L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE -seconda parte- (i buoi sacri in Egitto)

Come abbiamo detto in precedenza nel corso dei secoli la figura di Api, -che era in origine una manifestazione terrena di Ptah, il sommo dio creatore di Menfi- si fuse con quella di Osiride, il dio e re dei morti, il quale a sua volta venne assumendo sempre più le caratteristiche di dio redentore e salvifico, venendo quindi chiamato Osirapis, o Osarapis.

Dopo che l’Egitto fu conquistato da Alessandro Magno, rimanendo alla sua morte sotto la sovranità di Tolomeo, detto poi “Sotere” (salvatore), il fondatore della dinastia lagide, iniziò il processo di ellenizzazione della civiltà e della religione egiziana (1), per cui si ebbe un’assimilazione di Osirapis ad Ade, il dio ellenico degli Inferi, e ne nacque una nuova figura divina, chiamata “Serapide”, per trasformazione di Osirapis, che in pratica venne a sostituire Osiride nel culto ellenizzato della triade osiriaca (Osiride- poi Serapide-, Iside e Horo).

Tuttavia il culto di questa “nuova” divinità, che ebbe la massima diffusione ad Alessandria, viene spiegata anche in un altro modo, e cioè con l’introduzione per motivi non ben chiariti di un misterioso dio proveniente dalla città di Sinope del Ponto, sul Ponto Eusino (il Mar Nero) nella lontana Anatolia settentrionale.

Immagine di Serapide con testa taurina.
Immagine di Serapide con testa taurina.

Circa la provenienza e l’apparizione di Serapide abbiamo l’autorevole testimonianza di scrittori quali lo storico latino Tacito, il filosofo e storico greco Plutarco di Cheronea ed altri.

Secondo quanto tramanda Tacito (Historiae, 83-84), Tolomeo I, quando si apprestava ad ingrandire e abbellire la città di Alessandria, da poco fondata, avrebbe fatto un sogno nel quale gli apparve un giovane di bellissimo aspetto e di statura superiore a quella umana che gli disse di inviare nella regione del Ponto i più fidati dei amici per reperirvi una statua che lo rappresentava, aggiungendo che essa avrebbe apportato gloria e prosperità al suo stato. Pronunciate queste parole, il giovane si dileguò nel cielo in un turbine di fuoco. Tolomeo, impressionato da questa visione fatidica, si rivolse ai sacerdoti egiziani per averne una spiegazione; ma poichè costoro avevano assai scarse conoscenze dei paesi stranieri, fece venire un certo Timoteo, ateniese, membro della famiglia degli Eumolpidi, tra i quali si tramandava per eredità il sommo sacerdozio di Eleusi, e a lui chiese di quale mai divinità potesse trattarsi. Questi, fatte delle ricerche tra coloro che avevano visitato il Ponto, seppe che vi era una città, chiamata Sìnope, non lontano dalla quale esisteva un tempio dedicato ad Ade (che Tacito designa come “Iovis Ditis”, con il nome della prisca divinità romana poi identificata con Plutone).

Dopo aver avuto questa notizia però il re volse ad altri soggetti i suoi pensieri e a poco a poco si dimenticò della visione avuta; fino a che non ebbe un altro sogno, nel quale il giovane gli apparve ancora, ma in aspetto adirato e terribile, minacciandolo di grave rovina se egli non avesse dato seguito alla sua richiesta. Allora il sovrano mandò un’ambasceria latrice di doni al re Scidrotèmide, che regnava allora nel Ponto, per chiedere l’effigie divina. L’ambasceria prima di andare nel Ponto si recò a consultare l’oracolo di Delfi, dal quale ebbe un chiaro responso in merito alla questione.

Giunti a Sinope, gli ambasciatori di Tolomeo si presentarono al re, gli offrirono i loro doni e gli esposero le richieste del loro signore. Scidrotemide però tergiversava, combattutto tra il timore degli dei, e i malumori del popolo che non voleva privarsi della venerata immagine, così che trascorsero tre anni durante i quali le insistenze di Tolomeo divennero sempre più pressanti e più preziosi i suoi doni. Finalmente accadde che pure il re del Ponto ebbe una visione minacciosa che gli intimava di non opporsi più ai decreti degli dei, altrimenti avrebbe dovuto subire terribili punizioni. Fu così che Scidrotèmide, pur se controvoglia, e tra il malcontento del popolo, accettò che il simulacro del dio prendesse la via dell’Egitto. E’ fama che la stessa statua si sia imbarcata da sola su una della navi che la dovevano trasportare in Egitto e che la nave giunse ad Alessandria con appena tre giorni di navigazione. Qui fu costruito un grande tempio per accogliere l’effigie della divinità, in un luogo chiamato Rachotis.

Il racconto di Tacito è confermato da Plutarco (De Iside et Osiride, 28), il quale precisa che il dio Serapide (altrimenti detto Sarapide) sia con Plutone, sia con Osiride, che ebbe il nuovo nome quando mutò la sua natura, divenendo dio dell’al di là e signore dei morti, -e pertanto in tale aspetto assimilabile al Plutone (o Ade) greco-. Lo scrittore greco riporta anche alcune ipotesi etimologiche sul nome di Serapide, tra cui quella che interpreta tale nome come “soros Apidos”, -cioè sepolcro di Api-, che peraltro egli ritiene inattendibile, preferendone un’altra in cui Serapide significherebbe in egiziano “letizia” o “giubilo” e sarebbe in relazione con la festa per la resurrezione di Osiride o la nascita del nuovo Api (ma in questo caso ha quasi certamente preso una cantonata) (2).

Esistevano però altre versioni sul modo e la motivazione per cui Serapide giunse in Egitto, -alle quali accenna lo stesso Tacito-, delle quali la più nota è quella che vuole la sede primitiva del culto fosse non a Sinope, bensì a Selucia sull’Oronte, in Siria, donde la statua sarebbe stata trasportata in Egitto per comando di Tolomeo III Evergete (= Benefattore).

Immagini, dipinte du tavola, di Iside e Serapide di età romana.
Immagini, dipinte du tavola, di Iside e Serapide di età romana.

Per altri sarebbe venuta addirittura da Babilonia, dove sarebbe esistito un tempio nel quale gli amici di Alessandro Magno, quand’egli era in punto di morte, avrebbero pregato per lui, mentre per altri ancora l’immagine sarebbe stata portata ad Alessandria da Menfi, sempre durante il regno di Tolomeo III, dove esistevano, come abbiamo visto il tempio di Ptah-Api e il mausoleo di Saqqarah, dove erano sepolti i buoi Api alla loro morte e che fu anch’esso chiamato “Serapeum”, dal nome di Serapide, al quale Api fu assimilato.

Ma nella “Vita di Alessandro” dello pseudo-Callistene il rinvenimento della statua del dio è attribuito allo stesso condottiero macedone, il quale, mentre si apprestava a compiere un sacrificio propiziatorio per la fondazione di Alessandria, vide una grande aquila che ghermì le viscere delle vittime del sacrificio e le depose su un altare, presso il quale eravi un sacro recinto. Entro tale recinto Alessandro e i suoi trovarono la statua di un dio in trono e quella di una fanciulla. Accanto vi erano anche degli obelischi, su uno dei quali era incisa un’iscrizione in geroglifici. L’iscrizione -sembrava rivolta allo stesso macedone, e pronosticava un felice destino per la costruenda città. Il dio dichiarava anche il suo nome con una sorta di crittogramma attraverso le cifre numeriche, che, com’è noto, in greco (e in altre lingue) sono espresse con le lettere dell’alfabeto; così diceva: “conta due volte cento e uno (ovvero 200 -σ- e 1 -α-); poi altri cento e uno (100 -ρ- e 1 -α-); poi quattro volte venti e dieci (ossia 80 -π- e 10 -ι-); riprendi per ultima la prima lettera ( -σ- =200), e capirai il dio che ti si è rivelato”. Da queste indicazioni Alessandro seppe che il nome del dio che gli si era manifestato promettendogli la sua protezione e benevolenza si chiamava “Sarapis”.

Secondo questo racconto la statua trovata dal re macedone sarebbe stata di legno; tuttavia Atenodoro di Tarso, filosofo stoico del I sec. a. C., -citato da Clemente di Alessandria (Proteptico, 14)-, riferisce che la statua di Serapide sarebbe stata fatta di materiali preziosi: il faraone Sesostris l’avrebbe commissionata allo scultore Briasside (da non confondere con l’omonimo scultore greco del IV sec. a. C,), il quale per compiere l’opera avrebbe impiegato sei metalli e tutte le pietre preziose d’Egitto, aggiungendo infine alla lega le ceneri sepolcrali di Osiride e di Api (cosa questa assolutamente impossibile, poiché nell’antico Egitto la combustione dei defunti non era affatto in uso, anzi era il massimo sfregio che si potesse loro fare). Questa notizia però sembra essere più che altro un tentativo di far risalire ad un epoca assai remota il celebre simulacro di Serapide, opera dello scultore ellenistico Briasside, vissuto nel IV sec. a. C., della quale parleremo in seguito.

Alcuni studiosi moderni, -come lo storico Auguste Bouchè-Leclercq (1842-1923)-, hanno ipotizzato che all’origine di questa figura divina vi sia un dio mesopotamico, Sarapsi, venerato da uno stanziamento assiro-babilonese esistente a Sinope prima che nella città si insediasse una colonia di greci provenienti da Mileto, i quali avrebbero poi ereditato dai loro predecessori tale culto. Sempre il Bouchè-Leclercq riferisce la singolare affinità del nome di Sinope con quello egizio di Sen-Hapi (“dimora di Api”), dato alla collina presso Menfi ove sorgeva il mausoleo ove erano sepolti i buoi Api. A sua volta Sar-Apsi (Signore -Sar- delle Acque -Apsu-) (3), sarebbe stato un appellativo del dio Ea, una delle principali divinità mesopotamiche (Enki per i Sùmeri), signore delle acque marine e sotterranee, della saggezza e degli oracoli, colui che, a quanto viene detto nell'”Epopea di Gilgamesh”,  avvertì Utanapistim (Ziusudra nella versione sumerica, Noè in quella ebraica del mito) dell’imminente diluvio che stava per abbattersi sulla terra e sull’umanità come castigo degli dei irati.

In seguito all’avvento dei coloni ellenici, questo dio mesopotamico fu identificato con Plutone, e chiamato “Sarapis”; la somiglianza nel nome e nelle attribuzioni di quest’ultimo, dio del regno dei morti, con Osarapis, avrebbe indotto Tolomeo I,-o un altro dei primi re d’Egitto della dinastia dei Lagidi-, a scegliere tale divinità come figura principale della religione sincretistica greco-egiziana, che di fatto prese il posto di Osiride a fianco di Iside, -sebbene il culto verso l’antico sposo della dea, che nell’evoluzione del periodo ellenistico-romano assunse sempre più carattere di divinità cosmica, non sia mai tramontato del tutto tra gli Egizi, come si può vedere nelle immagini funerarie sui sarcofagi di epoca romana, dove il defunto è rappresentato in mezzo a Osiride e Anubi che lo tengono amichevolmente per mano onde accompagnarlo nel regno dell’eternità-.

Copia romana della famosa statua di Briasside collocata nel Serapeum di Alessandria.
Copia romana della famosa statua di Briasside collocata nel Serapeum di Alessandria.

Nella successiva evoluzione, la figura di Serapide giunse a comprendere e ad assimilare molte altre divinità salvifiche greco-orientali con cui presentava analogie più o meno fondate, da Ascelpio (Esculapio per i Romani) dio della medicina e della salute psico-fisica, e poi anche spirituale, al Dioniso orfico (al quale già era stato accostato Osiride fin dai tempi di Erodoto), allo Iupiter Dolichenus, all’Helios Soter: da qui la diffusione che il suo culto ebbe in tutto l’Oriente ellenistico (ad Atene il suo culto è attestato già alla fine del III sec. a. C.) e in seguito, sotto l’Impero Romano, anche nelle aree occidentali e settentrionali di quest’ultimo, di solito in parallelo con il diffondersi della religione isiaca. In età più tarda (romana) fu identificato, o assimilato pure ad Eone e ad Agatodèmone (4), anch’esse divinità di carattere cosmico. Era considerato un dispensatore di grazie e di guarigioni  miracolose, e il suo santuario era meta di malati e invalidi che gli chiedevano di essere risanati; anche il filosofo ateniese Demetrio Falereo (350-280 a. C. circa), che durante il suo esilio ad Alessandria aveva perduto la vista, a quanto riferisce Diogene Laerzio (Vite dei Filosofi, V, 5, 7), ne riebbe l’uso dopo aver invocato Serapide e per riconoscenza compose degli inni in lode del dio che lo scrittore assicura fossero ancora cantati ai suoi tempi (vale a dire tra il II e il III secolo).

La dinastia tolemaica fu molto devota a questa divinità e favorì la diffusione del suo culto: Serapide divenne ben presto il dio principale dell’Egitto, della cui importanza esistono numerose testimonianze sia nei papiri, sia nei monumenti figurati e nelle epigrafi.

L’immagine di Serapide, divenuta poi canonica nelle raffigurazioni successive. è quella che lo scultore Briasside di Caria aveva scolpito per il Serapeo di Alessandria, e che è ben conosciuta non solo per le numerose copie pervenuteci, ma per le descrizioni, spesso accurate, di essa fatte dagli antichi scrittori. Il dio, la cui testa era ispirata al tipo tradizionale di Zeus barbuto, era rappresentato assiso su un trono, ammantato dal chitone e con il modius” (il copricapo tronco-conico tipico delle divinità ctonie, che mostrava il loro legame con la fecondità della terra -poiché in pratica riproduceva una misura per granaglie-). La struttura interna della statua era di legno, ma le vesti erano d’oro e le parti scoperte di una lega metallica di colore bluastro che ben si addiceva al carattere ipoctonio (cioè legato al mondo sotterraneo) del dio; svariate pietre preziose rifulgevano su di essa quasi astri nelle notti d’oriente, e lo sguardo mite e pensoso del dio si posava sui fedeli dalle sue vivide pupille poste sotto la cupa ombra delle sopracciglia. Con la mano sinistra sollevata il dio teneva un lungo scettro, mentre la destra era posata sulla testa centrale di Cèrbero, il cane tricipite guardiano degli Inferi, che egli aveva ereditato dal Plutone greco (e in cui però si faceva sentire l’influenza di Anubi, il dio egizio figlio di Osiride e di Nephtys, protagonista dei rituali funerari). Da notare che questo Cerbero, -a differenza di quello greco, le cui tre teste erano tutte canine-, aveva le teste di cane, di lupo e di leone.

In un altro tipo iconografico, il dio è rappresentato in piedi, ma in genere con gli attributi detti sopra, ovvero la lancia e il fido Cèrbero alla sua destra; sono inoltre da ricordare alcune raffigurazioni di carattere prettamente egizio-ellenistico, in cui Serapide appare in aspetto taurino.

Dunque in età tolemaica e romana Api divenne a tutti gli effetti l’incarnazione terrena di Serapide, con la differenza però che mentre a Menfi il culto rimase essenzialmente egiziano fino alla fine dei culti non cristiani decretata da Teodosio nel 380, -e dunque incentrato sulla venerazione per il bue Api- ad Alessandria, pur se con influenze locali, questa figura divina e il sacerdozio ad essa dedicato erano ellenici.

Rileviamo che l’imperatore Adriano in una lettera indirizzata a L. Giulio Serviano nel 133, nella quale parla di una sua visita in Egitto, -riportata da Flavio Vopisco, uno degli autori delle biografie che compongono l'”Historia Augusta” (5)-, afferma che i cristiani adoravano Serapide. Peraltro lo stesso imperatore si era mostrato favorevole ai cristiani ed è ricordato un suo rescritto diretto al proconsole d’Asia C. Minucio Fundanio (del quale abbiamo parlato nella trattazione sul declino dell’Impero Romano) nel quale  raccomandava di perseguirli soltanto in seguito ad accuse circostanziate e non anonime di aver commesso specifici delitti -e non per il semplice “nomen christianum”.

Un altro importante bue sacro venerato in Egitto era Merver, meglio conosciuto con il nome di Mnevis, con cui fu designato dagli scrittori greci e romani: Mnevis aveva la sua dimora nella città di Heliopolis e in origine era ritenuto incarnazione di Atum, il sommo dio creatore nella “teologia eliopolitana” -così come Ptah lo era nella “teologia menfita”- (6), ma in seguito anch’egli fu messo in relazione con Osiride, tanto che quest’ultimo ebbe tra i suoi epiteti quello di “Toro che sta ad Heliopolis”-, e poi pure con Horo, figlio di Osiride e di Iside.

Mnevis.
Mnevis.

Claudio Eliano (Sulla Natura degli Animali, XI, 11) e Ammiano Marcellino (Storia di Roma , XXII, 14, 7) riferiscono che mentre Api era sacro alla Luna, Mnevis era un rampollo del Sole; come il suo collega di Eliopoli, era caratterizzato dal colore nero sul quale si stagliavano alcuni segni particolari, -sui quali però le fonti antiche non sono molto chiare: sembra che sui fianchi dovesse avere un disegno che ricordava le spighe di grano e una gobba sulla nuca-.

Anche la madre di Menvis, -così come quella di Api-, godeva di una forma di venerazione sebbene inferiore a quella riservata al figlio: ella era ritenuta una incarnazione della dea Hesat, una dea mucca protettrice delle partorienti e dalle puerpere, dalle quali era invocata per avere latte abbondante.

Da Eliano, -che, come abbiano già visto, fu uno dei più acuti descrittori ed estimatori del mondo animale dell’antichità e ci ha lasciato una quantità di interessanti notizie-, sappiamo che il faraone Bocchoris, della XXIV dinastia -detta “saitica” dal nome della città di Sais, nel delta del Nilo, scelta come capitale- (7), -il quale peraltro negli autori classici appare sempre come in sovrano giusto e pietoso (fama usurpata, a detta di Eliano-, avrebbe aizzato, -non si sa bene per quale ragione-, contro Mnevis un toro feroce, il quale, tentando di colpire l’avversario, rimase con le corna conficcate nel tronco di un albero di Persea (8), consentendo così a Mnevis di riuscire vittorioso dallo scontro. A causa di questo Bocchoris incorse nell’odio del suo popolo.

E’ probabile che ai due bovini Api e Mnevis -i più importanti tra quelli a cui erano tributati onori divini- alluda un passo dello scritto “Sull’Origine del Mondo”, un testo gnostico probabilmente risalente al III secolo, dove si dice: “I due tori che si trovano in Egitto hanno come mistero il Sole e la Luna, poiché sono testimoni di Sabaoth, il quale è al di sopra di essi: Sofia [la Sapienza -o Saggezza- personificata che è una delle principali entità metafisiche dei sistemi gnostici] infatti ha ricevuto il mondo, in cui ella ha creato il Sole e la Luna, e ha posto il sigillo sul suo cielo fino al termine di questo Eone (9)”.

Buchis, incarnazione del dio Month, figlio di Amon e della dea Mut, era invece bianco con la testa nera e la figura di un avvoltoio, o comunque di un rapace, impressa sul dorso. Egli dimorava in un tempio della città di Hermontis nell’Alto Egitto, città dove era fiorente il culto di Month, non lontano da Tebe; con l’andar del tempo venne considerato anche un’emanazione di Amon-Ra. Nelle immagini che lo rappresentano appare spesso con la corona delle due piume (“shuty”, tipica soprattutto del sommo nume tebano Amon) e nell’atto di annusare un fiore di loto. Più di rado è effigiato come un uomo con testa taurina.

I "nomi" dell'Antico Egitto.
I “nomi” dell’Antico Egitto.

Secondo lo scrittore romano Macrobio (Saturnalia, I, 21, 20-21) questo bovino aveva la straordinaria particolarità di cambiare il colore del pelame, -che era inoltre disposto in senso contrario a quello normale (cosa che era interpretata come simbolo dell’azione del sole nell’emisfero opposto)- diverse volte al giorno (10). Anch’egli, come i suoi colleghi bovini, dava oracoli attraverso i suoi comportamenti, in particolare accettando o rifiutando il cibo che gli veniva offerto, e alla sua morte veniva sepolto con tutti gli onori in una necropoli apposita, e ivi trovava posto anche la mummia della mucca che l’aveva partorito. Si tramanda che durante una sua visita a Tebe Cleopatra VII (la più famosa delle regine di tal nome della dinastia lagide) presiedette alla consacrazione di un nuovo Buchis e lo accompagnò sulla sua imbarcazione nella sua nuova dimora il 22 marzo del 51 a. C.

Di Bata sappiamo ben poco: era ritenuto figlio di Bat, una dea-mucca poi assimilata ad Hathor, una delle principali divinità egiziane, immaginata come una grande giovenca celeste il cui ventre era il firmamento, ed era venerato nel XVII nomo dell’Alto Egitto, chiamato Anpu, ove era associato nel culto ad Anubi, il dio sciacallo, o cane, patrono degli imbalsamatori e protettore del nomo (11) -il cui capoluogo, Saka in egiziano, fu chiamato “Cynopolis” (“Città del Cane”) dai Greci proprio in riferimento al culto di Anubi che vi si praticava-.

Bata, in forma umana, è il protagonista di una novella, che nella seconda parte assume decisi caratteri fiabeschi (alcuni dei quali si ritroveranno nella tradizione fiabistica europea), la “Storia dei due fratelli”, nota da un papiro risalente al XIII secolo a. C., il “papiro Orbiney” (così detto dal nome dello studioso che per primo lo esaminò a fondo). La storia riportata in questo testo, che nella forma in cui ci è stato tramandato ha carattere prettamente narrativo, doveva in origine essere un mito, ovvero un racconto che esprime per immagini e in forma simbolica dei contenuti di carattere religioso e/metafisico (ma talora anche fisico), come appare evidente nella sua seconda parte, oltre che nei nomi dei protagonisti, che sono appunto Anubi e Bata (i quali però, specie nella prima parte del racconto appaiono come comuni mortali, che, però nello snodarsi della trama assumono sempre più comportamenti e compiono azioni che evidenziano la loro originaria natura divina).

Anubi e Bata erano due fratelli agricoltori; il maggiore dei due era Anubi, sposato, che possedeva una modesta casetta nella quale viveva con la moglie e con il fratello minore, il quale, -poiché i due fratelli evidentemente erano orfani, sebbene questo non venga espressamente precisato-, considerava Anubi e la di lui consorte come un padre e una madre. Egli assolveva i compiti più umili e faticosi.

Ora  avvenne, -secondo un “topos”, un luogo comune, assai frequente nella narrativa antica e moderna, da Giuseppe e la moglie di Putifarre nella Bibbia a Ippolito, figlio di Teseo, e la matrigna Fedra, per citare gli esempi più celebri-, che la moglie di Anubi si invaghì del giovane cognato, -del quale si dice che era un avvenente garzone tale che non v’era l’eguale nel paese-. Un giorno in cui ella si trovò sola con Bata gli manifestò la sua passione per lui, ma il cognato respinse con sdegno le profferte amorose della donna.

Ferita e umiliata dal rifiuto, quando il marito tornò a casa gli disse che era stata oltraggiata da Bata, che l’aveva anche offesa e picchiata. Anubi credette alle calunnie di sua moglie e oltremodo adirato contro il fratello, da lui ingiustamente ritenuto un ingrato, e si nascose dietro la porta della stalla con l’intenzione di colpirlo con una lancia quando fosse entrato. Ma mentre stava per entrare nella stalla, la mucca in testa alla mandria che conduceva all’usato albergo notturno lo avvertì del pericolo e gli consigliò di fuggire; ma Anubi lo inseguì.

Allora questi invocò Ra, dio del Sole, dicendogli: “O mio buon Signore, sei tu colui che giudica tra la menzogna e la verità!”. Ra ascoltò la preghiera di Bata e pose in mezzo a loro un lago infestato dai coccodrilli così che i due fratelli erano sulle due opposte rive del lago. Giunto il mattino, quando l’orizzonte si rischiarò all’apparire di Ra, Bata redarguì il fratello per aver prestato fede alle parole della moglie senza ascoltare la sua versione dei fatti e senza pensare a tutto il rispetto e l’aiuto prezioso che gli aveva sempre dato; e dopo aver detto questo, per dimostrare la sua buona fede, presa una canna palustre tagliente si recide il membro virile e lo getta nell’acqua del lago, dove un pesce gatto lo inghiotte (12).

Prima di andarsene però egli avverte Anubi della sua intenzione di recarsi nella “Valle del Pino”. Qui si sarebbe privato del cuore e l’avrebbe deposto sulla cima di un pino. Se però l’albero fosse stato abbattuto e il cuore fosse caduto a terra, Anubi avrebbe dovuto venire a cercarlo e una volta trovatolo, metterlo in un recipiente pieno d’acqua: in tal modo egli sarebbe resuscitato. E infine aggiunse: “Saprai che qualcosa mi è accaduto quando ti sarà offerta una brocca di birra in mano ed essa traboccherà”.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1)tuttavia fin da alcuni secoli prima della monarchia tolemaica i contatti tra la Grecia e l’Egitto erano abbastanza intensi e quindi fenomeni di convergenza e di identificazione tra le divinità greche e quelle egizie si erano avuti già da epoche anteriori, come ben testimonia Erodoto nelle sue “Storie”.

2) peraltro l’interpretazione “tomba di Api” è riportata da altri autori, quali Clemente di Alessandria (“Stròmata”, I, 21, 139), il quale cita Ninfodoro di Siracusa, un letterato greco, le cui opere non ci sono pervenute, ma di cui si trovano frammenti in quelle di altri autori.

3) l'”Apsu” (o “Abzu”) è la figura mitica che incarna le acque primordiali dalle quali scaturisce tutta la creazione, -così come nella Genesi, I, 1-3, dove si afferma che Elhoim aleggiava sopra le “acque” ovvero l'”Apsu”-; corrisponde al Nun della cosmogonia egizia, dal quale, secondo la “teologia eliopolitana” e la “teologia ermopolitana” emerge la collina primigenia, da cui si generano tutti gli dei e tutte le cose.

4) “Aion” è il termine con il quale si indicava il tempo assoluto e trascendente in contrapposizione a Chronos, tempo empirico, in continuo movimento e principio stesso del mutamento, “eternità immobile e una” per Platone , “principio cosmico immobile e immutabile” secondo Aristotele. Con tale nome si indicava anche nella religione mitraica lo Zurvan mazdaico, Il Tempo origine di tutte le cose (e dunque pure di Ormazd e di Ahrimane), rappresentato come un uomo con testa di leone avvolto da un serpente a sette spire. Accanto a questo significato prettamente filosofico, aveva in greco un significato più comunemente usato e vicino all’etimologia stessa del nome, -connesso con il latino “aevum”, che indicava il “midollo spinale”, come sede della vita, e quindi la “forza vitale”, l’essenza-: ossia quello di durata della vita umana e poi di generazione, da cui l’idea di tempo non limitato, che scorre incessantemente. E infatti Aion” viene spesso reso in latino con “saeculum”, in particolare nell’espressione “eis tous aiònas ton aiònon” = “in saecula saeculorum”, divenuta usuale nelle dossologie liturgiche e paraliturgiche cristiane. Ma da concetto filosofico nell’ambito della religiosità sincretistica dei primi secoli dell’era volgare, soprattutto ad Alessandria e in Egitto, divenne esso stesso un’entità divina sia come attributo di altre divinità, sia come figura personale, la cui effigie era quella di un uomo con la testa leonina il cui corpo è avvolto da un serpente con sette spire. In questo aspetto Aion era spesso affiancato ad Agatodèmone (il “Buon Genio”), una sorta di angelo custode, di solito raffigurato come un giovane che teneva in una mano una cornucopia e nell’altra un mazzo di spighe e papaveri, oppure come un piccolo serpente con la testa coronata e la coda terminante con un fior di loto; in tal guisa non di rado per i Romani era associato ai Lari e con essi rappresentato nelle edicole (i “larari”) posti negli atrii delle dimore romane. Nelle dottrine gnostiche e in alcune correnti neoplatoniche il termine “eone” passò a indicare le emanazioni dell’Uno (cioè dell’Essere supremo e incondizionato), intese come una sorta di cicli o di espansioni spazio-temporali, attraverso cui esso si irradia (ed insieme costituiscono il “Pleroma”, la pienezza, al quale le anime umane dovrebbero tornare al termine di un cammino di elevazione). Da non confondere con gli “Eoni” sono gli Arconti che invece rappresentano le progressive degradazioni della luce primordiale nella tenebra e nella materia e che sono ostacoli nell’ascesa spirituale, pur avendo anche una funzione di intermediari tra il mondo umano e quello divino: in alcuni testi gnostici sono gli Arconti che creano l’uomo e gli proibiscono di nutrirsi dell’albero della Gnosi, che gli consente di acquisire la consapevolezza spirituale.

5) questa lettera, -da alcuni ritenuta inautentica-, è collocata però non nella biografia di Adriano, ma in quella di Giulio Saturnino, governatore della Siria, un usurpatore che nel 280 si contrappose al legittimo imperatore Marco Aurelio Probo (276-282) e morì ad Apamea mentre cercava di sostenere l’assedio delle truppe di Probo. L’autore sostiene di aver rinvenuto la lettera nelle carte di Flegonte, il segretario di Adriano, e la riporta per illustrare i difetti attribuiti alla popolazione egiziana, tra cui l’inclinazione alla ciarlataneria: infatti Probo, il quale aveva affidato a Saturnino la difesa della province orientali, l’aveva altresì sconsigliato di recarsi in Egitto.

6) da Atum autofecondatosi nacquero Shu -l’Aria- e Tefnet (o Tefnut) -l’Umidità-, la prima coppia divina, i quali a loro volta generarono Gheb e Nut, -la Terra e il Cielo (si noti che a differenza di quanto avviene nella maggior parte delle mitologie, qui la Terra -Gheb- è maschile e il Cielo -Nut, rappresentata come una figura azzurra con la schiena inarcata che si innalza sul suolo che tocca ai limite dell’orizzonte con le mani e con i piedi- è femminile); dalla seconda coppia discesero Osiride, Iside, Nephtys e Seth.

7) questo faraone è stato identificato con Bakenranef, figlio di Tefnakht, che regnò dal 720 al 715 (o dal 718 al 712). Fu sconfitto da Sabacone (Sabakha), iniziatore della XXV dinastia “etiopica”, il quale, secondo la tradizione dopo averlo vinto, l’avrebbe arso vivo. In un altro passo del “De Natura Animalium” (XII, 3), Eliano narra (precisando però di avere molti dubbi su questo fatto) che al tempo di Bocchoris nacque in Egitto un agnello mostruoso che aveva due teste, quattro corna e otto zampe che aveva il dono di parlare con umana favella e che profetizzò la sovrano la conquista dell’Egitto da parte degli Assiri di Assurbanipal. La notizia si ritrova anche in altri autori come Manetone e Sesto Giulio Africano, -o meglio nei frammenti rimasti delle loro opere-.

8) l’albero in questione, -chiamato “Persea” dai Greci e dai Latini-, è probabilmente da identificare con la “Cordia myxa”, pianta appartenente alla famiglia delle Borraginacee, che può raggiungere e superare i 10 m di altezza e il cui frutto è commestibile.  Il termine Persea” è entrato però nella tassonomia botanica moderna per indicare un altro genere di piante, della famiglia delle Lauracee al quale appartiene la “Persea gratissima” (il cui frutto commestibile è noto come “avocado”).

9) Sofia in tutti i sistemi gnostici è uno dei principali eoni, conoscendo il quale si giunge alla redenzione. Tuttavia qui intende Sophia Zoe, uno degli Arconti, Sabaoth, che è uno degli appellativi attribuiti a Dio nell’A. T. -di solito tradotto come “Dio degli Eserciti”, è uno dei grandi “Arconti”, che hanno creato e reggono il mondo iliaco (materiale); in alcuni testi (come la “Pistis Sophia”, Fede-Sapienza), si distingue un “grande Sabaoth”  e un “piccolo Sabaoth”: il primo avrebbe generato Gesù Cristo). Per “eone” qui intende una regione cosmica e un ciclo spazio-temporale. Dello scritto “Sull’Origine del Mondo”, che fa parte del gruppo dei testi gnostici rinvenuti nel 1945 a Nag Hammadi abbiamo già parlato nella sesta parte della ricerca sulla Fenice -pubblicata il 16 marzo 2014-; in effetti vi si accenna ai due sacri tori dell’Egitto poco dopo la citazione della Fenice.

10) della mirabile caratteristica di Buchis abbiamo già parlato in un articolo sugli animali nella storia del 9 settembre 2014.

11) “Nòmi” è il termine greco (“nomoi”) con il quale si indicano le circoscrizioni amministrative dell’antico Egitto. erano 20 nel Basso Egitto (in pratica la zona del delta del Nilo) e 22 nell’Alto Egitto (buona parte del restante territorio del paese, che però al di fuori di alcune oasi e città sulla costa del Mar Rosso era -ed è tuttora- abitato solo in un ristretta fascia ai lati del corso del Nilo, ove le provvidenziali periodiche inondazioni del fiume consentivano l’esercizio dell’agricoltura). Su di essi era incentrato l’ordinamento dell’Egitto dall’Antico regno fino all’epoca di Costantino.

12) l’inghiottimento del membro ricorda la vicenda di Osiride che dopo la sua morte fu smembrato da Seth, il quale sparse le sue membra per tutto l’Egitto, che furono poi pietosamente e pazientemente ritrovate e poi ricomposte da Iside. Secondo la versione riportata da Plutarco (De Iside et Osiride, 18), tutte meno il membro che anche questo caso era stato divorato da alcuni pesci: il Fagro, il Lepidoto e l’Ossirinco (questi pesci si possono identificare, pur con qualche incertezza, rispettivamente nel Luccio, nel Carpione e nello Storione). L’evirazione invece assimila un po’ la storia di Bata a quelle di Attis e di Combabo, dei quali abbiamo parlato in articoli precedenti).

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