L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -ottava parte (Anima e Corpo nella dottrina di Proclo)-

Abbiamo visto come molti filosofi dell’antichità abbiano attribuito il “logos”, e dunque un’anima immortale, anche agli animali, esprimendo, in modo più o meno esplicito, la convinzione che le anime possano rivestire spoglie mortali in una serie di incarnazioni sia umane sia animali. Nella parte precedente abbiamo esaminato in particolare l’appassionata difesa degli animali e dei loro diritti condotta da Porfirio con rigore logico e argomentativo pari ad un nobilissimo sentimento di compassione, nel nome della fratellanza spirituale che unisce tutti gli esseri del creato.

Purtroppo però questo aspetto fondamentale della dottrina del filosofo greco-siriaco non fu continuato dai suoi discepoli, e in generale dai neoplatonici dei secoli immediatamente seguenti, che in genere non ammisero la possibilità che un’anima umana dopo la morte del corpo potesse reincarnarsi -o meglio rinascere- in forma animale, -e viceversa che l’anima di un individuo umano potesse aver abitato in una vita precedente un corpo animale- (1). Occorre attendere il IX secolo con Giovanni Scoto Eriugena, il primo neoplatonico cristiano -sebbene il suo cristianesimo manifesti spiccato carattere panteistico (e per questo fu considerato eterodosso)-, perché la riflessione filosofica europea torni ad interessarsi degli esseri viventi non umani: per Giovanni Scoto tutte le anime singole (umane e animali) fanno parte di quell’immenso serbatoio che è l'”Anima Mundi”, l’Anima del Mondo, e ne sono ciascuna una frazione, per cui nessuna di esse per quanto contaminata dalla corporeità, potrà essere cancellata dal suo grembo materno, per cui anche gli animali, come tutta la natura “creata e non creante”, che viene reintegrata nella sua perfezione originaria dalla redenzione del Cristo, sono destinati alla vita eterna ed hanno una intrinseca dignità. Pertanto su questo punto il filosofo irlandese riprende la concezione enunciata da Plotino e fatta propria dai suoi discepoli (“Questo Universo è un animale che contiene in sé tutti gli animali, avendo una sola Anima in tutte le sue parti”, -Enn., IV, 4, 32-)(2).

Il neoplatonismo antico dal IV al VII secolo fu illustrato da molti maestri il cui pensiero, pur in una generica unità di fondo (richiamo agli insegnamenti di Platone, soprattutto quelli contenuti nel “Parmenide”, conciliati significativamente con quelli di Aristotele, soprattutto quelli relativi ai nove cieli e alle “sfere celesti”, in cui si vedeva una corripsondenza con le emanazioni dell'”Uno” cosmico), mostra significative differenze sulle più importanti questioni a riguardo di Dio, del mondo, dell’intelletto e dell’anima; nel suo ambito (che di fatto si estendeva a quasi tutta la filosofia “pagana” del periodo) si possono distinguere tre scuole, -ma forse sarebbe più esatto definirle “correnti”- principali.

La prima corrente, che influenzò la “scuola romana” -che risaliva direttamente a Porfirio- e la “scuola siriaca”-, fu quella rimasta più fedele alle dottrine formulate da Plotino e Porfirio, volte a conciliare la ricerca dell’Assoluto con la riflessione logica: quest’ultima per essi è la via propedeutica alla vera conoscenza, che porta a concepire razionalmente Dio, ma non a giungere ad esso (cosa che si può fare solo con un’esperienza mistica). Per i seguaci di questa corrente, -così come per Plotino e Porfirio-, raziocinio e intelligenza intuitiva, lungi dall’escludersi a vicenda, sono complementari nella ricerca del vero e nell’ascesa spirituale.

Da Giamblico, discepolo di Porfiro, ma che si distaccò su parecchi punti dalla dottrina del maestro, deriva una corrente, che fu seguita soprattutto dalla “scuola di Pergamo”, in cui l’aspetto mistico ed esoterico prende decisamente il sopravvento a scapito della riflessione filosofica in senso stretto, e la ricerca interiore viene in pratica ridotta a rivelazione e illuminazione. I seguaci di questa corrente, -tra i quali è da annoverare anche l’imperatore Giuliano-, coltivarono con passione la “teurgia” (che, come abbiamo precisato in altri articoli, era in pratica molto simile allo spiritismo moderno) attraverso la quale cercavano il contatto diretto con la divinità. Come si può facilmente immaginare, questa scuola, pur annoverando membri seri e che professavano con sincerità le proprie dottrine, diede spesso luogo a degenerazioni ciarlatanesche (tanto che alcuni, specie dopo la definitiva adesione al cristianesimo degli imperatori, subirono talvolta dure condanne)(3).

La terza corrente, che si manifestò soprattutto nella “scuola di Alessandria”, si volse invece soprattutto agli studi scientifici e alle ricerche erudite, riprendendo dunque sia lo spirito logico-scientifico di Aristotele, sia la scienza alessandrina, sia l’enciclopedismo didascalico di ascendenza ellenistica, e pertanto si può considerare in un certo senso antitetica alla scuola di Pergamo. La “scuola di Alessandria” fu illustrata soprattutto dalle figure di Olimpiodoro il Vecchio, di Ipazia (filosofa-scienziata di cui è nota la triste fine ad opera di fanatici cristiani) e del suo discepolo Sinesio, divenuto nel 409 vescovo di Cirene, sebbene non avesse rinunciato alle sue idee in contrasto con l’ortodossia cristiana, -che proprio in quel periodo si andava definendo-, quali la pre-esistenza delle anime e la negazione della risurrezione della carne alla fine dei tempi. In questa corrente erudita si possono idealmente inserire anche i neoplatonici latini, come Calcidio, -traduttore e commentatore di Platone-, Macrobio, Marziano Capella e soprattutto Severino Boezio.

Una sintesi tra le tre correnti si ebbe poi nella “scuola di Atene”, che si richiamava all’antica “Accademia” platonica, e che fu fondata da Plutarco di Atene (da non confondere con il ben più noto Plutarco di Cheronea) alla fine del IV secolo. Di questa scuola il massimo esponente fu Proclo il quale nelle sue molte opere -ma soprattutto nella “Teologia Platonica” e negli “Elementi di teologia”, oltre che nei suoi commenti a diversi dialoghi di Platone- elaborò in un vasto sistema filosofico la dottrina neoplatonica che ricevette da lui la forma definitiva con cui passò nella tradizione. Dopo di lui il neoplatonismo ebbe ancora alcuni notevoli rappresentanti, ma nessuno che gli si potesse affiancare per vigore speculativo e chiarezza espositiva.

La scuola filosofica di Atene infine fu chiusa nel 529 dall’imperatore Giustiniano, il quale non tollerava (e tanto meno lo tolleravano le gerarchie ecclesiastiche) che esistesse un istituzione culturale indipendente dalla chiesa cristiana. Damascio, l’ultimo scolarca, e altri sei compagni si recarono allora alla corte del re di Persia Kavad (498-531), dove si trattennero per qualche anno, sperando di poter realizzare le loro aspirazioni spirituali, specie dopo che era salito al trono Cosroe -Kushraw in persiano- (che regnò dal 531 al 579), considerato il più grande dei sovrani sassanidi. Ma pure in quel paese, sebbene la politica di Cosroe fosse relativamente tollerante, dominava ormai una sorta di chiesa, quella in cui si era organizzata la religione mazdaica, o neozoroastriana, per cui, non avendo trovato una temperie culturale congeniale alla loro opera, decisero di tornare in patria dove Giustiniano concesse loro di coltivare in privato i loro studi filosofici.

Una classificazione più semplice e chiara della galassia neoplatonica è quella proposta da Olimpiodoro il Giovane, filosofo alessandrino del VI secolo (da non confondere con l’omonimo filosofo vissuto nel IV sec.), il quale distingue i seguaci della scuola in contemplativi, -come Plotino e Porfirio-, che perseguono la loro ricerca della verità e del divino solo con lo studio, la riflessione e la meditazione; e i ritualisti, -come Giamblico, Siriano e Proclo-, i quali considerano indispensabile, e superiore alla filosofia teoretica e alla disciplina etica, la pratica dei riti teurgici, che sarebbero il solo mezzo che consenta un autentica elevazione dell’anima umana al divino.

Ma più in generale le due linee di pensiero si contrappongono soprattutto in merito alla funzione e all’importanza assegnata alla “religione positiva”, cioè all’insieme delle pratiche rituali rivolte agli dei del pantheon ellenistico-romano e a quelle che costituivano e sostanziavano le liturgie salvifiche dei vari “misteri”, diffusisi soprattutto nella tarda antichità. Per Plotino e Porfirio i riti religiosi, sia quelli olimpici sia quelli misterici, hanno un valore e un significato meramente soggettivo, sono solo un ausilio, un mezzo che, se eseguito con sincerità e purezza, favorisce l’introspezione e il distacco dalla banalità del quotidiano, e in pratica rispondono ad una esigenza psicologica dell’uomo e ne incanalano le energie psichiche, ma nulla servono per l’accesso dall’anima al mondo intelligibile -tanto che, come si legge nella “Vita di Plotino” (cap. 10) scritta da Porfirio, un giorno il filosofo, invitato dal suo discepolo Amelio a partecipare ai riti della “neomenia” (la Luna nuova), avrebbe dichiarato che spettava agli dei recarsi da lui e non a lui andare da loro-. Nel pensiero dei primi maestri del neoplatonismo, -ma pure di alcuni più tardi come Eusebio, rivale di Massimo di Efeso, citato nella nota n.3, e la celebre matematica alessandrina Ipazia-, l’elevazione dell’anima è un processo puramente interiore che inizia con la filosofia per proseguire nel suo stadio più sublime con l’illuminazione mistica, ma senza che in esso abbia parte la religione positiva, o tutt’al più una parte solo secondaria e accessoria, un elemento sussidiario che può avere un valore in rapporto alle tendenze del singolo (4).

Inoltre il fatto che nei riti il più delle volte fossero contemplati sacrifici cruenti era in stridente contrasto con il principio del rispetto per tutti gli esseri viventi, nei quali alberga una essenza spirituale, professato dai primi neoplatonici, così come dai pitagorici (5).

Per Giamblico, Proclo e la maggior parte dei neoplatonici dal IV secolo al VI secolo, le pratiche religiose sono invece uno strumento indispensabile per l’ascesa dell’anima alle realtà superiori; per tale ragione, per quanto possa sembrare paradossale, costoro, nonostante siano stati gli animatori della “resistenza” della spiritualità “pagana” all’invadenza del cristianesimo, in realtà sono molto più vicini ad esso dei “laici” Plotino e Porfirio. Infatti, reputando essenziale e insostituibile l’intermediazione della religione, della rivelazione, dei sacerdoti, dei “profeti” per l’ascesa e la redenzione dell’anima, si ponevano in parallelo con i cristiani che, sia pure con differenti contenuti e in forme diverse, predicavano la medesima tesi. E non è certo un caso che l’imperatore Giuliano, -detto l'”Apostata”-, seguace della corrente “ritualistica” del neoplatonismo, nutrisse il proponimento di fondare, ad imitazione di quella cristiana, una “chiesa pagana” fondata sulla teologia platonica, che avesse, oltre che un’organizzazione dottrinale, una salda struttura operativa.

La concezione dell’anima espressa da Proclo ricalca nelle grandi linee quella plotiniana: come la luce nella sua massima lontananza dalla sua fonte diviene tenebra e lo spirito si degrada, o si cristallizza, nella materia, così l’anima di necessità deve produrre un corpo come suo luogo di elezione; l’anima mediando l’intelligibile nella materia, che lo può ricevere solo per gradi, genera il tempo quale forma universale della vita terrena; l’attività dell’anima tuttavia non è volontaria, ma carattere necessario della sua essenza; nondimeno però è pur sempre una discesa nella materia e a buon diritto può essere definita la sua caduta. Si può ravvisare dunque in tale concezione una sorta di parallelismo tra l’Ente universale che attraverso un processo di emanazione genera il Mondo e l’Anima che si abbassa, ma nel medesimo tempo si individualizza, dando luogo a un corpo materiale.

Tuttavia nel sistema metafisico del filosofo di Costantinopoli, caratterizzato da uno sviluppo triadico (ovvero di gruppi di tre), anche la dottrina dell’anima si complica alquanto. Prima di tutto, -o meglio prima del Tutto-, all’inizio dello svolgimento del cosmo, troviamo l’Ente primo, che Proclo concepisce come assolutamente superiore a qualunque altro ente o conoscenza, al di là dell’Uno, causa senza essere causa, né essere né non-essere, ineffabile, inconoscibile e impenetrabile alla mente umana (anzi pure a quella delle entità divine e angeliche superiori) (6). Un aspetto peculiare del sistema di Proclo è l’inserimento tra l’Uno e l’Intelletto (o meglio le articolazioni del medesimo che lo scolarca di Atene sostituisce all’intelletto dei sistemi precedenti) di alcuni enti unitari individuali, da lui denominati “Enadi” (unità) e che si collocano, su un  piano più logico-astratto che causale-temporale, tra l’Uno e la divinità intelligibile. Queste entità, sussistenti “ad abundantiam”, oltre l’essere determinato, stanno al principio di diverse catene causali (“seriai”), conferendo a ciascuna di esse il suo peculiare carattere. Esse sono altresì identificate con le tradizionali divinità del pantheon ellenico, così che ad es. Apollo è la causa di tutte realtà “apollinee”, Helios di quelle “solari”, ecc. E’ importane tuttavia sottolineare che ciascuna enade partecipa nel contempo di tutte le altre, in conformità al proprio carattere; ma questa che potrebbe sembrare una molteplicità, in realtà non lo è poiché ogni enade può essere considerata il centro di un sistema policentrico.

All’Uno e alle Enadi nella posizione che Plotino aveva assegnato all’Intelletto seguono tre sfere: l’Intelligibile (Noeton); l’Intellettuale-Intelligibile e l’Intellettuale puro (Noeròn): proprietà fondamentale del primo è l’essere, del secondo la vita, del terzo il pensiero. Le prime due di tali sfere sono a loro volta articolate in tre triadi, mentre la terza comprende sette “ebdomadi”: anche le singole entità che costituiscono codeste serie sono identificate con gli dei della religione tradizionale ellenica, ma a differenza delle precedenti ne rappresentano l’aspetto “intellettivo”.

A sua volta l’Anima, che come per Plotino costituisce la terza ipostasi che promana dal Principio primo e ineffabile, è distinta in tre parti: l’A. divina, l’A. demoniaca e l’A. umana. Si ponga però attenzione al fatto che tale tripartizione vale sia per l’Anima universale, sia per le singole anime individuali (che dunque risultano composte di tre elementi): la parte divina si esprime in tre ordini, a sua volta suddivise rispettivamente in quattro triadi di dei egemonici, altrettante di dei “liberi dal mondo” (“apòlitoi”) e due classi di dei mondani, ai quali appartengono gli dei astrali, e che presiedono ai movimenti dei pianeti e degli altri corpi celesti (e che dunque si possono identificare con le intelligenze angeliche di Aristotele), e gli dei elementali, che guidano gli elementi del mondo terreno.

Poiché come abbiamo visto, agli dei tradizionali Proclo fa corrispondere diverse figure che incarnano un particolare aspetto di essi nel mondo superiore, nel mondo intellettuale e nel mondo animico, egli trova indispensabile distinguere una articolazione triadica anche in tali figure mitologiche, così che abbiamo un triplice Zeus, una triplice Atena, una triplice Artemide, ecc. Agli dei il filosofo aggiunge i “dàimones”, anch’essi divisi in angeli, demoni in senso stretto ed eroi, ai quali sono assimilate le anime che devono temporaneamente unirsi ai corpi materiali.

Testa di Hermes.

Quanto alla materia, che Plotino riteneva fosse generata dall’Anima, la quale affievolendosi ed offuscandosi si solidifica, trovandosi così incarnata in un corpo terreno, per l’ultimo grande maestro del neoplatonismo antico essa deriverebbe dall’Infinito, che col Finito e col Misto, forma la prima delle triadi intelligibili, ed ha una essenza neutra, non essendo di per sé né bene, né male -e dunque sotto questo aspetto la dottrina di Proclo si differenzia in modo netto dalla maggior parte delle scuole gnostiche e dal Manicheismo, per i quali la materia ha carattere intrinsecamente negativo, è un limite che trattiene l’anima nella prigione dell’ignoranza e della sofferenza-.

In conformità alla tesi di Platone, il nostro sostiene che l’anima individuale, che è una scintilla di quella cosmica, alla sua prima incarnazione terrena entri sempre in un corpo umano maschile, per poi passare nelle successive rinascite in uno femminile e infine in uno animale. Tuttavia su quest’ultimo punto, l’incarnazione di anima umana in animale di altra specie, Proclo sembra interpretare i passi di Platone (7) nei quali viene contemplata, anzi affermata, tale possibilità in senso metaforico: ovvero le anime possono per lui assumere la “vita” di un animale, ma non il corpo: in altre parole per Proclo, come già per Giamblico e altri neoplatonici, il loro venerato maestro avrebbe voluto significare che un’anima, se si sarà allontanata dai principi razionali e si sarà lasciata trascinare dalle pulsioni inferiori, può acquisire le disposizioni di un determinato genere animale, ma non un corpo animale vero e proprio.

Il filosofo si pone anche la questione se le anime possano avere un carattere essenzialmente maschile o femminile (e dunque se la “maschilità” e la “femminilità” abbiano un carattere essenziale e non contingente, o “partecipato”), così come avviene per gli dei: egli risolve la questione asserendo che un’anima influenzata da una divinità femminile può incarnarsi in un corpo maschile e viceversa (8).

Proclo ipotizza altresì l’esistenza di tre “veicoli”, che rivestono come “tuniche” l’anima individuale,- e che sembrano paragonabili ai “corpi sottili” delle dottrine teosofiche e rosacrociane moderne-, dei quali uno, corrispondente al “corpo eterico” o “vitale”, è destinato a perire insieme con il corpo fisico; un altro, -equivalente al “corpo astrale” (o “doppio astrale”)-, persiste assai più del corpo fisico (e sarebbe quello che nelle dottrine spiritistiche darebbe luogo a fenomeni metapsichici, come fantasmi ed ectoplasmi), ma dopo un certo tempo più o meno lungo dovrà dissolversi anch’esso; e uno immateriale ed eterno -la mente-. Egli peraltro concepisce l’incarnazione, o meglio la “generazione”, come la “semina” di un’entità divina in un corpo mortale, nel quale essa deve in qualche modo sviluppare le facoltà che le appartengono, e che rimane sotto l’influenza di una divinità astrale che ad essa ha presieduto; questa divinità è quella propria dell'”astro affine” (“Synnomon Astron”), sotto la cui influenza ha avuto luogo la “semina” e la distribuzione dei “veicoli”. Dopo la “semina” avviene la “prima nascita”, alle quali fanno seguito altre secondo la propria scelta (come è detto nella “Repubblica” platonica nel racconto di Er, sul quale ci siamo soffermati nella terza parte della presente trattazione). Infatti tutte le anime “parziali” -cioè frazioni dell’Anima Universale-, non possono dimorare eternamente e immutabilmente in alto, ma per loro insopprimibile e intrinseca necessità -come abbiamo detto sopra- sono tenute ad incarnarsi nel mondo materiale.

Ananke.

Riprendendo il pensiero di Platone, la legge del Fato che governa l’Universo ed è causa efficiente dell’ordine cosmico si incarna nelle figure di tre divinità astratte: Adrastea, Ananke ed Heimarmene, che sono l’emanazione del Fato  rispettivamente nel mondo intellettivo, superuranio e cosmico, ovvero la causa dell’ordine universale che agisce in tali mondi (e dunque “causa intellettiva”, “causa hypercosmica” e “causa encosmica”) (9). Il Demiurgo secondo Proclo, -che cita Orfeo come fonte della sua tesi-, viene allevato da Adrastea (l'”Inesorabile”), si unisce ad Ananke (la “Necessità”) e procrea Heimarmene. Adrastea comprende i principi divini, mentre Heimarmene presiede alle leggi che governano il mondo “encosmico”, -in altre parole alla concatenazione di cause sia di ordine naturale, sia di ordine storico, sociale, ecc. attraverso le quali si sviluppa il destino-. Queste sono le leggi (cioè i “principi”, le “proprietà”) che il Demiurgo inscrive nelle singole anime allorché esse si dipartono dall'”Anima del Mondo” per scendere nei corpi materiali e tramite le quali esse si comportano in accordo con il Tutto e scelgono le “sorti” [le tavolette che l’araldo distribuisce alle anime che si apprestano ad incarnarsi nel racconto di Er, narrato nel X libro delle “Repubblica” platonica] da cui dipende la loro vita futura; queste leggi determinano altresì il destino che appartiene a ciascuna anima, in conseguenza delle vite da loro scelte: per tale ragione le anime dissolute sprofondano nei luoghi tenebrosi del Tartaro, mentre quelle pie ascendono al Cielo: le une e le altre non fanno che obbedire alle inesorabili leggi del Fato e del Cosmo (10).

Pertanto il rapporto tra necessità e libertà espresso sia da Platone sia da Proclo si può riassumere nei seguenti termini: da un lato il tipo di esistenza di ciascun individuo e dunque il suo “destino” è una scelta del soggetto stesso, non è l’imposizione di una entità esterna; dall’altro però la libertà di scelta è condizionata dal grado di coscienza e di sviluppo spirituale, per cui solo un’anima dotata di saggezza potrà operare delle scelte -sia quella prima della nascita, sia quelle successive durante l’esistenza, che però dalla scelta iniziale sono irrevocabilmente condizionate-, davvero valide e soddisfacenti, ovvero quelle che contribuiscono a rendere l’anima più giusta e a favorire il suo ritorno alla “patria celeste”. Questa impostazione presenta delle indubbie affinità con la dottrina indù e buddista del “karma” (“azione”, ma forse più esattamente lo stato mentale ed emotivo che induce all’azione) e del “dharma” (legge).

Il filosofo afferma poi che la vita corporea (ma guidata dall’anima) è controllata da tre potenze: sensazione (“αìσθησiς”); appetizione (“επiθυμiα”); irascibilità (“θυμòς”). Esse appaiono e si sviluppano in quest’ordine durante il corso della vita umana: la prima, la sensazione è presente fin dalla nascita, e in seguito si aggiungono l’appetizione e infine l’irascibilità. Alla sensazione sono dovute le impressioni ricevute per mezzo dei sensi fisici, specialmente quelle più forti, tra cui il filosofo opera una distinzione sulla quale ora sorvoliamo, mettendole in rapporto con i “veicoli” dell’anima che abbiamo visto in precedenza. L’appetizione è il desiderio che attrae l’anima verso un oggetto esterno che senta a sé congeniale; tale potenza provoca piacere quanto più ci si appropinqui all’oggetto che l’ha suscitata, e dolore quanto più ci si allontani da esso (11). Con “irascibilità” (“thymòs”) non si intende solo e tanto l’ira, ma piuttosto l’orgoglio, l’ambizione e tutti quei sentimenti di amor proprio e dignità personale nei quali si concreti l’anelito alla “realizzazione personale”, nonché la reazione negativa che nasca davanti agli impedimenti che ostacolino tale aspirazione.

CONTINUA NELLA NONA PARTE

Note

1) sembra che Porfirio, stando alla testimonianza di S. Agostino (De Civitate Dei, X, 30) non ammettesse che un’anima umana potesse reincarnarsi in un corpo di un altro genere di animale. Di certo non sosteneva questa ipotesi  Giamblico, -il quale per tale ragione non condivideva il completo rifiuto dell’alimentazione carnea e dei sacrifici animali su cui si imperniava l’insegnamento di Porfirio, che pure era stato suo maestro-. Per quanto riguarda Proclo, l’ultimo dei grandi filosofi del neoplatonismo antico, il quale si attiene strettamente alla dottrina di Platone, pur dandone un’interpretazione sommamente complessa e talora farraginosa, sembrerebbe tornare all’idea della metempsicosi comune tra uomini e animali, ma d’altra parte, data la sua fedeltà ai riti della religione ellenistica, non pare condannare in modo netto il sacrificio animale.

2) la metafisica di Giovanni Scoto E. si incentra sul rapporto tra Dio, Essere eterno e incondizionato, Causa prima, e la Natura, che ne è la manifestazione visibile. Egli divide quest’ultima in quattro specie: “natura creans et non creata”; “natura creata et creans”; “natura creata et non creans”; “natura non creans et non creata”. La prima corrisponde a Dio, in quanto principio ingenerato e causa creatrice di tutte le cose; la seconda sono le “cause primordiali”, che a loro volta equivalgono alle idee platoniche, riunite nella figura del Figlio di Dio, creato poiché procede dal Padre (ma qui come si può notare un’ambiguità poiché nella dottrina ortodossa il Figlio è “generato”, non creato -come viene proclamato nel “simbolo niceno-costantinopolitano”, ovverosia il “Credo”-) e creante poiché attraverso di lui viene creato il mondo; la terza è il mondo creato nello spazio e nel tempo (per meglio dire i parametri spazio-temporali che ineriscono il mondo stesso e non esistono quindi antecedentemente ad esso), che non produce e non può produrre nulla; la quarta è ancora Dio, ma guardandolo come il fine, e quindi natura né creata, né creante, con la quale si chiude il cerchio. E’ bene osservare che per Giovanni S.E. questo processo non è cronologico -né potrebbe esserlo-, ma logico: la creazione è coeterna a Dio e ne costituisce la manifestazione necessaria: l’Ente assoluto ha sempre “voluto” creare ed ha “sempre” creato. In tal guisa la dottrina teologica del grande filosofo si avvicina assai a quella del neoplatonismo antico e all’emanatismo, di esso caratteristico, e risulta per così dire in bilico tra quest’ultimo e il creazionismo ortodosso, secondo il quale la creazione è un atto determinato, otre che volontario, e Dio avrebbe anche potuto non creare il mondo, poiché questo è il risultato di una possibilità, non di una necessità.

3) tra costoro si può citare Massimo di Efeso, uno dei maestri di Giuliano l’Apostata, il quale per i suoi eccessi e la sua presunzione e superbia finì condannato a morte nel 370. Quanto alla “teurgia”, come si è detto, aveva molti punti in comune con lo spiritismo, apparso -o “riscoperto” nel XIX secolo-, sia come pratica più o meno empirica e approssimativa per entrare in contatto con i “trapassati”, sia come vera e propria dottrina filosofico-esoterica elaborata da Allan Kardec (1804-1869). Le differenze principali tra teurgia e spiritismo sono le seguenti: innanzitutto la prima mirava ad ottenere rivelazioni da vere e proprie entità angeliche o divine, mentre nel secondo si cerca di entrare in comunicazione con spiriti umani disincarnati (tutt’al più nelle forme elevate di spiritismo kardechiano si vuole stabilire un contatto con spiriti che abbiano conseguito un notevole grado di sviluppo, onde riceverne messaggi illuminanti sulle verità metafisiche e la sorte ultraterrena dell’uomo); oltre a questo, è importante sottolineare che coloro i quali praticavano la teurgia per comunicare con angeli, demoni e dei, oltre ai medium “ad incorporazione”, che venivano cioè “posseduti” dall’entità superiore, o supposta tale, -e quindi entravano in “trance”-, ricorrevano anche a simulacri ed altri manufatti nei quali si riteneva che gli dei potessero entrare dopo che fossero stati celebrati opportuni riti. Tuttavia, specie con quest’ultima pratica -che è lecito pensare il più della volte si risolvesse in una simulazione più o meno abile-, le celebrazioni teurgiche offrivano spesso il modo ad astuti mistificatori di ingannare gli sprovveduti che davano loro credito.

4) tuttavia questi primi neoplatonici giustificavano e ammettevano la pratica religiosa per il popolo, che non è in grado di aprire la sua mente alle vette della filosofia, per le persone normali e comuni che non erano predisposte a diventare “filosofi”: per essi dunque la religione tradizionale (e quelle “misteriche” o “salvifiche”) avevano una finalità essenzialmente sociale e pedagogica. In pratica dunque sotto questo aspetto sembrano anticipare le idee di certi pensatori dell’idealismo e del neoidealismo otto-novecentesco (come ad esempio Giovanni Gentile) che vedevano nella religione una sorta di “philosophia minor”.

5) l’indiscusso maestro dei neopitagorico, il venerabile Apollonio di Tiana, di cui abbiamo altre volte parlato nel corso delle nostre trattazioni, come è detto nella sua biografia scritta da Flavio Filostrato, si rifiutava di assistere ai sacrifici cruenti e di partecipare a cacce, così come avvenne a Babilonia alla corte del re persiano Bardane (o Vardane), secondo quanto è narrato nella succitata “Vita” (I, 25 e 31). Egli dichiara altresì più volte di non voler compiere alcuna cosa o fare uso di alcunché che comporti sfruttamento o sofferenza di animali (quindi non solo nel cibo, ma anche nell’abbigliamento), ad es. in VI, 11; VIII, 5, ecc.; si veda anche al riguardo la nota n. 7 della quinta parte della presente ricerca (30 dicembre 2016).

6) il Primo oltre l’Uno può essere paragonato all'”Ain Soph” della dottrina mistica ebraica, la Qabbalah. Abbiamo dunque nel pensiero di Proclo, -che peraltro si pone sulla scia dei suoi predecessori Plotino e Porfirio- un esempio della “teologia negativa” (o “apofatica”, da “απoφημi” =nego, contrapposta a quella “catafatica”, positiva): l’entità primigenia (ovvero Dio come principio primo assoluto) è un “nulla”, non nel senso che non esista, o per meglio dire che non “sia”, ma perché non può in alcun modo essere colto o definito dalla mente umana e inquadrato entro le normali categorie logiche, psicologiche ed esistenziali alle quali si fa ricorso per esprimere in modo più o meno convenzionale le esperienze e i pensieri umani, e quindi si può dire solo quello che “non è”. La teologia negativa riapparirà nelle opere dello Pseudo-Dionigi l’Aeropagita, che sono considerate una forma di neoplatonismo cristianizzato e poi in Giovanni Scoto E., che abbiamo citato in precedenza, il cui pensiero fu ampiamente influenzato sia dallo Pseudo-Dionigi, sia dai neoplatonici “pagani”. Sullo Pseudo-Dionigi si veda anche la XIII parte della ricerca su “L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE” (del 25 giugno 2016), dove si parla degli angeli, e in particolare la nota n. 6.

7) a tale riguardo si leggano la seconda e terza parte (soprattutto quest’ultima) della presente trattazione, dove abbiamo esaminato le dottrine psicologiche ed escatologiche di Platone. Le considerazioni e le tesi espresse da Proclo sull’argomento si trovano in particolare nel suo “Commento al Timeo”.

8) come abbiamo visto anche nelle parti citate nella nota  precedente, per Platone e i neoplatonici le anime vengono plasmate e influenzate dagli dei astrali, da cui sono contrassegnate in modo indelebile. E’ ovvio però che le qualità che le divinità astrali conferiscono, in diversa misura e temperamento, alle anime umane possono essere impiegate e utilizzate con strumenti e per scopi positivi, nobili e costruttivi oppure deteriori ed egoistici.

9) non si confondano queste tre entità che incarnano il destino con le Moire (Cloto, Atropo e Làchesi), le quali secondo Platone sono figlie di Ananke , la Necessità.

10) del “Fato” e della relazione di esso con la “Provvidenza”, tratta diffusamente anche Severino Boezio nel “De Consolatione Philosophiae” (l. IV, cap. 6), ove delinea con magistrale chiarezza la distinzione tra i due concetti. L’inclito filosofo di Pavia afferma infatti che: “Providentia est ipsa illa divina ratio in summo omnium principe constituta, quae cuncta disponit; Fatum vero inhaerens rebus mobilibus dispositio, per quam providentia suis quaeque nectit ordinibus. Providentia namque cuncta pariter quamvis diversa, quamvis infinita complectitur, Fatum vero singula digerit in motum locis, formis ac temporibus distributa” (La provvidenza infatti è la stessa ragione divina -il “logos”-,  la quale stabilmente riposta nel supremo essere, signore di ogni cosa, tutte quante le governa; il fato è la disposizione inerente alle cose mutevoli, mediante la quale la provvidenza mantiene ciascuna cosa strettamente interconnessa nell’ordine divino. La provvidenza abbraccia in egual misura tutte le cose, per quanto diverse e innumerevoli; il fato invece coordina il moto delle singole cose una volta che siano distribuite nei luoghi, forme e tempi ad esse acconci). E più oltre Boezio aggiunge: “sia che il fato si renda operante per mezzo di spiriti divini al servizio della provvidenza, sia che intessa la sua complicata trama con l’ausilio dell’anima o dell’intera natura, o mediante i moti dei corpi celesti, o per il tramite delle virtù angeliche, o grazie alla multiforme intraprendenza dei dèmoni, ovvero con la partecipazione di diversi di questi elementi, o di tutti quanti insieme, i quali agiscono talora separati, talaltra in concomitanza, è tuttavia manifesto la provvidenza essere il principio immobile e semplice insito nelle cose da compiersi, mentre il fato è il nesso mobile e l’ordine temporale di quelle cose di cui la divina semplicità ha disposto l’attuazione”. Tale definizione del fato fu poi ripresa da Tommaso d’Aquino nella “SummaTheologiae” (I-I, 116), il quale per chiarire ulteriormente il legame tra il fato e la provvidenza si serve della similitudine di due servi entrambi mandati dal padrone nel medesimo luogo che ivi si incontrino: tale incontro sarà fortuito per i servi (e dunque “fato”), mentre non lo è per il padrone che ne aveva disposto l’accadimento (e pertanto “provvidenza”).

11) all’effetto di questa “potenza” si deve anche l'”amore” profano e carnale, il coinvolgimento emotivo che trascina una persona sotto il dominio cosciente o incosciente di un’altra.

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *