L’ARABA FENICE -sesta parte-

fenice1Un’altra significativa descrizione dell’aspetto e delle caratteristiche della Fenice l’abbiamo in alcuni versi superstiti di una tragedia in trimetri giambici ispirata all’esodo biblico, il cui titolo è “Exagoghè”, scritta da un giudeo di Alessandria, Ezechiele, detto “il Tragico” poiché si era dedicato soprattutto all’attività drammaturgica. In essa lo scrittore metteva in scena vicende e contenuti della narrazione biblica secondo i canoni poetici della tragedia greca ed appare influenzato in particolar modo da Euripide.

Egli visse nel II secolo a. C., ma le sue opere sono andate smarrite, e ne rimangono solo citazioni e frammenti -tutti dalla tragedia sull’Esodo- negli scritti di autori della tarda classicità, in particolare Clemente di Alessandria (150-215 circa) ed Eusebio di Cesarea (265-340 circa), da una cui opera, la “Praeparatio evangelica” è tratto appunto il brano in cui appare la Fenice (1).

A dire il vero, nel passo non viene detto espressamente che si tratti della Fenice e non viene fatto il nome dell’uccello descritto con dovizia di particolari, ma tutti i commentatori antichi e moderni danno per certa la sua identificazione con il misterioso uccello; ed in effetti la figura e il comportamento dell’insolito e maestoso volatile da un lato riportano e confermano il ritratto dipintone da Erodoto -il paragone con l’aquila, il rosso e il dorato come colori prevalenti-, sviluppandone alcune qualità, dall’altro anticipano le descrizioni dell’aspetto del mistico pennuto, sottolineando la magnificenza dei colori e del piumaggio, che verranno fatte dagli autori successivi.

Nella tragedia di Ezechiele il Tragico gli Ebrei guidati da Mosè lo incontrano durante una loro sosta, ammirandone con stupore l’indicibile splendore tra le palme e le sorgenti dell’oasi di Elim, dove si erano fermati per riposare. Questo incontro non è presente nel testo biblico, ma è una invenzione poetica dell’autore, che peraltro si innesta nel simbolismo mistico dell’uccello, che, come abbiamo visto, sarebbe stato fatto proprio anche dal cristianesimo; tanto più che, come avremo modo di vedere in seguito, anche nelle leggende ebraiche appariva un uccello considerato una variante della Fenice.

“Là abbiamo scorto un animale strano e meraviglioso, tale che mai alcuno ne vide il simigliante. La sua grandezza è circa due volte quella dell’aquila, le piume delle ali sono splendidamente variegate con magnifici colori, la gola è purpurea, le zampe rosso vermiglio, mentre il collo si adorna di un ciuffo che ha la tinta dello zafferano. La testa è simile a quella del gallo. I suoi occhi sembravano scintillare con cangianti riflessi di smeraldo e le pupille mandavano fiammanti bagliori di carminio. Il suo canto è di tutti il più melodioso, e dei volatili ella appariva il sovrano: di questo non potevasi avere dubbio, dacchè accalcandosi insieme gli uni con gli altri tutti gli uccelli la seguivano con ammirata venerazione. Ella camminava dinanzi ad essi con indomita fierezza, quale orgoglioso torello, e i suoi piedi incedevano con rapidi passi” (Eusebio di Cesarea, Praep, Ev., IX, 28-29).

Come si può osservare questa esuberante descrizione preannunzia quelle analoghe di Plinio, Tacito e Lattanzio; in particolare il corteo degli uccelli che si affollano dietro la Fenice e la seguono riconoscendo in essa la loro sovrana ricorda quanto scrivono i due ultimi due.

Nel libro dell'”Esodo”, come abbiamo detto, non si parla dell’incontro degli Ebrei con la Fenice durante la loro peregrinazione nel deserto, ma il maestoso volatile è menzionato in alcuni passi della Bibbia (2), dove tra l’altro si afferma che esso si nutre di manna e le sue deiezioni sarebbero costituite da puro cinnamomo. Ma la presenza della Fenice nella tradizione ebraica si riscontra ed ha rilevanza soprattutto in alcune leggende midrasiche (che si trovano cioè nei “Midrasim”, dei commenti al testo della “Torah” -cioè dei primi cinque libri della Bibbia, chiamati anche “Pentateuco”- di contenuto sia morale e giuridico, sia esegetico) dove il mitico pennuto porta il nome di “Milcham”, nome che con tutta evidenza si riconnette ai termini semitici “melek”, “malik”, “milk”, “Milchom” (divinità principale del popolo degli Ammoniti), con il significato di “Re (degli Uccelli)”. In una di tali leggende troviamo che Eva, dopo aver commesso il “peccato originale” e aver gustato del frutto dell'”albero della scienza del bene e del male”, e aver dunque perso la sua condizione di felicità ed innocenza, gelosa della purezza e dell’immortalità delle quali continuavano a godere gli altri animali dell’Eden, li convinse tutti a nutrirsi a loro volta del frutto, così che anch’essi acquisirono un penoso stato di dolore e di mortalità. Tutti, tranne Milcham, la quale in premio della sua fedeltà fu ricompensata da Dio, il quale la pose in una città fortificata dove avrebbe potuto vivere come una divinità per mille anni, trascorsi i quali risorgeva dalle proprie ceneri; ovvero, in un’altra versione, dopo aver perso le piume e le penne, si rattrappiva fino a diventare piccola come un uovo, dal quale nasceva la nuova Fenice.

Curioso è l’accenno che si fa al mistico volatile in un testo apocrifo dell’AT, il “Libro dei Segreti di Henoch” (3), che, con il passo di Claudio Eliano che abbiamo esaminato in precedenza, risulta essere l’unico altro scritto ove si parli non di una sola ma più Fenici (e in questo caso sette). Nel libro in questione il protagonista Henoch, figlio di Iared e settimo discendente di Adamo, narra in prima persona una visione che ebbe all’età di 365 anni (il numero degli anni di Henoch al momento della visione è da intendersi certamente in senso simbolico, poiché equivale alla durata del cammino del Sole sull’eclittica e quindi al corso dell’anno). Egli viene trasportato attraverso i sette cieli da misteriose figure che gli mostrano la gloria di Dio e durante questa trasvolata riceve la rivelazione di un futuro diluvio che dovrà castigare i reprobi (4).

Nel capitolo XIX gli appaiono gli angeli che governano l’ordine cosmico e l’armonia celeste, nonchè il volgere delle stagioni e degli anni, il corso dei fiumi e il turbinare dei mari e tutte la manifestazioni della vita vegetale e animale (e in questo senso la dottrina qui esposta presenta analogie con la concezione neoplatonica poiché gli ordini angelici sembrano svolgere un compito di mediazione tra mondo divino superiore e mondo psichico e materiale inferiore, e di regolazione del divenire dell’Universo). Al culmine, o al centro, di questa “candida rosa” -per usare un’espressione dantesca (vedi Par. XXXI, 1)-, vi sono sette Fenici, sette Cherubini e sette angeli “con sei ali” (e quindi Serafini), che all’unisono cantano le lodi del Creatore.

Un accenno alla Fenice, -nel quale confluiscono probabilmente le tradizioni egizie, ebraiche ed elleniche sull’uccello, nelle quali la Fenice era divenuto un simbolo dalla potente forza evocativa- si trova pure in un testo gnostico conosciuto cn il titolo “Sull’origine del mondo”, che rientra nel gruppo di testi gnostici ritrovati a Nag Hammadi (5) ove viene esposta una versione complessa della creazione e della caduta dell’uomo. Qui la Fenice è il mitico volatile che Sofia Zoe (“Sapienza Vita”) invia nel mondo terreno, in cui ella aveva cacciato gli Arconti delle tenebre, ispiratori del peccato e della perdizioni e responsabili della caduta dell’uomo, affinché vi apportasse una testimonianza di luce tale da contrastare le tenebre (“Ella mandò un uccello affinché fossero nel loro mondo i mille anni del paradiso, un animale pieno di vita detto Fenice. Esso muore e si ravviva quale testimone del giudizio contro di essi [gli Arconti], poiché agirono con ingiustizia verso Adamo e la sua stirpe”).

Nel testo si aggiunge che come vi sono tre stirpi di uomini, -gli pneumatici, gli psichici e gli iliaci (cioè gli “spirituali”, gli “animici” e i “carnali” -o “materiali”, i primi gli eletti destinati alla salvezza, i secondi con la possibilità di rinascere come spirituali, e gli ultimi irrimediabilmente imprigionati nel carcere oscuro della materia)-, allo stesso modo vi sarebbero tre Fenici nel Paradiso: la prima è immortale, la seconda vive per mille anni e la terza sarà consumata. Sembra dunque che il misterioso volatile si moltiplichi per esprimere un simbolismo mistico ed escatologico in cui la sua vicenda di morte e resurrezione viene vista in una diversa prospettiva secondo l’appartenenza e il grado di sviluppo spirituale dei soggetti umani.

Un “excursus” sulla Fenice si trova anche nel romanzo “La avventure di Leucippe e Clitofonte” di Achille Tazio, scrittore alessandrino vissuto in epoca incerta, ma che si presume intorno al II secolo, poiché una parte della sua opera è stata rinvenuta in un papiro scoperto, insieme a molti altri, ad Ossirinco, in Egitto, risalente a quel periodo. Il romanzo, che consta di otto libri, narra le mirabolanti peripezie di due fidanzati, -che sono appunto Leucippe e Clitofonte-, i quali dopo numerose separazioni, rapimenti da parte di pirati e ladroni, morti apparenti e diversi altri eventi avventurosi, alla fine si ricongiungono felicemente.

In questa trama già di per sé complicata, -come era proprio di questo genere letterario,  (di cui abbiamo già visto un esempio trattando della terra di Thule)-, sono inseriti numerosi excursus eruditi, “ekphraseis” (cioè descrizioni di quadri ed altri oggetti) e disquisizioni varie, dei quali uno riguarda l’uccello del quale stiamo trattando.  Nel libro III, al capitolo 25, mentre i protagonisti stanno percorrendo il Nilo su un’imbarcazione, il nocchiero racconta quanto sa del meraviglioso volatile: “La Fenice giunge dall’Etiopia in Egitto; le sue dimensioni sono quelle del pavone, ma sopravanza quest’ultimo in bellezza.fenice34 Nelle sue ali si mescolano l’oro dell’aurora e la porpora del tramonto. Proclama che il Sole è il suo Signore, come è comprovato dal fatto che il suo capo è circondato dal nimbo radiato, -poiché la corona circolare è l’immagine del Sole-: ella ha il colore del cielo, ma con un riflesso roseo, e le sue piume rifulgono come i raggi solari”. Aggiunge altre notizie che confermano nelle grandi linee quanto asserito dagli autori precedenti, in particolare Erodoto: che prepara una sorta di uovo di mirra, di grandezza tale quanto sia in grado di trasportare e vi introduce le spoglie del genitore; che trasvola poi ad Eliopoli, dove i sacerdoti la accolgono e ivi preparano un’adeguata sepoltura per la Fenice defunta, -ma reincarnatasi in quella da lei nata-; che uno stuolo di altri uccelli festanti la seguono come loro regina (o re, dato che “Phoenix” in greco e in latino è di genere maschile), che un sacerdote appositamente addetto allo scopo, con l’aiuto di un librone (ovviamente rotolo di papiro e non codice) estratto dai penetrali del tempio esamina con attenzione il volatile per verificare che sia per davvero la tanto attesa Fenice.

Questa immagine che Achille Tazio ci offre del meraviglioso uccello in sostanza ripropone quella ormai consolidata data dagli autori greco-romani, ma con alcuni nuovi particolari di rilievo: il luogo dove egli dimora abitualmente è l’Etiopia (e non l’Arabia, l’India, o altri luoghi più o meno esotici); è espressamente paragonato al pavone; nella colorazione del suo piumaggio, pur caratterizzata come di consueto anche dal purpureo e dal dorato, prevale l’azzurro -e in questo possiamo vedere riaffiorare in parte l’aspetto attribuito anche nelle testimonianze iconografiche al “Bennu” egizio-, colore del cielo, che conferisce al volatile, intimamente legato al Sole, una indubbia valenza cosmico-mistica, confermata dalla presenza del nimbo, che adorna il suo capo; e infine la presenza del sacerdote che con contabilistica precisione consulta il registro delle precedenti apparizioni e vi iscrive l’ultima alla quale ha assistito.

Concludiamo il nostro panorama sulla presenza della misteriosa Fenice nell’antichità e nella letteratura greco-romana con la testimonianza offerta nelle sue opere da Claudio Claudiano (370-404 circa), l’ultimo grande poeta dell’antica Roma. Egli introduce la Fenice in tre suoi carmi: il “De Raptu Proserpinae”, .l'”Epistula ad Serenam” e il “De Consulatu Stilichonis”.

Il secondo libro del “De raptu Proserpinae” si apre sull’immagine lieta di Proserpia, la quale circondata da uno stuolo di dee e ninfe festanti si appresta a compiere la gita tra i monti siciliani che le riuscirà fatale, poiché in tale occasione sarà rapita da Plutone. Henna, -la città sicula personificata, che era considerata l'”omphalos” dell’isola- (6) rivolge a Zefiro, personificazione dell’amabile vento che soffia dall’occidente, sempre associato alla primavera, la preghiera di suscitare una rigogliosa fioritura alle pendici dei monti Iblei, dove la fanciulla figlia di Demetra intende recarsi, di modo che quei luoghi siano intrisi dei più delicati effluvi: “… gli aromi che l’isola di Panchaia trasuda nelle sue turifere selve,/ che l’Idaspe ricco di profumi da lungi con carezzevole soffio trasporta, / che il longevo volatile dai remoti angoli del mondo / aduna onde rinnovare con una bramata morte il suo lungo ciclo vitale,/ tutti infondili nelle mie vene e con possente alito/ scalda i miei campi. Produca fiori degni di essere colti da mani divine/ e anelino i numi adornarsi dei nostri serti”(7). In questo passo la Fenice non viene citata con il suo nome proprio, ma non v’è alcun dubbio sull’identificazione dell’uccello che perpetua la sua esistenza, di fatto immortale, con una morte temporanea, che può essere assimilata a una morte mistica, alla quale segue la liberazione dell’essenza spirituale.

Nell'”Epistula ad Serenam” il poeta esprime la sua gratitudine alla principessa Serena, nipote e figlia adottiva dell’imperatore Teodosio e consorte di Stilicone, la quale ha propiziato il suo matrimonio, così come Giunone aveva benedetto l’unione di Orfeo con Euridice. Il carme si apre con quadro festoso e suggestivo: la processione degli animali che, in gara tra loro, recano preziosi doni al vate tracio che sapeva dialogare con essi. “Le linci portano cristalli dalle vette del Caucaso,/ i grifoni Iperborei auree pepite del colore del Sole,/ le colombe devote a Venere giunte attraverso un prato spazioso/ recarono fiorenti serti di rose/…/e venne infine dall’estremo oriente la longeva Fenice/ trasportando con la zampa ricurva preziosi aromi./ Nessun volatile dell’aria o quadrupede della terra mancò/ di versare il suo doveroso tributo al convito nuziale”.

Infine nel II libro del “De consulatu Stilichonis” riprende in chiave simbolica ed encomiastica la similitudine con la Fenice. Stilicone, il generale di origine vandala che aveva dato il suo determinate sostegno al pericolante Impero Romano d’Occidente, pregato dalla dea Roma, a nome di tutte le province dell’Impero, ha accettato la dignità consolare; incitati dalla Fama, i “proceres”, i più importanti funzionari, si presentano per accoglierlo in atto di venerazione, così come gli stormi di uccelli si radunano per ammirare la Fenice nel suo pietoso volo verso l’Egitto: “… quando, dopo aver acquistato con una morte rigeneratrice un’altra giovinezza,/ traportando con i pietosi artigli le ceneri e le ossa materne conglomerate/ giunge dall’estremo Oriente l’unica Fenice,/ le aquile e i volatili tutti convengono dall’intero mondo/ per ammirare l’uccello del Sole; e da lontano rifulge/ lo splendente pennuto, da cui emanano gli effluvi dell’olente rogo”.

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La Fenice con il nimbo radiato posata su un ramo di palma in un mosaico del VI secolo nella chiesa dei S.S. Cosma e Damiano a Roma.

Da quest’ultimo particolare apprendiamo che pure Claudiano accetta la versione che abbiamo visto per la prima volta esplicitamente affermata da Lattanzio del rogo volontario dell’uccello, che anche dopo la rinascita conserva su di sé i profumi degli aromi e delle spezie con i quali aveva preparato il rogo rigeneratore. E anche dagli altri passi in cui il poeta introduce il magico volatile, l’aspetto da lui sottolineato, oltre la longevità, è sempre quello “olfattivo”: i suoi doni sono spezie e profumi orientali, che con gli aromi che sprigionano suscitano suggestioni arcane, tali da trasportare chi li percepisca in una sfera mistica ed eterea. Notiamo ancora che la provenienza della Fenice è individuata dal poeta “ab extremo Euro”, “dall’estremo oriente” “per l’esattezza dall’estremo sud-est”, determinazione geografica che coincide anch’essa con quanto aveva dichiarato Lattanzio, così come nel sottolineare il legame dell’uccello col Sole, per cui si può dire che, sebbene Claudiano non accenni all’aspetto fisico della Fenice, l’idea che ne aveva era presumibilmente la medesima di Lattanzio e al poemetto di quest’ultimo si era ispirato.

Altri autori greci e latini (Stazio, Marziale, Luciano di Samosata, Tertulliano, Nonno di Panòpoli) citano la Fenice nelle loro opere, più che altro in riferimento alla sua prodigiosa morte e resurrezione, -o per meglio dire rigenerazione-, ma essendo meno significative le loro testimonianze, non ci soffermiamo su di esse, per non prolungare eccessivamente questa parte della nostra trattazione.

Riassumendo dunque le caratteristiche della Fenice quali appaiono nelle descrizioni e citazioni degli scrittori che abbiamo preso in esame sono le seguenti.

1) le sue dimensioni sono quelle di un’aquila o di un pavone, ma talora le superano;

2) il suo aspetto ricorda quello del fagiano e del pavone, in genere con un ciuffo o una cresta di piume sul capo e una lunga coda, ma con collo e zampe piuttosto lunghe, simili a quelle di un trampoliere (e in questo particolare si perpetua quindi l’immagine del Bennu egizio);

3) i colori della fenice sono vari e splendidi, con prevalenza del rosso in diverse tonalità (carminio, purpureo, scarlatto), specie nelle ali, e del giallo con aurei riflessi, ma talora pure l’azzurro e il rosa; nella coda spiccano ocelli dorati, simili a quelli del pavone;

4) il paese dove vive abitualmente è l’Arabia, ovvero l’Etiopia, l’Assiria, l’India o l’oriente estremo nei pressi del punto ove sorge il Sole;

5) ha uno stretto legame con il Sole, che saluta e prega non appena si desta al mattino, ed appena nata, -o meglio rinata-, con una lunga trasvolata si reca al tempio del Sole di Eliopoli in Egitto, dove riceve una sorta di consacrazione e viene riconosciuta quale incarnazione e simbolo del dio vivente;

6) l’albero sul quale si posa di preferenza e su cui costruisce il nido è la palma, pianta anch’essa legata al simbolismo solare, e che in greco è sua omonima (“Phoenix”);

7) è dotata di una voce dolcissima e di un canto melodioso, con il quale leva le sue lodi al Sole, in particolare al suo sorgere e al vespro, ma anche scandisce il trascorrere delle ore nel corso della giornata e si conferma con questo la sua intima relazione con il cammino del Sole durante il girono;

8) negli autori tardi il suo capo è adorno di un nimbo radiato, il che esprime chiaramente la sua natura divina;

9) di tale animale esiste un solo esemplare per volta, il quale nasce dal cadavere di quello precedente, talora semplicemente decomposto, talora arso e incenerito ad opera dei raggi solari; ovvero nelle versioni più tarde, la Fenice si dà alle fiamme da sola su un rogo appositamente preparato. In tutti i casi il nido dove l’uccello si spegne ed ha poi luogo la sua resurrezione, previa decomposizione e/o incenerimento, è intriso di spezie, profumi ed erbe aromatiche, tra le quali è sempre presente la mirra. Si noti che le testimonianze di carattere scientifico e documentario (Erodoto, Plinio, Tacito) pongono in genere l’accento sulla decomposizione da cui deriva la nuova Fenice, mentre quelle poetiche (Ovidio, Lattanzio), specie quelle tarde, mettono in rilievo il fuoco come fattore di rigenerazione.

La morte per autocombustione da essa stessa provocata, oltre che ad essere presente in testimonianze tarde, è comunque un aspetto secondario e accessorio nella “passione” della Fenice fino al Medio Evo: il mitico volatile,per quanto in stretta relazione col Sole, non appare mai legato intrinsecamente all’elemento fuoco, né tanto meno vive in esso o sprigiona fiamme delle ali, come appare talora in certe rappresentazioni moderne che lo mostrano come una creatura ignea.

10) la prima preoccupazione della rinata Fenice è quella di costruire -secondo la maggior parte degli autori con la mirra-, una sorta di uovo o di involucro, entro il quale depone le spoglie del “padre” (la pristina Fenice è così definita, poiché, come abbiano detto, “Phoenix” in greco e in latino è di genere grammaticale maschile) che poi, dimostrando una pietà filiale che desta grande ammirazione negli scrittori, trasporta al tempio di Eliopoli  trattenendola durante il volo con gli artigli delle zampe. Tale particolarità ricorda l’immagine di una cicogna che porti un piccolo infante (ovviamente questa è una osservazione del tutto personale),

11) nella parte finale del suo tragitto verso Eliopoli la Fenice è accompagnata e seguita da stormi di uccelli festanti che sembrano riconoscere in lei la loro sovrana e ne cantano le lodi;

12) osserviamo infine che sebbene la maggior parte degli autori, in conformità con il genere grammaticale, attribuiscano alla Fenice il sesso maschile -e pertanto la Fenice che si immola  è definita “padre” di quella che da lei rinasce-, si dovrebbe piuttosto dire che ella sia un animale asessuato, dal momento che si rigenera da sé stessa e non conosce alcuna forma di ardore venereo e di connubio carnale, il che ne fa un essere immacolato e santo, degna immagine della divinità e del fulgore solare. Questa particolarità, che in fondo riassume l’essenza mistica dell’uccello, sottintesa dagli altri scrittori che ne parlano, è espressamente messa in risalto da Lattanzio, per il quale “femina vel mas haec seu neutrum seu sit utrumque/ Felix quae Veneris foederea nulla colit” (De Ave Phoenice, 163-164) “sia ella femmina o maschio, o nessuno dei due o entrambi/ in letizia nessun venereo commercio coltiva”.

Questa è dunque l’idea, l’immagine, il mito della Fenice che dall’antichità si tramanda al Medio Evo. Ora non prenderemo in esame gli sviluppi, la presenza e le attestazioni nei secoli successivi sia nella letteratura, sia nelle tradizioni, di questo volatile, che ha continuato ad affascinare artisti, poeti e filosofi, e ad essere protagonista nel misterioso regno dei simboli. Ricordiamo però che la Fenice assunse un importante significato e divenne uno dei simboli principali nel “corpus” dottrinario dell’alchimia. E’ bene precisare che l’alchimia non è una semplice antenata della chimica, non aveva una finalità pratica e materiale, -sebbene con i suoi strumenti, ricerche e metodi si siano scoperti procedimenti e preparazioni divenuti di uso comune (bagnomaria, verderame, ecc.)-, ma era soprattutto la rappresentazione e l’attuazione di un processo interiore; le complicate, e a prima vista, astruse, operazioni alchemiche adombrano ed esprimono nell’arcano linguaggio dei simboli un cammino filosofico, spirituale e salvifico. La trasmutazione dei metalli vili in oro, attraverso la leggendaria “pietra filosofale” non va intesa tanto in senso concreto e fisico, quanto simbolico e spirituale, di trasformazione e di ascesa per conseguire la conoscenza e la realizzazione di sé stessi e dell’Io divino e cosmico che alberga in noi.

Si tramanda che talvolta alcuni siano riusciti a trasformare il piombo in oro in senso materiale, ma questo non era certo lo scopo dei veri alchimisti, che si definivano filosofi, interessati a ben altro che la ricchezza terrena; d’altro canto nel Medio Evo e agli inizi dell’età moderna le legislazioni reprimevano questo tipo di pratiche ciarlatanesche e consideravano l’oro eventualmente ottenuto attraverso tali manipolazioni non autentico e non equivalente a quello naturale, e falsari coloro che pretendevano di produrlo in questo modo.

Il processo che doveva condurre alla “nascita” (poiché essa era considerata quasi alla stregua di un essere vivente) della “pietra dei filosofi” era lungo e complesso e veniva chiamato la “Grande Opera”. Essa si articolava in tre momenti principali:

1) l’opera al nero, nella quale avveniva la putrefazione, ed era rappresentata da un corvo -raffigurato in genere su un teschio-;

2) l’opera al bianco, la purificazione, incarnata da un candido cigno;

3) l’opera al rosso, ovvero la sublimazione e la fissazione, della quale era immagine e simbolo la Fenice, che dunque compendiava tutto il processo alchemico e il divenire finale, ed era rappresentata svettante e spiegante le ali tra le fiamme. E pertanto nel “Salterio d’Ermòfilo inviato a Filalete” si afferma che la Fenice che rinasce dalla sue ceneri è “il Sale dei Filosofi…il loro Mercurio…il sale di gloria di Basilio Valentino, il sale Albrot di Artefio, il Mercurio doppio di Bernardo Trevisano, è l’acqua secca, l’acqua ignea e lo Spirito dell’Universo” (8).

Nella prossima parte della nostra trattazione esamineremo altre creature alate presenti nelle tradizioni mitico-religiose di Persia, India e Cina, che pur non potendosi identificare con la Fenice, offrono indubbie affinità e analogie con essa, sia nell’aspetto sia nel simbolismo.

CONTINUA NELLA SETTIMA PARTE

1) per la verità, sembra che queste citazioni non siano tratte direttamente dalla tragedia di Ezechiele, ma da un’opera sui Giudei di Alessandro Poliistore, erudito e poligrafo vissuto nel i secolo a. C., le cui opere, -come spesso dobbiamo riscontrare nelle nostre ricerche-, come moltissime altre dell’antichità, si sono smarrite nei meandri tenebrosi della storia per cui se ne conoscono solo piccoli brani e citazioni.

2) nei libri di Ezechiele (il profeta biblico, non il tragico), di Baruch e nel Salmo 22; nonché nell’apocrifo “Libro di Henoch”.

3) esistono tre versioni del “Libro di Henoch”, una etiopica, una slava (detta anche “Libro dei Segreti di Henoch”) ed una ebraica. Tuttavia le differenze di contenuto tra i tre scritti sono così rilevanti -pur rientrando tutte nell’ambito della tarda letteratura messianica e apocalittica giudaica (nonché didattica per quanto riguarda la versione etiopica dove sono presenti ampie trattazioni cosmologiche ed astronomiche)-, che essi sono considerati testi diversi. L’epoca di composizione è l’età ellenistica, -presumibilmente il II secolo a. C.-, anche se i codici che li tramandano in forma completa -in ghe’ez, la lingua letteraria e liturgica dell’Etiopia, in slavo ecclesiastico e in ebraico- sono tutti recenti, non anteriori al ME; esistono peraltro citazioni e brani di tali libri in codici assai più antichi e frammenti in papiri dei secoli I a. C. e I e II d. C. (come ad esempio quelli ritrovati a Qumran nei pressi del Mar Morto).

4) questo scritto mostra dunque delle affinità da un lato con la canonica “Apocalisse di S. Giovanni” e con le altre numerose “apocalissi” apocrife; dall’altro con il “Paradiso” di Dante.

5) il cosiddetto “fondo gnostico di Nag Hammadi” è costituito da un gruppo di 13 papiri scritti in copto risalenti al III e IV secolo (ma il cui testo è da ascrivere ad epoche anteriori e tradotto dal greco) scoperti in una giara di terracotta trovata da un contadino in una cavità a Nag Hammadi in Egitto nel dicembre del 1945. I papiri sono custoditi al Museo Copto del Cairo.

6) alcuni però leggono “Aetna”, anziché Henna, ovvero il famoso vulcano, ma questa interpretazione non sembra potersi accordare con la vicenda narrata, poiché il rapimento di Proserpina avvenne proprio nell’area al centro della Sicilia, in prossimità di Enna, dalla quale l’Etna è piuttosto distante.

7) Panchaia è un’isola posta tra il mar Rosso e l’oceano Indiano che abbiamo già citato, famosa per la produzione di incenso; l’Idaspe è u  fiume, affluente dell’Indo, che qui indica per metonimia l’India, la terra per eccellenza ricca di spezie e di aromi.

8) quelli citati sono celebri alchimisti del Medio Evo. “Ermòfilo” e “Filalete” significano rispettivamente “amico di Hermes (ovvero di Mercurio, inteso anche come elemento, cioè l'”Argento vivo”, uno dei fondamenti dell’Universo nella dottrina alchimistica)” e “amico della verità”.

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