L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -nona parte (l’escatologia giudaica e cristiana nei primi secoli dell’era volgare)-

Nei primi secoli del cristianesimo le idee sul destino post mortem degli individui appaiono ancora alquanto oscillanti e talvolta contraddittorie, in particolare in merito all’eventualità della dannazione, ovvero della perpetua e irrevocabile esclusione di un’anima dalla grazia divina e dalla gloria di Dio, anche dopo la redenzione apportata da Cristo. Nei Vangeli canonici ed apocrifi si fa spesso riferimento alle pene e ai castighi che dovranno subire coloro che non avranno creduto e non avranno accettato la grazia salvifica, ovvero l’illuminazione divina, dispensata o suscitata dalla figura del “figlio di Dio” (fosse tale per natura o per adozione, per una reale incarnazione e assunzione della realtà umana o semplice abitazione in un corpo umano, ecc. seconda delle diverse dottrine cristologiche che si svilupparono nei primi secoli del cristianesimo).

Tale prospettiva però appare in stridente contrasto sia con l’infinita bontà di Dio, incarnata dal Cristo stesso, sia con l’idea di una reintegrazione o restaurazione del regno di Dio nella quale ovviamente non può permanere o sussistere una realtà ad esso contraria, per cui l’eventuale castigo dovrebbe avere solo un fine medicinale e catartico, e la sua eternità sarebbe dunque un controsenso. Tanto più che la causa dell’infelicità, eterna o meno, dei “peccatori” non dovrebbe essere una “condanna” divina per coloro che trasgrediscono, ma essere la conseguenza della volontaria scelta di allontanarsi da Dio, cioè dallo spirito, per seguire i fallaci beni mondani e servire il proprio egoismo , – e dunque non derivare da un azione esterna ma da uno stato interiore-: in altre parole la vera pena consiste nell’assenza o nella lontananza di Dio, l’unico autentico bene, così come la felicità eterna è il godimento della luce divina.

Discesa di Cristo agli Inferi in un affresco nell’abside della chiesa di S. Salvatore in Chora a Costantinopoli.

Per cui si nota nei testi neotestamentari una concorrenza, per non dire una contraddizione  (peraltro una delle tante che si possono in essi rilevare -si veda in proposito la prima parte delle “Osservazioni sulla nascita del cristianesimo” pubblicata il 6 settembre 2016) non risolta tra l’idea di “peccato” come ignoranza e cecità che non consente di essere illuminati dalla verità e dalla luce divina, -e che dunque più che una colpa è una disgrazia-; ed una molto più arcaica che lo intende come offesa e disubbidienza a un dio, feroce e severo come quello di Mosè, -che incitava il “suo” popolo a combattere e sterminare i nemici-, come trasgressione alla sua legge, e che comporta dunque una severa punizione con castighi esterni, e non solo il tormento della cattiva coscienza.

Come abbiamo rilevato nelle parti precedenti della nostra trattazione per gli Ebrei così come per molte altre popolazioni antiche, -Mesopotamici, Ittiti, Greci, ecc. (1)-, la sorte che attendeva le anime dei defunti, -salvo possibili rarissime eccezioni-, è un’esistenza triste e umbratile in forma di “ombre” in un luogo detto “sheol”,  situato nel mondo ipogeo e che presenta talora caratteristiche che sembrano metterlo in relazione con l’elemento acquatico (si veda al riguardo quanto abbiamo detto nella prima parte della presente trattazione pubblicata il 12 ottobre 2016). Codesto luogo infero nella versione greca dei Bibbia dei LXX fu tradotto con “Hades”, cioè quello che era l’al di là per i Greci, il quale in effetti, -a parte le sue suddivisioni rispettivamente destinate ai beati (i Campi Elisi) e ai dannati (il Tartaro), presenti nella nuova concezione escatologica che si impose ad opera di Orfeo e Pitagora-, corrispondeva in pieno all’oltretomba ebraico. A questa sorte comune potevano sottrarsi solo alcuni eletti che per una speciale concessione divina hanno il privilegio di ascendere al Cielo, come avvenne per Enoch (Genesi, V, 24) ed Elia (II Re, II, 11) (si confronti quanto è detto in Odissea, IV, 702-713, dove per bocca di Proteo, viene profetizzato che Menelao per decreto di Zeus al termine della sua vita terrena sarà posto nei Campi Elisi -corrispondente all’Eden biblico e al “Dilmun” sumerico- luogo di pace e di delizie dove regna Radamanto figlio di Zeus ed Europa).

In tempi successivi, soprattutto dopo la fine dei due regni ebraici, questa concezione cominciò a modificarsi in parte per influenze esterne -prima iraniche e poi greche-, in parte forse per un naturale processo di “spiritualizzazione” dello iahvismo, così che accanto allo “sheol”, appare e si rafforza sempre più la credenza in un luogo di beatitudine destinato a coloro che nella vita terrena furono giusti e buoni, il “Gan Eden”, il “giardino dell’Eden” dove risiedettero Adamo ed Eva prima del peccato, che talora fu designato anche con il termine persiano “paràdeiza”, -propriamente “recinzione” e poi rigoglioso parco di delizie, in particolare quello dei Gran Re persiani -(2); di tale luogo non è specificata espressamente la sede, ma da quanto viene detto in alcuni brani esegetici sembrerebbe collocato nell’estremo oriente, così come la sede dai dannati, la Gehenna, appare situata all’estremo occidente, -dove in quasi tutte le tradizioni trovasi per eccellenza la dimora dei morti- (3) . Quest’ultima, in speculare opposizione al luminoso giardino di delizie destinato ai beati, fu concepita come una cavità oscura e tenebrosa dove i reprobi impenitenti, -ovvero coloro che si erano macchiati dei delitti più gravi e fossero pressoché privi di sensibilità morale-, fossero tormentati da castighi oltremodo dolorosi inflitti soprattutto per mezzo del fuoco e del calore (ma secondo alcuni testi anche attraverso grandine e gelo), chiamato Ge-hinnom o nella forma prevalsa in seguito “Gehenna”.

Questo nome deriva da quello di una località terrena, la Ghe ben-Hinnom, la “valle del figlio di Hinnom”, ovvero la valle del torrente Cedron che segnava il limite tra i territori assegnati alle tribù di Beniamino e di Giuda, nella cinta sud-occidentale di Gerusalemme esistente. Questo luogo che nei primi tempi del regno di Giuda sarebbe stato sede di culti considerati idolatrici, o addirittura di sacrifici di bambini primogeniti (e sarebbe dunque stato un “tophet”), fu poi oggetto di un anatema del re Giosia, -sedicesimo re di Giuda (640-609 a. C.)- (II Re, XXIII, 10) e divenne, -con poco rispetto in verità per coloro che vi erano stati sacrificati-, un immondezzaio al quale venivano periodicamente appiccate le fiamme; per tale ragione, cioè per il fuoco e per la maledizione da cui era stata colpita, questa valle divenne la metafora del regno dei dannati.

Veduta della Gerusalemme odierna. La parte circondata da tratto ellittico rosso è la valle della Gehenna.

Questa evoluzione delle prospettive escatologiche assomiglia a quella analoga e parallela che si era sviluppata nel modo greco per influenza del pensiero orfico-pitagorico e poi platonico, così che i due regni della luce e delle tenebre, della felicità e del dolore si possono senza dubbio assimilare rispettivamente ai “Campi Elisi” -o alle “Isole dei Beati”- e al Tartaro dell’escatologia greca e poi anche romana, con i quali mostrano molti tratti in comune, e che sono accostati ad essi in modo esplicito da Flavio Giuseppe -Bellum Iudaicum, II, 154-157; Ant. Giudaiche, XVIII, 11-22 (a tale riguardo consigliamo la lettura della seconda parte dell’articolo del 4 novembre 2016)-. A questa distinzione nella sorte oltremondana delle anime, a seconda dei loro meriti o delle loro colpe, o per meglio dire degli intenti e del grado di coscienza che determinarono le loro azioni buone e cattive, si aggiunse poi anche un “giudizio universale” alla fine dei tempi, in forma di “processo”, in cui viene presentata la “documentazione” degli atti di ciascun defunto, -credenza ripresa poi anche dall’Islam-. Stando al parere prevalente nelle scuole rabbiniche tuttavia pure dopo il giudizio le pene non dovrebbero essere eterne perché l’eternità di un condizione di sofferenza contrasta con il principio della misericordia divina, per cui si avrebbe o una reintegrazione di ciascun essere in Dio, oppure le anime degli “irrecuperabili” dovrebbero essere annichilite.

Questo mutamento tuttavia non è attestato in modo esplicito negli scritti canonici dell’AT, se non in qualche accenno assai vago presente in alcuni dei libri più tardi (Daniele XII, 1-2; II Maccabei, XII, 42-45; Sapienza, III, 1-10), ma si può cogliere sia in alcuni testi apocrifi (IV Libro di Esdra, Ascensione di Isaia, I Libro di Henoch), sia in fonti rabbiniche e midrasiche dei primi secoli della nostra era (Mishnah, Toseftah, Talmud babilonese, Talmud gerosolimitano), sia nella testimonianza di autori quali Flavio Giuseppe, -in particolare dove egli descrive, sia pure sommariamente, le dottrine proprie delle scuole religiose di Israele- (4). Tuttavia sempre stando alla testimonianza dello storico ebreo, sappiamo che alcuni, in particolare gli aderenti alla scuola dei Sadducei, rimasti legati alla concezione più antica dell’ebraismo, rifiutavano l’idea della sopravvivenza dell’anima e della resurrezione.

Si noti che i due regni oltremondani sono a loro volta suddivisi in diversi piani, che ricordano dunque l’analoga struttura dei regni celesti e inferi delle concezioni cosmologiche indù, buddiste e giainiche, -sebbene queste ultime siano indubbiamente più articolate e complesse (5)-: nell’Eden abbiamo sette sezioni che sono dall’inferiore alla somma: Presenza, Vestibolo, Casa, Tabernacolo, Santa Montagna, Montagna dell’Eterno, Luogo Santo, ciascuna della quali destinata a una particolare categoria di giusti, categorie che si differenziano  une dalla altre secondo un criterio sia quantitativo, -cioè il grado di elevazione spirituale-, sia qualitativo, -ovvero le singole virtù nelle quali essi eccelsero-.

In una lunga e accurata descrizione presente in un testo attribuito al rabbino Giosuè ben Levi, vissuto nel III secolo, il “Gan Eden” sarebbe preceduto da due splendide porte di rubino fiammante, custodite ciascuna da sessanta miriadi di angeli. Essi rivestono i giusti che si apprestano ad entrare in quel luogo di eterna beatitudine con otto vesti di nuvole gloriose, pongono sul loro capo due scintillanti corone, consegnano loro otto rami di mirto e infine li conducono in una valle amena dove scorrono freschi ruscelli circondati da ottocento varietà di rose e di mirti. Nell’Eden si trovano quattro lunghi fiumi, uno di latte, uno di vino, uno di miele e uno di balsamo. A ciascuno dei giusti è assegnata una dimora più o meno ampia e bella secondo il grado di virtù da essi raggiunto nell’esistenza terrena; sopra ognuna di codeste dimore si innalza una vigna d’oro, ornata di grappoli di trenta perle, splendenti più del pianeta Venere. Sessanta angeli sono demandati a servire ciascun beato, offrendogli incessantemente miele e vino. Ai quattro angoli del giardino prosperano ottanta miriadi di specie di alberi rigogliosi e sessanta miriadi di angeli officianti che elevano sublimi canti in gloria del Creatore, mentre al centro svetta l’Albero della Vita, i cui rami ricoprono l’intero giardino; quest’albero meraviglioso produce ben 500.000 tipi di frutta, tutti differenti per aspetto e per sapore. Al di sopra della cima dell’albero si trovano i “nembi di gloria” e i quattro venti trasportano gli effluvi dei fiori che ivi crescono in tutte la direzioni dell’Universo. Questo paradiso comprende 310 mondi e sette classi di beati: i martiri; coloro che si diedero volontariamente la morte per non rinnegare la loro fede; i discepoli del rabbino Jahannan ben Zakkai (e il loro maestro), coloro che furono ammantati dal nembo di gloria della divina presenza, i penitenti, i celibi e le nubili che non cedettero alla lussuria e rimasero casti, i poveri che conobbero le scritture pur dovendo trarre il sostetamento dalla diuturna fatica quotidiana.

Ingresso della presunta tomba del rabbino Yeuhdah Ha-Nassi.

La Gehenna era collocata nelle profondità ipogee; ad essa si accede attraverso tre ingressi: una in mezzo al deserto arabico, una negli abissi marini e la terza a Gerusalemme, nella valle maledetta da cui prese il nome. Anch’essa era immaginata con una struttura in sette piani, che accolgono i peccatori in relazione alla gravità delle loro colpe, i quali, scendendo dal più superficiale al più profondo, sono: Sheol, Avadon ( o Abaddon), Ombra della Morte, Mondo Inferiore, Mondo dell’Oblio, Gehinnom, Silenzio. I dannati sono puniti principalmente per mezzo del fuoco infernale, che è detto sessanta volte più ardente del fuoco ordinario; ma anche con lo zolfo, il cui odore soffocante li perseguita. Inoltre in alcuni testi (Talmud gerosolimitano, Sanh, 29b) tra gli strumenti di punizione si annoverano anche la neve e la grandine, cosicché nel regno degli inferi vi sarebbe un alternanza di gelo estremo e di calore torrido. A questo si aggiungono le tenebre caliginose in mezzo alle quali devono vivere i dannati, che sono pure esse una condizione dolorosa e simboleggiano forse l’ignoranza che li avvolse da vivi. Queste immagini oltremodo corpose e talora ingenuamente grottesche sembrano precorrere l’inferno cattolico, sebbene i tormenti della Gehenna non sembra siano inflitti da diavoli o da angeli ribelli -o quanto meno questo non risulta chiaro-. Tuttavia secondo le tradizioni rabbiniche vi sono dei metodi con i quali ci si può sottrarre ai castighi infernali, o quanto meno lenirne gli effetti: ad esempio per coloro che recitino la preghiera “Shemà Israel” (“Ascolta o Israele”) -una delle più diffuse ed efficaci dell’Ebraismo, paragonabile alla “fatiah” islamica-, le fiamme della Gehenna perderanno molto del loro pernicioso ardore. Inoltre le pene dell’inferno sarebbero temporaneamente sospese durante il sabato (6).

Quanto alle dimensioni dei regni dell’oltretomba, si diceva che il mondo umano è sessanta volte più piccolo del giardino dell’Eden, e che quest’ultimo è sessanta volte minore delle Gehenna (il che offre una chiara idea di quanto il numero dei malvagi sia superiore a quello dei buoni -sebbene, come abbiamo visto, nella concezione ebraica più recente, quella del medio giudaismo, la “Gehenna” venga a comprendere anche la sede dei peccatori di media gravità e degli ignavi, e quindi lo “Sheol” che non era più concepito come un luogo a parte).

Come abbiamo visto nella prima e nella terza parte di “Osservazioni sulla nascita del cristianesimo” (pubblicate il 6 settembre e il 9 ottobre 2016) la dottrina della trasmigrazione delle anime era presente in Palestina tra il II sec. a. C. e il I d. C. e sebbene Flavio Giuseppe trattando delle principali scuole in cui si articolava la religione ebraica non l’attribuisca espressamente a nessuna di esse, è pressoché certo che almeno alcuni gruppi degli Esseni, che lo storico assimila ai Pitagorici ellenici, la professassero (7). Questa credenza infatti è sicuramente attestata, sebbene non dichiarata in modo esplicito, anche nei vangeli canonici in alcuni passi a cui abbiamo fatto cenno nei nostri articoli citati in precedenza, e che non possono trovare adeguata spiegazione escludendo l’ipotesi reincarnazionistica, in particolare Giov. IX, 1-2, -l’episodio del cieco nato di cui ci si chiede se “abbia peccato lui o i suoi genitori” quale motivazione per la disgrazia dalla quale era afflitto dalla nascita. Quest’ultimo episodio illustra assai bene una dottrina della “retribuzione”, in questa vita e/o nell’altra che si fonda sull’idea del fato, che come ci fa sapere il dotto Flavio Giuseppe era tipica dei Farisei (ed è proprio un fariseo che pone la domanda). Secondo la testimonianza dello scrittore ebreo non sembra peraltro che i Farisei accettassero la dottrina della trasmigrazione; per tale ragione si potrebbe supporre che l’intento della domanda fosse sottilmente polemico e pertanto che la persona alla quale era rivolta sostenesse al contrario la suddetta dottrina, o comunque fosse legata ad una scuola di pensiero che l’aveva fatta propria, e di conseguenza che GC, il quale non si scandalizza affatto della domanda fosse tra coloro che la ammettevano (altrimenti avrebbe dovuto obiettare: “come potrebbe aver peccato costui prima di nascere?”).

Altri passi nei quali si è ravvisata la credenza nella “reincarnazione” sono quelli, che si leggono in forma pressoché identica in Matt. 13-14 e in Luca, IX, 18-22, dove alla domanda posta da GC chi crede la gente sia il “figlio dell’Uomo”, i discepoli rispondono: “per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia [per altri Geremia -solo in Matteo-], per altri uno degli antichi profeti risorto”. In effetti il verbo usato nel passo citato -“ανiστημι”-, che ha il significato fondamentale di “rialzarsi (da terra)”, e poi tra i molti altri derivati quello di “risuscitare”, potrebbe far pensare non a una “normale” rinascita dal grembo materno, ma da una diretta provenienza dall’al di là; e da tale verbo deriva il sostantivo “anàstasis” impiegato per  la resurrezione dai morti. Tuttavia il parallelo impiego del termine “παλιγγενεσìα” (“rinascita”) nel NT per “resurrezione” (vedi ad es. Matt. XIX, 28) autorizza l’interpretazione come “rinato”. D’altro canto era ben nota agli apostoli la provenienza familiare di Gesù dalla famiglia del falegname di Nazareth, e dunque non potevano certo pensare che fosse “miracolosamente” apparso sulla terra; a meno che, come abbiamo già detto negli articoli sull’origine del cristianesimo (21 agosto, 6 e 25 settembre, 9 ottobre 2016), il figlio del falegname e il “maestro spirituale” non fossero due figure ben distinte, poi confluite e sovrapposte nel processo sincretistico che diede origine alla religione cristiana. Ma in tal caso, a maggior ragione, sarebbe inficiata la versione sul carattere e sulla vita di questo personaggio leggendario proclamata dogma dalle chiese cristiane (8).

Negli scritti neotestamentari peraltro ricorrenti sono i severi ammonimenti ai peccatori, ai quali in diversi passi evangelici vengono minacciati i terribili castighi della Gehenna; ma in effetti da tali veementi invettive contro i malvagi di per sè non si può concludere che le pene loro riservate fossero eterne e che ad alcuni se non a tutti fosse offerta la possibilità di un avanzamento spirituale in una nuova vita, in maniera similare a quanto viene prospettato nelle opere di Platone -e in particolare nel “Fedone” ove si parla dell’oltretomba e che abbiamo esaminato nella seconda e terza parte della presente trattazione.

Nei vangeli canonici il termine “Gehenna” è impiegato in Matt., V, 22 (“chi avrà detto “pazzo” al suo fratello, merita di essere punito col fuoco della Gehenna”); in Matt. X, 28 e in Luca, XII, 5 (dove si proclama che non si devono tenere coloro che possono uccidere il corpo, ma non l’anima, concludendo “temete piuttosto chi può far perdere nella Gehenna sia l’anima, sia il corpo”); Matt. V, 29-30, passo poi ripetuto pressoché identico dal medesimo evangelista (Matt. XVIII,9) e in Marco, IX, 43-50 (“se il tuo occhio destro ti è di scandalo, toglilo… se la tua mano destra ti è di scandalo, tagliala -in Marco “il tuo piede destro”-: meglio entrare con solo occhio o un solo arto nel regno di Dio che con l’intero corpo nella Gehenna del fuoco”); in Matt. XXIII, 15 e XXIII, 33, dove il richiamo al luogo di punizione avviene nell’ambito di una violenta filippica contro gli Scribi e i Farisei (9). Oltre che nei vangeli, il luogo infero è citato nella Lettera di Giacomo, III, 6: l’autore mettendo in guardia dai pericoli che vengono dal non sapere tenere a freno la lingua, afferma la forza di quest’ultima sia tratta dalle fiamme della Gehenna.

“Hades”, come abbiamo già detto, corrisponde allo “Sheol” dell’AT, ma nel tardo giudaismo viene a confondersi con la Gehenna, per quanto talvolta come abbiamo detto sopra trattando dell’esegesi rabbinica, tali termini designino una sezione dell’inferno stesso, una sorta di limbo o di anti-inferno riservata a coloro che non furono né buoni né cattivi, o si resero colpevoli di peccati meno gravi. Troviamo questa parola alcune volte nel NT: in Matt., XI, 13 e Luca, X, 15 compare in una maledizione lanciata contro la città di Cafarnao, perché, nonostante tutti i miracoli a cui ha assistito si ostina a rifiutare la conversione e la penitenza, e dunque sarà sprofondata nell’Ade, come già fu per Sodoma e Gomorra; in Matt. XVI, 18, quando l’apostolo Pietro viene proclamato il fondamento dell'”assemblea” (εκκλεσìα) dei discepoli, contro la quale le porte dell’Ade non prevarranno (10). La designazione del regno degli inferi e luogo i punizione per i peccatori come Ade è presente anche nella famosa parabola di Lazzaro e del ricco epulone, poiché dal fondo di esso quest’ultimo vede la gloria del misero e implora pietà (Luca, 23-26).

In molti altri passi evangelici tuttavia per indicare il luogo e la condizione ai quali sono destinati i peccatori non è impiegato un termine specifico, ma si parla in modo generico di “fuoco” e di “tenebre”: ad es. in Matt., XXV, 41: “[i peccatori] saranno cacciati nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli” e in Luca, III, 9: “Ogni albero che non dà frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco”. In particolare ricorre una locuzione, che si può considerare un’endiadi, per evocare il castigo minacciato ai peccatori che viene definito “le tenebre dove saranno pianto e stridore di denti” (τo σκoτoς τo εξωτερoν εκει εσται ò κλαυθμoς και ò βρυγμoς των oδoντων) che troviamo varie volte in Matteo (VIII,12 -passo che ha riscontro in Luca, XIII, 28, dove però il “pianto” e lo “stridore di denti” non sono accompagnati dalle “tenebre”; XXII, 13; XXIV, 51; XXV, 30). Una variante è presente in Matt.41 e 49-50 dove si promette che “il Figlio dell’Uomo manderà allora i suoi angeli -alla fine dei tempi- che toglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente (καμινoν τoυ πυρòς), dove sarà pianto e stridore di denti”.

Come si noterà, i brani in cui si fa riferimento ai castighi oltremondani, -che abbondano soprattutto nel vangelo di Matteo-, sono spesso improntati a notevole severità e durezza contro i peccatori, che pure in altri passi GC afferma essere venuto a salvare, e mal si conciliano con la comprensione, la misericordia, la tolleranza e il perdono che secondo i suoi presunti discepoli costituirebbero l’essenza della sua dottrina (e che peraltro le chiese cristiane, e in particolare la cattolica romana, sono sempre state ben lungi dal praticare); al contrario tali invettive sembrano piuttosto conformarsi allo spirito del dio punitore e vendicatore dell’AT e al furore “fondamentalista” -come si direbbe oggi- degli Zeloti (11); e d’altro canto è ben strano che il “figlio di Dio” si lasciasse trascinare dallo sdegno e dall’ira, mostrandosi tutt’altro che capace dell’imperturbabilità e del distacco dalle passioni ai quali ispiravano la loro condotta i saggi stoici, cinici ed epicurei, -per non parlare di Apollonio di Tiana, che è una figura assai più serafica e venerabile del GC dei vangeli canonici-.

Dobbiamo peraltro osservare che il “Vangelo di Tommaso”, -che è forse il più antico dei vangeli, ma è reputato eterodosso e quindi respinto dalle chiese cristiane istituzionali-, e che consiste di 114 “loghia” di Gesù (sentenze, detti, brevi parabole), -mancando quindi la parte narrativa-, dei quali molti si ritrovano e hanno puntuale riscontro nei testi canonici, è del tutto privo delle esecrazioni e delle minacce di vendetta ricorrenti in questi ultimi, così come di accenni alla Gehenna o ad altri luoghi di punizione (12); pertanto è lecito pensare che questi elementi siano stati inseriti per volontà o influenza di personaggi legati all’ambiente zelotico o comunque giudaico-nazionalistico. Al contrario, in alcuni “loghia”, quali il 51 e il 113, si parla del “regno di Dio” come di una realtà già in atto, sebbene gli uomini non siano in grado di percepirla e di riconoscerla.

Il termine Ade compare altresì in Atti degli apostoli, II, 27, inserito in un discorso di Pietro (“non abbandonerai la mia anima nell’Ade”), nella I lettera di S. Paolo ai Corinzi, XV, 55-56 (“Dov’è, o morte, il tuo aculeo? Dov’è, o Ade, la tua vittoria? Il pungiglione della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge”); ed ancora nell'”Apocalisse di S. Giovanni” -l’unica delle numerose “apocalissi” inserita nel novero dei testi sacri canonici-, in I, 18 (“ho le chiavi della morte e dell’Ade”); VI, 8 (“apparve un cavallo pallido cavalcato dalla morte e l’Ade gli era compagno”), XX, 14 (“Poi la morte e l’Ade furono scagliati in uno stagno di fuoco. Questa è la seconda morte. E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco”).

In tutti questi contesti il vocabolo di origine classica Ade sembra recuperare la sua valenza generica di regno dei morti o delle ombre, dove sono o erano destinati a finire tutti i defunti, indipendentemente dalla loro condotta mondana, salvo coloro che si siano segnalati per virtù e pietà, o viceversa per scelleratezza ed infamia. Si potrebbe anzi interpretare nel senso che la condizione dolorosa e umbratile susseguente alla morte fisica, a sua volta derivante dai limiti della materia e della carne, verrà definitivamente annullata dalla finale reintegrazione cosmica (apocatastasi). Quanto alla “seconda morte”, che per la chiesa cattolica significa l’eternità delle pene dell’inferno (13), nell’interpretazione di alcune scuole gnostiche (ma pure della maggior parte dei protestanti) esprime una sorta di “annichilimento” di coloro che furono del tutto sordi ai principi spirituali (gli “iliaci”), che però anch’essi vengono in qualche modo riassorbiti nel Tutto. Notiamo che nell’apocrifo “Evangelo di Bartolomeo”, in cui GC riferisce agli apostoli e in particolare a Bartolomeo della “discesa agli Inferi” dopo la sua morte e prima della resurrezione, l’Ade appare personificato. Egli, percependo l’arrivo del redentore, si rivolge a Beliar (demone, o capo dei demoni, citato nella forma Belial anche nei “manoscritti di Qumran”): “A quanto sento Dio è qui presente!”. Beliar risponde. “Guarda attentamente: chi è colui che viene? Costui infatti mi sembra Elia o Henoch o uno dei profeti”. A questo punto Beliar parla anche con la Morte, anch’essa personificata, e i tre iniziano un dialogo, -peraltro non molto chiaro-, in cui l’Ade si lamenta di essere stato ferito e straziato dalla potenza del re del mondo e lo supplica di concedergli di entrare in lui, “giacchè io sono stato formato prima di te”. Allora Cristo, dopo essere entrato in lui, lo lega con catene indissolubili e libera da quel luogo di dolore tutti i giusti (14) (15).

Abbiamo infine un unico caso dell’impiego del termine “Tartaro”, attestato, -come abbiamo segnalato anche nella II parte de “L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA” del 4 novembre 2016-, nella seconda lettera di Pietro (II, 4), ove si afferma che “Dio precipitò nel Tartaro gli angeli ribelli in attesa del giudizio finale”. Non è del tutto chiaro se con tale nome si indichi la Gehenna o una sua sezione distinta, ovvero un luogo a parte, destinato specificamente alle entità super umane peccatrici contro Dio, -e pertanto equiparabili ai Prometeo, Tantalo, Issione, Sisifo della mitologia classica-. Tale ipotesi sembra tuttavia suffragata da alcuni testi apocrifi quali l'”Evangelo di Bartolomeo”, che abbiamo poc’anzi menzionato, in cui l’angelo Satanael dice che fu condannato al Tartaro e il suo nome fu cambiato in Satana.

CONTINUA NELLA DECIMA PARTE

Note

1) per quanto riguarda gli Ittiti, per quanto la conoscenza delle loro concezioni psicologiche ed escatologiche non sia molto approfondita, si sa per certo che credevano nella sopravvivenza del “soffio”, chiamato, con termine assai simile a quello sanscrito, “atmen”, e che indicavano con un ideogramma di origine sumerica (“gedim”) avente il significato di “ombra”. “Akkantes” è il termine con il quale venivano designati sia i defunti, sia gli spettri (corrispondenti ai “lemures” e alle “larvae” dei Romani e ai “preta” degli Indù e dei Giainisti), che potevano talvolta comparire nel mondo terreno a disturbare i vivi. Le “ombre” di defunti, a somiglianza che nell’Ade greco, trascorrono una parvenza di vita assai triste e monotona nell’al di là, -al quale si riferisce probabilmente l’espressione “Dankush Daganzipash” =”Terra Oscura”-, e dipendono dalle offerte di cibo e bevande dei loro parenti e amici sopravvissuti, dalle quali traggono un minimo di energia vitale. Quanto mai infelice e sfortunata è la sorte di coloro i quali non avendo parenti che si prendano cura di loro, sono costretti ad alimentarsi con le sozzure che trovano sul ciglio delle strade degli inferi.

2) e questo termine, nella forma greca “paradeisos”, è impiegato nel vangelo di Luca, XXIII, 43, nel passo dove GC sulla croce promette al “buon ladrone” che sarà trasportato con lui in paradiso.

3) nel “Bava Batra”, il terzo dei tre trattati che costituiscono la Mishnah, -l’insieme dei testi che riuniscono la tradizione esegetica orale composti alla fine del II secolo ad opera del rabbino Yehudah an-Nasi (Giuda il Principe)- si legge: “Il Sole è rosso di mattina e di sera: di mattina perché si innalza sopra le rose del giardino dell’Eden, di sera perché sorvola l’entrata della Gehenna”.

4) si tenga presente che gli scritti biblici extra-canonici sono di fondamentale importanza, anzi indispensabili per intendere e per interpretare correttamente i libri neotestamentari collocandoli nella loro giusta prospettiva storica e ideologica, poiché molte delle idee, delle credenze, dei costumi che ne costituiscono il sostrato non sono presenti, -o se ne trovano solo vaghi accenni-, nei libri considerati canonici. Ed in generale è ovvio che non si può isolare una dottrina filosofica o religiosa, come qualunque altro aspetto della civiltà, dalle altre senza tenere conto degli scambi e delle influenze reciproche che contribuiscono all’arricchimento e allo sviluppo della stessa (principio che vale per l’ebraismo e il cristianesimo come per qualunque altra religione o dottrina mistica o spirituale, anche perché se da molte parti può venire un apporto, una riflessione sui grandi temi del mondo, dell’uomo, della natura, dello spirito, nessuno potrà giungere a possedere la “verità”).

5) in una delle varianti principali della cosmologia indù l’intero Universo appare distinto in due parti e consta di sette regioni superiori -della quali l’infima è la terra-, e di sette regioni inferiori dette “Patala”. Al di sotto dell’ordine settenario dei mondi inferiori dimora il drago Sesia, che tiene sulla sua testa l’insieme dei piani cosmici come un diadema. Si noti però che i Patala non sono gli inferni veri e propri; in questi ultimi, chiamati  Naraka, i defunti espiano le loro colpe prima di una nuova incarnazione. Al contrario essi sono luoghi di magnificenza e di beatitudine dove dimorano diverse specie di geni, come i Naga, i Daitya e i Danava (gli dei abitano invece nei cieli superiori).

6) questo schema dei regni dell’oltretomba ricorda indubbiamente quello adottato nella “Commedia” dantesca.

7) in “Bellum Iudaicum”, II, 154-155 egli afferma infatti a riguardo degli Esseni: “E infatti è salda tra di essi la credenza che mentre i corpi sono corruttibili […], le anime immortali vivano in eterno e scendendo dall’etere restano per coì dire impigliate nei corpi, come dentro carceri quasi attratte da una sorte di incantesimo naturale. Ma allorché siano sciolte dai vincoli della carne, come liberate da una lunga schiavitù, allora volano felici verso l’alto”: parole e idee che ricordano molto quelle di Pitagora e di Platone.

8) secondo un’altra ipotesi, -che vedremo meglio in seguito-, il personaggio, o meglio uno dei personaggi, che costituiscono il sostrato storico della figura del Gesù evangelico potrebbe essere un membro della famiglia di Erode il Grande, o addirittura un suo figlio. Questa circostanza spiegherebbe sia la preoccupazione e l’ostilità del sovrano giudeo (il quale non era certo tipo da lasciarsi impressionare da superstizioni e supposte “profezie”) nei confronti del neonato, -che risulterebbe incomprensibile se rivolta al figlioletto di un umile artigiano-, sia la qualifica di “re dei Giudei” attribuita al nazareno al momento della condanna a morte (nonché motivazione della stessa, ovvero eliminare un pretendente sgradito al trono di Giudea).

9) il termine “Gehenna” si trova impiegato, talora indicando una figura personifciata del luogo dii pena, anche in testi apocrifi: ad es. nella “Storia di Giuseppe il falegname” (XXI, 1): “Rivolti gli occhi a meridione, vidi venire la Morte con tutta la Gehenna […]; i loro abiti, i loro volti e le loro bisacce sprizzavano fuoco”.

10) si tenga presente che il termine greco “ekklesìa” (da “ek + kaleo” = chiamo, convoco), aveva un significato del tutto laico, poiché indicava un’adunanza, un’assemblea, in particolare l’assemblea del popolo nelle antiche “poleis”, e non si può quindi applicare a questo contesto il significato che avrebbe assunto nei posteriori sviluppi storici.

11) si veda al riguardo gli articoli sulla nascita del cristianesimo del settembre e ottobre 2016. In effetti la setta degli Zeloti per molti aspetti si potrebbe assimilare ai moderni “fondamentalisti” islamici poiché, oltre all’intolleranza, all’estremismo ideologico, e all’uso politico della religione, che erano il loro tratto distintivo, ricorrevano con frequenza agli attentati e all’aggressione.

12) questo testo è considerato molto vicino alla “fonte Q”, dalla quale dovrebbero essersi diramati i vangeli sinottici, in particolare di Matteo e di Luca, che vi aggiunsero gli elementi narrativi. Peraltro alcune sentenze molto lapidarie ed enigmatiche danno l’impressione di essere state estrapolate da un contesto più ampio.

13) come avremo poi modo di vedere, nella chiesa ortodossa e nelle chiese orientali non cattoliche, l’inferno non è destinato a durare per l’eternità ma avrà anch’esso fine, per lasciare posto alla completa gloria di Dio, entro la quale tutti gli esseri saranno reintegrati.

14) Beliar è quasi certamente da indentificare nel Belias, citato nell'”Apocrifo di Giovanni” come l’ultimo dei dodici arconti posti a dominare i dodici “regni inferiori”, generati da Ialdabaoth (il Demiurgo che si è arrogato le funzioni del vero Dio e da Apònoia (nome che significa ignoranza, stoltezza), e che governa la parte più profonda degli Inferi (si veda la riguardo la 14° parte de “L’asino e il bue nel presepe” del 17 luglio 2016). Beliar si trova citato anche in II Cor. VI, 15 e nell’apocrifa “Ascensione di Isaia”.

15) sul tema della “discesa agli Inferi” o “nell’Ade” di Gesù Cristo avanti la resurrezione, che, pur non essendo attestata negli scritti canonici, è proclamata nel simbolo niceno-costantinopolitano ed considerata articolo di fede nelle chiese cattolica e ortodossa torneremo nella parte successiva del presente articolo.

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