L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -undicesima parte (cosmogonia ed escatologia nelle altre religioni iraniche: Mitraismo, Manichei e Mandei)

Dal tronco della religione mazdaica, -della quale abbiamo visto nella parte precedente le concezioni relative alla sorte delle anime individuali e il destino finale dell’Universo-, si dipartirono diversi rami nei quali le credenze e le dottrine zoroastriane appaiono profondamente modificate, sia a causa di una evoluzione interna e all’adattamento a situazioni storiche e ambientali diverse, sia per l’influenza e l’incontro con altre tradizioni spirituali e culturali (religione astrale babilonese e poi mondo ellenistico per quanto riguarda la religione di Mitra; cristianesimo, specie nella versione gnostica, e buddismo per il manicheismo; per quanto riguarda i Mandei in essi si può vedere lo sviluppo di una setta eterodossa giudaica influenzata dalle idee religiose iraniche).

Nella prima di queste religioni, il culto di Mitra, diviene centrale la figura di una divinità molto antica comune al pantheon delle popolazioni di tutto il ramo indo-iranico degli Indo-europei, nonché di alcune del ramo anatolico, Mithra (nella variante iranica) o Mitra (in quella vedica indù). La prima menzione sicura del nome di Mitra, -nella forma “Mi-si-ra”-, si trova in un trattato di pace stipulato nel 1330 a. C. circa tra il re degli Ittiti Suppiluliumash I e il sovrano del regno di Mitanni, Shattiwaza, con il quale quest’ultimo si riconosceva vassallo del monarca ittita, che l’aveva aiutato a respingere l’invasione degli Assiri. Il regno di Mitanni era stato costituita da alcune tribù degli Hurriti, o Khurriti, o Orrei, popolazione di incerta origine etnica e di lingua oscura, non semitica e non indo-europea, in cui però era presente una sorta di casta dominante, che, tanto per gli antroponimi, di chiara ascendenza indoeuropea, tanto per alcune delle divinità da essi adorate, si suppone di provenienza indo-iranica. E nel documento suddetto sono appunto citati, a garanzia della fedele osservanza delle condizioni stabilite nel trattato i nomi di Indra, Mitra, Varuna e degli Ashvini, coppia di dei cavalieri gemelli, -nei quali si è ravvisata una somiglianza, se non una coincidenza con i Dioscuri ellenici e con i Palici siculi, parimenti gemelli-, alcune delle principali divinità vediche (1).

Nei “Veda”, gli scritti sacri della tradizione indù, Mitra è citato quasi sempre insieme a Varuna: a entrambi sono dedicati ben 36 inni del “Rig Veda” (il più antico e importante di questi testi sacri), mentre solo uno è dedicato al solo Mitra. Sebbene questa coppia di divinità appaia legata e al Cielo e al Sole (2), la loro funzione è essenzialmente quella di conservatori, custodi e garanti dell’ordine cosmico e sociale (“vrata”).

Il dio Varuna che cavalca il “Makara”, animale mitico con caratteristiche anfibie.

In particolare, Mitra, conformemente alla probabile etimologia del suo nome che si riconnette ad una radice indoeuropea *MEI, contenente l’idea sia di “scambio, accordo, contratto”, sia di “ufficio, carica, missione”, sembra avere competenza su accordi, patti, alleanze, scambi, collaborazioni sui quali si fonda la natura così come la civile convivenza se non vuole regredire nella barbarie (3). Pertanto egli vigila sui giuramenti, è il protettore della lealtà e dell’onestà e punisce duramente i trasgressori.

Personalità e funzioni similari riveste Mithra nella religione iranica primitiva: egli è un dio sovrano per eccellenza, di natura solare, venerato in special modo durante la festa di mezza estate, detta “Mithragan”; ma la sua figura è anche e soprattutto quella di un difensore della fede giurata, dei patti convenuti tra le tribù e delle leggi che consentono la pace e la stabilità del corpo sociale. Come abbiamo già detto altrove, dopo la riforma religiosa in senso monoteistico operata da Zarathustra, gli antichi dei acquistano il carattere di “yazata” (in persiano moderno “ized”), -corrispondenti al sanscrito “yaiata” = “venerabile”-, angeli subordinati all’eptade arcangelica degli Amesha Spenta, costituenti la suprema corte di Ahura Mazda, -per non dire epifanie ed ipostasi di quest’ultimo-, perdendo la loro originaria carica naturalistica ed assumendo forma idealizzata ed astratta. E Mithra diviene uno degli “yazata” più importanti, uno dei giudici del tribunale oltremondano (come abbiamo visto nella parte precedente), di cui nello “Yast” X si dice che è “il primo yazata celeste che avanza al di sopra del monte Hara [la catena dell’Elburs], procedendo dinanzi al Sole immortale coi suoi veloci corsieri, colui che primo, ornato dello splendore dell’oro, tocca le splendide vette, dalle quali stringe con un abbraccio vivificante, beneficando tutte le creature, l’intero suolo ario”. Da questa descrizione si comprende come avesse molti tratti dell’Helios greco, e pure di Apollo: è colui che dall’alto vede tutte le cose, porta alla luce la verità e castiga gli spergiuri, i mentitori e i fedifraghi.

Ma non mancano neppure le qualità e gli attributi guerrieri, che saranno poi accentuati nel culto tributatogli in età greco-romana: egli infatti interviene a difesa degli umani ed è il capitano delle schiere celesti che combattono i demoni (e pertanto in tale veste rimembra l’arcangelo Michele del giudaismo e del cristianesimo).

Mentre nell’età più splendida dell’Impero Achemenide i sovrani quali Ciro II, Cambise, Dario I e Serse, i quali avevano portato alla massima espansione lo stato persiano, attenendosi al monoteismo che aveva improntato l’insegnamento di Zarathustra, e che caratterizza le parti più antiche dell’Avesta, mostrano di riservare la loro adorazione ad Ahura Mazda, che è il solo dio menzionato nelle loro iscrizioni commemorative e celebrative, dalla metà del V sec. a. C. alcune delle antiche divinità iraniche, che erano state ridotte a semplici angeli esecutori del volere del dio supremo e dell’eptade degli Amesha Spenta, riacquistano una notevole importanza sia nel culto ufficiale sia nella devozione popolare. Tra esse soprattutto Anahita, dea delle acque e della fertilità, e Mitra, il quale viene spesso associato ad Anahita, talvolta come figlio e talvolta come sposo. Ed insieme ad essa è citato nella prima iscrizione ufficiale di un sovrano achemenide, Artaserse II (404-358), rinvenuta in un palazzo di Susa, dove i due dei sono invocati con Ahura Mazda a protezione della vita del re e del palazzo che egli aveva inaugurato. A Babilonia Mitra fu assimilato con Shamash, il dio Sole, e nell’ambiente mesopotamico iniziò l’associazione di elementi astrali (segni zodiacali, divinità planetarie a lui subordinate) al culto del dio persiano, tipica del sincretismo religioso dell’età seleucide e di quella arsacide; in questo periodo Mitra, insieme a Zeus-Oromazdes (l’Ahura Mazda persiano) e ad Anahita, divenne una delle divinità più popolari e venerate in Media, in Armenia, in Cappadocia e altre regioni anatoliche e caucasiche, come attesta anche la diffusione in quei luoghi di antroponimi teofori (cioè nomi di persona che contengono il nome di una divinità), quali “Mitridate” = “dato da Mitra”, che fu portato anche da numerosi sovrani di quei paesi. La prima menzione del nome di Mitra in un testo letterario greco sembra sia quella presente nella “Ciropedia” di Senofonte (VII, 6, 53), ove Artabase, generale di Ciro II il Grande, nel discorso che rivolge al suo sovrano dopo la conquista di Babilonia, avvenuta nel 539 a. C., pronuncia un giuramento nel nome di tale divinità.

In seguito però la figura di Mitra nell’area iranica e anatolica orientale assume un particolare rilievo nell’ambito di un corrente, più filosofica che religiosa in senso stretto, della dottrina di Zoroastro detta con termine moderno “zurvanismo”.  Tale nome deriva da quello di “Zurvàn Akàrana”, il “Tempo senza limiti”, prima concetto astratto e poi entità mitologica, con il quale i Magi, i sacerdoti zoroastriani, tentarono di conciliare in una soluzione unitaria il conflitto, ontologico e cosmologico, tra lo Spirito del Bene (Ahura Mazda) e lo Spirito del Male (Ahriman). Nell’Avesta (Yast, XXX, 3-5) i due spiriti cardine del divenire cosmico sono concepiti in effetti quali “gemelli” (“Yama”); tuttavia è probabile che tale termine fosse usato nel testo sacro solo per esprimere la dicotomia delle due forze fondamentali dalle quali traggono origine e per le quali acquistano significato i fenomeni contrapposti che si dispiegano sia sul piano fisico, sia su quello morale e spirituale. Nella posteriore esegesi prevalse un’interpretazione secondo la quale i due spiriti supremi erano figli di un principio cosmico eterno ed infinito, che, come abbiamo detto, nella successiva evoluzione, -influenzata forse dalla religione ellenica-, assunse poi caratteri mitologici.

Rilievo del I sec. a. C. in cui appaiono il dio Mitra, -a destra- e Antioco I, re di Commagene. Come si può notare entrambi indossano vesti tipicamente persiane, tra cui le “anassiridi” (i pantaloni). Mitra ha il berretto frigio, divenuto suo imprescindibile attributo, mentre il re porta la tiara regale.

Questa figura, -che è appunto quella di “Zurvàn Akàrana”-, si trova già nell’Avesta (Videvdat, XIX, 13, 16, 19, 29; Yast, LXXII, 10), dove però non è messo in stretta relazione con i due spiriti cosmici; esso appare inoltre, -solo come “Zurvàn”-, quale “nomen divinum” in tavolette in cuneiforme provenienti dalla città di Nuzi (4) e risalenti al XIII-XII secolo a. C. L’affermazione della discendenza di Ahura Mazda e Ahriman da un dio-padre eterno e illimitato si riscontra però in forma esplicita solo in documenti greci. Ad esempio Eudemo di Rodi, vissuto nel III sec. a. C., in un passo citato da Damascio, -filosofo neoplatonico del IV secolo-, riferisce (“Dubitationes et Solutiones”, 125 bis) che i Magi facevano derivare il dio del male e il dio del bene da un tutto, un “Uno” primordiale, che essi chiamavano Tempo o Spazio; mentre in una iscrizione dell’epoca di Antioco I di Commagene (69-34 a. C.),- dinasta che praticava una religione sincretistica in cui Mitra aveva una parte preponderante come dio supremo- (5), troviamo invocato il “Kronos àpeiros”, il “Tempo senza limiti”, evidente traduzione in greco di “Zurvàn Akàrana”, che rimembra pure l'”Apeiron”, il principio cosmico -“archè”- concepito e formulato dal filosofo Anassimandro di Mileto, l'”Infinito” in cui convivono gli opposti, i quali si manifestano poi come tali nel divenire incessante della Natura.

Altre testimonianze sul principio cosmico anteriore alla dualità dei due “grandi spiriti” (Spita Mainyu, Ahura Mazda, Ormazd o Ormizd; e Angra Mainyu, Ahriman) sono alquanto tarde e spesso inficiate da un intento polemico: ad esempio lo scrittore e teologo armeno Yeznik di Kolb (387-450 circa) in una sua opera di confutazione delle eresie espone in sintesi il mito cosmogonico zurvanico nel seguente modo: prima del tempo e dell’esistenza di ogni creatura vi era un essere androgino chiamato Zruan; desideroso di procreare un figlio, -che si dovrà chiamare Ormizd-, per mille anni egli offre sacrifici affinché la sua richiesta sua esaudita (ed in effetti tale versione è senza dubbio incoerente poiché non si capisce a chi avrebbe dovuto rivolgersi dal momento che era l’unico essere); poiché i suoi sacrifici si rivelano inefficaci, Zruan dubita del valore del suo operato; subito dopo vengono concepiti due figli: Ormizd e Ahriman, il quale è il frutto del dubbio, ovvero dell’insicurezza, della mancanza di fede nelle sue capacità, di Zruan; dopo aver saputo che due figli erano “nel ventre della madre” (madre che non si sa da dove sia uscita, a meno che non si debba interpretare questa “madre” come la stessa parte femminile di Zruan), formulò il voto che avrebbe designato re il primo di essi che fosse nato; il primo ad uscire dal ventre materno è Ahriman, il quale si presenta al padre, chiedendo l’adempimento della promessa, ma è da lui respinto poiché gli appare brutto e tenebroso (6); si fa avanti allora Ormizd, il quale viene riconosciuto dal genitore quale suo erede, per cui gli viene consegnato il “barsom”, il bastone insegna del potere sacerdotale usato nelle cerimonie zoroastriane; Ahriman allora protesta per l’ingiustizia subita e ricorda al padre il giuramento fatto prima della sua nascita; allora quest’ultimo per mantenere fede al suo voto sentenzia che Ahriman regnerà per novemila anni, trascorsi i quali il regno sarà trasmesso ad Ormizd; allora i due gemelli iniziano a creare ciascuno le proprie creature, maligne quelle di Ahriman, benefiche quelle di Ormizd.

Codesta entità propria delle religioni persiane nella sistemazione dottrinale e mitologica elaborata nell’ambiente ellenistico divenne l’ente primigenio e fu in genere designato con il nome di “Aion” (Eone), con il quale si intende il Tempo cosmico, o l’Eternità, in contrapposizione al Tempo terrestre e umano, -“Kronos”-, (sebbene talora si trovi anche quest’ultimo termine per indicarlo, in una identificazione, peraltro imprecisa, con il Kronos della mitologia greca padre di Zeus), mentre nelle regioni di lingua latina viene indicato anche come “Aevum” (7), “Saeculum” (equivalente ad “Aion”) e “Saturnus” (che corrispondeva al Kronos greco, pur avendo la divinità italica caratteristiche piuttosto diverse più positive, legate alla natura e all’agricoltura). A questa divinità si ricollega nell’area occidentale dell’Impero Romano il “Saeculum Frugiferum”, che nell’area ex-punica dell’Africa settentrionale si identifica con Baal-Saturno. Aion era rappresentato come un uomo alato (a volte con due e a volte con quattro ali), talora stante sopra un globo terrestre, con testa di leone, in genere con le fauci spalancate, il corpo avvolto dalle sette circonvoluzioni di un serpente, il cui capo spesso si innalza sopra la criniera dello strano essere (particolare che ricorda il serpente Ananta della mitologia indù, -a sua volta incarnazione dell’Eternità e dell’Infinito-, il quale avvolge Krishna, -epifania di Visnù-, tra le sue spire sollevandosi sopra la sua testa); talvolta i serpenti sono due e in tal caso si incrociano come nel caduceo di Mercurio e le teste dei serpenti si guardano l’un l’altra al di sopra della protome leonina di Aion; per completare il tutto, questi tiene una chiave in ciascuna mano, o anche una chiave in una mano e uno scettro nell’altra. Gli elementi che concorrono a qualificare tale figura sono dotati di un preciso simbolismo e si possono così interpretare: le ali vogliono significare che il tempo vola (e dunque non si deve perdere e non si devono sprecare le occasioni sulla via della salvezza); la testa leonina con le fauci semiaperte o spalancate, quasi in atto di voler azzannare chiunque le capiti a tiro, alludono alla voracità del tempo che divora tutte le cose materiali e terrene; il serpente rappresenta il corso del Sole nello Zodiaco (se i serpenti sono due il corso del Sole e quello della Luna, oppure l’equatore e l’eclittica); le chiavi sono quelle del Paradiso del quale egli è custode, mentre lo scettro manifesta il potere che il tempo detiene sopra la vita degli umani e di tutti gli esseri, per cui viene a identificarsi con il Destino o la Necessità. Più di rado si riscontrano nell’iconografia di Aion-Zurvan altri elementi accessori quali il cerchio zodiacale, il caduceo di Mercurio, il gallo (che, come abbiamo visto negli articoli finora pubblicati sulla storia dei Gallinacei, è uno dei compagni e dei simboli di Ahra Mazda e di Sarosha), la pigna (legata a Dioniso e a Sabazio), allegorie dei venti e/o delle stagioni, che confermano il suo legame con la ciclicità del tempo infinito, il destino e le energie cosmiche.

Talvolta la figura di codesta essere che incarna la Spazio-Tempo cosmico appare circondata dalla fascia zodiacale in forma di uovo da cui sembra uscire, e pertanto ricorda quella del Fanete (Phanes), l’entità cosmica primeva contemplata dalle dottrine orfiche (di essa abbiamo parlato nella ricerca su “Quel savio gentil che tutto seppe”, in particolare nella seconda parte pubblicata il 12 aprile 2013); ed in effetti innegabile è l’analogia tra Aion e Fanete, così come con la prima emanazione dall’Uno neoplatonico e dall'”Ain Soph” cabalistico: entrambe rappresentazioni sia plastiche sia concettuali dell’Infinito che si irradia nel finito, del Divino inesprimibile che si scinde nell’illusoria dicotomia di “soggetto” e “oggetto”, per poi ricomporsi, o meglio riconoscersi Uno quando sul buio della materia prevale la luce della coscienza, alla fine dei tempi (ma in seguito tornare ad espandersi in un nuovo universo, -diverso dai precedenti- nell’eterno ciclo dell’Essere).

Non possiamo fare a meno peraltro di precisare che la figura che abbiamo testè descritto, di valore simbolico e concettuale più che mitologico, non era esclusiva del culto mitraico, ma appare anche in altri contesti, sia quale entità divina autonoma sia, più di frequente, quale incarnazione o ipostasi di altre divinità: ad es. ad Alessandria d’Egitto si venerava un “Aion Ploutonios”, il quale, stando a quanto riferisce lo “pseudo-Callistene” nella sua romanzesca “Vita di Alessandro il Grande”, -risalente al III secolo-, (I, 33), tramite l’oracolo di Ammone,da lui consultato nell’oasi di Siwa, avrebbe ispirato il sovrano macedone a fondare la nuova città in quel luogo nella parte occidentale del delta del Nilo. Aion-Ploutonios fu a sua volta assimilato a Serapide, il dio di origine anatolica, ed oggetto di elucubrazione filosofica che in Egitto venne a prendere il posto di Osiride accanto ad Iside nello sviluppo che ebbe tale culto nell’età tolemaica, pur senza obliterare del tutto la figura del fratello-sposo di quest’ultima (8). Ma Aion fu anche assimilato allo stesso Osiride, nonché ad Agatodemone (Agathos Daimon), il “Buon Genio” o “Buono Spirito”, nome con il quale era invocato il medesimo “Aion Ploutonios” citato sopra. Questa divinità riprendeva con denominazione e attributi ellenici un’antico nume egizio, rappresentato come un serpente con le zampe, e in età tarda con il volto di Serapide, nel quale si identificò l'”agathos  daimon” greco, il doppio positivo di ciascun essere umano, suo protettore e ispiratore delle scelte felici e degli atti benefici (mentre il suo opposto, il “kakos daimon”, è colui che induce compiere cattive azioni e mettersi nei guai), nonché l’analogo “Bonus Eventus” romano. Egli era raffigurato in genere nelle spoglie di un giovanetto con un cornucopia o una scodella nella mano destra e papaveri e spighe di grano nella sinistra, spesso affiancato o avvolto da un serpente. Ma non di rado l'”Agatodemone” era incarnato da un serpentello senza attributi umani, con una corona in testa e la coda terminante con un fiore. In questa forma era spesso presente nei tempietti domestici dei Romani insieme ai Lari, le divinità protettrici della casa.

In Egitto, e in particolare ad Alessandria la figura di Agathos Daimon si fuse con quella di Serapide, assorbendone la  doppia natura di divinità infera e di dispensatore delle messi (funzioni che peraltro sono spesso accomunate nelle antiche religioni, poiché entrambe legate alla terra, al mondo “ctonio” e “ipoctonio”, terrestre e sotterraneo), e poi con Aion, -che in questo contesto non aveva particolari legami con Mitra-, tanto che, stando alla testimonianza di Epifanio di Salamina, scrittore ecclesiastico del IV secolo (“Aversus haereses, LI, 22), ogni anno ad Alessandria nella notte tra il 5 e il 6 gennaio -in corrispondenza del solstizio d’inverno nel calendario tebano, veniva commemorata e celebrata la nascita di Aion-Agathodaimon -la cui figura aveva incorporato anche quella di Osiride-, nel santuario di Kore, -la “Vergine”- che ne era considerata genitrice. In tale occasione la statuetta di un neonato era portata in processione (come si fa ora nel Natale cristiano con Gesù Bambino) dal tempio alle rive del Nilo, dove veniva attinta acqua che si sarebbe trasformata in vino (come nel miracolo delle “nozze di Cana”).

Dalla fusione di Aion-Agathodaimon con Khnum, antica divinità egizia criocefala adorata soprattutto nell’Alto Egitto, -dove principali centri del suo culto furono Syene ed Elefantina-, importante perché in un mito antropogonico avrebbe modellato l’uomo con l’argilla su un tornio da vasaio, derivò invece la figura di “Khnumis” -o “Khnubis”, o “Khnufis”-, rappresentato in forma di serpente con protome leonina dalla cui criniera, o da un nimbo che ne circonda il capo, si dipartono sette o dodici raggi (i sette pianeti o i dodici segni zodiacali), figura che divenne per la setta gnostica dei Naasseni (nome che deriva proprio dala semitico “nahash” = “serpente”) l’entità suprema e primigenia; mentre più tardi in alcune altre scuole gnostiche, quali gli Ofiti e i Sethiani, nelle sembianze di Aion-Zurvan veniva rappresentato Ialdabaoth, il Demiurgo creatore del mondo materiale, l’arconte corrispondente al dio ebraico dell’AT.

Secondo la cosmogonia mitraica Zurvan-Aion crea il cosmo attraverso una serie di generazioni (che ricordano sia quelle della teologia eliopolitana egizia, sia quelle, peraltro ben più complesse, delle teorie di Valentino, Basilide e altri gnostici): la prima coppia da lui derivata è costituita dal Cielo e dalla Terra. Dal connubio tra la Terra e il Cielo nasce Oceano. Questi elementi primordiali personificati furono identificati negli dei del pantheon greco-romano e iranico: il Cielo con Giove-Zeus-Oromazdes; la Terra con Giunone-Hera-Spenta Armàiti; l’Oceano con Nettuno-Poseidone-Apam-Napàt (antico dio vedico e iranico delle acque fluviali e lacustri, il cui culto però in Persia fu eclissato da quello verso Anahita, della quale talora è detto figlio). Oltre ad Oceano, Giove-Oromazdes e Giunone-Armaiti generano un numerosa figliolanza di dei, che corrispondono a molti di quelli della mitologia greco-romana assimilati agli “yazata”  (o agli “ahura”) iranici: Diana-Artemide-Cibele-Anahitis; Dioniso-Bacco-Haoma (9); Ares-Marte-Sharevar; Efesto-Vulcano-Atar; Silvano-Drivaspa; NIke-Vananinti (la Vittoria); Aretè-Asha (la Virtù) e altri.

Anahita, il re Cosroe II e Mitra in un rilievo nella località di Taq-e Bustan in Iran.

Tuttavia, secondo una concezione esposta in un testo pahlavico, -e dunque risalente a un’epoca nella quale il Mitraismo era già tramontato, ma che riflette una dottrina ben più antica-, il “Datastan-i Menoki Xrat” (cap. 27), gli Zoroastriani (e in particolare gli Zurvanisti), distinguevano due ipostasi di Zurvan: lo Zuravan-Akarana, il Tempo Infinito, cosmico, l’Eternità; e lo Zurvan-Dareghochvadhata (“Signore del Lungo Dominio”), equivalente a Kronos, il tempo empirico, limitato, terreno e umano, che in pratica viene a coincidere con il destino, con la necessità (e si potrebbe dire anche con il “karma”); quest’ultimo sarebbe una sorta di degradazione del primo, conseguente al fatto che la sua unità (poiché in pratica Zurvan-Aion si può identificare nell'”Uno” neoplatonico) viene intaccata dalla generazione dei suddetti dei, ed la causa della decadenza e della morte. Da questa ipostasi del Tempo discende una seconda stirpe di dei, che è il contraltare della precedente: Ahriman, identificato con Hades-Plutone, e Az, il demone femminile che nell’Avesta incarna l’avidità e la concupiscenza, assimilata ad Ecate. Dalla loro unione nascono numerose coppie di demoni, che vennero poi variamente identificati negli esseri mostruosi della mitologia greca.

Questi demoni maligni, come i Giganti nel mito esiodeo, tentano di dare l’assalto al Cielo dove dimora Giove-Oromazdes con gli “Yazata” (angeli dello zoroastrismo e dei della mitologia greca), per detronizzarli e assumere il potere nell’Universo, ma sono vinti e precipitati negli abissi ipogei (come gli angeli ribelli nel cristianesimo). Dalle loro cupe dimore sotterranee essi possono evadere e spandersi sulla terra per compiere opere malvage ed instillare nel cuore degli uomini i vizi e le inclinazioni più perniciose (l’ira, l’invidia, l’avidità, la lussuria, ecc.) per cui devono essere incessantemente placati e allontanati con esorcismi e riti liberatori.

CONTINUA NELLA DODICESIMA PARTE

Note

1) le divinità più venerate del pantheon hurrita erano però quelle delle religioni anatoliche e mesopotamiche, quali Teshub (o Teshup, dio della tempesta, -omologo dell’anatolico Tarhunta, -o Tarhunt-(al quale abbiamo accennato nella nota n.6 della parte precedente e nella nota n. 7 della terza parte di “L’affascinante Storia dell’Albero di Natale”, del 9 gennaio 2018); e la sua paredra Hepat, dea del Sole -corrispondente alla “dea del Sole di Arinna” ittita-; Kubaba (divenuta poi Cybele per i Greci), Anu, dio supremo del Cielo, padre di Kumarbi, il quale evirò il padre, generando così Teshub, da quale fu a sua volta detronizzato (da questo mito si suppone sia derivato quello esposto da Esiodo nella “Teogonia” in cui i tre dei sono chiamati rispettivamente Urano, Kronos e Zeus); Shaushka, equivalente dell’Ishtar babilonese; Nergal, dio del fuoco e degli eventi distruttivi, signore degli Inferi, ecc.

2) il nome Varuna è stato accostato al greco Uranos, dal che si dedotto che il dio vedico fosse un’analoga divinità del Cielo astronomico. Così di Mitra, in Rig Veda, VI, 51, 1, si proclama che il Sole, il quale tutto vede, è il suo grande occhio.

3) questa radice si ritrova nel greco “ameibo” e nel gotico “maidjan” = “scambiare”, nel latino “munus, -eris” = “carica, dignità, funzione” e “communis” = “comune, condiviso”, nel gotico “gamains” = “comune”.

4) Nuzi era una città fondata dagli Accadi alla fine del III millennio a. C. con il nome di Gasur; fu poi occupata dagli Hurriti che le cambiarono il nome in Nuzi, e infine fu conquistata dagli Assiri.

5) la Commagene era una regione dell’Anatolia sud-orientale, già sede di un piccolo regno luvio, con captale Kummana, divenuto vassallo degli Ittiti e poi degli Assiri. Dopo aver fatto parte dell’impero Persiano, di quello di Alessandro Magno e di quello dei Seleucidi, nel 163 a. C. si rese indipendente con Tolomeo e tale rimase fino a quando nel 72 d. C. fu annessa da Roma. Il suo sovrano più celebre fu appunto Antioco IV detto Filelleno, il quale edificò sul monte Nemrut un grandioso santuario-mausoleo in cui si ergevano le cinque statue colossali del re medesimo, di Tyhche (la Fortuna), Zeus-Oromazdes, Apollo-Helios-Mitra ed Eracle-Marte-Artagnes (la divinità armena variante del dio indo-europeo della folgore), di cui ora rimangono solo imponenti rovine.

6) questo evento ricorda un po’ quanto accadde pure ad Efesto, il quale dopo che fu partorito da Hera, sarebbe stato da costei gettato in mare quando si avvide della sua deformità (si veda Iliade, XVIII, 394 e seguenti). Secondo la “Biblioteca di Apollodoro” (I,3) invece sarebbe stato Zeus a scagliare il dio fabbro sull’isola di Lemno quando egli aveva difeso sua madre Hera che era stata incatenata dal sommo nume; in entrambi i casi però sarebbe stato soccorso da Teti. Tuttavia il parallelismo tra i due episodi (di Efesto e di Ahriman) è in effetti piuttosto labile ed esteriore.

7) vocabolo in cui si ritrova la medesima radice di “Aion”, presente anche nel greco “aeì” = “sempre” e nel latino “iuvenis”, con l’idea di continuità, durata.

8) secondo quanto si narra nel brano citato, Alessandro eresse un altare in onore di questa divinità sconosciuta e si apprestò a celebrarvi un sacrificio, ma un enorme aquila si precipitò sulle offerte sacrificali e le ghermì portandole in alto e deponendole poi su altro altare, che trovavasi alquanto distante. Il condottiero accorse in quel luogo e vide un recinto sacro entro il quale stava la statua lignea di una divinità in trono che teneva nella mano destra uno strano essere polimorfo e con la sinistra uno scettro. Accanto ad essa si vedeva un’altra statua femminile grandissima; colà si trovavano anche degli obelischi recanti un’iscrizione in caratteri geroglifici che, rivolgendosi direttamente al conquistatore macedone, predicevano la fondazione e la gloria della futura città. L’ignoto dio rivelava anche il suo nome, ma attraverso un enigma, che si può risolvere e tenendo conto del significato numerico delle lettere greche: “conta due volte cento (200 = Σ) e uno (1 = A); poi altri cento (100 = P) e uno (1 = A); poi quattro volte venti (cioè 80 = Π) e dieci (10 = I); riprendi per ultima la prima lettera (Σ) e capirai il dio che ti si è rivelato”: dalle lettere corrispondenti alle cifre indicate dal dio si ottiene il nome ΣΑPAΠIΣ (Sarapis). Per le versioni date da Tacito e da Plutarco sulla rivelazione di Serapide e della scoperta del suo simulacro, nonché il legame di tale divinità con Aion e Agatodemone, si veda la seconda parte di “L’Asino e il Bue nel presepe”, pubblicata il 27 dicembre 2015.

9) “Haoma”, come il “Soma” vedico, è un liquore “mistico” impiegato nei rituali della religione persiana e di quella vedica e bramanica, nonché la pianta da cui esso si estrae. Questa bevanda dovrebbe da un lato favorire il contatto con gli dei, dall’altro concedere a chi ne beva intelligenza, saggezza, prosperità e lunga vita. La pianta da cui veniva spremuto il liquido base della bevanda sacra si ritiene fosse una o più specie di piante del genere “Ephedra” (E. gerardiana; E. sinica; E. procera; e soprattutto Ephedra distachya), da cui tuttora gli Zoroastriani si servono per prepararlo. Queste piante, appartenenti alla famiglia delle Efedracee (divisione delle Clamidosperme) sono diffuse nelle regioni indo-iraniche e nell’Asia centrale e contengono, soprattutto nelle infiorescenze, alcaloidi dotati di spiccate proprietà psicotrope. In effetti la quantità di rami di Efedra impiegati dagli Zoroastriani odierni nella preparazione dell'”haoma” (che comporta una complicata serie di riti) è alquanto ridotta, poiché la base della bevanda è costituita principalmente da acqua, latte (di mucca per i Ghebri e di capre per i Parsi) e succo di melagrana, che vengono mescolati in fasi successive. L’impiego di bevande sacre si ritrova in molte religioni (ad es. nei Misteri Eleusini abbiamo il “ciceone”), e lo stesso vino, succo d’uva fermentato, ebbe ed ha tuttora un significato e una finalità “mistica”, con il fine di favorire un contatto, peraltro illusorio con il divino, o per meglio dire per penetrare nell’inconscio (scorciatoia peraltro sempre pericolosa per entrare nelle profondità di sé stessi). Ma il termine Haoma, così come con Soma in area indù, designa anche una divinità maschile che è la personificazione sia della pianta che del liquore che se ne distilla. Pertanto le cerimonie in cui si spremono i rami e le infiorescenze dell’Haoma e si prepara la bevanda presentano il carattere del sacrificio di un dio che muore per donare la salvezza all’uomo secondo uno schema pressoché costante in tutte le religioni salvifiche, assumendo dunque una funzione sacramentale. La consumazione di questo nettare (del quale si ipotizza nei tempi antichi entrasse come ingrediente anche il miele, nutrimento divino per eccellenza) comporta un “incrementum” non solo individuale, ma cosmico poiché propizia il rinnovamento del mondo e l’affermarsi del bene nel tempo presente e in quello futuro. Esso è immagine e preannunzio dell’Haoma celeste , -o Haoma bianco- che consumato nel Paradiso e all’avvento dell’apocatastasi finale (si veda al riguardo quanto abbiamo detto nella parte precedente) conferisce l’immortalità. In sostanza dunque l'”haoma” pianta sta ad Haoma divinità, come il grappolo d’uva sta a Dioniso-Bacco e a Gesù Cristo: come la pianta asiatica, anche il grappolo d’uva viene schiacciato, -e quindi sacrificato-, per offrire all’uomo la salvezza. Lo studioso R. C. Zaehner, commentando un passo di Yasna, XI, 4, in cui Haoma parla di Ahura Mazda come si suo padre, scrive: “Il dio [Haoma] è sacrificato e offerto al suo Padre Celeste. Idealmente Haoma è nel medesimo tempo sacerdote e vittima sacrificale, il figlio di Dio, che offre sé stesso al suo Padre Celeste… Tale concezione è assai prossima a quella della messa cattolica”. Per tale ragione l’Haoma avestico è stato identificato nell’ambiente mitraico con il Dioniso della tradizione greca (divinità peraltro anch’essa non prettamente ellenica ma importata dalla Tracia). Anche nella mitologia germanica troviamo un bevanda sacra simile all'”haoma”, il “miodhr”, o idromele, il “nettare dei poeti”,che aveva il potere di donare a chi ne bevesse l’ispirazione poetica e la sapienza. Tale mistica pozione era stata prodotta da due nani Fjalar e Galar mescolando miele al sangue di Kvasir, un essere antropomorfo che Asi e Vani avevano creato sputando in un bacile per suggellare la pace dopo la guerra tra le due stirpi di dei. Sull’importanza e il simbolismo delle bevande sacre si veda la prima parte di “Osservazioni sulla nascita del Cristianesimo”, in particolare la nota n. 12, del 6 settembre 2016.

 

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