiene che siano state menzionate per la prima volta nei racconti dei navigatori fenici, che si erano spinti oltre le Colonne d’Ercole a avevano percorso l’Oceano al largo delle coste dell’Africa nord-occidentale.

Le "Colonne d'Ercole".
Le “Colonne d’Ercole”.

Pindaro nella seconda delle odi “Olimpiche”, dedicata a Terone di Agrigento, (vv. 61-76)  afferma che erano il luogo destinato a coloro i quali, avendo rivestito per tre volte spoglie umane senza essersi macchiati di colpa alcuna, si erano resi degni dell’eterna beatitudine, e cantava che lì risiedevano Peleo (padre di Achille), Cadmo (il fondatore di Tebe) e altri eroi.

Diodoro Siculo (Bibl. Hist., V, 19-20) parla di una sola “isola fortunata” che assicura fosse un possedimento cartaginese. Plutarco di Cheronea (46-125)  tratta diffusamente di queste isole nella sua “Vita di Sertorio”: egli riferisce che il condottiero Quinto Sertorio (126-73 a.C.), magistrato romano divenuto ribelle alla Repubblica Romana per mantenere fede ai suoi ideali democratici, che aveva organizzato uno stato ispirato alle istituzioni romane in Spagna, aveva avuto notizia da alcuni marinai di certe isole, distanti pochi giorni di navigazione dalle coste atlantiche spagnole, dove il clima era sempre mite, le piogge moderate così da rendere la terra rorida di una coltre di stille d’argento, né vi era necessità di lavoro perché la terra generosa recava essa stessa copia di frutti abbondanti ai suoi felici abitatori.

Fu così che Sertorio, dopo il fallimento delle sue ambizioni politiche, decise di recarsi in quelle isole fortunate per stabilirvisi ed ivi terminare la sua esistenza perigliosa. Plutarco prosegue poi asserendo che le isole sono due, separate da uno stretto braccio di mare, si trovano ad una distanza di circa 10000 stadi (circa 2100 km) dalla costa africana e che il clima mite è favorito dai venti: quelli che soffiano da nord e da est, a causa della distanza si indeboliscono prima di raggiungere le isole, mentre i venti provenienti dal sud e dall’ovest apportano brezze umide e piogge moderate e intermittenti che nutrono e fecondano il suolo.

Affresco del III se. raffigurante i "Campi Elisi" nell'"ipogeo degli Ottavi" a Roma.
Affresco del III se. raffigurante i “Campi Elisi” nell'”ipogeo degli Ottavi” a Roma.

Pertanto si è consolidata, anche fra i barbari, la ferma convinzione che qui si trovino i Campi Elisi, dimora dei beati, dei quali Omero aveva cantato.

Mentre per molti secoli la localizzazione delle Isole Fortunate rimase alquanto indeterminata, Plinio il Vecchio e poi Claudio Tolomeo identificano con certezza tali isole nell’arcipelago delle Canarie. In particolare Plinio il Vecchio ne parla e le descrive con una certa ampiezza nel VI libro della sua grandiosa “Naturalis Historia” (cap. 36), vero monumento del sapere antico. Nella sua descrizione della terra, il famoso erudito latino giunge a trattare di queste isole dopo aver parlato del mar Rosso: per comprendere il percorso descritto da Plinio, occorre avere presente le concezioni cosmologiche antiche: tutte le masse continentali erano riunite in un unico blocco disposto intorno al mar Mediterraneo e circondato dall’immenso anello dell’Oceano; l’Asia e l’Africa nell’idea degli antichi avevano un’estensione assai minore di quella effettiva, così che una volti giunti al mar Rosso e di lì all’Etiopia, si tornava con un percorso relativamente breve alla Libia e alla Mauritania.

Egli accenna prima ad una misteriosa isola chiamata Kerne posta di fronte all’Etiopia; poi, citando lo storico greco Polibio, afferma che tale isola sarebbe collocata presso le coste della Mauretania di fronte al monte Atlante e pertanto è forse da identificare con la città conquistata dalle Amazzoni della quale, come abbiamo visto, parla Diodoro Siculo.mondosecondoerodoto2 Plinio, -il quale nella sua trattazione relativa a questa parte del mondo (su cui, come egli stesso afferma, le notizie erano assai incerte e frammentarie) dichiara di rifarsi a Stazio Seboso, geografo romano del I secolo a. C., del quale non è rimasto nulla-,  accenna ancora ad un’altra isola di fronte all’Atlante chiamata Atlantide, senza peraltro dilungarsi su di essa, né citare Platone o altri autori che abbiano nelle loro opere narrato di questa terra misteriosa. Da quest’isola dopo una navigazione di 5 giorni si arriva alle isole Gòrgadi, che lo scrittore afferma fosse un tempo la sede delle Gorgoni, aggiunge altresì che quelle isole furono visitate da Annone, famoso navigatore che avrebbe compiuto il periplo dell’Africa nel VI secolo a. C., lasciandone una reazione, nota appunto con il nome di “Periplo” che vi incontrò delle strane donne ricoperte di pelo, chiamate poi in greco “Gorillai”, e che Plinio denomina invece “Gorgades”, come le isole, assicurando che Annone avrebbe portato a Cartagine le pelli di due di queste strane creature ponendole nel tempio di Giunone (ovvero la dea punica Tanit detta dai Romani “Iuno Caelestis”), ove sarebbero state visibili fino alla caduta della città. Sono forse da identificare con la tribù di donne guerriere delle quali aveva parlato Diodoro Siculo, descrivendo la loro guerra con le Amazzoni? Di certo la collocazione sia delle Gorgoni mitologiche, figlie di Forchi e di Cheto, sia delle donne guerriere rivali delle Amazzoni, sia delle “donne pelose” nelle isole dell’estremo occidente inducono a ritenere che tutte queste leggende abbiano un’origine comune, confermata dall’affinità, o identità, dei nomi con i quali sono state designate (Gor-gones, Gor-gades, Gor-illai).

Le località che si ritiene siano state toccate da Annone nel suo periplo.
Le località che si ritiene siano state toccate da Annone nel suo periplo.

Peraltro nel testo del “Periplo di Annone”, giunto a noi in una traduzione greca, si dice che gli esseri chiamati “Gorillai” non erano solo femmine, pur essendo queste ultime in  prevalenza, e che dimoravano in un’isola ricca di vegetazione in mezzo a una palude piena di ippopotami e coccodrilli, il che fa ritenere assai probabile la loro identificazione con le omonime scimmie antropomorfe, per le quali, quando furono “riscoperte” nell’800, fu riproposto il nome della tribù citata da Annone. In tal caso però è difficile che il luogo da essa abitato, in prossimità del Golfo di Guinea, coincida con quello in cui Diodoro Siculo colloca la Gorgoni.

Oltre le isole Gorgadi, spuntano dal mare le isole Esperidi (due secondo Plinio), che però non devono essere confuse con il giardino delle Esperidi -al quale aveva accennato nel libro III della Nat. Historia, dove tratta dell’Africa nord-occidentale-; qui “Esperidi” va inteso in modo generico come “isole del tramonto”, anche se è evidente che si possa ingenerare confusione con il giardino delle Esperidi, tanto più che esse sono dette prossime alle isole delle Gorgoni. Come abbiamo visto, anche Diodoro Siculo, seguendo la tradizione mitologica, ma dandole un’interpretazione evemeristica, pone le sedi di Esperidi, Gorgoni e Amazzoni vicine tra loro, ma sulla terraferma (benché su isole lacustri), al limite estremo del deserto libico, non certo in mezzo all’Atlantico. Peraltro queste diverse collocazioni di Esperidi e Gorgoni si potrebbero conciliare supponendo che tutte queste isole siano quanto rimane dell’antico contente di Atlantide, e quindi siano divenute isole terre un tempo continentali -ipotesi avanzata anche da molti studiosi moderni di Atlantide che reputano le isole atlantiche reliquie del continente inabissatosi in tempi remotissimi-.

Altre isole al largo della Mauretania furono scoperte dal re Giuba (2), il quale iniziò a produrvi la porpora, traendola dai molluschi del genere Murex per i quali già era famosa la Fenicia e Tiro in particolare; per tale ragione le isole furono chiamate isole Porporarie (o Porporine – e con questo nome ne abbiamo accennato nell’articolo sull’isola di  Mayda-); queste isole sono prospicienti la città marocchina di Essaouira, nota anche con l’antico nome berbero di “Mogador”. Infine, oltre le Purpurarie, si arriva alle isole Fortunate, e ad altre isole, di alcune delle quali Plinio fa il nome.

Ritratto in bronzo di Giuba II di Mauretania.
Ritratto in bronzo di Giuba II di Mauretania.

Le isole Fortunate in senso stretto elencate da Plinio sono: Ombrion, priva di costruzioni, dove si rinvengono alberi simili alla canna (forse la canna da zucchero), dai quali si estrae un liquido, amaro quello che esce dalle piante scure, gradevole a bersi se estratto da quelle chiare; Giunonia, ove si erge un tempietto in pietra; Capraia, abitata da molte grandi lucertole; di fronte a quest’ultima Ninguaria, che avrebbe preso il nome dalle nevi perenni; ed infine la più grande, Canaria, la quale avrebbe tratto il nome dall’ingente numero di cani selvatici di cospicue dimensioni che la abitavano e due dei quali furono portati a Giuba.

Secondo altri però il nome Canaria non deriverebbe dai cani, bensì dal “canis marinus”, ovvero la foca monaca (Monachus monachus) -della quale abbiamo parlato nel primo articolo apparso su questo sito-, che abitava in gran numero queste isole nell’antichità le isole Canarie, ma che ora è in esse del tutto estinta, così nella maggior parte delle terre che circondano il Mediterraneo, a causa della sconsiderata caccia e del disturbo arrecato dagli uomini a questo mite animale.

Altri ancora, -come l'”atlantologo” americano Joseph Frank (n. 1944)-, ipotizzano che il nome abbia a che fare con il culto di Anubi, il dio-sciacallo (o cane) egiziano, sebbene non sia chiaro attraverso quali vie tale culto possa essere giunto alle Canarie, salvo farlo derivare da una comune discendenza degli Egizi e dei Guanci (gli antichi abitatori delle isole, dei quali tratteremo più avanti) dagli Atlantidi. In effetti però sembra che i Guanci di alcune isole venerassero una deità infera dall’aspetto canino, che potrebbe essere in qualche modo accostata ad Anubi.

Un’altra etimologia del toponimo “Canarie” è stata proposta in anni recenti dallo storico e arabista Paul Lunde secondo il quale essa deriva da un’antica popolazione, i Kanuri, che sarebbe vissuta un tempo sulle coste antistanti le Canarie e che ora hanno dimora nella Nigeria nord-orientale.

Occorre peraltro precisare, -come abbiamo ricordato sopra-, che Plinio distingue tra isole delle Esperidi e giardini delle Esperidi (“horti Hesperidum”) dei quali afferma si trovassero nei pressi della città di Lixos posta sulle rive dell’Oceano nella Mauretania Tingitana (così detta dalla citta di Tingis, l’odierna Tàngeri).

Quanto alle isole Gòrgadi, esse sono state talora identificate nelle isole del Capo Verde, sebbene appaia difficile che anche in quei tempi potessero trovarvisi dei gorilla.

Altri autori antichi che parlano delle isole dei Beati sono. Pomponio Mela, geografo latino di origine ispanica che nel III libro della sua “Corographia” dà notizie analoghe a quelle riportate da Plinio, del quale fu probabilmente una delle fonti; Flavio Filostrato, -prima metà del III secolo-, autore della “Vita di Apollonio di Tiana”, filosofo e mistico del I secolo, il quale le pone agli estremi limiti della Libia (ma evidentemente egli assimila la Mauretania alla Libia) presso un promontorio disabitato alla foce del fiume Salex; e Luciano di Samosata (vissuto nel II secolo), che, nella sua opera fantastico-avventurosa “Storia vera”, seguendo l’antica tradizione, la considera (egli parla infatti di un’unica isola dei Beati) la sede dei defunti che furono giusti in vita e dove incontrano molti eroi, filosofi e poeti antichi, sui quali regna il saggio Radamanto.

Un esemplare di "Dracaena draco", il più tipico albero delle Canarie.
Un esemplare di “Dracaena draco”, il più tipico albero delle Canarie.

Qui lui e suoi i compagni vengono sottoposti a un processo per essere sbarcati indebitamente sull’isola, ma vengono “condannati” soltanto a rimanere sette mesi ad osservare la vita che si conduceva in quel luogo; il che offre lo spunto allo scrittore per descrivere le meraviglie di quell’isola paradisiaca. Si è comunque a conoscenza del fatto che i Romani talvolta visitarono le isole Canarie, come attestano i reperti rinvenuti nell’isola di Lanzarote.

Poi per molti secoli, pur rimanendo nelle opere di filosofi ed eruditi un vago e nebuloso ricordo delle “isole Fortunate”(3), non fu fatto alcun serio tentativo di raggiungerle e nemmeno di localizzarle e le isole Canarie furono riscoperte solo agli inizi del XIV secolo, allorché il navigatore genovese Lanzarotto Malocello approdò sull’isola che in seguito da lui prese il nome, -ovvero Lanzarote-.

E’ probabile però che le isole dell’Atlantico, come le Azzorre, Madeira e appunto le Canarie, fossero già state toccate da navigatori arabi. Il famoso geografo arabo, -o più esattamente berbero- Muhammad al-Idrisi (1099-1164 circa), vissuto a lungo a Palermo alla corte di Ruggero II d’Altavilla, nella sua opera principale, il “Kitab nuzhat al-Mushtaq”, -chiamato spesso “Libro di re Ruggero”-, scritta introno al 1150, riferisce cha alcuni “Mughàrrarin”, avventurieri andalusi partiti da Lisbona, si inoltrarono nell’oceano Atlantico e, dopo aver raggiunto un’area marina dall’aspetto paludoso, -probabilmente il Mar dei Sargassi-, si fermarono su un’isola disabitata da popolazione umana, ma in cui videro un’enorme quantità di pecore: proseguendo verso sud, approdarono a un’altra isola i cui abitanti avevano capelli lunghi e biondi, mentre le donne apparivano dotate di una bellezza rara. Tra gli isolani ne trovarono anche uno che sapeva l’arabo e potè così fungere da interprete.

Nel 1341 giunse una spedizione guidata da altri due navigatori, il fiorentino Angiolino de’ Corbizi e il ligure Nicoloso da Recco, al servizio di re Alfonso IV del Protogallo, i quali esplorarono tutto l’arcipelago. Da allora si susseguirono diverse spedizioni navali e le potenze marittime, in particolare quelle iberiche, cominciarono a rivendicare i possesso delle isole, tanto che nel 1344 papa Clemente VI designò “principe delle isole Fortunate” don Luis de la Cerda, cugino di Alfonso IV del Portogallo, senza peraltro che il regno di Castiglia rinunciasse alle sue pretese.

Diversi navigatori tentarono ugualmente di conquistare le isole, -che ormai più che “Fortunate” potevano dirsi sfortunate, specie i loro abitanti originari, i Guanci, che in seguito alla colonizzazione avrebbero subito un vero genocidio-. Tra di essi si distinse il nobile normanno Jean de Bethencourt, il quale, riunito un gruppo di avventurieri e religiosi, animati dallo scopo ufficiale di convertire i nativi, riuscì a conquistare le isole Canarie nel 1402. Pur non essendo riuscito a sottomettere tutta la popolazione ed avendo dovuto affrontare un’ammutinamento dei suoi marinai, il Bethencourt fu riconosciuto re della Canarie a titolo personale dal re di Castiglia Enrico III, dal quale aveva ricevuto un cospicuo aiuto. Da quel momento le isole si possono considerare acquisite al regno di Castiglia e poi alla Spagna, sebbene siano continuate per alcuni decenni dispute tra i due paesi, definitivamente risolte con il trattato di Alcacova del 1479, con il quale le Canarie entrarono a far parte a tutti gli effetti dei domini dei re castigliani.

Sebbene Plinio dica espressamente che in alcune delle isole Canarie esistevano degli edifici (a Giunonia afferma esservi un tempietto di pietra, che è lecito supporre fosse consacrato a qualche divinità identificata con la Giunone romana; a Canaria si potevano vedere ruderi di antiche costruzioni), non fa alcun cenno ad una popolazione umana, per cui sembra che al tempo dello scrittore le isole fossero disabitate, o almeno ritenute tali.

Dopo la “riscoperta” delle Canarie ad opera dei navigatori europei nel XIV e XV secolo, questi ultimi constatarono invece che erano abitate da una numerosa (tenendo conto della modesta estensione delle isole) popolazione umana, che, per quanto presentasse notevoli differenze etniche, linguistiche e pure fisiche da isola a isola fu designata con il nome collettivo di “Guanci” (“Guanchos” in spagnolo). Tale termine sembra derivato da una trasformazione di “Guanchinet”, che significa “uomo (=guan) di Tenerife (=Chinet -il nome in lingua aborigena di Tenerife)”: pertanto in senso stretto i Guanci sarebbero solo gli abitanti di Tenerife, ma fu poi esteso a tutti gli indigeni delle Canarie. Si ritiene che l’arrivo dei Guanci abbia condotto all’estinzione alcune specie di rettili e di mammiferi insulari, talvolta endemici dell’arcipelago, quali la “Galliota goliath”, una lucertola che poteva giungere a un metro di lunghezza (e che è probabilmente la specie alla quale appartenevano le grosse lucertole di cui parla Plinio), il “Canariomys bravoi”, il ratto gigante delle Canarie, e il “Canariomys Tamarani”.

Come abbiamo detto, i Guanci abitanti nelle diverse isole mostravano differenti caratteristiche: con carnagione scura od olivastra ed occhi castani quelli delle isole orientali; biondi, con carnagione chiara ed occhi azzurri quelli delle isole occidentali, i quali ultimi, come abbiamo detto sopra, furono già visitati da marinai arabi. Questo aspetto “nordico” colpì molto i primi conquistatori delle Canarie e ha indotto a pensare che la popolazione delle varie isole avesse origini diverse.

Statue di guerrieri guanchi nell'isola di Tenerife.
Statue di guerrieri guanchi nell’isola di Tenerife.

Si presume comunque che essi, o almeno la maggior parte, siano di stirpe berbera, considerata anche l’affinità degli idiomi da essi parlati con le lingue berbere.

Sono state tramandate alcune testimonianze della lingua (o meglio delle lingue) parlate dai Guanci, in particolare alcune espressioni e i nomi dei loro capi, che sopravvivono ancora in alcuni cognomi locali, dalle quali si evince che esse appartenevano alla famiglia delle longue berbere (e quindi al gruppo linguistico camito-semitico). Sono state ritrovate anche iscrizioni rupestri, riconosciute per la prima volta del governatore dell’isola di La Palma Domingo Vandewalle (1720-1776) nel 1752; in seguito il sacerdote don Aquilino Padran ne identificò altre nell’isola di El Hierro e nel 1878 l’antropologo Renè Verneau (1852-1938) ne scoprì molte altre sulle balze scoscese di Los Balos, che egli identificò come iscrizioni di tipo libico. Tutte queste iscrizioni sono scritte in idiomi di origine nord-africana, libica, numidica o mauretanica.. Nelle isole di Tenerife e di La Gomera invece non è stata rinvenuta alcuna iscrizione rupestre, dal che si è dedotto che i veri Guanci non conoscessero la scrittura. Un’ipotesi plausibile è che in tempi remoti si sia verificata una limitata immigrazione di Numidi provenienti dalle aree circostanti Cartagine frammisti a Punici, e che costoro siano gli autori delle iscrizioni e probabilmente degli edifici presenti nelle isole in epoche anteriori al primo secolo (quando scrisse Plinio).

Il più importante studio sugli antichi idiomi delle Canarie fu pubblicato nel 1965 da D. J. Wolfel, che raccolse in un poderoso volume dal titolo “Monumenta linguae Canariae” tutte le testimonianze fino ad allora esistenti su di essi, fondando la sua ricerca soprattutto sui legami tra la lingua delle canarie ed il berbero. Un altro studioso, il russo Alexander Militiarov, effettuò altre ricerche nelle quali evidenziava il rapporto tra idioma dei Guanci e dialetti tuaregh.

I Guanci indossavano vesti di pelle di capra tinti di giallo o di rosso, che sono stati ritrovati in tombe rinvenute nella Gran Canaria. Apprezzavano gli ornamenti e facevano uso soprattutto di collane di pietre, conchiglie e perle di ceramica i cui colori prevalenti erano il rosso e il nero. Usavano anche decorarsi con pitture corporee per la cui esecuzione si avvalevano di appositi stampi di terracotta.

Praticavano l’allevamento di capre, pecore e cinghiali ed una rudimentale agricoltura, coltivando frutta (soprattutto fichi), legumi e cereali, dai quali ricavavano farina che però consumavano sciolta nell’acqua, poiché non conoscevano il pane.  Ma il cibo tipico dei Guanci, che è rimasto tuttora in uso come una specialità locale è il “gofio”, che è una farina fatta con chicchi di orzo (o anche di altri cereali), colti ancora verdi e poi tostati, indi macinati. Questo alimento è diffuso, con vari nomi (“tazemmit”, “zummita”, “bsisa”, ecc.) in tutta l’Africa del nord, specie tra i Berberi e i Tuaregh.

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) le famose “Colonne d’Ercole” furono erette dall’eroe all’imboccatura dello stretto, poi detto “di Gibilterra”, allorché passò dall’Africa alla Spagna per compiere la sua decima fatica, ovvero la cattura delle mandrie dei buoi di Gerione. Quest’ultimo era un essere mostruoso dotato di tre corpi, che regnava sull’isola di Erizia (nome identico, come abbiamo visto, a quello di una delle Esperidi e che significa “rossastra”, quindi sempre legato all’idea del tramonto del Sole) ove custodiva le sue superbe mandrie con l’aiuto del cane bicipite Ortro, -al quale avevamo accennato nell’articolo sull’enigma della Sfinge-, figlio di Echidna e Tifone. Eracle pose le due colonne sui promontori rocciosi di Calpe nel sud della Spagna e di Abila sulla costa della Mauretania. Sembra che già i Fenici avessero attribuito l’impresa al lor dio Melqart (re della città), -dio principale protettore di Tito- che fu poi identificato con Eracle; peraltro si suppone che Melqart si possa essere evoluta la figura di Eracle in terra ellenica o comunque che possa esserne stata influenzata.

2) Giuba II, re della Mauretania dal 25 a. C. al 23 d. c., amico dei Romani e autore di varie opere letterarie.

3) ad esempio si può ricordare come Gaunilone di Marmoutier, filosofo dell’XI secolo, nella sua confutazione della cosiddetta “prova ontologica dell’esistenza di Dio” formulata da S. Anselmo d’Aosta, si serva proprio delle “isole Fortunate”: il concepire con la mente un’entità perfetta non significa che essa debba di necessità esistere nel mondo reale.

 

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