LE AMAZZONI AD ATLANTIDE (settima parte) – L’ombelico della terra-

Le grandi “Dee Madri” dell’Asia Minore, quali Mah -nome che significa anch’esso “Luna” -e che fu identificata dai Romani con la loro dea Bellona-, e Cibele, identificata con Rea, la sposa di Crono e madre di Zeus, esprimono sempre l’idea di supremazia del femminile sul maschile, e dunque attestano una antica forma di matriarcato dalla quale può aver avuto origine la leggenda delle Amazzoni la cui sede principale, come abbiamo detto, era collocata proprio nell’Asia Minore sulle coste del Ponto Eusino (l’attuale Mar Nero).

Ricordiamo che pure Eracle per espiare una grave colpa fu condannato ad essere schiavo di Onfale, regina di Lidia -regione anch’essa dell’Asia Minore antistante il Mare Egeo-, e relegato a compiere lavori domestici, come tessere e filare, mentre la regina indossava  la pelle del Leone Nemeo, della quale soleva ammantarsi l’eroe, e si esercitava brandendo la sua clava, così da irridere la tronfia fanfaronaggine maschile.

Onfale, -in alto tra due ancelle- ed Eracle ebbro -in basso- in un affresco pompeiano.
Onfale, -in alto tra due ancelle- ed Eracle ebbro -in basso- in un affresco pompeiano.

Dopo aver compiuto le sue famose dodici fatiche, Eracle seppe che Eurito, re di Ecalia, aveva promesso la mano di sua figlia Iole a colui che l’avesse sconfitto in una gara  di tiro con l’arco. Eracle si recò pertanto i quella città, partecipò all’agone e lo vinse, ma Eurito rifiutò di concedergli la fanciulla. Solo Ifito, il maggiore dei figli del re di Ecalia sosteneva che Iole avrebbe dovuto andare sposa all’eroe come era stato convenuto. Gli altri figli invece assecondavano il padre, il quale giustificava la sua mancata fede alla parola data con il timore che Eracle avrebbe potuto uccidere gli eventuali rampolli generati dal matrimonio in un eccesso di follìa, come già aveva fatto con quelli avuti dalla sua prima moglie Megara.

Non molto tempo dopo Autòlico, famigerato lestofante che infestava le contrade della regione, rubò alcune mandrie dai pascoli dell’Eubea; Eurito, -che, a quanto pare ce l’aveva proprio con Eracle- attribuì all’eroe la responsabilità del misfatto. Ma Ifito non credette all’accusa fatta dal padre e anche questa volta si schierò dalla parte di Eracle, aiutandolo a cercare le mandrie sottratte da Autolico. Eracle offrì anche ospitalità al giovane; ma poi, colto da un nuovo attacco di follìa omicida, lo buttò giù dall’alto delle mura di Tirinto.

Per essere purificato da quell’orribile delitto, Eracle si recò presso Neleo, signore di Pilo, ma questi, essendo amico di Eurito, ricusò di compiere il rito di espiazione. A causa della collera divina, Eracle era afflitto da una grave malattia che gli causava terribili dolori, per essere guarito dalla quale andò a Delfi onde consultare l’oracolo. La Pizia però non volle dare un responso al suo quesito, cosicché l’eroe, ancora una volta preso da una furia incontrollabile, si mise a depredare il tempio, e si portò via anche il famoso trìpode sopra il quale la Pizia preferiva i suoi oracoli. In difesa della Pizia giunse lo stesso Apollo con cui Eracle cominciò un’aspra lotta, che durò fino a che non intervenne Zeus, il quale separò i contendenti scagliando un fulmine in mezzo ad essi.

Eracle ricevette allora il responso: sarebbe guarito dalla malattia che lo tormentava (ma che evidentemente, pur facendolo soffrire, non gli indeboliva le forze) solo se avesse accettato di essere schiavo per tre anni, dopo aver corrisposto il prezzo della sua vendita ad Eurito, come risarcimento per l’assassinio del figlio. In ossequio al responso, Hermes mise in vendita Eracle che fu comprato dalla regina Onfale, figlia di Iàrdano e vedova di Tmolo,.

Questo periodo di schiavitù non fu peraltro molto duro per l’eroe, il quale alla corte della regina di Lidia acquisì abitudini di vita assai diverse da quelle rudi e faticose alle quali era avvezzo, indulgendo ai lussi orientali che secondo la comune opinione erano abituali presso i Lidi, i quali avevano fama presso i Greci di essere snervati ed effeminati. Tuttavia durante la sua permanenza in Lidia Eracle non si limitò a filare e a compiere lavori domestici per Onfale, dividendo con lei le delizie della vita di corte. Infatti ebbe modo di compiere imprese del genere che gli era abituale: catturò i Cercopi, due fratelli briganti che molestavano i viandanti; uccise Sileo, che obbligava tutti i forestieri a zappare nella sua vigna; diede sepoltura al corpo di Icaro, che le onde avevano lasciato sul lido dell’isola Doliche, poi chiamata Icaria, ecc.

Il nome di questa astuta regina è oltremodo significativo e illuminante del fatto che anch’essa sia da considerare un’incarnazione, sebbene spogliata dai suoi attributi divini e ridotta a sovrana terrena, della Grande Madre: Infatti Onfale è la forma femminile di “omphalos” =”ombelico” (e pertanto si potrebbe tradurre “Ombelica”), alludendo con tale termine all'”Ombelico del Mondo” o “della Terra”: esso era un punto, di solito contrassegnato da una pietra di forma particolare, supposto come il centro, e quindi l'”ombelico” della Terra -della superficie terrestre-. In effetti vi erano diversi punti ai quali veniva attribuito tale titolo, ma il più celebre era quello che si trovava a Delfi, dove aveva sede l’oracolo di Apollo.

Questa località sarebbe stata scelta da Zeus stesso, il quale fece volare due aquile (o due cigni) intorno alla terra in direzione opposta: il punto in cui esse si incontrarono era dunque l'”omphalos”, l’ombelico, il centro del mondo e qui il sommo nume lasciò cadere una grossa pietra che rendesse a tutti noto il carattere sacro di quel luogo. A detta di alcuni questa pietra sarebbe stata quella che Rhea offrì avvolta in fasce a Chronos perché la divorasse, -come aveva fatto con gli altri suoi cinque figli-. al posto del suo utlimogenito Zeus -e che il marito inghiottì in un solo boccone senza avvedersi dell’inganno-. Divenuto adulto Zeus con una pozione magica riuscì a far rigurgitare i fratelli e le sorelle al suo vorace padre, e con essi Chronos  vomitò anche la pietra che aveva inghiottito al posto del figlioletto. Questa pietra fu poi conservata da Zeus e da lui collocata a Delfi (si veda Esiodo, Teogonia,  v.495 e seguenti);  ad essa fu dato il nome, di origine sicuramente fenicia, di “Abadir”; il nome che le fu attribuito induce a credere che la venerazione per questa pietra si riconnetta al culto delle pietre sacre largamente praticato dalle popolazioni semitiche, poiché esse le ritenevano sede della divinità e le denominavano pertanto “betili” (“bet-El”= casa di Dio, o del dio), tanto più che “Abadir”, -che significa “Padre Potente”-, sembra fosse anche il nome, o l’appellativo, di una divinità fenicia, presumibilmente Baal, che fu infatti identificato  con Chronos. Tuttavia secondo le antiche testimonianze la pietra che fu offerta alla voracità di Chronos al posto del futuro re degli dei, sebbene collocata anch’essa a Delfi non è la stessa che segna l’ombelico della Terra ( e che si trova nei penetrali del tempio di Apollo, ove profetizzava la Pizia).

Veduta del sito archeologico di Delfi. ove si nota l'"Abadir", la pietra offerta avvolta in fasce da Rea a Chronos facendogli credere che fosse il suo ultimo nato
Veduta del sito archeologico di Delfi. ove si nota l'”Abadir”, la pietra offerta avvolta in fasce da Rea a Chronos facendogli credere che fosse il suo ultimo nato

Lo scrittore greco di origine asiatica Pausania (110-180 circa)  nella sua “Periegesi della Grecia” (una sorta di guida turistica che illustra i luoghi più celebri, i monumenti e le bellezze naturali e artistiche dell’Ellade) (Per. X, “4, 6) afferma che uscendo dal tempio sulla sinistra si trova un recinto ove si erge la tomba di Neottolemo (1). Un po’ al di sotto di questo sepolcro sta una pietra non molto grande sulla quale quotidianamente viene versato dell’olio profumato  e nei dì di festa la si riveste di panni di lana grezza non lavata. La tradizione sostiene che tale pietra sarebbe quella data a Chronos al posto del piccolo Zeus e che fu poi vomitata.

Nell’età classica l’oracolo si trovava in una caverna (“àdyton”), situata sotto il tempio di Apollo. Nell'”adyton”, che era la parte più interna e inaccessibile del santuario, si trovava la sacra pietra, di forma conico-ovoidale, fasciata da una specie di rete a maglia, l'”agrenòn”,  sotto la quale era sepolto il serpente Pitone, figlio di Gaia e custode del santuario della madre, che era stato ucciso da Apollo, -come vedremo meglio in seguito-.

L'"Omphalos" di Delfi.
L'”Omphalos” di Delfi.

Si tenga presente però che tale oracolo nelle età più antiche non era del dio apportatore di luminosità, sia in senso fisico sia in senso spirituale, per eccellenza, ma di una divinità ctonia, -cioè della terra-., anzi si ritiene della stessa Gaia, la dea cosmica primigenia della Terra; in seguito l’oracolo fu assunto da Temi, dea della giustizia; infine divenne la voce per eccellenza del dio Apollo, e guida spirituale del mondo ellenico.

Secondo la versione accreditata da Eschilo nelle “Eumenidi”, le origini dell’oracolo di Delfi risalirebbero addirittura all’epoca nella quale le genrazioni divine emergevano dal caos primordiale: la prima divinità a possedere il suolo delfico fu Gaia, la Terra; essa lo cedette poi a sua figlia Themis, la quale a sua volta alla titanide Febe. Quest’ultima infine lo diede in dono ad Apollo appena nato, da lei Apollo acquisì l’epiteto di “Febo”.

Apollo insediò a Delfi il proprio santuario dopo aver combattuto contro un rettile mostruoso posto a guardia del luogo e averlo sconfitto, Di questa vicenda esistono diverse varianti Nella più antica di esse, attestata nell'”Inno omerico ad Apollo”, l’essere custode del tempio era un drago di sesso femminile, chiamato Delphyne, nome evidentemente legato a quello di Delfi, contro di lei Apollo scocca una freccia e la uccide, indi fonda in quell’area il suo oracolo. Delphyne era anche stata la nutrice di Tifaone, il figlio che Hera aveva generato senza concorso maschile quale risposta alla procreazione di Atena ad opera del solo Zeus il quale com’è noto la partorì dal cervello (2). Il nome Delphyne è attribuito pure al mostro fratello di Tifone (o Tifeo), -e quindi figlia di Gaia e di Tartaro-, al quale quest’ultimo affidò i tendini che aveva reciso a Zeus durante la sua epica lotta per scalzare gli dei dal dominio del mondo, e che furono recuperati da Hermes e da Pan. Nella “Biblioteca di Apollodoro” questo essere è definito “semibestia”, così che si può pensare che avesse l’aspetto per metà di donna e per metà di serpente, e osse quindi simile ad Echidna (a sua volta consorte di Tifone, dal quale aveva generato un nugolo di mostri). E’ possibile che questi esseri mostruosi siano da identificare, anche perché entrambi appaiono strettamente legati a Gaia, la Terra, la quale è sì madre, ma pure generatrice di entità che incarnano impulsi primordiali e violenti. Da Delphyne sarebbe derivato il nome di Delfi (Delphis) che significa appunto il “grembo”, il “ventre”, intendendo le viscere della terra.

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Le vestigia della famosa “tholos” di Marmarià a Delfi.

Nelle altre versioni il drago o serpente è sempre di sesso maschile e porta il nome di Pitone. Egli sarebbe stato a guardia di un oracolo già esistente sacro a Gaia o a Themis; Apollo uccise il drago e dopo una doverosa purificazione si sostituì alla divinità precedente quale ispiratore dell’oracolo. In un’altra versione Pitone era stato mandato da Hera gelosa a perseguitare Latona quand’ella doveva sgravarsi di Apollo e Artemide; la dea si salvò fuggendo sull’isola di Ortigia (chi significa “isola delle quaglie”), un’isola errante, che fu la sola parte della terra che le offrì ospitalità, -poiché tutte le altre per timore della colera di Hera gliela avevano negata-, ove diede alla luce i pargoletti dei. Da allora l’isola cambiò nome  fu chiamata Delo (termine connesso col verbo “deloo, ein”=illuminare), ovvero isola della luce, poiché alla nascita di Apollo fu inondata da uno sfolgorante chiarore. Divenuto adulto, Apollo volle punire il serpente per aver tormentato sua madre  (sebbene in realtà la responsabile del fatto fosse Hera, contro la quale a buon diritto avrebbe dovuto volgersi il suo risentimento) e pertanto lo annientò.

Secondo la tradizione, questo serpente aveva dimensioni davvero enormi: il poeta Callimaco, -nel suo “Inno ad Apollo”-, afferma che egli poteva cingere il monte Parnaso per nove volte nelle sue spire e che il suo cadavere dopo la lotta con Apollo copriva ben cento acri di terreno.

In una terza versione è la stessa Latona che si reca con suoi figlioletti appena nati a Delfi, dove viene assalita da Pitone; ma il piccolo Apollo, pur stando ancora in braccio alla madre, è assai lesto a scoccare uno dei suoi strali contro il mostro. Infine in un’ultima variante della storia la figura del serpente Pitone viene ridotta, con una elaborazione razionalistica, a quella di un brigante che infestava il territorio di Delfi e che il dio, su richiesta degli abitanti, sconfigge. Dal nome di Pitone (“Python”), Apollo prese l’attributo di “Pizio” (“Pythios”) e la sua sacerdotessa quello di PIzia. Poiché Pitone era figlio di Gaia, la Terra, Apollo dovette subire un castigo per averlo ucciso: per sette (o otto anni) fu costretto a fare il pastore alla dipendenze di Admeto, re di Fere in Tessalia,, dopo di che ricevette la purificazione rituale nel santuario di Tempe in Tessalia; infine per onorare la memoria del serpente istituì i Giochi Pitici.

Si presume che il nome “Pitone” (Python in greco) derivi dal verbo “pithoo” =emanare miasmi; tale etimologia, presente anche nell'”Inno omerico ad Apollo Pizio”, si spiega con il fatto che presso l'”adyton” esisteva una profonda fenditura della terra dalla quale fuoriuscivano vapori mefitici aventi l’effetto di indurre uno stato estatico nella Pizia che li aspirava ed in tale stato proferiva i responsi ai quesiti che le venivano posti, Sembrerebbe dunque che nei tempi antichi Delfi fosse sede di fenomeni di vulcanismo minore (emissioni di gas sotterranei, solfatare, mofete, sorgenti termali, ecc.), come quelli ad esempio che in Italia sono presenti nell’isola di Ischia e nei Campi Flegrei, -dove non a caso era collocato l’ingresso agli Inferi-. Ma nell’epoca attuale nella Focide, -la regione della Grecia dove sorge Delfi-, non se ne rinvengono affatto, dal che si deve dedurre che essi siano del tutto scomparsi.

In effetti il nome più antico di Delfi era “Pito”, ed è con questo nome che il santuario viene chiamato nei poemi di Omero. L'”Inno omerico ad Apollo” ci narra che Apollo, una volta accolto nel consesso degli dei sull’Olimpo, ne discese onde trovare un luogo che fosse su dimora terrena dove erigere un santuario; dapprima si diresse dalla fonte Delfusa (o Telfusa), ma l’incauta sorgente lo persuase a recarsi alle pendici del Parnaso ove sgorgava un’altra sorgente, la fonte Castalia. A questa fonte però faceva la guardia Delphyne, che, come abbiamo detto sopra, era anche la balia di Tifaone, il figlio generato per partenogenesi da Era: dopo che fu uccisa dal potente strale di Apollo, quel luogo assunse il nome di Pito, e il dio della luce di Pizio perché ivi, “la forza del Sole ardente fece imputridire il corpo del mostro”.

Dopo aver fondato il santuario, Apollo dovette trovare dei sacerdoti alle cui cure affidarlo e che celebrassero i riti in suo onore. Non si sa bene per quale ragione, ma il dio si rivolse ad alcuni mercanti cretesi e dopo essersi trasformato in un enorme delfino, trascinò la loro nave fino al porto di Crisa, in prossimità del santuario. Assunto allora l’aspetto di un bel giovane, spiegò loro il grandissimo privilegio che aveva riservato loro e poi li condusse al santuario. Decretò quindi che quel luogo da allora in poi si sarebbe chiamato Delfi, in memoria del delfino sotto le cui spoglie era apparso ai suoi devoti.

Cartina che segnala la posizione di Delfi proprio al centro della Grecia.
Cartina che segnala la posizione di Delfi proprio al centro della Grecia.

Diodoro Siculo, dando un’interpretazione storica e non mitica della fondazione dell’oracolo,  narra (Bibl., XVI. 26, 1-4) che un pastore di nome Kureta si accorse che una delle sue capre era caduta in una cavità rocciosa alle pendici del monte Parnaso ed essa belava in modo pietoso mentre era percorsa da intensi fremiti. Il pastore entrò nella caverna per trarre in salvo la capretta e si sentì pervadere da una misteriosa entità divina; in quel momento cominciò anche ad avere visioni profetiche del passato e del futuro. La notizia dell’esistenza di questo antro abitato da numinose presenze, che conferivano virtù profetiche si diffuse presto e in seguito sopra e accanto ad esso fu edificato un tempio ove si pronunciano oracoli. Kureta aveva infatti avvertito della scoperta i suoi concittadini, dei quali molti si recarono nell’antro per sperimentarne le straordinarie virtù; ma un giorno uno di essi morì, segno evidente che gli dei non volevano che dei loro dono si facesse un uso superficiale e profano. Da allora l’accesso alla caverna fu consentito solo alle fanciulle vergini, e poi ad una sola di esse, che divenne appunto la Pizia.

Secondo altre fonti però (si veda in particolare la “Periegesi della Grecia” di Pausania, X. 5, 7) la prima delle Pizie sarebbe stata una figlia del dio Apollo, Femonoe (nome che dovrebbe significare “con la mente rivolta ai presagi”), da lui stesso investita del compito di interpretare la sua volontà. A lei è attribuita la famosa massima “Conosci te stesso” (“Gnothi seautòn”), poi fatta propria dall’insegnamento di Socrate, e inscritta, insieme ad altri precetti elargiti dalla saggezza dei “Sette Sapienti”, sulle pareti del pronao del tempio di Apollo.

Accadde però che una Pizia fosse rapita da un certo Echecrate, proveniente dalla Tessalia, accesosi di insana passione, e in seguito a tale increscioso episodio fu stabilito che l’età della sacerdotessa dovesse essere superiore ai 50 anni. Data la grande affluenza di consultanti e l’aumento dei quesiti, il numero delle Pizie aumentò a due, più una che fungeva da supplente in caso di indisposizione di una delle titolari, per tornare poi a una al tempo di Plutarco (50-125 circa), -il quale fu sacerdote a Delfi dal 95 alla morte-. Da non confondere con la Pizia è la Sibilla Delfica, che giunse a Delfi dalla Troade prima della guerra di Troia.

Un altro importante elemento che caratterizza la località di Delfi e contribuisce ad aumentare la sua sacralità sono le tre sorgenti che sgorgano nei pressi dell’antro, chiamate rispettivamente Castalia. Cassotide e Delfusa. Di esse la più importante era la fonte Castalia, ad est dal santuario. che avrebbe tatto il nome da una fanciulla che per sfuggire alle brame di Apollo vi si sarebbe gettata. Coloro che si recavano a consultare l’oracolo erano tenuti a compiere in essa un’abluzione rituale. Anche la Pizia, prima di essere pervasa dallo spirito divino,  si immergeva nella sacra fonte Castalia; indi ardeva su un’ara farina di orzo e foglie di lauro e poi scendeva nell'”adyton” seguita dai fedeli accompagnati dai sacerdoti. Mente questi ultimi attendevano in una sala attigua, ella, dopo aver bevuto un sorso d’acqua della fonte Cassotide, si assideva sopra un tripode, -che era il simbolo del suo ufficio-, dove, masticando una foglia di lauro e tenendo in mano una fronda parimenti di lauro, aspirava i vapori che esalavano dalla fenditura; dopo di che cadeva in estesi, iniziando a proferire i suoi responsi. Poiché essi erano di solito non molto comprensibili, alla loro interpretazione erano demandati degli esegeti ufficialmente autorizzati -chiamati “prophetai”-, i quali avevano anche il compito di mettere per iscritto gli oracoli, dando un ordine logico e una forma poetica in versi esametri.

Tuttavia sappiamo che oltre alla divinazione in stato di “trance” a Delfi si praticavano anche altre forme mantiche, in particolare la cleromanzia, ovvero la divinazione per mezzo di tessere o bacchette che recavano scritte delle risposte di tipo generale che poi venivano adatte e interpretate secondo il quesito posto dal consultante, e la lecanomanzia che si effettuava con un bacile (“lekane”) d’acqua nel quale venivano gettate foglie di lauro. Il responso veniva dato dal disegno che le foglie componevano, opportunamente interpretato (in pratica qualcosa di simile alla lettura dei fondi di caffè o del tè).

La sorgente Cassotide, che prendeva il nome da una delle ninfe del Parnaso, sgorgava poco oltre la pietra che segnava l’ombelico del mondo; era circondata da un muretto nel quale si apriva un  varco che conduceva per una breve discesa alla fontana stessa. Si diceva che l’acqua di questa fonte entrasse nella terra e si dirigesse verso il più segreto recesso del tempio ove essa, come abbiamo detto sopra, contribuiva ad infondere l’ispirazione profetica alla Pizia.

Sembra che nelle età più antiche le consultazioni potessero essere aver luogo soltanto una volta all’anno e precisamente il 7 del mese di “bisio” (tra febbraio e marzo) -corrispondente nel calendario delfico al mese di antesterione del calendario attico- , poi ebbero scadenza mensile, ma per nove mesi all’anno: erano cioè esclusi i mesi invernali, nei quali Apollo si ritirava nelle terre iperboree per fare ritorno a primavera. Si presume però che queste date fossero stabilite solo per i consulti che riguardavano gli stati o altri enti pubblici o collettivi, mentre per i privati cittadini fossero aperte con assai maggior frequenza. Inoltre coloro che si rivolgevano all’oracolo di Delfi (come in genere a tutti gli oracoli antichi) non chiedevano una previsione del futuro, ma volevano sapere soprattutto se gli dei davano il loro assenso ad una impresa o azione che essi avevano intenzione di compiere, o per essere illuminati su una decisione da prendere.

Oltre alla Pizia, nel tempio di Apollo vi erano due sacerdoti, nominati a vita, 5 “hosioi” (“santi”), dei quali non sono ben chiare le attribuzioni, ma che sembra dovessero introdurre gli stranieri, che adempivano anch’essi alla loro funzione a vita, presieduti da un “anziano” (“presbys ton hosion”); dei “prophetai” o “exeghetai”, i quali, come abbiano detto, dovevano interpretare i responsi e renderli comprensibili ai consultanti: e altri addetti con incarichi materiali o di minore importanza.

In sintesi possiamo così riassumere la lunga storia dell’oracolo di Delfi:

Delfi è uno di quei luoghi  che sembrano ispirare il senso del sacro e fare sentire alle povere menti umane la presenza del divino. In origine quello che sarà il celebrato oracolo, uno dei più autorevoli, se non il più autorevole in senso assoluto dell’antichità, era costituito da pochi elementi: una fessura nella roccia, entro la quale si udiva un gorgoglìo di acque, poi ottenuto artificialmente in epoca posteriore con un ruscello; da un albero di lauro, che offriva la sua fresca ombra alla voragine; da tre fonti, legate al culto delle ninfe (Castalia, Cassotide, Delfusa). La rustica asperità del luogo completava e coloriva come imponente scenario il quadro di un sito nel quale la natura aveva infuso e offerto agli uomini l’idea del divino.

Nel suo più antico stadio, Delfi appare come oracolo di Gaia, la Terra, della quale la voragine è la bocca e l’antichissimo betilo l’ombelico; da quella bocca escono insieme responsi e fantasmi, ispirazioni reali e fantasie inconsistenti. Tre ninfe, la “Thriai”,-aventi significative analogie con le Moire, le dee del destino,- che nella tradizione insegneranno poi ad Apollo l’arte divinatoria fondata sul suono dei ciottoli rotolanti, impersonano le tre fonti dalle virtù divinatorie. Di esse viene detto nell'”Inno omerico ad Hermes” che “vanno liete con rapide penne: tre sono/ ed hanno tutto il corpo cosparso di bianca farina./… Chi qua chi là… poi sciamano a volo;/cibano favi e tutti si compiono i loro presagi/…pasciute dal pallido miele/ volonterose danno responsi veridici”. Da questa descrizione sembra quindi che fossero una sorta di ninfe-api le quali, nutrite dal miele apollineo della conoscenza, dispensano poi le loro profetiche virtù. Alle Ninfe-fonti-api e alla dea della Terra si lega il culto del serpente-anima, incarnato da Pitone, che incarna pure le forze generative terrestri.

Un secondo stadio è rappersentato da una incerta ed oscura signoria di Poseidone. Questi che nella teologia classica fu poi considerato un dio delle acque, aveva in origine delle valenze ctonie, o addirittura infere. Così l’appellativo di “Delphinios”, comune a Poseidone e ad Apollo, è probabile preceda l’uno e l’altro e attesti un culto praticato sulle coste della Focide, di cui i due nomi divini on sono che i casuali e contingenti predicati. Con l’avvento di Poseidone si aggiunge la pietra ovoide imbandita da Rea a Chronos e da questi vomitata: questo è il primo elemento “olimpico” che appare nella religione di Delfi. E la leggenda narra che Poseidone, pur avendo mantenuto un’ara e un culto si sia ritirato al Capo Tènaro, lasciando la signoria di Delfi ad Apollo.

Ma a Delfi si venerava anche la tomba di Dioniso e si celebravano feste novennali e triennali in suo onore. E’ difficile dire come Dioniso si sia introdotto nell’ambiente delfico; si può pensare a infiltrazioni di origine tracia (la Tracia è la terra da cui proviene questa figura divina), così come la presenza delle ninfe poetiche del monte Elicona, luogo di nascita del dio. E di certo hanno influito anche i culti di Demetra (che si può considerare dopo Gaia e Rea, l’ultima ipostasi della Terra-Madre) dell’Ellade provenienti da Titorea e da Eleusi.

Infine l’avvento di Apollo addita e un incontro e un accordo tra un culto apollineo cretese-ionico stabilitosi a Crisa, -città sulla costa- e un culto apollineo proprio delle popolazioni doriche scese dall’interno verso il mare. L’elemento minoico creò la leggenda di Apollo-delfino che guida la nave verso Delfi; l’elemento continentale ideò un Apollo che discende dall’Olimpo e viene indotto da una ninfa a fermarsi nel sacro luogo. La teologia poi ravvivò con smaglianti colori la nuova situazione nella quale si esprimeva la sacralità di Delfi: Apollo, divino arciere, dopo breve lotta uccide l’animale, femmina o maschio, figlio di Gaia, e custode del suo santuario, supera i tentativi di resistenza messi in opera dalle divinità ctonie, ma deve sottostare alla pena comminata agli assassini ; e la pompa novennale che da Tempe in Tessalia moveva verso Delfi commemorava appunto con accenti tragici e patetici la purificazione di Apollo in seguito alla “pitoctonia”. Apollo diviene così il dio di Delfi, ma deve armonizzare attorno a sé e in sé per simboli, se non in effettiva presenza, tutti gli altri molteplici elementi religiosi che si erano concentrati intorno a quel mistico luogo: la pietra di Gaia fasciata dalla rete, ombelico del mondo e tomba di Pitone; l’altare e le feste di Poseidone; il sepolcro  e le caratteristiche mantiche di Dioniso, col qual deve dividere la signoria su Delfi nel corso dell’anno -poiché Dioniso vi governa durante i tre mesi invernali nei quali il solare Apollo traferisce la sua dimora nelle beate terre degli Iperborei, -le quali, sebbene site all’estremo nord, godono di un clima mite e una natura perennemente rigogliosa-; la stirpe dei Deucalionidi, discendenti anch’essi, tramite Prometeo, dalla madre Gaia, ai quali era riservato il sacerdozio degli “hosioi”, le Ninfe delle fonti, e soprattutto le svariate forme divinatorie che vi si praticavano: interpretazione delle voci e dei suoni prodotti dall’eco, dal vento, dai ciottoli rotolanti dai pendii, auspici, -osservazione degli uccelli, soprattutto di aquile-; empiromanzia (osservazione dell’agitarsi delle lingue di fuoco sulle are), alfitomanzia (divinazione con pagnotte di orzo nelle quali erano stati inseriti biglietti o piccoli oggetti che davano il responso a chi le avesse scelte), ecc. Anche il tripode, il braciere a tre piedi che divenne il simbolo stesso dell’oracolo di Delfi, che taluni vorrebbero attribuire all’avvento di Apollo è di certo più antico, poichè ad esso si ricorreva per praticare l’empiromanzia.

Ma in origine l'”omphalos” rappresentava il bianco cumulo di cenere sotto il quale si celava la brace nel focolare domestico in mezzo alla primitiva dimora degli umani, e con cui si conservava acceso il fuoco senza che la fiamma divampasse quando non serviva e che il fumo non si diffondesse nell’umile abitazione; il fuoco domestico che la donna, la madre di famiglia alimentava affinché si mantenesse sempre vivo. Per questo la cenere del focolare divenne il primo simulacro aniconico della Dea Madre della quale la sposa e madre terrena era la sacerdotessa, mentre gli uomini la riverivano e le obbedivano; l’umile albergo, divenuto tempio domestico, nel quale si ricoveravano intorno al fuoco accudito dalla donna fu il loro primo centro sociale e la maternità il loro primo mistero. Più tardi l'”ombelico” fu identificato anche con il tumulo sbiancato a calce viva sotto il quale era sepolta la bambola del grano, che sarebbe risorta come germoglio in primavera; o con i cumuli di conchiglie e le stele di marmo che coprivano le tombe dei re defunti.

Il focolare è il centro della casa, dello spazio occupato dalla famiglia  ed Estia, la dea greca del focolare domestico, alla quale Zeus ha concesso di mantenere per sempre la sua verginale purezza, come la Vesta romana, conferisce alla casa il significato di tempio domestico ed assicura alla comunità familiare la sua continuità nel tempo. Non  a caso i templi consacrati ad Estia-Vesta sono in genere di forma circolare.

Il tempio di Vesta a Roma.
Il tempio di Vesta a Roma.

E’ per mezzo di Estia che la casata si perpetua e si mantiene simile a sé stessa, come se ad ogni generazione in cui essa si rinnova, i figli legittimi nascessero direttamente dal focolare. Così Estia rappresenta la donna sia in quanto figlia vergine, sia in quanto procreatrice e fonte di vita. Porfirio di Tiro, il filosofo neoplatonico vissuto nel III secolo, metterà ancora in risalto questa dualità femminile affermando che non vi è una figura unica di questa dea, ma due figure: da un lato il tipo della vergine (“parthenikòn”), dall’altro il tipo della matrona dal petto prominente (“ghinaikòs.. .promastou”).

Di qui l’analogia tra il focolare domestico e l'”Omphalos”. “Rigonfiamento del suolo o pietra ovoidale, l'”omphalos”, che è in rapporto con la Terra […] rappresenta nello stesso tempo un punto centrale, una tomba, un serbatoio di anime e di vita” (J. P. Vernant, “Mito e pensiero presso i Greci”). L'”omphalos” della Terra incarnato dalle pietre come quella di Delfi richiama l’ombelico del neonato, che si appiattisce parecchi giorni dopo la nascita; ma pure il cordone ombelicale che lega il bambino alla madre, principio del radicamento di ciascuna generazione nella generazione precedente, così come del legame indistruttibile del rampollo umano alla sua famiglia. Secondo Artemidoro di Daldi, vissuto nel II secolo, autore di ua famosa opera sull’interpretazione dei sogni, l’ombelico indica (I, 45) i genitori, se questi sono in vita; altrimenti la patria o la famiglia dalla quale si trae origine e nascita come dall’ombelico. Se dunque in sogno succede qualche infortunio all’ombelico, significa che si verrà privati dei genitori o avverranno lutti o sciagure in famiglia; a chi si trova all’estero verrà negato il ritorno.

In questa fase di matriarcato non solo la Luna, ma anche il Sole divenne uno dei simboli celesti della dea, come dimostrano le numerose dee solari che si riscontrano non solo nell’area anatolica e medio-orientale, -quali Shapash dei Fenici, Hèpat dei Churriti,  la grande dea di Arinna degli Ittiti), ma anche in luoghi assai più lontani come il Giappone dove troviamo dea solare Amaterasu.

Come abbiamo accennato sopra, molti altri luoghi in varie parti del mondo furono considerati “ombelico del mondo”, o, più modestamente, di una certa nazione.

L'"Omphalos" nella basilica del S. Sepolcro di Gerusalemme.
L'”Omphalos” nella basilica del S. Sepolcro di Gerusalemme.

Tra di essi ricordiamo che per gli Ebrei l'”ombelico” si trovava Gerusalemme, come è attestato dal profeta Ezechiele (38. 12), che definì la capitale del regno di Giuda “Tabur ha-‘ares” (l’ombelico del mondo); in età cristiana questo “ombelico” fu ravvisato nel luogo del “Santo Sepolcro” dove fu poi costruita la basilica ad esso consacrata.

Un altro “ombelico” è la collina di Uisneach, che si trova esattamente al centro dell’Irlanda, ed era sacro agli Iberni, la popolazione celtica che abitava l’isola. Tuttora sulla collina si possono osservare le vestigia di numerosi recinti circolari, tumuli, cippi ed un pozzo sacro. Sul lato sud-ovest dell’altura vi è una grande pietra collocata all’interno di un recinto circolare. Questa grossa pietra, alta quasi 6 metri e pesante circa 30 tonnellate è chiamata in gaelico AIL NA MIREANN, cioè “pietra della divisione”, poiché dal punto ove essa si trova si dipartono i confini degli antichi regni nei quali era suddivisa l’Irlanda.

L'"omphalos" sulla collina di Uisneach.
L'”omphalos” sulla collina di Uisneach.

Essa era pertanto considerata l’ombelico mistico dell’Irlanda e del mondo intero, In quel luogo sacro i Druidi accendevano i fuochi durante la festa di BELTANE, una delle otto feste che scandivano il calendario celtico, che si celebrava la notte del 30 aprile (che in seguito quando le tradizioni “pagane” vennero demonizzate, divenne una “notte delle streghe”)(3).

Secondo quanto narra Goffredo di Monmouth (1100-1155 circa) nella sua “Historia regum Britanniae”, i megaliti che costituiscono gli anelli concentrici del tempio preistorico di Stonehenge furono ivi trasportati dalla collina di Uisneach -(quindi dall’Irlanda: dunque si deve supporre che sia stata una fatica davvero improba!).

Un altro “ombelico del mondo” si conserva in Thailandia presso il tempio di WAT PHRA THAT DOI CHOM THONG, nella città di Chang Rai.

L'"omphalos" di Chang Rai.
L'”omphalos” di Chang Rai.

Il sito su cui il tempio sorge fu venerato fin da tempi antichissimi e le prische divinità ivi venerate si conciliarono con i principi del buddismo allorché questo venne introdotto nel paese. Qui gli elefanti godono di particolar venerazione, poiché si tramanda che il tempio fu costruito nel punto ove uno di questi animali si fermò dopo essersi allontanato dalla pompa di un principe. Al centro del tempio trovasi una pagoda d’oro, la cui prima costruzione risale al 940 e ove sono custodite reliquie del Buddha. In seguito intorno al tempio intorno al 1260 fu fondata la città per iniziativa del re Mangrai. L'”omphalos” nel 1992 fu però spostato dal tempio in una nuova sede.

N.B.: volevo anche inserire una breve storia e descrizione del monumenti di Delfi, ma per allungare troppo l’articolo sono rimandate alla prossima trattazione.

Note

1) Neottolemo -chiamato anche Pirro- era il feroce figlio di Achille e Deidamia, il quale fu ucciso dagli abitanti di Delfi per la sua intenzione di saccheggiare il tempio di Apollo; oppure a causa del suo comportamento sconveniente e irriguardoso nei confronti della Pizia.

2) peraltro secondo la tradizione più frequente la nascita di Atena avvenne dopo che Zeus aveva inghiottito Metis, “la prudenza”, -degna madre della dea della saggezza e dell’ingegno-. per cui non è esatto dire che ella sarebbe stata priva di madre.

3) al contrario di quanto avvenne con SHAMAIN, la festività che dava inizio all’anno celtico, l’1 novembre, che venne cristianizzata come “festa di Tutti i Santi” (sdoppiatasi poi nella “Commemorazione dei Defunti” del 2 novembre). Si noti peraltro che la data del primo novembre, istituita nell’835 da papa Gregorio IV, che intendeva così combattere il “paganesimo” dell’Europa centro-settentrionale, dove ancora queste feste erano ancora molto sentite, venne a sostituire una precedente festa di tutti i Santi, che si celebrava il 13 maggio e che a sua volta era stata sovrapposta alle LEMURIE, una delle feste dedicate ai defunti del calendario romano. E così la festa della “Purificazione della Beata Vergine” -la “Candelora”-, il 2 febbraio, si sovrappose alla celtica festa di IMBOLCH e ai “Lupercali” romani, e così via. In genere la “politica” seguita dalla Chiesa fu quella di “annettersi”, non potendo soppiantarle, le celebrazioni religiose precedenti, dedicandole a persone ed eventi del cristianesimo per cancellarne l’antico significato, ma nello stesso tempo adattandone i riti e le tradizioni ai suoi dogmi; talora però prevalse una cieca volontà di demonizzare, -nel vero senso della parola- queste testimonianze della religiosità pre-cristiana, a causa del suo esclusivismo intollerante che non ammette che possano esistere verità, giustizia e morale al di fuori di essa.

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