LE AMAZZONI AD ATLANTIDE (quarta parte) -i Guanci-

L’organizzazione sociale e politica, così come la religione, erano alquanto differenziate nelle varie isole. In alcune di queste vigeva la monarchia ereditaria, in altre vi erano istituzioni elettive. I re dei Guanci erano detti “menceys”; l’isola di Tenerife era suddivisa in nove piccoli regni, su ciascuno dei quali regnava un “mencey”; la trasmissione ereditaria della regalità avveniva per via matrilineare, cioè sebbene l’autorità fosse detenuta dal re, egli ereditava la sua dignità dalla madre (ad esempio poteva essere il figlio della sorella del re precedente). Una particolarità dei Guanci è che tra essi, sebbene non in tutte le isole, si riscontra l’ istituto della “poliandria”, ovvero del tipo di poligamia in cui una donna può avere due o più mariti, -forma di poligamia assai più rara della ben più frequente “poliginia”, che si ha quando un uomo può contrarre valido matrimonio con più donne-. Comunque, anche nelle isole dove non vigeva la poliandria la donna godeva di una posizione sociale elevata, e questo induce a ipotizzare o a confermare collegamenti con le culture berbere, in particolare quella dei Tuaregh, dove pure vigevano delle forme di matriarcato. A loro volta queste forme di matriarcato e di relativa indipendenza delle donne attesterebbero in qualche modo un discendenza o una parentela con le Amazzoni che a detta di Diodoro Siculo e di altri autori vivevano nel deserto libico e che ebbero stretti rapporti con gli Atlantidi, o per meglio dire, quelle espressioni culturali e strutture che sarebbero poi state descritte in forma mitica e fantasiosa nella leggenda delle Amazzoni.ov_arquipielago Si è voluto ravvisare questo legame anche nel nome che i Berberi del Marocco e dell’Algeria danno a sé stessi, “Amazigh”, che è stato avvicinato ad “Amazzoni” -questione sulla quale torneremo in seguito-. Allo stesso modo, anche per le più conosciute Amazzoni dell’area ponto-anatolica si è vista una rispondenza nelle culture di quei popoli delle steppe presso i quali le donne esercitavano una supremazia che colpì molto i Greci, che ne diedero forse un’interpretazione un po’ distorta, esagerandone talora l’importanza.

Quanto alla religione, i Guanci credevano in un dio supremo celeste e benevolo, che aveva caratteristiche simili, ma nomi diversi nelle varie isole: Acoran a Gran Canaria, Achaman a Tenerife, Eraoranhan a El Hierro, Abora a La Palma, Orahan a La Gomera. A tale divinità maschile se ne affiancava una femminile, -anch’essa designata con vari nomi, (Chaxiraxi, Moneiba, ecc.) –  nella quale si riscontrano i caratteri propri della Grande Madre Terra. A queste due divinità protettrici faceva da contraltare un entità maligna, o comunque infera, che spesso risiedeva nei vulcani, soprattutto nel vulcano Teide, il grande vulcano di Tenerife, -chiamata Guayota a Tenerife, e in altre zone Aranfaybo, Hirguan, ecc.-, spesso rappresentata con aspetto ibrido uomo-animale. Altre divinità importanti erano Magec, dio del Sole, Achuguayo, dio della Luna e Achuhucanac, dio della pioggia (talora identificato con Achaman); si venerava anche un bambino divino figlio di Chaxiraxi e di Achaman, -i quali pertanto costituirebbero una trinità, come spesso si riscontra nelle religioni-, che dopo la conquista spagnola fu identificato nel Bambino Gesù. I Guanci tributavano un culto poi numerose altre divinità minori ed entità spirituali legati al mondo della natura, geni, demoni e spiriti degli antenati. Tra di essi si segnalano i Maxios, geni benefici, in genere custodi di luoghi particolari, come monti, sorgenti, ecc.; e i demoni inferi con aspetto di cani neri e pelosi, chiamati Jucanchas a Tenerife e Tibicenas a Gran Canaria (dai quali forse derivò il nome Canaria?).

Il "Guatimac".
Il “Guatimac”.

Sono stati trovati molti idoli di pietra, osso o terracotta, tra i quali è famoso il “Guatimac”, una figuretta alta 16 cm che rappresenta probabilmente un gufo, scoperta nel 1885 all’interno di una grotta nei pressi di Fasnia, cittadina di Tenerife, dove giaceva avvolta in alcune pellicce. In questa statuetta è stato praticato un foro attraverso il quale doveva passare una corda o un nastro per tenerla al collo con funzione talismanica o a scopo apotropaico (cioè per stornare influssi malefici).

Un altro interessante reperto è la cosiddetta “Pietra di Zanata” (1), un manufatto litico di forma allungata che si presume rappresenti un pesce, rinvenuto casualmente nel 1992 alle pendici della “Montagna dei Fiori”, sempre a Tenerife. La caratteristica più importante della pietra è che essa reca un’iscrizione in segni alfabetici “Tifinàgh”, cioè l’alfabeto impiegato dalle popolazioni libiche e berbere fin dall’antichità – e tuttora in uso-, il che conferma gli stretti legami delle isole con l’Africa settentrionale.

I Guanci celebravano i riti in onore delle loro divinità all’aperto, in genere sotto gli alberi sacri, come la famosa “Dracaena draco” l’albero più caratterstico delle Canarie, -dalla cui linfa essiccata si estrae un colorante detto “sangue di drago”, considerato il prodotto tipico di queste isole-, oppure nelle grotte; esistevano dei sacerdoti e delle sacerdotesse che rivestivano anche la funzione di indovini e di consiglieri del sovrano. La festa principale era il “Benesmer” che concludeva il ciclo agricolo della raccolta dei frutti della terra e con la quale nello stesso tempo si  prendeva inizio il nuovo anno, e si celebrava il 15 agosto. Vista la coincidenza della data di celebrazione di tale festa con quella della festività cattolica dell’Assunzione della BVM, essa è stata assorbita da quest’ultima.

Si noti che, come spesso è accaduto nella storia, dopo la conquista spagnola, alcune delle antiche credenze sono sopravvissute rivestite dal culto cristiano: ad es. la dea Madre Chaxiraxi continuò ad essere venerata sotto le spoglie di Maria Vergine Candelaria (partrona delle isole Canarie) e suo figlio Chijoraji, -come già abbiamo detto sopra- divenne il Bambino Gesù.

I Guanci usavano imbalsamare i morti e sono state ritrovate molte mummie completamente disidratate, con peso non superiore ai 6 o 7 chilogrammi. La mummificazione praticata dai Guanci appare simile a quella degli antichi Egizi, anche se, come per questi ultimi, esistevano diversi procedimenti per eseguire tale operazione: a Tenerife e Gran Canaria il cadavere era svuotato dagli organi interni (che spesso -come accadeva presso gli Egizi- venivano conservati in recipienti a parte), lasciato essiccare al sole e avvolto in pelli di capra o di pecora; su altre isole si utilizzava un liquido resinoso per conservare il corpo, che poi veniva collocato in una caverna dal difficile accesso, o sepolto sotto un tumulo. L’opera di mummificazione sembra fosse riservata ad una classe di professionisti, che erano donne per le donne e uomini per gli uomini.

L'alfabeto berbero "Tifinagh".
L’alfabeto berbero “Tifinagh”.

Nel 1933 fu trovata ad Uchova, una località dell’isola di Tenerife una grande necropoli, che però. a causa dell’insufficienza di vigilanza e di controllo fu quasi completamente depredata. Era considerato onorevole il suicidio rituale, gettandosi dalle rupi, come fecero gli ultimi protagonisti della resistenza dei Guanci ai Castigliani, i quali, quando si videro preclusa ogni possibilità di vittoria preferirono concludere in  tal modo la loro esisitenza che arrendersi agli invasori.

Allorchè ebbe inizio la conquista delle Canarie da parte dei Castigliani, si stima che Gran Canaria fosse abitata da circa 40.000 Guanci e Tenerife da 30-35.000: quindi una popolazione ragguardevole per quei tempi,, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche delle isole. I conquistatori cercarono in ogni modo di sottomettere i nativi durante tutto il XV secolo,, ma questi ultimi non si lasciarono facilmente sottomettere.

L’eroe della resistenza dei Guanci alla dominazione spagnola fu Doramas, un capo di origine plebea, che guidò l’estremo tentativo dei Guanci di Gran Canaria di opporsi all’invasione degli Europei. Dopo la sua sconfitta, furono gli abitanti di Tenerife, i più numerosi e organizzati dell’arcipelago, che tentarono di ribellarsi al dominio spagnolo tra il 1494 e il 1496, conducendo varie operazioni belliche; ma quando, dopo la seconda battaglia di Acentejo il loro capo, Bentor, “mencey” di Taoro, uno dei piccoli regni di Tenerife, fu sconfitto, l’occupazione della corona di Castiglia, -destinata di lì a pochi anni, con l’unificazione definitiva dei regni di Castiglia e di Aragona, a divenire di Spagna- potè dirsi completata. La maggior parte di coloro che avevano cercato di resistere alla conquista furono sterminati. un altro fattore che contribuì all’inarrestabile declino dei Guanci furono la malattie introdotte dai colonizzatori, contro le quali i nativi delle Canarie erano privi di difese immunitarie. I superstiti di questo fiero popolo furono rapidamente assimilati dagli spagnoli.

LE PIRAMIDI DELLE CANARIE

Nella località di Guimar, sulla costa orientale di Tenerife, a metà degli anni ’80 nel corso di uno scavo vennero alla luce alcune costruzioni piramidali, ciascuna costituita da cinque gradoni di forma rettangolare, che assomigliano stranamente a quelle edificate in Messico dai Maya e dagli Aztechi. Le piramidi all’inizio erano nove, ma ora ne sono rimaste soltanto sei. Per un certo tempo si ritenne che esse fossero soltanto mucchi di pietra accatastati dai coltivatori del luogo che le avrebbero trovate dissodando i loro campi, poiché questa sembra essere stata una partica comune alla Canarie, fino a che le piramidi non vennero studiate e rese note al mondo dal celebre ricercatore e navigatore Thor Heyerdahl. Egli, grazie ad un infaticabile lavoro e a lunghi studi, riuscì a dimostrare che non poteva trattarsi di mucchi creati a caso, poiché appariva evidente che il terreno era stato livellato prima della posa delle pietre; inoltre queste ultime sono senza dubbio di origine vulcanica, quindi trasportate da lontano in quel luogo apposta per edificare le piramidi, e mostrano inequivocabili segni di essere state in qualche modo scolpite, soprattutto negli angoli. Infine Heyerdhal mise in evidenza che le piramidi avevano un preciso orientamento astronomico.

Una delle piramidi di Guimar.
Una delle piramidi di Guimar.

Tutte le piramidi presentano sul lato occidentale una scalinata, salendo sulla quale è possibile seguire il percorso del Sole nascente nel solstizio d’inverno; mentre nel giorno del solstizio d’estate si può assistere a un doppio tramonto dalla sommità della piramide più elevata: il Sole scende dietro la vetta di un’alta montagna, la oltrepassa , appare di nuovo per poi tramontare dietro la montagna accanto alla prima.

Tuttavia già in una cronistoria della conquista delle isole Canarie scritta nel 1632 dal frate francescano Juan de Abreu viene segnalata e descritta la presenza di piramidi anche sull’isola di La Palma. Il cronista riferisce che tali piramidi erano state costruite a imitazione di una sorta di piramide naturale costituita da un solo blocco di roccia, che veniva chiamata dai Guanci “Idafe” come la misteriosa divinità alla quale era consacrata -o forse delle quale era dimora, e in tal caso avremmo una significativa convergenza con la religiosità semitica, dove spesso pietre particolari per forma, colore o dimensione erano considerate sede della divinità e chiamate “betili” (cioè “casa di dio”) (si pensi per esempio alla celeberrima “Pietra Nera” venerata dai musulmani alla Mecca)-. Di questa strana pietra però sembra siano scomparse le tracce, anche se nella “Caldera de Taburiente” esiste tuttora un pinnacolo roccioso conosciuto come “Roque Idafe”.

Thor Heyerdhal non riuscì a scoprire l’età delle piramidi né a dire con certezza da chi fossero state innalzate; è certo però che fino al XV secolo Guimar fu residenza di uno dei dieci “menceys” di Tenerife. Come abbiamo già ricordato, Plinio afferma che pur essendo ai suoi tempi disabitate sulle isole Canarie si ergevano le rovine di edifici monumentali. L’illustre studioso avanzò l’ipotesi che le Canarie fossero una tappa della rotta che avrebbe congiunto le regioni atlantiche dell’Europa e dell’Africa alle isole Caraibiche (che quindi sarebbero state raggiunte assai prima della scoperta di Colombo). In effetti Heyerdhal già nl 1970 aveva dimostrato che anche nell’antichità sarebbe stato possibile giungere dall’Europa o dall’Africa in America, quando egli stesso compì tale impresa navigando dalle coste del Marocco alle isole Barbados con una barca in papiro simile a quelle in uso presso gli antichi Egizi.

 

La "Pietra di Zenata".
La “Pietra di Zenata”

A tale riguardo, dobbiamo notare che alcuni studiosi moderni, quali Valerio Massimo Manfredi e Lucio Russo, sostengono che le “Isole Fortunate” dalle quali abbiamo preso le mosse nel nostro discorso sulle isole Canarie, sarebbero da ricercare molto più ad ovest di queste isole, addirittura nelle Antille, sulle quali dunque antichi navigatori (greci, fenici, cartaginesi) sarebbero approdati, pur senza essersi resi conto di essere giunti nei pressi di un nuovo continente.

Ed in effetti non mancano numerosi indizi, se non prove inconfutabili, che i popoli marinari del vecchio continente fossero sbarcati sulle coste del nuovo già prima della nostra era. Ricordiamo ad esempio che nel 1933 nel sito archeologico di Calixtlahuaca in Messico venne ritrovata una testina di uomo barbuto, con berretto tronco-conico, sicuramente romana ed attribuibile per caratteri stilistici alla fine del II secolo. Si pensò che potesse essere stata trasportata in quel luogo dagli spagnoli o da altri in età recente, ma sembra che il santuario entro cui fu scoperta fosse rimasto inviolato dai Conquistadores.  Nel larario (il santuario domestico) della Casa dell’Efebo a Pompei è raffigurata una scena di sacrificio, ove su un’ara affiancata da due serpenti -probabile incarnazione dei Lari- compare l’inopinata offerta di un frutto che sembra essere senza dubbio un bell’ananas col suo ciuffo. Alcuni hanno pensato che il frutto raffigurato sia in realtà una grossa pigna alla quale il pittore avrebbe aggiunto un ciuffo di foglie a  scopo decorativo; ma l’ipotesi non appare molto convincente, tanto più che altri ananas sono stati riconosciuti in mosaici antichi dei quali uno conservato al Museo Nazionale Romano di Roma dove appare in cestino insieme ad altri frutti ed uno ad Aquileia.

L'ananas raffigurato nella "Casa dell'Efebo" a Pompei.
L’ananas raffigurato nella “Casa dell’Efebo” a Pompei.

E in altri mosaici e dipinti appaiono frutti originari delle Americhe, quali l’anona. Come potevano i Romani conoscere tali frutti, se non avessero avuto contatti, ancorché sporadici e occasionali, con il nuovo continente?

Numerosi autori hanno identificato le isole che costellano l’oceano Atlantico (Azzorre, Madera, Bahamas, ecc.), e le  Canarie in particolare come i residui del perduto continente di Atlantide dopo il suo inabissamento. Ricordiamo tra gli altri il francese Jean B. Bory de Saint-Vincent (1778-1846) il quale, nel suo “Essai sur les Iles Fortunèes et l’antique Atlantide”, afferma che l’ isola di Madera, le Azzorre, le Canarie e le isole del Capo Verde sono le ultimi reliquie dello scomparso continente e sarebbero anche le isole e i giardini delle Esperidi, arrivando pure a identificare il monte Teyde, il vulcano di Tenerife con il monte Atlante. Sulla stessa linea sviluppano le loro teorie Ignatius L. Donnely (1831-1901), per il quale Atlantide fu una terra collocata tra il continente eurasiatico e quello americano e da essa provennero tutte le popolazioni semitiche e indoeuropee, e probabilmente pure quelle americane; e di Lewis Spence (1874-1955), il quale ipotizzò l’esistenza di un “ponte” tra Atlantide e l’America centrale, di cui la penisola dello Yucatan in Messico sarebbe stata una parte e attraverso il quale i superstiti del cataclisma avrebbero trovato scampo dando origine al popolo dei Maya.  Queste ipotesi furono suffragate anche da osservazioni scientifiche : infatti il naturalista Louis Germain (1878-1942) effettuò accurati studi nei quali evidenziava come la fauna terrestre delle Canarie e di altre isole atlantiche mostrava affinità significative, oltre che con quella africana, con quella americana; decisamente meno importanti sono quelle con le regioni circummediterranee, mentre notevoli sono i riscontri con la fauna europea pleistocenica. Joseph Frank, -che abbiamo già citato-, osservò invece come le caratteristiche fisiche, paesistiche e litologiche delle isole Canarie si accordino con la descrizione data da Platone di Atlantide, -in particolare in “Crizia” 112-121-: presenza di sorgenti calde e fredde naturali, foreste rigogliose attraversate da corsi d’acqua e soprattutto la varietà di rocce bianche, rosse e nere sembrano corrispondere, sia pure su scala ridotta, all’aspetto del favoloso continente perduto.

3) LA CITTA’ DI MENE’

Il nome della città sacra nell’isola di Espera, Menè, attesta sicuramente un culto lunare: Diodoro stesso in un passo successivo, trattando della discendenza di Urano afferma che dal matrimonio tra Basilea e Iperione nacquero i figli Helios e Selene (ovvero il Sole e la Luna, che però il nostro, secondo l’interpretazione evemeristica alla quale si attiene, avrebbero mutato i loro nomi con quelli dei discendenti di Urano in memoria delle loro virtù); e che i Titani assassinarono Iperione e annegarono Helios nell’Eridano. Il fatto che il delitto venga compiuto nell’Eridano, fiume semimitico per lo più identificato con il Po, ma posto comunque ben più a nord delle coste dell’Africa, allarga di molto i confini di Atlantide, che si può considerare coincidente con tutta l’area europea e cicum-mediterranea; che questo triste episodio rimembra senza alcun dubbio la pietosa fine di Fetonte, figlio di Helios e di Climene, annegato anch’egli nell’Eridano, sia pure in circostanze assai diverse (2); ma che ancor più richiama il martirio di Dioniso, anch’egli ucciso dai Titani nella tradizione orfica.

Selene a causa del dolore per la tragica fine di Helios si suicidò; ma entrambi i fratelli diedero poi i loro nomi ai luminari del Cielo, e cioè rispettivamente Helios al Sole e Selene alla Luna e furono venerati come dei. La Luna però, come espressamente dichiara lo scrittore in precedenza era chiamata Mene. L’etimologia di tale nome è da ravvisare con certezza nella radice indoeuropea ME- o MEN, che  indica sia la Luna sia l’idea del “misurare” (o meglio alla Luna era stato attribuito un nome che faceva riferimento all’idea della misurazione): infatti si era visto uno stretto legame tra l’astro notturno e l’apprezzamento di grandezze mobili poiché la Luna con il costante e perpetuo crescere e diminuire del suo luminoso volto è diventata il simbolo visibile, l’immagine trascendente della misurazione del tempo prima, e in seguito della misurazione in generale. Ed infatti vediamo che ricollegano a questo etimo il latino “mensis”, che significa appunto la durata di una lunazione, l’antico germanico “mona” -dal quale derivano il tedesco “mond” e l’inglese “moon”-, il persiano “mah”, ed i termini simili di altre lingue indoeuropee, i quali indicano sempre la Luna. E, come conferma Diodoro Siculo, pure in greco l’antico nome della Luna doveva essere “Mene”, e in parallelo al latino il mese era chiamato “men, -menòs”), mentre il primo giorno del mese lunare, era detto “noumenìa” -che significa appunto “Luna Nuova”, il momento n cui la Luna in congiunzione al Sole è invisibile-.. Fu solo con l’introduzione del calendario giuliano che il “mensis”, cioè il mese corrispondente ad una lunazione fu svincolato dalle fasi lunari e divenne il mese come lo intendiamo ora ovvero un dodicesimo dell’anno solare. Quasi tutti i calendari antichi (mesopotamico, ebraico, greco, latino, ecc.) erano “luni-solari”: la durata dell’anno era data dal moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole (che essi reputavano peraltro del Sole intorno alla Terra), quella del giorno dal moto di rotazione della Terra, mentre le suddivisioni dell’anno, ovvero i mesi, erano determinate dalle lunazioni. Per conciliare i due cicli, del Sole e della Luna, si faceva iniziare l’anno da una data fissa (in genere un equinozio o un solstizio), mentre la rotazione annuale dei mesi cominciava dalla Luna Nuova successiva a tale data.

Poi però in alcune lingue, come appunto il greco ed il latino, sull’idea della “misurazione” prevalse quella della “luminosità” e così all’astro che, quando non è oscurato, rischiara le notti col suo magico bagliore, furono associati nomi derivati da radici linguistiche che esprimono lo “splendore”: fu così che in Grecia fu chiamato “Selene” -da “selas” = scintillìo, lucentezza-, tra i Latini “Luna”, connesso con “lux” =luce. Alcuni (-si veda ad esempio la voce “Selene” in “Dizionario etimologico della mitologia greca”-), suppongono che tale scelta sia dovuta a motivazioni scaramantiche, per l’intento di esorcizzare le forze oscure e misteriose legate alle tenebre notturne.

In Anatolia poi, in particolare nella città di Antiochia di Pisidia, era venerata una divinità lunare maschile il cui nome era MEN, e chiamata “Lunus” dai Latini, -sebbene nella parte occidentale dell’Impero Romano non abbia goduto di un culto autonomo, ma solo in quanto assimilata ad Attis, il dio frigio della vegetazione sposo della dea Cibele, il cui culto misterico si diffuse anche a Roma fin dal 204 a. C.. Tale divinità era rappresentata spesso anche con abbigliamento e aspetto simili a quelli di Mitra (3), con il quale forse in età tarda si confuse.

Questa divinità è raffigurata di solito con il berretto frigio, una corta tunica stretta alla vita e due corni sulle spalle, a somiglianza di un crescente lunare. Appare quasi sempre in piedi o in groppa ad un animale che è il più delle volte un cavallo, ma può essere anche un ariete, un toro, una pantera o un leone e tiene in mano uno scettro, una pàtera (una coppa larga e appiattita) o una pigna. Dal periodo augusteo cominciò ad essergli affiancata anche Nike, la rappresentazione allegorica della Vittoria. Men venne a volte effigiato sopra un cavallo che ha la curiosa particolarità di avere le zampe anteriori terminanti una con una mano e l’altra con un piede umani. Elio Sparziano, uno degli autori dell'”Historia Augusta” afferma (VI, 6) che l’imperatore Caracalla venne assassinato mentre si stava recando nella città di Carre, nella Siria settentrionale, al tempio di Lunus. Sparziano riferisce anche che in quella regione si credeva che chi avesse venerato la divinità riferendosi ad essa al femminile sarebbe stato succube delle donne, mentre se l’avesse considerata maschile avrebbe avuto il dominio della propria esistenza. Notiamo per inciso che a Carre, l’antica Harran, fin da tempi remoti si adorava il dio lunare cananeo Yarikh, e dunque il culto di Men-Lunus deve essersi sovrapposto alla venerazione per quest’ultimo.

Busto del dio Men conservato nel Museo Archeologico di Ankara.
Busto del dio Men conservato nel Museo Archeologico di Ankara.

In effetti, sebbene la Luna sia in genere associata alla femminilità e alla maternità, sono frequenti le divinità lunari di sesso maschile; sembra anzi che nelle età più antiche la maggior parte dei popoli considerasse la Luna un’entità superiore maschile, e solo in seguito l’astro notturno abbia assunto un carattere e una “personalità” prettamente femminili. Questa trasformazione dovrebbe essere avvenuta allorché con l’affermarsi dell’agricoltura nacquero le società patriarcali, nelle quali l’elemento maschile assunse il predominio mentre la componente femminile ebbe una posizione subordinata, quando non inferiore all’uomo. Per questo la donna fu identificata con la Luna, il cui splendore è inferiore ed è il riflesso di quello del Sole ed è legata alle tenebre notturne; e l’astro notturno nella sua valenza divina assorbì, o meglio fu assorbito dalle figure che incarnano la Grande Madre degli dei, ovvero la Madre Terra, la divinità genitrice e materna.

Oltre all’anatolico Men, trai numerosi dei lunari possiamo citare il mesopotamico SIN, il cananeo YARIKH, l’egiziano CHONSU, l’indiano CHANDRA; anche THOTH, dio egizio della sapienza e della saggezza, è legato alla Luna, soprattutto nella sua veste di “misuratore” (del tempo e dello spazio), e pure l’indiano SHIVA presenta spiccati caratteri notturni e lunari.

 

CONTINUA NELLA QUINTA PARTE

1) cosiddetta dal nome di un gruppo etnico berbero forse derivante dal popolo dei Getuli, che abitavano le aree nordafricane antistanti le Canarie.

2) com’è noto, Fetonte (che significa splendente, nome quanto quanto mai appropriato per un rampollo del Sole) chiese al padre di poter guidare il suo carro. Helios, sebbene a malincuore -presentendo il disastro che sarebbe avvenuto- acconsentì alla preghiera del figlio; ma questi non riuscì a condurre i cavalli nel modo adeguato e così, avvicinandosi troppo al suolo, rischiò di ardere l’intera terra, così che per impedire una catastrofe Zeus fu costretto a fulminare Fetonte, il quale cadde nell’Eridano e vi si spense.

3) dio solare di origine indo-iranica il cui culto divenne assai popolare prima nell’Impero Partico sotto la dinastia degli Arsàcidi  e negli stati dell’Asia Minore, quali il Ponto e l’Armenia, e poi nell’Impero Romano.

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