LE AMAZZONI AD ATLANTIDE (sesta parte) -Il dio che muore e rinasce-

Tammuz è il nome, -noto nella forma ebraica e siriaca-, del dio assiro-babilonese Tamùz, uno dei principale del pantheon mesopotamico. Questa figura divina apparve per la prima volta tra i Sùmeri, e nella loro lingua il suo nome era “Dumu-zi”, oppure, in forma più completa “Dumu-zi-Abzu”, che significa “figlio legittimo dell’Abzu” (Apsu in accadico) ovvero dell’abisso primordiale, serbatoio di tutte le acque dolci (si ricordi che anche nella “Genesi” prima della creazione lo spirito di Elhoim (1) aleggiava sopra le Acque ovvero l’Apsu). L’Abzu fu poi identificato con Ea, il dio delle acque e della saggezza -colui che nel mito mesopotamico del diluvio universale avverte Utanapishtim dell’imminente castigo destinato ad abbattersi sull’umanità peccatrice-. Secondo un’altra interpretazione il nome potrebbe essere derivato, attraverso l’accadico Tummuzi, da “Dumu-Zid”, che, sempre in  sumero, vale “il Figlio” o “il Giovane Perfetto”.

Tammuz è il dio della vegetazione, la personificazione della vita sempre risorgente della natura, della forza generatrice che si manifesta nella crescita delle piante e nella fecondità delle greggi, che ogni anno scende agli Inferi (l'”Arallu”) e poi risuscita a nuova con il rinnovarsi della natura in primavera: nello sfiorire e nel risorgere delle erbe e delle piante gli antichi abitatori della Mesopotamia vedevano la morte e la resurrezione del “Figlio” divino, che è anche l’incarnazione del grano e dei corsi d’acqua benefici.

Il dio Dumu-zi in una raffigurazione moderna.
Il dio Dumu-zi in una raffigurazione moderna.

Egli è “colui che è davvero vivo”, il germinatore di molti frutti, il figlio di vita, il pastore che guida le sue pecorelle, il saggio della Terra, colui che sorge dall’oceano, il “Signore di Vita”, il medico, il risanatore; è il bambino e il giovane, è il frumento che cade sotto la falce, che con la sua morte dona la vita agli uomini. Tammuz è pure il dio della salute che concede la longevità e lo si invoca per la guarigione degli ammalati, poiché la vita dipende dal suo sacrificio, dalla sua morte e dal suo ritorno dagli Inferi.

La prima menzione conosciuta di Tammuz appare in alcuni testi risalenti alla pima parte del III° periodo dinastico sumero (2600-2334 a.C.), ma si presume che il suo culto sia molto più antico; esso è attestato nelle principali città sumere del III e II millennio a.C., soprattutto nella zona centrale del territorio sumero, quella chiamata EDIN, “l’oasi” (che sarebbe all’origine dell'”Eden” biblico), poi si diffuse in tutta la Mesopotamia meridionale dove gli erano consacrati numerosi templi. Egli era adorato segnatamente a Eridu, sede principale di suo padre Enki (Ea), a Uruk, a Kinunir, ad Accad, a Babilonia e in molte altre città. Gli era dedicata anche una costellazione che era considerata il luogo della sua dimora: una delle costellazioni della “Via di Anu”, ovvero lo Zodiaco.

Come è dimostrato dal suo epiteto più comune, “Sipad” (“pastore”), Tammuz era soprattutto una divinità pastorale; suo padre è Enki, il dio della saggezza (che corrisponde al babilonese Ea,-il quale ultimo deriverà da Enki molte delle sue qualità e prerogative-), uno degli “Annunaki”,  (le divinità supreme del pantheon sumerico) (2), mentre sua madre DUTTAR è una dea pecora. Gli epiteti con i quali era chiamato ed adorato, “Signore degli Ovili”, “Ama-ga” (“latte materno”), “U-lu-lu” (“moltiplicatore dei pascoli”), suggerisce che egli incarni le cose che più i pastori desideravano: pascoli rigogliosi, agnelli sani e pecore madri alla quali non mancasse mai latte abbondante per nutrirli.

Quando il culto di Tammuz si diffuse in Assiria, nel II e I millennio a.C., il carattere del dio sembra essersi trasformato da divinità pastorale a divinità prevalentemente agricola: viene attribuito come figlio a Ninsun, dea dei cereali, e dai testi si arguisce che egli rappresenti il grano mietuto, il quale, morendo allorché viene macinato per confezionare il pane, diventa nutrimento per gli uomini.

La dea che nei testi mitici e liturgici a noi pervenuti appare più legata a Tammuz è Gheshtin-anna, -nome che in in lingua sùmera significa “Vite del Cielo”-, considerata sia madre, sia sorella o sposa di questa importante divinità, talora contemporaneamente.

Il culto di Tammuz era incentrato intorno a due feste annuali: una che celebrava i suoi sponsali con la dea Inanna (divenuta poi Ishtar presso Babilonesi e Assiri); l’altra in ricordo della sua tragica morte ad opera dei demoni degli inferi. Durante la III dinastia di Ur (2112-2004 a. C.), il suo matrimonio si celebrava in febbraio-marzo; in marzo aprile si celebravano invece i rituali in memoria della passione e morte del dio, durante i quali aveva luogo una processione nel deserto.

In Assiria tuttavia dall’VIII secolo a.C. il rito commemorativo della scomparsa di Tammuz fu  spostato in giugno-luglio (si tenga presente che, come abbiamo già detto, i mesi corrispondevano alle lunazioni), poco dopo il solstizio d’estate, quando la luce del Sole comincia declinare: e il mese stesso prese il nome di “tammuz”, nome che ha tuttora nei calendari ebraico e siriaco, nonché, con lieve variante (“temmuz”) in quello turco (3). Nelle principali città del regno si costruiva una sorta di catafalco, sul quale venivano posti fronde, frutti e miele, che rappresentavano le spoglie del dio.

Nelle età più antiche però il mese di Tammuz era il quarto mese dell’anno nel calendario di Nippur, l’ottavo nel calendario di Lagash, mentre in quello di Umma era il dodicesimo. Dal calendario mesopotamico il nome del mese passò nei calendari ebraico e aramaico, nonché in quello arabo-siriaco in uso nel Mashreq (4).

Il dio Tammuz in un rilievo babilonese.
Il dio Tammuz in un rilievo babilonese.

Durante la solenne cerimonia per commemorare la morte e resurrezione di Tammuz, durante il mortorio per il dio, i fedeli effondevano pianti e lamenti, invocando il suo ritorno dall’ade. Questo rito, che comprendeva anche una sacra rappresentazione, veniva celebrato nel sesto mese dell’anno mesopotamico, in estate, che dalla festa per il dio, prese anch’esso, -come abbiamo visto sopra,- il nome di Tammuz. durante la sacra rappresentazione si rievocava la morte del dio, la disperazione della dea Gesthin-anna che scendeva agli Inferi per riportarlo in vita e infine il suo ritorno trionfale sulla terra. Si soleva collocare un simulacro di Tammuz che era poi affidata alle onde del Tigri o di un altro fiume, talora invece la sua dipartita era rievocata soltanto in modo simbolico gettando semi di cerali, piante e fiori nelle acque.

La dea Geshtin-anna piangendo ed elevando al cielo pietosi lamenti discendeva allora gli Inferi e implorava dalla regina di quel triste luogo, la dea Ereshkigal, la liberazione del suo figlio (o fratello). Allora la regina dell’oltretomba, impietosita dal dolore di Geshtin-anna, acconsente ad esaudire la sua richiesta, così che il dio risuscita dal suo sonno di morte e la dea può ricondurlo sulla terra. In epoca più tarda accanto a Tammuz, appaiono prima Inanna e poi Ishtar, la grande dea babilonese, chiamata poi Astarte dai Fenici, alla quale viene attribuito l’appellativo di “Belit-seri” (“la Signora della campagna”).

Le esequie e le lamentazioni per la morte di Tammuz, che duravano sei giorni, -dopo i quali il Dio risuscitava (si noti l’analogia con la “settimana santa” o “settimana di passione” della liturgia cristiana)-, si estesero in tutto il Vicino Oriente, e si celebravano anche nel Tempio di Gerusalemme, suscitando la riprovazione e lo sdegno dei rigoristi, come il profeta Ezechiele (Ez., VIII, 14-15).

Tra i miti dei quali il dio è protagonista è importante “IL SOGNO DI TAMMUZ”: egli aveva sognato la sua sventura e il funesto presagio si avverò, nonostante gli sforzi di Ishtar di evitargli il suo tragico destino. In un altro mito sumero, “LA DISCESA DI INANNA”, la dea invia Tammuz agli Inferi quale suo sostituto.

La dea Ishtar in un rilievo proveniente da Byblos.
La dea Ishtar, -o per altri una dea non identificata- in un rilievo in avorio risalente al XIV o XIII secolo a. C.

La sorella del dio, Geshtin-anna riesce però a ritrovarlo e il mito si conclude con Inanna la quale decreta che Tammuz e sua sorella potranno rimanere a turno sei mesi agli Inferi e sei mesi sulla terra (come avverrà pure nel mito di Adone, he abbiamo visto in precedenza, e in quello di Persefone, figlia di Demetra quando fu rapita da Plutone); nella versione accadica-babilonese del mito non è Ishtar (l’omologa di Inanna) a mandarlo agli Inferi; mentre è ella stessa, e non la sorella Geshtin-anna, che si reca nell’ade per ritrovarlo.

Compagno di Tammuz appare spesso Nin-gishzida, il saggio serpente “Signore dell’Albero della Vita”, il quale, oltre che tutte le lingue, conosce la guarigione, la divinazione e la magia -del quale abbiamo già osservato come si riallacci al serpente Ladone guardiano dei pomi delle Esperidi nella mitologia greca, oltre che con il serpente tentatore biblico)-, insieme al quale presidia la porta dei Cieli. Stretti legami con Tammuz avevano anche Ningirsu, figlio di Enlil, dio dell’aria, signore di Girsu, la parte nord-occidentale del regno di Lagash, e Girra, dio degli animali, ma anche nume del fuoco e della metallurgia.

Probabilmente confluirono e si identificarono in Tammuz dei della fertilità e della vegetazione che in origine dovevano essere distinti; ad Uruk, una delle più importanti città sumere, avvenne una fusione tra la figura di Tammuz (o meglio Dumu-zi) e quella di Amaushun-Gàlana, una divinità legata alla palma da dattero; ed in  effetti anche il nome Tammuz è stato messo in relazione con il dattero (che in varie lingue semitiche, tra cui l’arabo, si dice “tam’r”). Altra importante identificazione fu quella con Damu, dio della fecondità che incarnava il potere della linfa di risalire e vivificare le piante e gli alberi: è interessante osservare che Damu, come Adone, nasce da un albero (di cedro), dal quale esce fendendo la corteccia,

Più tardi la sua figura di divinità della vegetazione e della crescita, di dio che muore e risorge venne a confondersi e a sovrapporsi ad alcune divinità con caratteri simili, venerati in altri paesi del Vicino Oriente, ma indipendenti dal dio mesopotamico. L’Adone fenicio di Byblos, quello siriano e quello degli Aramei di Harran ( città della Siria settentrionale chiamata poi Charrae in età ellenistica e romana), che fu adorato forse fino al Medio Evo, nonchè l’egiziano Osiride e l’ittita Telepinush (o Telepinu, -da non confondere con l’omonimo re ittita dell'”Antico Regno” ittita-), ai quali si può aggiungere l’Attis anatolico e il Dioniso tracio-ellenico, mostrano caratteristiche e manifestano le loro qualità divine in miti più o meno affini a quello del dio mesopotamico: tutti muoiono, scendono nel regno delle tenebre e infine sono riportati alla vita da una divinità femminile (che può essere madre, sorella, sposa o magari tutte le cose insieme).

Al riguardo dei miti dei quali sono protagonisti questi dei della natura rigogliosa, della vegetazione e della rinascita primaverile, credo che sia interessante narrare in breve la storia del dio Telepinush, che è certamente la meno conosciuta di queste figure divine. Egli era figlio del dio della tempesta (assimilabile all’Adad assiro e all’Hadad aramaico) e della grande dea del Sole di Arinna -ovvero le due principali divinità del pantheon ittita-; essendosi adirato con gli altri dei per una ragione che risulta ignota, -poiché la tavoletta d’argilla che riposta il testo della storia è mutila e manca dell’inizio-, decide di allontanarsi dalla corte di suo padre e non adempiere più all’ufficio che gli era stato affidato, ovvero di sostentatore e patrono della vita vegetale e animale. Sconvolto dall’ira, sbagliò a infilarsi le calzature e si mise la scarpa destra al piede sinistro e viceversa. Questo provocò uno sconvolgimento ambientale e climatico, e il turbamento del ciclo stagionale: l’estate e la primavera scomparvero, l’erba dei pascoli smise di germogliare, i campi si inaridirono e rimasero del tutto privi di messi, tutti gli animali soffrivano, e languivano sempre più, vittime della fame e della sete. Le mucche, le pecore e gli umani non riuscivano più a procreare. In quell’inverno senza fine il freddo e il gelo indurivano le zolle, ghiacciavano i fiumi e stavano conducendo alla morte e allo sterminio delle piante e degli animali.

Da molto tempo Telepinush continuava a vagare senza meta ancora in preda alla sua collera, fino a che si smarrì nella steppa sferzata dai gelidi venti.

Gli dei stessi si trovavano in gravi difficoltà da quando Telepinush li aveva abbandonati. si nutrivano, ma senza riuscire a saziarsi, bevevano ma da questo non ricevevano alcun ristoro alla loro sete. Fu così che decisero che era giunto il momento di ritrovare il dio scomparso e ricondurlo tra di essi a beneficio di tutta la natura. Inviarono allora una grande aquila dalla vista acutissima affinché perlustrasse ogni luogo e anfratto della terra, anche il più recondito. L’aquila volò per monti, per deserti e per mari, per giorni e giorni, ma non riuscì a trovare alcuna traccia del dio. Per tentare di porre rimedio a quella terribile situazione persino il potente dio della tempesta, il padre di Telepinush, si mise all’opera soffiando forti venti ovunque, tra gli alberi delle foreste, le strade delle città, i mari, i fiumi e i torrenti, ma anche questo a nulla servì: suo figlio sembrava essere scomparso.

Gli dei non sapevano più che fare, ma la dea Hannahannas, la grande madre di tutte le divinità decise di mandare alla ricerca di Telepinush un’ape; gli altri dei non erano molto convinti di questa scelta, poiché dubitavano che un così piccolo insetto avrebbe potuto portare a termine la missione con successo. Invece la piccola ape riuscì finalmente a ritrovare Telepinush, il quale giaceva addormentato dopo avere errato a lungo per molti luoghi. Affinché si destasse, l’ape punse il giovane dio sulle mani e sui piedi. Telepinush si svegliò, ma, preso di nuovo dalla collera per il dolore delle punture, cominciò a distruggere ogni cosa si trovasse sul suo cammino, montagne, fiumi, laghi e città. L’ape impaurita tornò dalla dea Hannahannas, la quale capì che per ricondurre il dio ribelle al posto che gli spettava si doveva fare una sola cosa: mandò insieme a prendere Telepinush l’ape, l’aquila e la dea Kamrusepa, esperta di arti magiche, la quale cominciò a intonare canti melodiosi e dolci nenie per placare l’animo di Telepinush , deponendogli nel contempo dinnanzi invitanti piatti ricolmi di ogni sorta di prelibate vivande. Il dio iniziò consumare le leccornie che gli erano state offerte e a a mano a mano che se ne saziava la sua rabbia sbolliva, fino a che sul suo animo inquieto scese finalmente la pace. Fu allora che l’ordine della natura si ristabilì ; tutti gli dei si riunirono allora in un lieto banchetto e il mondo cominciò a rinascere.

Oltre al simbolismo mistico-religioso, si potrebbe dire che la morale di questa storia è che si ottiene molto più con la dolcezza che con la severità.

Si può affermare che i tratti generali del mito di Tammuz ritornino nella storia che i Cananei narravano sul loro dio Adone; mancano però in Babilonia alcuni degli aspetti fondamentali nei racconti mitici dell’occidente semitico su Adone, in particolare l’uccisione del dio da parte di un animale, della quale finora non si è trovata alcuna traccia in Mesopotamia.

In tutte le  versioni orientali del mito inoltre manca qualunque accenno ad una nascita incestuosa che appare soltanto nelle narrazioni elleniche. In sostanza in tutte queste figure divine e nei miti dei quali sono protagoniste è espresso il tema centrale e archetipico del dio giovane della vegetazione, della natura e della rinascita intimamente legato alla dea madre, che incarna la Terra, della quale spesso è contemporaneamente fratello, figlio e sposo. Questo mistero, che deve essere interpretato in senso allegorico e mistico, -come d’altra parte tutta la mitologia-, potrebbe aver indotto i Greci a vedere o ad introdurre nella storia un elemento incestuoso, e a darne quindi una razionalizzazione moralistica.

Un’altra suggestiva figura nella quale si incarna l’archetipo della rinascita della natura, immagine e promessa a sua volta della resurrezione e della salvezza per l’uomo, è quella del dio Balder, cha appartiene alla mitologia germanica. Il nome potrebbe significare “splendente”, ma si ritiene più probabile che derivi dall’appellativo “bealdr” (= signore). Del suo mito si hanno due differenti versioni: una contenuta nei libri dell'”Edda di Snorri”, ed un’altra nella narrazione dell'”Historia Danica” di Saxo Grammaticus (1150-1220 circa).

Secondo la prima di queste versioni, di gran lunga la più conosciuta e importante, nonché significativa sul piano storico-religioso,  Balder è il figlio di Wotan (Odino) e di Frigga, e sposo di Nanna (dea alla quale abbiamo già accennato a proposito di un’opera filosofica di T. Fechner nell’articolo sulle facoltà psichiche di animali e piante) (5), ed è celebrato come il più bello e il più buono degli Asi.

Balder una notte fu angosciato da sogni inquietanti e paurosi, nei quali vedeva preannunciata la propria fine, -motivo che accomuna la storia del dio scandinavo a quella di Tammuz-, ed il cui sinistro presagio viene confermato dalla maga Volva. Allora per stornare il triste destino incombente su suo figlio, Frigga fa giurare a tutti gli esseri esistenti sulla terra che non avrebbero mai arrecato alcun danno a Balder, coì che da quel giorno né arma, né pietra, né alcun altro oggetto lo poteva più uccidere e ferire; tanto che gli dei si divertivano a scagliare frecce e sassi contro di lui, divenuto ormai invulnerabile.

Ma il perfido Loki, -il “cattivo” della mitologia germanica-, che incarna il disordine cosmico che sempre minaccia l’armonia del mondo, tramutatosi in donna, riesce a scoprire, facendosi confidare il segreto da Frigga, che esiste un piccolo essere vivente che non aveva compiuto il giuramento, perché considerato del tutto innocuo: una piantina di vischio. Loki cercò dunque la piantina di vischio, che cresce sui rami di altre piante, e trovatala la divelse.

Balder e la sua sposa Nanna.
Balder e la sua sposa Nanna.

Tornato quindi nel campo ove gli dei si trastullavano, offre la pianta di vischio ad Hodr, il fratello di Balder, il quale essendo cieco, non poteva partecipare ai giochi degli dei, persuadendolo a lanciarla contro il dio guidandogli anche la mano per colpire il bersaglio. Il vischio si trasformò in dardo e non appena  toccò il petto di Balder lo trafisse così che questi perisce immantinente. Piansero gli dei, impotenti a compiere una vendetta in quel sacro luogo di pace, e, costruito un rogo presso un ruscello, vi deposero il corpo di Balder e insieme a lui  la sua consorte Nanna, morta anch’essa per il dolore.Tutte le creature parteciparono alle esequie di Balder, non solo quelle più tenere e miti, ma perfino i feroci giganti, a eloquente testimonianza di quanto il dio fosse da tutti -salvo Loki- amato. Secondo una tradizione, un gallo, animale a sacro a Wotan, cercò di avvertire Balder del pericolo rappresentato dalla freccia di vischio, ma invano; mentre un cespuglio di agrifoglio tentò di proteggere il dio coi suoi rami, mentre egli si accasciava al suolo. Per riconoscenza verso il generoso, sebbene inutile, aiuto offerto dalla pianta, Wotan decretò che essa rimanesse sempreverde e le sue bacche divenissero scarlatte in memoria del sangue versato da Balder. Quanto al vischio, la leggenda assicura che sulle sue foglie caddero le  lacrime sparse da Nanna, divenendo simili a perle: per questo il vischio fu dedicato alle donne che avevano nutritio amori conclusisi in modo tragico.

Si noti come queste leggende legate a piante accomunino Balder ad Adone: con la morte di quest’ultimo nascono o subiscono una metamorfosi l’anemone e la rosa; dall’uccisione di Balder l’agrifoglio e il vischio. Ed è naturale che sia così, poiché entrambe queste divinità incarnano lo sviluppo vegetativo delle piante, -ma pure degli animali-, e o slancio vitale nel quale il cosmo si invera.

Frigga chiese se non vi fosse alcuno che, per amor suo, volesse scender agli Inferi e ricondurre Balder nel mondo dei vivi. Si offerse suo fratello Hermod, al quale però Hel, -o Hela- la regina degli Inferi (omologa quindi di Ereshkigal mesopotamica e di Persefone ellenica) promise che Balder sarebbe tornato sulla terra solo qualora tutti gli esseri avessero pianto per lui, dimostrando così il cordoglio universale per la scomparsa del dio della luce e della  vegetazione. E così fu: tutti gli esseri, uomini, animali, piante e pietre piansero per la morte di Balder; tutti meno una gigantessa, sotto le cui spoglie si celava Loki, così che mancando l’unanimità egli fu perduto irreparabilmente. Gli dei allora presero Loki e lo incatenarono in una caverna ove rimarrà fino alla fine del mondo.

Ma dopo la grande catastrofe che concluderà questo ciclo cosmico, quando la terra sarà stata distrutta e sarà sorto un nuovo mondo e un  rinnovato ordine universale, Blader tornerà riconciliato con Hodr ed essi vivranno lieti in pace fraterna.

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Fronde di vischio.

Nella tarda versione di Saxo Grammaticus alla quale accenniamo soltanto, la figura di Balder decade a quella di un semplice eroe che combatte contro un rivale, Hother, per conquistare la mano di Nanna, venendo infine ucciso da una spada magica, l’unica arma che poteva nuocergli. Nell’epilogo della storia egli viene però vendicato da suo fratello Bous.

E’ interessante notare come anche presso i Celti il vischio rivestisse una particolare importanza, avendo però una valenza benefica: esso era considerata la pianta sacra per eccellenza dotata di straordinarie virtù curative e apotropaiche, apportatrice di prosperità e benessere. La raccolta del vischio era effettuata dai Drùidi, i sacerdoti celtici, che a tal fine, nel sesto giorno dopo la Luna Nuova, salivano sulle querce, -gli alberi consacrati ad Esus il principale dio della loro religione, così come lo erano a Zeus presso i Greci, o più probabilmente a Taranis, il dio del cielo tempestoso e del fulmine, al quale era consacrata la quercia- e recidevano alcuni rametti della pianta con le sue bacche dall’aspetto vitreo con un falcetto d’oro.

Secondo il famoso antropologo e storico delle religioni James Frazer (1854-1941) (6) il ramo d’oro del quale, secondo le indicazioni dategli dalla Sibilla Cumana. Enea deve munirsi per poter visitare l’Averno era un ramo di vischio, dal che si evince che presso molte popolazioni europee a questa pianta fosse attribuita una funzione di mettere in comunicazione il mondo umano e quello divino, la sfera sublunare e quella infera. In effetti nel poema virgiliano il ramo d’oro che consentirà all’eroe troiano di scendere agli Inferi e di tornarne senza danno è solo paragonato con il vischio, con una poetica similitudine dove i lucenti riflessi del ramo ricordano l’immagine della piantina che in ugual modo si avvinghia alla fronde di un albero (Aen. VI, 190-211); ma d’altra parte la descrizione del vegetale che non ha radici proprie e dalle bacche giallastre ben si adatta al vischio e induce non solo a rassomigliare, ma anche ad identificare l’aurea fronda con esso.

Ci si potrebbe chiedere per quale ragione presso i Germani il vischio abbia assunto una valenza negativa; non è improbabile,- considerando anche la funzione di viatico verso l’Averno che ha nell’Eneide, dove è espressamente dichiarato sacro a Persefone-, che questa pianta parassita sia stata vista come legata agli Inferi: di qui il suo potere mortifero; ma nello stesso tempo, come in genere le cose e gli esseri messi in relazione con l’al di là, anche le sue virtù terapeutiche e propiziatrici.

Non è certo un caso che l’agrifoglio e il vischio, entrambi legati a Balder, siano divenuti i simboli “laici” del Natale cristiano, poiché esprimono un simbolismo di rinascita, di “luce nelle tenebre” nel momento in cui, al solstizio d’inverno, il Sole, del quale in questo giorno si celebrava la nascita, dopo essere giunto quasi a spegnersi, torna ad aumentare la sua vivificante radiosità.

Il mito di Balder sembra discostarsi alquanto da quelli di Adone, Tammuz e Dioniso, perché egli non torna dagli Inferi a riportare la primavera e le messi, la pace e la giustizia; o meglio tornerà soltanto dopo la finale consumazione di questa era cosmica, irrimediabilmente destinata ad un inarrestabile decadenza, quando avverrà la palingenesi che darà inizio ad un nuovo ciclo. Sotto questo aspetto il ritorno di Balder ricorda la “parusia”, la seconda e definitiva venuta di Cristo secondo la dottrina cristiana.

La mitologia nordica è pervasa infatti da un tragico senso dell’ineluttabilità del fato, al quale pure gli dei soggiacciono -come peraltro gli dei di altre religioni- e da una drammatica consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Questa concezione si connette al tema della successione ciclica di grandi ere cosmiche (di lunghissima durata, non concepibile dalla mente umana, se non attraverso inadeguate similitudini), comune alle idee religiose di molte altre popolazioni indoeuropee. Questi cicli si articolano in una serie di età, -di solito quattro-, che si caratterizzano per un progressiva corruzione da una primigenia innocenza e perfezione del genere umano (età dell’oro, dell’argento, del rame e del ferro per i Greci; Krita-Yuga -o Satya-Yuga-, Treta-Yuga; Dvìpara-Yuga e Kali-Yuga per gli Indù, ecc.), e si concludono ciascuno con un’immane conflagrazione che distrugge tutto il mondo fenomenico, ma anche le entità spirituali e le energie psichiche attraverso le quali l’Uno (o Io) spirituale si manifesta e si espande e il mondo materiale e fenomenico si invera (gli dei), entità ed energie che, per quanto infinitamente superiori all’uomo, non sono assolute, né eterne.

Da essa si salva solo il Principio Metafisico ed Assoluto (Alfadur per i Germani; Brahaman per gli Indù, ecc.), che non è né impersonale né personale (comunque non “personale” nel senso in cui è concepito il dio ebraico-cristiano), dal quale prende avvio un nuovo ciclo, poiché da esso si generano, direttamente o indirettamente, tutte le energie e tutte le entità dalle quali nasce poi il mondo fisico. Questa teoria sebbene espressa in termini mitici, e quindi attraverso immagini più o meno vivide e suggestive, si può confrontare con quella del “Big Bang” e della successione di molteplici universi che si dilatano e si contraggono in una sorta di eterna pulsazione. Non si deve tuttavia credere che questi cicli cosmici si ripetano sempre secondo uno schema immutato, poiché ciascuno di essi si riproduce ad livello un po’ superiore al precedente, e vi è quindi la possibilità di evoluzione e di progresso, che però sono illimitati e infiniti, poiché in sostanza l’Essere  e dunque l’Universo- al di là delle sue manifestazioni contingenti non ha né inizio né fine.

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

1) “Elhoim” è il nome che nella Genesi è attribuito al dio creatore: si osservi che questo nome è il plurale di “el” (dio) e quindi significa propriamente “gli dei”, tuttavia il verbo, con una strana incongruenza, è coniugato alla terza persona singolare.

2) i più importanti erano quelli che costituivano la Triade divina che governava il mondo: Anu (Anum), dio del Cielo uranico; Enlil, dio dell’atmosfera e della luce diurna; Enki (Ea), dio delle acque.

3) nel calendario in uso in Turchia alcuni dei nomi dei mesi sono quelli del calendario siriaco, altri sono derivati da quello giuliano.

4) cioè nei paesi corrispondenti all’antica “Mezzaluna fertile” (Iraq, Siria, Libano, Palestina, Giordania).

5) si noti la quasi omofonia con la dea sùmerica Inanna.

6) proprio traendo spunto dalla missione di Enea, nonchè dal culto di Diana Nemorensis nel bosco sacro presso il lago di Nemi in Lazio, -nel quale pure il vischio aveva un posto di rilievo-, l’illustre studioso intitolò “Il ramo d’oro” la più importante e conosciuta delle sue opere, -nella quale tratta i motivi più ricorrenti nelle miti di molte stirpi, tra cui il tema del dio che muore e risorge-.

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2 Risposte a “LE AMAZZONI AD ATLANTIDE (sesta parte) -Il dio che muore e rinasce-”

  1. N.B. Quella che è qui riportata come La dea Ishtar in un rilievo proveniente da Byblos, sul sito http://www.ritosimbolico.it/rsi/2012/08/principi-e-ordinamenti-iniziatici-femminili-parte-ii/ è riportata come Frammento in avorio del XIV secolo a.C., rappresentante Anat, la dea fenicia della fecondità – Louvre, Parigi. Direi che sia il caso di informarsi adeguatamente e dare una spiegazione copiosa approfondita e garantita da validi supporti sul chi ha commesso l’errore! Si tratta di Anat fenicia o Ishtar babilonese?

    1. Spesso identiche immagini riportate su Internet, specie relative ad antiche civiltà, sono attribuite a persone, o divinità, diverse a seconda dei siti. Quella citata è un esempio di tale disparità di interpretazione. Per quanto mi riguarda posso precisare che nel secondo volume dell'”Enciclopedia delle Religioni” curata, -e in buona parte redatta da Alfonso Maria di Nola-, la foto della dea (immagine 129 a corredo della voce “Fenici”) è riportata con la seguente dicitura: “Piastra fenicia in avorio (s. XIV-XIII a. C.), proveniente da Minet el-Beida, il porto di Ugarit-Ras Shamra. Vi è rappresentata una dea di nome ignoto identificabile con una “Signora degli Animali selvatici”. Dunque potrebbe non essere né Anat né Ishtar; si tratta comunque di una divinità legata alla natura e alla fertilità.

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