L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -quinta parte (le corna di Alessandro Magno; la domesticazione dell’Asino; l’Asina di Balaam)-

In una leggenda arabo-persiana le orecchie d’asino sono attribuite anche ad Alessandro Magno.

Com’è noto fin dai tempi immediatamente successivi alla morte del grande condottiero la leggenda si era impadronita della sua vita; questa tendenza ai accentuò nei primi secoli dell’era volgare con le biografie ampiamente romanzate di Curzio Rufo e quella cosiddetta dello Psudo-Callistene (1). In esse la figura storica del sovrano macedone si trasfigurò in quella di una sorta di filosofo il quale più che voler allargare i confini di un impero terreno, cerca la conoscenza dei segreti dell’universo e in definitiva di superare i limiti della condizione umana per immedesimarsi nella divinità. Per questo forti erano da un lato le influenze del romanzi ellenistici d’avventura, intessuti di elementi meravigliosi ed esotici, dall’altro quelle delle dottrine misteriosofiche che fecero della figura storica di Alessandro un paradigma se non del maestro spirituale, certo del discepolo ideale, dell’uomo che attraverso l’esplorazione del mondo esterno mira in realtà a conoscere sé stesso e Dio.

Questa tradizione, che si fondava soprattutto sulla “Vita” dello Pseudo-Callistene, tradotta in latino da Giulio Valerio Polemio nel IV secolo, e in numerose lingue orientali (siriaco, armeno, arabo, etiopico, ecc.) tra il IV e il VI secolo, ebbe poi ampi sviluppi sia nell’Europa medioevale, sia nel Vicino e Medio Oriente, dove in essa si innestò una tradizione persiana, nella quale al famoso condottiero era attribuita un’origine in parte iranica, in quanto sarebbe stato progenie di Darab e fratellastro di Dara, -da identificare con Dario III Codomano, l’ultimo re degli Achemenidi-, mentre la madre era Halai, figlia di Filippo di Macedonia (si veda al riguardo quanto abbiamo detto nell’articolo su “La Gallina dalle uova d’oro”).  Ma oltre a questa, determinante per la fortuna del personaggio nella cultura islamica fu la sua presenza nello stesso Corano, dove la figura di un enigmatico “Signore dalle Due Corna” (“Dhul-Qarnayn”), del quale si parla nella sura XVIII, è stata identificata dall’esegesi prevalente, -pure se non in modo unanime-, con quella di Alessandro Magno.

In questa sura, e in una certa tradizione islamica posteriore, il duce macedone è descritto come un profeta, o per meglio dire un eroe seguace del vero dio, dal quale avrebbe ricevuto doni straordinari e sarebbe stato reso potente sopra la terra. Egli segue prima una via che lo conduce al luogo dove il Sole tramonta e in seguito un’altra via per la quale giunge all’estremo oriente donde il Sole inizia il suo quotidiano percorso. Infine combatte contro Gog e Magog, costruendo una muraglia destinata a difendere le terre dei credenti fino a quando non crollerà alla fine del mondo e le forze del disordine non sommergeranno la terra.

In  questa veste, Alessandro Magno, -chiamato Iskandar in arabo e Eskandar, o Eskander, in persiano-, avrà una parte importante nella letteratura medio-persiana, soprattutto nell’opera del grande poeta Firdusi (il “Paradisiaco”) (940-1020 circa), lo “Sha-Namè” (il Libro dei Re) (del quale abbiamo detto nella ricerca sull’uccello Simurgh del 6 aprile 2014), che tratta di tutta la storia della nazione iranica dalle origini mitiche con la creazione del primo uomo e primo re di Persia, Gayomart, fino all’epoca a lui contemporanea quando regnava il suo mecenate, il sultano Mahamud di Gazna (971-1030).

Alessandro Magno fu chiamato “il Bicorne”, poiché -come espressamente riferiscono tutte le fonti storiche e le biografie (Diodoro Siculo, Bibl. Hist., XVII, 50-51; Plutarco, Vita di Alessandro, 27-28; Arriano, Anabasi di Alessandro, III, 2; Curzio Rufo, IV, 7; ecc.)-, allorché, dopo aver conquistato l’Egitto nel 332 a. C., egli si recò a far visita al tempio e all’oracolo di Ammone (ossia del dio supremo egiziano Amon-Ra, identificato dai greci con Zeus), fu riconosciuto dai sacerdoti come “figlio di Ammone”. E poichè Ammone secondo la tradizione iconografica egizia era rappresentato con due corna di ariete (e nei tempi più antichi con testa d’ariete), l’attributo divino passò anche al fondatore dell’impero macèdone, la cui testa appare adorna di corna arietine su diverse monete coniate negli stati ellenistici, specie in Asia Minore, nei due secoli successivi alla sua morte.

Tetradramma d'argento coniata da Lisimaco, re di Tracia e di Lidia, con l'effigie di Alessandro Magno dotato di corna d'ariete.
Tetradramma d’argento coniata da Lisimaco, re di Tracia e di Lidia, con l’effigie di Alessandro Magno dotato di corna d’ariete.

Ma nella versione siriaca e araba le corna gli erano state fatte spuntare sul capo da Dio come segno della sua predilezione e tangibile testimonianza della sua potenza con la quale egli potè abbattere tutti i regni della terra.

Oltre a Firdusi, altri insigni poeti persiani si ispirarono alla figura di Eskandar, e in particolare al-Nezami (1141-1209), che lo fece protagonista di un’opera assai interessante e istruttiva dal carattere al tempo stesso poetico, narrativo e filosofico-mistico-sapienzale, “Il Libro della Fortuna di Alessandro” (2). Ed è proprio qui che troviamo la notizia che il sovrano macedone sarebbe stato dotato di un magnifico paio di orecchie d’asino, particolarità questa che, come abbiamo detto sopra, non ha affatto un significato negativo: al contrario essa è segno di acutezza, di saggezza e di intelligenza.

Secondo la versione riportata dal poeta azero la vera ragione per cui Alessandro Magno divenne noto come “il Bicorne” sarebbe proprio questa (Eqbal-Namè. vv. 452-519). Egli tuttavia ogni qual volta compariva in pubblico si copriva il capo con una tiara aurea all’uso persiano e anatolico. Nessuno conosceva il suo segreto ad eccezione del barbiere che si prendeva cura della sua chioma. Costui però lasciò anzitempo questo mondo, così che Alessandro -o per meglio dire Eskandar- dovette avvalersi dell’opera di un’altra persona. Allorché il nuovo barbiere si accostò alla capigliatura del re che si era tolto la tiara, l’augusto cliente gli disse che se avesse osato fare parola con chicchessia su quanto aveva scoperto circa le sue orecchie, sarebbe stato severamente punito.

Alessandro Magno dvanati all'"Albero degli Oracoli" (episodio narrato nella "Vita" dello Psudo-Callistene e nello "Shanamè" di Firdusi).
Alessandro Magno davanti all'”Albero degli Oracoli” (episodio narrato nella “Vita” dello Psudo-Callistene e nello “Shanamè” di Firdusi) in una miniatura persiana.

Ma non riuscendo più a mantenere il segreto, un giorno si recò in una grotta entro la quale si apriva un pozzo profondo. Il barbiere si chinò sull’imboccatura del pozzo e sussurrò: “Il re del mondo ha orecchie lunghissime!”. dopo aver pronunciato queste parole, gli parve di essersi tolto un peso dal cuore che gli provocava grave affanno.

Dal pozzo però dopo un po’ di tempo salì un lamento simile a quello che aveva udito e si sparse nell’aria circostante e si insinuò in un cespo canne cresciute sul bordo del pozzo. Accadde che un pastore proveniente dal deserto durante una sosta al pozzo vide le canne e pensò di fare con una di esse un flauto col quale rallegrare le sue tristi giornate. Quello strumento quando veniva sonato aveva la particolarità di rimandare la frase pronunciata dal barbiere sul pozzo e che era stata assorbita dalle canne.

Un giorno Eskandar incontrò per caso il pastore che stava sonando e udì il lamento che esso rimandava. Allarmato per aver sentito il suo segreto divulgato attraverso quel dolce suono, chiese spiegazione al pastore del mistero, e quegli gli rivelò che egli aveva trovato la canna con la quale aveva costruito il flauto sull’orlo di un pozzo e incidendo i fori aveva a sua volta liberato il gravoso affanno che essa conteneva.

Tornato in città, Eskandar mandò a chiamare il barbiere, poiché sapeva che la notizia non poteva essere stata proferita da altri che da lui. Questi per placare l’ira del re, raccontò quanto aveva fatto, implorando la pietà del sovrano e protestando di non avere in effetto parlato con anima viva delle lunghe orecchie che aveva veduto, ma di aver solo cercato di sfogare l’ansia che gli procurava il terribile segreto di cui era a conoscenza.

Per questo, dopo aver accertato che davvero quelle canne, una volta tagliate e che si fosse insufflato il fiato dentro di esse, mormorassero quanto gli era accaduto, il re perdonò il barbiere, rendendosi conto che “nel grande scenario del mondo nessun segreto può rimanere a lungo celato” -così si conclude la narrazione dell’episodio-.

Appare evidente che questa storia fonde la credenza nelle corna attribuita ad Alessandro Magno, quale segno della sua figliolanza divina da Ammone, con il mito di re Mida con le orecchie di asino, in cui, come abbiamo detto, riviveva, in forma adattata e resa accettabile allo spirito greco, -ovvero come punizione di una divinità e non quale caratteristica congenita-, l’antica concezione anatolica dell’orecchio asinino quale simbolo di regalità e di saggezza.

Nelle credenze persiane più antiche troviamo Khara, un enorme asino bianco a tre zampe: questo strano animale era immaginato con sei occhi, -due nella posizione normale, due sulla sommità del capo e due sul dorso-; nove bocche, -tre in testa, tre sui fianchi e tre sulla schiena-, nonché un lungo corno sulla fronte, peculiarità quest’ultima che, insieme al candore del manto, sembra apparentare la figura di Khara a quella del ben più celebre Unicorno. La sua dimora era ritenuta trovarsi al centro del lago Varkash: tutte le cose immonde, in senso morale e materiale, che arrivano dalla terra in codesto lago, egli le rende pulite e pure con il solo suo sguardo.

In India invece un asino è la cavalcatura di alcune divinità legate al mondo funerario, come Nairrita, uno dei sette guardiani della regione dei morti, e Kaalratri (o Kalaratri), una delle ipostasi terrifiche di Durga, la sposa di Shiva, terribile distruttrice di demoni, spettri, fantasmi e altre presenze infauste e malefiche. Ma pure i Nasatya (detti poi in età più recente Ashvini), i divini gemelli signori dell’aurora e medici degli dei (che mostrano affinità da un lato con le analoghe coppie di gemelli divini -Aziz e Arsu; Shalim e Shahar- che abbiano rilevato tra gli Arabi pre-islamici, i Cananei e gli Aramei, e la cui abituale cavalcatura era il dromedario-; dall’altro con i Dioscuri greci e i Palici siculi) si dice nel “Rig Veda” (il “Veda reale”, il principale e più venerando testo indù) avessero quale mezzo di trasporto un carro trainato da asini; solo in seguito il loro attributo divenne il cavallo, dal quale presero il nome ( “Ashvini” = i “Cavalieri”, da “asva” =cavallo, connesso con “equus” latino, “ippos” greco ed “epos” celtico).

A proposito del nome del nostro amico asino, osserviamo che l’etimologia e l’origine tanto del latino “asinus” quanto del greco “onos” (che derivano senza dubbio dallo stesso termine o dalla medesima radice) sono oscure: certamente non sono indo-europee; alcuni hanno ipotizzato una provenienza semitica, ma questa appare improbabile perché non hanno alcuna somiglianza o assonanza con la radice trilittera che compare nel nome dell’asino nelle lingue semitiche (HMR, da cui “hamor” ebraico, “himar” arabo, ecc.). Più probabile allora il legame con un meglio definito sostrato “mediterraneo” pre-indoeuropeo, da cui deriverebbero diversi altri termini, specie nell’ambito agricolo, botanico e zoologico (come ad esempio il nome della rosa -“rosa” latino; “rhodon” greco-).

Prima di continuare la nostra ricerca, è opportuno dare alcune indispensabili informazioni sull’origine dell’asino domestico e gli inizi del suo addomesticamento.asini2

Quasi certamente l’Asino domestico (e le razze nelle quali la specie si è diversificata con l’allevamento) discende dall’Asino selvatico africano (Equus asinus africanus), mammifero appartenente, come il Cavallo e la Zebra, alla famiglia degli Equidi, compresa a sua volta nell’ordine dei Perissodattili (gli Ungulati con le zampe terminanti in unico zoccolo, a differenza degli Artiodattili, che ne hanno due); di questo animale si conoscono tre sottospecie -Equus a. atlanticus, diffuso un tempo nelle regioni maghrebine; Equus a. africanus, o Asino nubiano, proprio dell’Africa nord-orientale; e l’Equus a. somaliensis o taeniopus, o Asino somalo, con areale limitato ad alcune regioni dell’Etiopia, della Somalia e del Kenia-; di queste tre sottospecie la prima è estinta ormai da secoli, della seconda, sterminata allo stato selvatico, sopravvivono alcuni esemplari in cattività; la terza (che è caratterizzata da fasce scure trasversali sugli arti che ricordano quelle della zebra ed la razza più alta poiché può raggiungere una statura di m 1,40 al garrese) è gravemente minacciata di estinzione.

Altre specie asini selvatici, come l’Onagro (Equus onager) e l’Emione (Equus hemionus) erano un tempo diffusi con alcune sottospecie in diverse regioni asiatiche, dalla Mongolia e l’Asia centrale, all’India, alla Persia, alla Mesopotamia ed Arabia; ma purtroppo tutte sono in percolo critico di estinzione, -quando già non estinte del tutto, come l’Emippo che abitava un tempo nelle aree steppose e semidesertiche del Vicino Oriente-.

Gli asini selvatici vivono, -o forse sarebbe più esatto dire vivevano- in branchi non molto numerosi, guidati di solito da una femmina anziana (anziché da uno stallone, come avviene in genere per i cavalli selvatici), spostandosi in località povere di vegetazione, semidesertiche e pietrose, spesso desolate, dove grazie alla loro eccezionale sobrietà e resistenza, inferiore solo a quelle dei Cammelli e Dromedari, si accontentano di nutrirsi di arbusti ispidi e spinosi.

Si ritiene che le forme domestiche siano derivate in qualche misura da tutte e tre le sottospecie, -sebbene il contributo più importante sia stato probabilmente dato dall’Asino nubiano, con il quale presentano le maggiori affinità-: ed infatti sono proprio le regioni dell’Africa settentrionale e nord-orientale quelle donde provengono le prime testimonianze dell’addomesticamento dell’asino, che risale di certo ad un epoca non più recente del 4000 a. C., ma che alcuni spostano addirittura al 7000 a. C., (e quindi assai anteriore a quella del Cavallo).

Tuttavia il ritrovamento durante la seconda metà del XX secolo di numerosi resti scheletrici di asini, ancora assai simili ai loro progenitori selvatici, risalenti all’età del bronzo antico in un vasto territorio compreso tra la Siria, la Mesopotamia e l’Arabia orientale ha indotto alcuni autori a ritenere che la domesticazione dell’asino sia avvenuta in queste aree e non in Africa. In ogni modo all’inizio del III millennio a. C. l’impiego di asini domestici era già frequente e abituale in tutta la fascia dall’Africa nord-orientale all’Asia occidentale. In Europa invece l’asino domestico non fece la sua apparizione prima dell’età neolitica. Anche l’ibridazione dell’asino con il cavallo rimonta ad epoca assai antica: già almeno 3000 anni fa si ha notizia dell’esistenza di muli in Anatolia e in Mesopotamia; ma sembra che già i Sumeri avessero incrociato asini di provenienza africana con l’emione, l’asino asiatico con caratteristiche intermedie tra quelle dell’asino e del cavallo (3).egiziani_asino

Nel 2007 furono rinvenuti ad Abydos, nell’Alto Egitto, dieci scheletri di asino in tre fosse poste nel complesso funerario di un faraone della prima dinastia (e quindi risalenti a circa 5000 anni fa). Questi scheletri mostrano i segni di patologie conseguenti al trasporto di pesi ai quali erano stati adibiti da vivi e quindi testimoniano lo sfruttamento come animale da soma e traino al quale il povero quadrupede è stato sottoposto fin dai tempi antichi. Tuttavia la presenza degli scheletri preso una tomba reale attesta senza dubbio che in origine questo animale godeva di una certa considerazione e non aveva le valenze negative che gli furono attribuite in seguito. Una delle prime raffigurazioni dell’asino, se non la prima in assoluto, si trova in un bassorilievo nella “mastaba” (la mastaba è la forma primitiva di tomba in uso nelle fasi più antiche della civiltà egiziana) di Akhethotep, visir del faraone Gedkara, che risale al 2400 a. C.

L’avversione degli Egiziani per l’asino risale periodo seguente la fine della dominazione degli Hyksos, che nonostante non sia stata così negativa come fu descritta nella tradizione egizia del Nuovo Regno, rimase nella memoria collettiva come un periodo di oppressione e di decadenza (come abbiamo detto negli articoli sull’argomento pubblicati nel 2013), con i quali essi, lo identificarono, a causa della loro devozione per Seth, del quale a sua volta l’asino era ritenuto uno dei simboli.

PWI105671 Harvest scene, detail of relief decoration from the Mastaba of Akhethotep at Saqqara, Old Kingdom (c.2700-2200 BC) (limestone) by Egyptian, 5th Dynasty (c.2494-2345 BC) limestone Louvre, Paris, France Peter Willi Egyptian, out of copyright
Rilevo della mastaba di Akhethotep a Saqqara risalente alla V dinastia.

Anche nel mondo semitico l’Asino ebbe in genere una valenza positiva, in particolare l’asino -e soprattutto l’asina- bianco, che fu spesso scelto come cavalcatura di sovrani e divinità. Nelle processioni in onore di Elagabal, il “dio della montagna”, venerato soprattutto ad Emesa in Siria (e il cui culto fu poi importato a Roma dall’imperatore  Sesto Vario Avito Bassiano, meglio noto con lo stesso nome della divinità che adorava Elagabalo, divenuto talora Eliogabalo per assonanza con il nome di Helios, il dio del Sole greco, con il quale fu identificato), incedeva un’asina bianca priva di cavaliere, ma che si credeva fosse cavalcata a dal dio stesso.

E anche nella Bibbia la presenza dell’asino, -come abbiamo già rilevato nella prima parte del presente articolo-, è senza dubbio significativa. Nel libro dei “Giudici” ((V, 9-10) la profetessa Deborah (4) effondendo il suo cantico di lode proclama: “Benedite il signore, voi che cavalcate asine bianche e splendenti, seduti su gualdrappe, voi che procedete sulla via!”.

Ma l’episodio biblico più famoso che ha per protagonista un esponente della razza asinina è di certo quello in cui appaiono il profeta e incantatore Balaam e la sua asina (della quale si ignora il nome), narrato nel libro dei “Numeri” (XXII, 21-34). Dopo che gli Israeliti nella loro avanzata nella terra di Canaan avevano già sconfitto Sichon, re degli Ammoniti, e Og, re di Bashan (5), Balak, sovrano di Moab, preoccupato per l’eventualità di essere ugualmente sconfitto dai nuovi venuti, per cercare di neutralizzare il nemico, che aveva mostrato di avere una notevole forza bellica e si era rivelato un temibile avversario, incaricò il sacerdote Balaam, figlio di Beor, di pronunciare una tremenda maledizione con cui stornarne la minaccia.

Questi, nonostante il dio di Israele gli sia apparso in sogno per dissuaderlo dall’eseguire l’ordine del re ed egli abbia in un primo tempo rifiutato di compiere la missione, alla fine acconsente e parte a cavallo della sua asina per recarsi nel luogo -non ben precisato, ma presumibilmente una collina o un’altura-, donde dovrà lanciare la maledizione. Ma durante il percorso un angelo che brandiva una spada sguainata si para davanti all’animale, impedendogli di avanzare e costringendolo per tre volte a cambiare strada. Poichè solo l’asina poteva vedere l’angelo, Balaam si adirò con lei e la percosse, fino a che ella non parlò dicendogli: “Che ho fatto perché tu mi tratti in questo modo? Non ti ho sempre servito fedelmente?”. Balaam non può fare a meno di ammettere quanto afferma l’asina, e alla fine l’angelo si mostra anche a lui, comandandogli di pronunciare, anziché una maledizione, una benedizione nei confronti degli Israeliti, cosa che Balaam fa.

Nel 1967 duranti gli scavi compiuti da una missione archeologica nella località di Deir Alla in Giordania vennero alla luce numerosi frammenti (per la precisione 119) di un muro intonacato contenenti una iscrizione in un idioma semitico sconosciuto, sebbene vicino all’aramaico e al cananeo, risalente ad un’epoca intorno al IX-VIII secolo a. C. Il testo scoperto è scritto con inchiostro rosso e nero e vi si parla di Balaam, figlio di Beor, che anzi appare come l’autore del contenuto dell’iscrizione, se non della stesura materiale delle lettere. In essa Balaam afferma di essersi destato in lacrime dopo che gli dei gli erano apparsi in sogno mettendolo in guardia dall’arrivo di una dea che avrebbe arrecato scompiglio nel paese.

E’ possibile che questa sia l’origine dell’episodio biblico, -ovviamente poi adattato ad esprimere la credenza ebraica-? E quanto all’asina -della quale non si fa cenno nell’iscrizione suddetta (ma che potrebbe essere in una parte mancante dato lo stato frammentario e incompleto in cui è giunta l’iscrizione)- potrebbe essere un lontano ricordo di Seth, divinità protettrice degli Hyksos in Egitto, a cui, come abbiamo visto, era sacro l’asino?

Secondo una consolidata tradizione, -attestata ad esempio negli apocrifi “Atti di Tommaso” (cap. 40)-, dall’asina di Balaam sarebbe disceso l’asinello, ovvero l’asina (6), che Gesù avrebbe cavalcato durante il suo ingresso a Gerusalemme nella Domenica delle Palme: si tenga presente che, come abbiamo spiegato in precedenza, nel costume orientale l’asino era una cavalcatura nobile e dunque in questo caso vuole sottolineare la regalità del personaggio.

L'ingresso di Cristo a Gerusalemme in un famoso affresco di Giotto nella cappella degli Scrovegni di Padova. Se si osserva con attenzione accanto all'asina in basso a sinistra si può notare il puledrino che cammina accanto alla madre: da questo particolare si deduce che il pittore ha seguito la versione del vangelo di Matteo.
L’ingresso di Cristo a Gerusalemme in un famoso affresco di Giotto nella cappella degli Scrovegni di Padova. Se si osserva con attenzione accanto all’asina in basso a sinistra si può notare il puledrino che cammina accanto alla madre: da questo particolare si deduce che il pittore ha seguito la versione del vangelo di Matteo.

Una leggenda vuole che l’asino, o l’asina, che avrebbe trasportato Gesù, -del quale non si fa più cenno nei Vangeli-, sarebbe stato liberato dal suo illustre cavalcatore, il quale voleva che l’animale trascorresse in libertà il rimanente dei suoi giorni. Ma questi, dopo aver vagabondato a lungo in Palestina, ebbe voglia di visitare altri paesi e di attraversare il mare. E non gli occorse alcuna imbarcazione, poiché le onde si appianavano dinanzi a lui e le acque si indurivano come cristallo, consentendogli di percorrere a piedi i mari e di giungere così prima a Cipro, e poi a Rodi, a Creta, a Malta e infine in Sicilia. Da qui poi risalì il mar Ionio e tutto l’Adriatico e arrivò fino alla laguna dove sarebbe poi sorta Venezia. Ma essendogli sembrata l’aria insalubre e il pascolo gramo in quelle isole salate e paludose, riprese il suo cammino e giunse fino a Verona, che scelse come sua dimora definitiva.

Quando, dopo aver vissuto molti anni, passò infine a miglior vita, gli furono tributate solenni esequie dal popolo veronese e i devoti di quella città conservarono con diligente pietà le sue reliquie, riponendole nel ventre di un asino artificiale costruito allo scopo. Questo simulacro asinino, detto “Muletta” e risalente al XII-XIII secolo (al quale fu poi aggiunta in epoca posteriore una statua di Cristo sulla groppa), contenente le reliquie è tuttora custodito nella chiesa di S. Maria in Organo; un tempo era portato in processione due volte all’anno per la Domenica delle Palme e per il Corpus Domini, ma poi questa usanza fu soppressa poiché in essa si dava luogo a manifestazioni scomposte con sberleffi e lazzi carnascialeschi, nelle quali rivivevano probabilmente antichi culti precristiani, che non erano certo rare nel ME ma che poi furono giudicate sconvenienti (7)(8).

CONTINUA NELLA SESTA PARTE

Note

1)Callìstene di Olinto era uno storico, lontano parente di Aristotele, che seguì Alessandro durante le sue imprese in qualità di storiografo ufficiale. Delle sue opere autentiche, -tra le quali era notevole “I fatti di Alessandro”, sulla guerra del re macedone contro l’Impero Persiano-, non sono rimasti che scarsi frammenti. A lui però fu attribuita una “Vita di Alessandro”, composta da un egiziano alessandrino nel III secolo. In questa biografia, sebbene fondata ancora su fonti storiografiche autentiche, la figura del condottiero (che sarebbe stato figlio non di Filippo, ma di Nectanebo, ultimo faraone d’Egitto, emigrato in Macedonia, e di Olimpiade) appare già modificata in senso romanzesco, come quella di un eroe che incontra sul suo cammino straordinarie avventure; nell’opera sono inserite molte lettere apocrife in cui il sovrano descrive ad Aristotele le cose che ha visto e gli chiede consigli.

2) nelle intenzioni del poeta la sua opera su Alessandro Magno avrebbe dovuto constare di tre distinti poemi dedicati rispettivamente alla figura del condottiero, a quella del filosofo e a quella del profeta, i quali dovevano forse delineare il ritratto del principe ideale. Ma di fatto Nezami, -forse anche a causa dell’età avanzata (infatti questa è la sua ultima opera)-, ne compose solo due: lo “Sharaf-Namè” (Libro dell’Onore) e l'”Eqbal-Namè” (Libro della Fortuna”) nel quale sono state fuse le componenti del filosofo e del poeta, che è quella che prendiamo in considerazione.

3) com’è noto il mulo è l’incrocio tra un asino e una cavalla, dall’aspetto e dalle caratteristiche più simili a quelle della madre; il bardotto è invece l’ibrido tra un asina e un cavallo maschio: questo secondo tipo di ibridazione è stato praticato assai più dirado per la minore resistenza e attitudine al lavoro del bardotto rispetto al mulo.

4) questo nome proprio in ebraico significa “ape” e corrisponde quindi al greco “Melissa” -nome dato anche a ninfe e sacerdotesse-, confermando l’altissima considerazione di cui questo insetto godeva in tutte le civiltà del mondo antico e il cui principale prodotto, il miele, fu sempre considerato simbolo e metafora della poesia, della sapienza e della profezia.

5) di Og, re di Basan,-e soprattutto della sua enorme statura- abbiamo fatto cenno nella quinta parte dell’articolo su “Miti e misteri di Alantide” pubblicato il 10 febbraio 2015.

6) nel Vangelo di Marco (XI, 1-10) Gesù manda due discepoli in un borgo ove avrebbero trovato un asinello, legato davanti a una porta, mai cavalcato prima da alcuno e ordina loro di condurglielo. In Giovanni (XII, 14-15) si dice soltanto che “trovato un asinello, vi salì sopra”, precisando che questo evento corrispondeva alla profezia di Zaccaria (IX, 9): “Esulta figlia di Sion! Ecco viene il tuo re…cavalcando un puledro figlio di asina!”. In Matteo (XXI, 1-7) invece la cavalcatura è un’asina con il suo puledrino: anche in questa versione, -che forse è la più completa e concilia le due precedenti-, due discepoli vengono mandati per trovare gli animali e vengono citate le profezie di Zaccaria e di Isaia (LXII, 11).

7) questa leggenda è riportata nel “Dizionario delle reliquie e delle immagini miracolose” dell’erudito J.A. Collin de Plancin (1794-1881), il quale a sua volta cita la descrizione di Francois Maximilien Misson (1650-1722), contenuta nel suo “Viaggio in Italia”.

8) abbiamo rilevato diverse volte come elementi religiosi pre-cristiani siano sopravvissuti nella liturgia cristiana ed anzi molte festività “pagane” siano state cristianizzate. Ora non estenderemo la nostra ricerca all’età medioevale e moderna, sia perché esula dal nostro fine -che è quello di rilevare i contenuti simbolici che sono o potrebbero essere confluiti nelle figure del Bue e dell’Asino presenti nel presepe-, sia per non dilatare eccessivamente la trattazione. Ricordiamo solo che una delle tradizioni più strane legate all’asino nei costumi el ME è la cosiddetta “Messa dell’Asino”, che si celebrava soprattutto in Francia tra l’XI e il XV secolo. In tale occasione un asino ammaestrato ad inginocchiarsi e a rispondere ragliando allorché udiva determinate formule liturgiche e bardato con paramenti sacri veniva condotto davanti all’altare della chiesa al posto del prete. Alla fine della celebrazione il sacerdote anziché pronunciare l’invito “Ite, missa est!”, doveva ragliare tre volte, mentre a loro volta i fedeli rispondevano all’invito con un raglio.

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