L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -diciassettesima parte (escatologia e culto dei Mandei)-

Lo spirito umano consta di due elementi, o livelli: un livello superiore-divino (nashimta) ed uno inferiore-terreno (ruhà)(1). Quest’ultimo è connesso con la sete di vita terrena, persegue l’autoaffermazione attraverso la ricerca dei beni materiali e induce al male; in pratica su un piano filosofico si può considerare l’equivalente della schopenaueriana “volontà di vita” (intendendo per “vita” la vita inferiore, materiale, data dal turbinio delle sensazioni, non la “vita spirituale” che coincide con la Luce) e del “desiderio” che deve essere spento secondo l’etica e la soteriologia buddistiche. Queste forze contrapposte si contendono l’interiorità dell’uomo, -così come lottano nel cosmo-, e la persona saggia può rafforzare la nashimta, spirito superiore, a scapito di quello inferiore, la ruhà, mediante la conoscenza di sé, la virtù, la purezza interiore ed esteriore, evitando i vizi e tutte le cattive abitudini, compiendo buone azioni e preghiere, praticando esercizi spirituali e celebrando i riti religiosi nel modo corretto. Coloro che rispettano scrupolosamente queste prescrizioni e hanno raggiunto il distacco dalle passioni terrene e un certo grado di evoluzione spirituale sono detti “Nazuraya”, termine che nei testi più antichi era attribuito a tutti i membri della comunità religiosa nel suo complesso e che ha dato adito a diverse interpretazioni circa la sua origine. Infatti per alcuni studiosi (Nöldeke, Brandt) esso testimonierebbe la derivazione dei Mandei da una frazione del primitivo gruppo palestinese cristiano (o cristiano-giovannita), i cui aderenti erano talvolta chiamati con tale nome -Nazorei-, come è attestato negli “Atti degli Apostoli” (XXIV, 5); altri invece (Lidzbarski) lo fanno derivare del verbo aramaico “nesar” = “glorificare”, con il significato quindi di “glorificatori (di Dio)”, sostenendo che avrebbe designato una comunità religiosa anteriore ai tempi di Gesù Cristo e di Giovanni Battista, che avrebbe esercitato una certa influenza sul nascente cristianesimo.

Un’immagine di Abathur che giudica le anime. Questo tipo di raffigurazioni dallo stile fortemente geometrico è caratteristico dei Mandei.

Il fine fondamentale della rivelazione è quello di consentire alle anime individuali di svincolarsi dalla loro prigionìa carnale e iliaca e al cosmo nella sua totalità di reintegrarsi nel regno della Luce. La rivelazione tuttavia non è l’opera di maestri e apostoli umani, ma deriva dall’espandersi della Luce nel mondo tenebroso. I messaggeri e gli inviati sono epifanie del divino che offrono agli uomini e al mondo le vie attraverso le quali conseguire la gloria divina e hanno quindi una valenza “maieutica”, poiché insegnano a riconoscere e a trovare la luce spirituale dentro di sé. L’artefice principale della rivelazione (e della redenzione) è proprio la “Conoscenza”, il più volte ricordato Manda d-Haiyè, che si può identificare nel Cristo-Logos della teologia giovannea, l’intermediatore salvifico per eccellenza, figlio del Grande Mana, la Luce infinita, e a sua volta padre di Hibil-Ziwa. Con lui coopera su un piano inferiore, l’Adamo occulto o segreto, detto Adakas-Mana o Adakas-Ziwa, il quale è nello stesso tempo l’Adamo cosmico, il macroantropo Urmensch, comune alle tradizioni iraniche e giudaiche, e il prototipo dell’Adamo terrestre.

La rivelazione si manifesta in due fasi distinte: durante la prima Manda d-Haiyè illustra alla coppia umana archetipica, Adam e Hawwa, le verità sul conflitto tra Luce e Oscurità entro cui avviene la cosmogonia mandea, e insegna loro i principi della morale e i riti purificatori e propiziatori (che sono poi quelli propri della religione mandaica). In un tempo successivo, quando ormai la malvagità umana ha consentito alle tenebre di prevaricare la legge divina e di offuscare quel poco di luce che rimaneva nel mondo, interviene una seconda rivelazione, quella operata per mezzo di Anosh Uthrà e di Giovanni Battista (oltre che dal medesimo Manda d-Haiyè), che consente all’Anima (nishma) di allontanarsi dal suo esilio terreno. Scoperta la sua vera natura e illuminata dalla rivelazione, inizia la sua ascensione al Palazzo di luce e di Vita. Per giungere al paradiso l’anima attraversa su una barca, chiamata “Shahrat”, otto stazioni (“mattaratha”) che corrispondono ai cieli dei pianeti, più quello delle costellazioni, che sono una sorta di gironi infernali, in ciascuno dei quali determinate categorie di peccatori sono punite dai demoni planetari, dove dovrà superare una serie di prove e giudizi. Durante queste prove l’anima è accompagnata e assistita dagli Uthrà e dagli angeli guardiani, che si trovano con lei sulla “Shahrat”. L’ultimo giudizio consiste nella “pesatura” delle anime, compiuta da Abathur Muzania, -la controparte infera di Abathur, mentre l’Abathur celeste è detto Abathur Rama-, durante la quale Ruhà ricordando le loro mancanze e iniquità tenta di provocare la loro condanna, -esercita quindi la funzione di “avvocato del diavolo”-(2). Se il giudizio si conclude in modo positivo l’anima del defunto potrà entrare nello “Mshunia Kushta”, il paradiso mandaico.

Abathur, l’ultimo figlio di Yoshamin , la “Seconda Vita”, chiamato anche Yawar (nome che coincide quasi certamente con il Yahwè ebraico), o l'”Antico dei Giorni”, figura chiave nella cosmologia e della soteriologia  mandee, è il protagonista del “Diwan Abathur”, ove si afferma che egli risiede al confine tra il Mondo della Luce e il Mondo delle Tenebre. Sotto di lui si estendeva in origine un enorme abisso di acqua nera e fangosa (che ricorda lo “sheol” ebraico), nel quale si rifletteva la sua immagine. Hibil-Ziwa, la prima emanazione, conferì ad Abathur l’incarico di pesare le anime dei defunti per verificare il loro gradi purezza, dopo che avevano attraversato i purgatori siti nei cieli planetari. Tuttavia Abathur non era molto soddisfatto di tale funzione e pose a Hibil alquante domande relative ai peccati degli uomini, alla loro gravità e al modo con cui avrebebro potuto mondarsi e quindi salvarsi.

In una parte successiva del libro, -che peraltro logicamente avrebbe dovuto trovarsi prima-, si narra di come Abathur abbia generato Ptahil, il demiurgo, e gli abbia dato accurate istruzioni sul modo di creare l’universo (Tibil) nello spazio intermedio tra i due mondi della luce e dell’oscurità. Egli fornisce a sui figlio i materiali e gli artefici (i demoni) con i quali portare a compimento la sua opera. Ptahil si lamenta dell’incarico ricevuto, ma lo esegue con scrupoloso zelo. Tuttavia poiché all’opera di creazione hanno partecipato entità provenienti dal mondo oscuro, il mondo terreno reca gli stigmi della corruzione, dell’imperfezione e del dolore.

Dopo la creazione, Adamo chiede ad Abathur che cosa dovrà fare una volta giunto sulla Terra e questi che gli risponde che sarà aiutato da Manda d-Haiyè, l’entità inviata ad istruire gli umani con l sacra conoscenza e a proteggerli dalle tentazioni. Ma la missione affidata ad Adamo e a Manda d-Haiyè irrita Ptahil, il quale non vuole accettare che le proprie creature vengano guidate da altri.

Alla fine ad Abathur -il cui nome di probabile origine iranica dovrebbe significare “colui che ascende le scale”-, come si è detto sopra, viene assegnata la funzione di giudice dei morti, che gli esercita al pari di Rashnu e di Anubi-. Dopo la consumazione dell’universo materiale anch’egli potrà entrare nel Mondo della Luce.

Sul piano escatologico cosmico gli ultimi tempi vedono accentuarsi sempre più l’influenza del pianeta Marte, -quello della violenza e della sopraffazione- e di conseguenza all’aumento delle persecuzioni contro i Mandei. Questo periodo di decadenza e di distruzione sarà seguito però da un’era di pace che durerà 42 anni, per concludersi però con l’avvento del regno di Ur (o di Bel). Egli si assiderà sul trono di Ptahil, il demiurgo buono, e divorerà tutto l’universo creato, pianeti, costellazioni, cieli e terre; indi fagociterà nel suo corpo Ruhà, i demoni, il falso Gesù, gli infedeli e i peccatori (3), mentre le anime pure, definitivamente liberate dai corpi, ascenderanno alle dimore divine riunendosi al “Re di Luce”. Tuttavia una versione diversa improntata ad un universalismo salvifico prevede che alla fine dei tempi anche le anime degli infedeli e dei peccatori dopo aver espiato nei purgatori planetari saranno salvate nel quadro di una apocatastasi in cui tutte le cose torneranno alla Luce e a Dio.

Il culto dei Mandei si incentra soprattutto su alcune partiche rituali attraverso le quali si esplica esteriormente il processo liberatorio dell’anima che è il fine primo e ultimo dell’esistenza terrena, e che quindi si possono equiparare ai sacramenti cristiani, prima tra tutte il battesimo.

Il battesimo mandeo consiste nell’immersione nell’acqua corrente di un fiume o di un torrente, -di solito il Tigri o lo Shatt al-Arab che scorrono nei luoghi ove risiedono, o risiedevano la maggior parte dei Mandei-, oppure in una vasca lustrale che deve però essere in diretta comunicazione con un corso d’acqua: infatti per i Mandei l’acqua è non solo il simbolo ma in una certa misura la sostanza della vita stessa; l’acqua corrente è identificata o assimilata con il Giordano, -il sacro fiume ove battezzava Giovanni Battista-, e le è attribuito un nome da esso derivato (“Yardna”); il lavacro rituale serve a mondare sia dall’impurità fisica sia da quella morale e spirituale, ed ha pertanto un effetto rigenerante anche sul piano fisico, poiché anche la sozzura materiale e la malattia sono considerate una manifestazione del male e delle tenebre; è però assolutamente indispensabile che l’acqua sia corrente e “viva”, poichè l’immersione in acqua stagnante o ferma, non avrebbe alcuna efficacia. Si noti che i Mandei nutrono un rispetto reverenziale, per non dire venerazione, per i fiumi, e che cercano sempre di vivere in località vicine o non troppo lontane da essi. E’ per essi grave peccato sporcare o inquinare in qualsiasi modo le acque di un fiume, -e pertanto la religione mandea inculca una profonda sensibilità ecologica-; tuttavia considerano meritorio gettare nelle acque dei fiumi il cibo rimasto dopo i banchetti, -che rivestono una parte importante nella liturgia mandaica-, specialmente quelli celebrati in memoria di una persona defunta, affinchè  se ne nutrano i pesci.

Amministrazione del “masbuta”, il battesimo maggiore mandaico.

In effetti nella liturgia mandaica si contemplano tre tipi di battesimo: il primo è chiamato “rishama”, e in pratica si tratta solo di un’abluzione del viso e degli arti che, potendo, ciascun fedele dovrebbe compiere almeno una volta giorno poco prima dell’alba, con il capo coperto, nonché prima di celebrare tutte le cerimonie religiose. Il secondo tipo è il “tamasha” che consiste in una triplice immersione e deve essere eseguita soprattutto in determinate circostanze che comportino contaminazione o impurità fisica e/o morale (come dopo connubi intimi, dopo il parto per una donna, ecc.). Tali prescrizioni rituali di purità sono pressoché identiche a quelle descritte in alcuni dei “rotoli del Mar Morto” e confermano dunque l’ipotesi del legame con gli Esseni.

Il battesimo vero e proprio è detto invece “masbuta” (o “maswetta”)(4), e deve essere amministrato da un sacerdote, preferibilmente di domenica, -giorno sacro per i mandei-, oppure durante la festa del “Panja”, -o “Parwanaia”-, che si celebra durante i cinque giorni intercalari del calendario mandeo, che comprende 12 mesi di 30 giorni ciascuno, tra l’ottavo (“shambulta”) e il nono mese (“qaina”)(5). Tramite esso il battezzato è investito della gloria divina e liberato dall’assalto dei demoni e delle potenze oscure: dopo la triplice immersione egli viene unto sulla fronte con olio benedetto e indi gli viene posta sul capo una corona di mirto; dopo aver fatto il baciamano al sacerdote, questi invoca su di lui la benedizione di Mana Rabba imponendogli la mano destra sul capo e gli viene consegnata la “dravsha” (o “darfesh”), il simbolo del mandeismo, una croce sulla quale è appeso un drappo bianco, sormontato da un ramo di mirto. Il battesimo ha la virtù di cancellare tutti i peccati e di rafforzare la nashimta, ha quindi un valore e un significato eminentemente sacramentale e si può pertanto paragonare ai sacramenti della penitenza e dell’eucarestia per i cattolici. Per tale ragione esso viene amministrato in tutte le circostanze importanti della vita (matrimonio, parto, convalescenza) e dopo che il fedele abbia commesso gravi peccati.

Altre importanti feste della liturgia mandaica sono la vigilia di capodanno (“Kanshuzahky”) e il capodanno stesso (“Dehva Rabba”), equivalente nel suo simbolismo al “nouruz”, -o “nevrouz”-, iranico zoroastriano, al “sarsal” yezida, all'”akitu” dell’antica Babilonia, ecc.- che durante il presente anno (2019) si sono celebrate rispettivamente il 19 e 20 luglio.

Ma le prescrizioni relative alla pulizia e alla purezza non si limitano al masbuta e alle altre abluzioni rituali ma riguardano tutti gli aspetti della vita quotidiana, dall’abbigliamento all’alimentazione che devono seguire regole assai precise, pur se quelle a cui si devono attenere i sacerdoti e soprattutto i vescovi, -detti “ganzivra” o “ganzibra”-, sono più rigorose di quelle proprie dei laici.

L’abito rituale dei Mandei si chiama “rasta”, o “ustlia”, e deve essere indossato in tutte le occasioni importanti, come battesimo, matrimonio e morte; soprattutto in quest’ultima circostanza, poiché se una persona non spira nel rasta, la sua anima non potrà raggiungere Abathur. Il rasta consta di sette parti per i laici e nove per i preti; esso è rigorosamente bianco, simbolo del vestito di luce che ammanta l’anima pura, ma in effetti ben di rado è candido, -se non quando è nuovo-, poiché può essere lavato nell’acqua corrente, ma mai con sapone o altri detersivi. Al rasta si accompagna di norma il “burzina”, il turbante che avvolge il capo, e il “pandama”, la fascia tenuta sulla bocca e la pare inferiore del volto, nonché la cintura detta “hirmyana”. Il costume della veste bianca accomuna i Mandei ad altre antiche sette, quali gli Esseni e i seguaci della scuola pitagorica. Anche al di fuori dell’ambito religioso non sono ammessi abiti in fibre sintetiche, ma solo naturali.

Il celibato dai Mandei è considerato sotto una luce assai negativa, mentre la procreazione è un dovere religioso (essi quindi su questo punto hanno un’opinione diametralmente opposta a quella dei Manichei, per i quali al contrario, come abbiamo visto in precedenza, la procreazione dovrebbe essere il più possibile evitata, sebbene sia ammessa con il matrimonio per gli “uditori”); gli uomini (e solo essi!) che muoiono senza essersi sposati e aver generato almeno un figlio sono condannati alla reincarnazione. Al di fuori di questa ipotesi i Mandei non credono al ciclo delle rinascite: dopo la morte fisica le anime dei puri tornano al mondo della Luce, mentre quelle dei reprobi devono rimanere nei “gironi” dei pianeti, fino a quando anch’esse saranno redente nella reintegrazione cosmica di tutte le cose nel Regno della Luce (mentre in una versione più antica dell’escatologia esse venivano annichilite dopo essere state divorate da Ur).

Ciascun appartenente alla chiesa mandea riceve due nomi propri: quello che gli viene imposto dai suoi genitori (“laqab”) ed il nome religioso zodiacale (“malwasha”) che gli viene attribuito da un sacerdote in base al tema natale eretto per quella persona poco dopo la nascita; quest’ultimo nome è scelto per contrastare le influenze negative che vengono dai segni e dai pianeti dominati al momento della venuta alla luce ed è l’unico che viene impiegato nelle cerimonie e in tutto quanto a che fare con la religione: si potrebbe dire che è un “nome iniziatico” contrapposto a quello profano o laico.

La dignità sacerdotale presso i Mandei in linea teorica è consentita anche alle donne, e si sa per certo che in passato vi furono delle sacerdotesse, ma ai nostri giorni sembra che non ve ne siano. Il sacerdozio mandaico si articola in tre gradi (novizio -“shkandà” o “gandà”-, sacerdote -“tarmidha” e vescovo -“ganzibra”-) L’istruzione per acquisire lo stato sacerdotale inizia fin da tenera età, anche perché in genere esso si trasmette nell’ambito delle medesime famiglie: il fanciullo destinato al sacerdozio deve avere puro sangue mandaico e la sua famiglia deve essere immune da qualunque difetto fisico o morale da parecchie generazioni in entrambi i lati ascendenti; in particolare non può aspirare al sacerdozio se una delle sue antenate donne si fosse sposata essendo vedova o non illibata. Dai tre o quattro anni comincia ad imparare a memoria preghiere e inni, ed in seguito quando sa e leggere e scrivere gli vengono insegnate le sacre scritture mandaiche, e a questo stadio della sua istruzione viene chiamato “yalufa” (“letterato”).

La “skandola”, il talismano tipico dei Mandei.

Dopo almeno dodici anni di tirocinio e non prima aver compiuto il 19° anno di età, l’aspirante potrà ricevere l’ordinazione al sacerdozio, che viene amministrato dal “ganzibra”, coadiuvato da due sacerdoti. Prima dell’ordinazione vera e propria, lo “shwalia”, -com’è chiamato l’aspirante durante l’iter che lo condurrà a divenire “tarmida”-, è tenuto a recitare a memoria l’intero “Sidra d-Nishmatha” (il “Libro delle Anime”), che riguarda soprattutto i riti battesimali; indi dovrà trascorrere una notte in preghiera entro una capanna appositamente costruita nei pressi di un tempio. Il giorno seguente tale costruzione effimera viene distrutta e lo “shwalia” entra in una seconda capanna, nella quale dovrà rimanere per sei giorni e sei notti, cambiandosi quotidianamente d’abito: questa settimana preparatoria dura da domenica alla domenica successiva, quando il vescovo battezza lo “shwalia”; da questo momento ha inizio un periodo di 60 giorni durante il quale il neofita deve vivere isolato dalla sua famiglia, senza incontrare alcuno tranne il “ganzibra”,e  osservare tutte le regole di purezza rituale, in cui è compresa una triplice abluzione quotidiana senza svestire il “rasta”, l’abito bianco rituale (che però per i sacerdoti è la veste abituale). Una volta che tale periodo sia trascorso senza che il neofita sia venuto meno in alcun modo alle prescrizioni etiche e rituali, egli celebra la sua prima “messa” (“masiqtà”), un rito che comporta la consacrazione e la consumazione di pane (“pitha”) e di “mambutha” (miscela di acqua e vino), -e che pertanto presenta indiscusse somiglianze con l’eucarestia cristiana-.

Per quanto riguarda la consacrazione al terzo grado del sacerdozio mandeo, quello di “ganzibra” (“tesoriere” in medio-persiano), equivalente a vescovo, essa può avvenire soltanto nell’imminenza della dipartita di un membro autorevole della comunità, poiché la celebrazione del rito funebre è parte integrante dell’iter che porta il candidato ad assumere la carica. Per mezzo di tale rito la persona morente viene mondata dai peccati e diviene un “latore di messaggi” nell’al di là. Alla fine di un triduo il futuro “ganzibra” celebra un “lofani”, -una cena sacrale più semplice della “masiqtà”-, in memoria del defunto. Indi torna alla sua dimora e da quel momento deve vivere in isolamento e penitenza per 45 giorni, -ossia per tutto il periodo che si ritiene sia necessario perché l’anima del defunto attraversi tutti i purgatori planetari e giunga in paradiso-. Trascorso questo tempo, per completare la complessa cerimonia della consacrazione episcopale il “tarmida” deve celebrare il matrimonio di un prete, e solo dopo che sia stato compiuto questo rito egli potrà ritenersi un “ganzibra” a tutti gli effetti. Se non si presenta l’opportunità di celebrare il matrimonio, il tarmida dovrà rimanere in isolamento fino a che non gli si presenti tale occasione; ma questa eventualità è alquanto rara, poiché, essendo ammessa dai Mandei la poligamia nella forma poliginica, quasi sempre troverà un collega sacerdote il quale, pure se già sposato, sia disposto ad avere una moglie in più.

Esiste infine un grado ancora più elevato di sacerdozio, quello di “Rishuma”, -“Capo del Popolo”-, una sorta di sommo sacerdote e guida spirituale dei Mandei, che però risulta vacante da oltre due secoli poiché nessuno è stato ritenuto degno di rivestire tale ufficio.

Ai vescovi non è consentito consumare alcun cibo caldo o cotto, ad eccezione del pane, che deve però essere confezionato appositamente per essi  e non insieme a quello destinato ai laici; a tutti i preti sono inoltre proibiti bevande alcooliche, caffè e tabacco, e l’unica bevanda ammessa è l’acqua pura di fonte. In origine i Mandei dovevano essere vegetariani, come gli Esseni, e questo conferma la loro origine come gruppo giudaico eterodosso (6), ma in seguito il precetto dell’alimentazione vegetariana venne alquanto attenuato, pur se in genere consumano poca carne, proveniente da animali uccisi da persone estranee alla loro chiesa (in pratica un comportamento simile a quello dei buddisti), poiché aborrono il versamento di sangue di esseri viventi (7). E’ probabile che l’attenuarsi dell’originario rigore sia dovuto alla trasformazione dei Mandei da comunità religiosa, -nella quale si entra per libera scelta- a gruppo etnico-religioso in cui le dottrine e la fede sono trasmesse per via ereditaria.

Tempio mandaico moderno a Nassiriya in Iraq.

I luoghi di culto mandaici consistono in modesti edifici di mattoni e canne di forma rettangolare, chiamati “manda” o “maskena”, le cui modalità di costruzione sono però definite con precisione da tradizioni scritte e orali. Essi devono sempre essere edificati sulla riva destra di un fiume ed orientati in modo che le pareti più lunghe sono quelle nord e sud; la porta si trova al centro del muro meridionale mentre nel lato opposto sono praticate due aperture da cui si può osservare la Stella Polare, poiché tutte le preghiere vengono elevate al cielo mirando tale astro, che è ritenuto la dimora di Abathur. Il tempio deve essere riconsacrato e spesso anche ricostruito dopo il ciclo festivo della “Panja”, e quindi all’inizio del nuovo anno: in questo rito sembra potersi vedere una reminiscenza della “Festa dei Tabernacoli ( o delle Capanne)” ebraica (“Sukkhot”), il capodanno ebraico. Peraltro a differenza di Giudei e Musulmani non praticano la circoncisione, perché ritengono peccaminoso violare in qualunque modo l’integrità fisica dell’individuo (e dunque non ammettono neppure tatuaggi, piercing, e altre discutibili pratiche venute in auge nei nostri tristi tempi -si noti invero che il rispetto per l’integrità fisica e l’avversione per qualsiasi forma di mutilazione o di deturpazione, ancorché minima, del corpo sono comuni pure agli Ebrei e ai Musulmani osservanti, salvo ovviamente la sopracitata circoncisione-).

Le preghiere e le invocazioni devono essere pronunciate stando in piedi in posizione eretta; i sacerdoti sono tenuti a recitare una diversa corona di preghiere per ciascun giorno della settimana, e per tre volte al dì all’alba, al mezzogiorno e al vespro.

Durante i sacri riti battesimali un drappo di seta bianca avvolto a un bastone dritto incrociato con un altro segmento ligneo più corto, la “dravsha”, o “darfesh” (termine persiano che significa stendardo, bandiera), viene eretto sulla sponda della piscina in direzione sud-est, a destra del modesto edificio che funge da tempio. Questo stendardo è un simbolo di luce e di purezza ed i Mandei immaginano che lo splendore del Sole, della Luna e delle stelle si irradi da esso. Il drappo di seta è collocato intorno all’asta sopra il bastone orizzontale, in modo che il suo bordo frangiato non tocchi il suolo, e un ghirlanda di mirto è posta alla sommità dello stendardo, mentre un filo d’oro, chiamato “Aran dravshi”, intrecciato a sette ramoscelli di mirto è celato sotto il tessuto. L’impiego del “dravsha”, che in effetti è una croce, ha tratto in inganno alcuni osservatori e studiosi circa il legame del mandeismo con il cristianesimo, ma è dal tutto da escludere che in tale emblema sia da vedere la croce di Cristo, perchè l’elemento più importante è il drappo, di origine persiana sassanide, mentre la croce (che peraltro ha un significato cosmologico pressoché universale) è più che altro un sostegno. I simboli del cristianesimo dei primi secoli erano lo staurogramma, il pesce, il pavone, la Fenice; più tardi anche il “chrismon”; nell’arte catacombale e paleocristiana si rinviene pure la croce a braccia di eguale misura, ma quale simbolo cosmico di origine antecedente al formarsi della scuola cristiana. La croce latina, ovvero la “crux immissa”, quale come strumento della passione di Cristo, oltre che il crocifisso vero e proprio, apparvero solo a partire dall’Alto Medioevo (su tale argomento si vedano i primi due articoli sulla santa sindone del 27 febbraio e 12 marzo 2018).

Quando officia i sacri riti il sacerdote è tenuto a portare con sé il “marghna” un bastone di legno d’olivo (o più di rado di salice), anch’esso associato all’acqua, -tanto che viene definito il “bastone dell’acqua viva”-, che è uno dei simboli della sua autorità e del suo ministero. Gli altri simboli connessi alla dignità sacerdotale sono lo “Shom Yawar”, un anello con l’iscrizione “Shum Yawar Ziwa” che viene portato al mignolo della mano destra, e la “skandola”, un talismano rotondo di ferro che pure funzione di sigillo e che reca l’immagine di un leone, di uno scorpione, di un’ape (o una vespa) e di un serpente. Quest’ultimo disposto a cerchio racchiude dentro di sé gli altri animali, e ricorda senza dubbio, anzi è quasi certamente da identificare con l'”Uroboros”, il “serpente che si mangia la coda”, simbolo dell’eternità, della ciclicità del tempo e del ritorno di tutte le cose alla loro fonte primigenia. La “skandola” viene portata attaccata ad una catenina di ferro, a sua volta legata ad un coltello senza manico del medesimo metallo; è indossata dai sacerdoti quando compiono un esorcismo e posta sul capo di coloro che si trovino in condizione di impurità fisica o morale. Questo talismano viene impiegato anche per cicatrizzare l’ombelico ai neonati e per sigillare le tombe dei defunti dopo le esequie. Alla morte di un sacerdote “marghna”, “Shom Yawar” e “skandola” sono sepolti con lui.

Il rituale funebre, -definito da alcuni studiosi europei, come il Lidzbarski, “messa dei morti”-, contempla che quando si appressa il momento della dipartita di una persona malata o anziana, essa viene spogliata e aspersa per tre volte dalla testa ai piedi con acqua portata da un fiume vicino. Indi viene sollevata e collocata su un letto appena rifatto con lenzuola pulite rivolto nella direzione della Stella Polare e rivestita con un “rasta” nuovo, che ha la particolarità di essere intessuto di fili d’oro sul lato destro e di fili d’argento su quello sinistro. Dopo la morte il defunto viene sepolto con lo sguardo volto verso nord; la tomba non è contrassegnata in alcun modo e ad essa non è tributata alcuna forma di culto poiché una volta che è stato abbandonato dall’anima il corpo non ha più alcuna importanza (questa concezione è invece con tutta evidenza in contrasto con le credenze funebri degli Egizi). Dopo la sepoltura del defunto si celebra un convito funebre detto “Zidqa Brikha”. Si crede che le anime di coloro che lascino questo mondo nel periodo del Panja siano destinate a volare al più presto nei mondi di luce, sfuggendo così le torture e i pericoli dei purgatori, e pertanto morire durante quei santi giorni è considerato un presagio assai favorevole.

Gli scritti mandaici sono redatti in un alfabeto di 24 lettere chiamato “adabaga” o “abaga” -termine di derivazione persiana che significa “sacro”, “divino”-, evoluzione corsiva orientale dell’alfabeto aramaico, a sua volta derivato da quello fenicio, -come l'”estrangela”, usato per il siriaco, il “serta” e l’alfabeto nestoriano-; le lettere sono di solito raggruppate entro articolazioni fisse consonante-vocale. Le lettere che compongono l’alfabeto, nella loro forma primaria e isolata, hanno anche un significato mistico e un valore magico e sacrale (un po’ come le lettere ebraiche per la Qabbalah) e sono impiegate anche per esorcizzare gli spiriti maligni. Ciascuna emana un precipuo potere di luce e di vita; la prima e l’ultima, l’alfa, rappresentata con un cerchietto simile a uno zero. sono uguali, a significare la perfezione e la luce da cui tutto ha inizio e a cui tutto ritorna. La scrittura dei testi sacri e dei documenti di natura religiosa può essere fatta solo su carta, papiro, lamine metalliche, pietra e argilla, ma non mai su pergamena o altro materiale di provenienza animale, sempre per il principio del rispetto per tutti (o quasi) gli animali che contraddistingue gli ideali del mandeismo. Per la medesima ragione i libri o rotoli non possono essere rilegati in pelle, ma avvolti in stoffa bianca. Anche nella preparazione degli inchiostri devono essere seguite le stesse regole. I testi religiosi più antichi conservati dai Mandei sono inscritte su lamine metalliche, soprattutto di piombo, e in ciotole di argilla (in quest’ultimo caso si tratta in particolare di preghiere e incantesimi).

Sebbene professino un ideale di vita altamente etico che si ispira alla non violenza, al disinteresse personale, alla carità e alla comprensione, ed esigano costumi morigerati i Mandei respingono le vere e proprie pratiche ascetiche, le mortificazioni corporali e le penitenze, le reputano anzi disdicevoli.

Alla fine della nostra ricerca possiamo concludere che la religione dei Mandei ci appare la trasformazione di una setta giudaica di tipo essenico-enochiano, probabilmente quella fondata, o a cui comunque appartenne, Giovanni il Battista, ma che ha subito forti influenze iraniche. Al contrario quella manichea, che abbiamo esaminato in precedenza, fu senza dubbio in origine un’eresia dello zoroastrismo, che poi assorbì ad opera del suo fondatore, Mani, e poi dei suoi discepoli, molteplici elementi del giudaismo e del cristianesimo (in forme per lo più eterodosse e gnostiche) e in minor misura buddistiche (pur se, come abbiamo visto, le influenze del buddismo e pure del taoismo aumentarono nell’espansione della dottrina di Mani verso oriente). Rispetto a quest’ultima, i Mandei professano una concezione del mondo e dell’uomo meno pessimistica, poiché credono in un’apocatastasi universale alla fine dei tempi e pure nei confronti del “mondo” il loro atteggiamento è meno severo ed ascetico. Sia Manichei sia Mandei presentano pure alcuni punti di contatto con gli Yezidi, -dei quali abbiamo trattato nell’articolo sul “Malak Taus”, l'”Angelo Pavone” del 29 settembre 2014-, nonchè con le sette “estremistiche” dell’islamismo sciita (Ismailiti, Drusi, Nusayri, “Ahl I-Haqq” -“Quelli della Verità”-), dato il carattere emanatistico della loro cosmogonia e gnostico della loro psicologia, ma si differenziano nettamente da costoro per il fatto che il sacerdozio non ha carattere iniziatico e/o castale (pur se in genere presso i Mandei si tramette per via ereditaria, ma non in modo inderogabile; per quanto riguarda i Manichei, come sappiamo, essi non esistono più come gruppo religioso organizzato) e i testi ed i riti non sono segreti ed esoterici, per cui l’individuo, il semplice fedele non è sottoposto all’autoritarismo e all’arbitrio di una casta sacerdotale chiusa e prevaricatrice, o di presunti “maestri” arroganti e superbi che richiedono ai discepoli una cieca sottomissione ai loro ordini e desideri (come avviene, o avveniva, nelle scuole dei “sufi”, -i mistici dell’islamismo sunnita-, o nel buddismo tibetano).

Note

1) sul piano lessicale-etimologico la “nashimta” corrisponde alla “neshamà” ebraica; così come la “ruha” è omologa della “ruach” ebraica e della “ruh” araba, -“spirito” (umano e universale)-, che però hanno valenza positiva; a queste è da aggiungersi la “nefesh” ebraica (“nafsh” araba), che in pratica si può identificare nell’anima vegetativa.

2) si osservi come questa rappresentazione del destino ultraterreno da un lato ricordi  molto la concezione egizia del cammino dell’anima sulla barca del Sole nel suo percorso notturno nelle dodici stazioni del Am-Duat, dove deve affrontare pericoli di ogni genere, e della “psicostasia” (sebbene questa per gli Egizi preceda l’inizio del cammino, mentre per i Mandei è il momento finale dell’ascesa in Cielo); dall’altro lo schema dantesco dell’al di là con le anime dannate e purganti che vengono castigate in gironi diversi secondo i loro peccati principali.

3) in pratica dunque l’azione di Ur, tradotta in termini astronomici, sarebbe quella di un immenso “buco nero”.

4) da “masbuta” è derivato il nome dei Masbotei, una setta giudaica eterodossa citata insieme ad altre in un elenco (Esseni, Galilei, Emerobattisti, Masbotei, Samaritani, Sadducei, Farisei) che compare sia nelle “Omelie Clementine”(II, 23), sia nel “Panarion” di Epifano di Salamina (I, 17) sia nella “Storia Ecclesiastica” di Eusebio di Cesarea (OV, 22, 7), il quale dichiara di rifarsi all’opera di Egesippo. Di questa setta si conosce assai poco, ma era probabilmente simile agli Emerobattisti (o forse si tratta dei Mandei?).

5) i cinque giorni “Panja”, ricordano i “giorni epagomeni” del calendario egizio, -anch’essi di particolare rilevanza religiosa- e dunque potrebbero essere un’ulteriore indizio della provenienza, o quanto meno dell’influenza egiziana sui Mandei. Il nome “Panja” significa “cinque” in medio persiano (“panj” in persiano moderno, si confronti “pancia” sanscrito, “pente” in greco, ecc.); per quanto la maggior parte dei sostantivi impiegati nel culto mandaico siano di origine siriaca, molti sono anche quelli di origine persiana (rasta, ganzibra, )

6) di Giovanni Battista, l’ultimo grande profeta e maestro dei Mandei, nei vangeli cristiani canonici si dice (Matteo, III, 4, e Marco, I, 6) che si nutriva di locuste (“ακρìδες”) e miele selvatico -e pertanto non sarebbe stato vegetariano in senso stretto-; ma di questo passo è stata data da alcuni autori ecclesiastici (Origene, Pseudo-Atanasio) un’interpretazione allegorica secondo la quale le “locuste”, che pur sollevandosi da terra non possono raggiungere considerevoli altezze, rappresenterebbero metaforicamente la legge giudaica; per san Gerolamo la locusta è un animaletto che sta tra il rettile e l’uccello, che non piò volare molto in alto e così il giudaismo, pur allontanandosi un po’ dall’idolatria, non è capace di elevarsi al Cielo. Altri autori, come Isidoro di Pelusio, intendono le “akrìdes” come erbe, ramoscelli o spighe piuttosto secchi e spinosi, -per quanto in greco non si abbiano attestazioni del vocabolo in tale significato-; per altri ancora, come l’autore dell'”Evangelo degli Ebioniti” il termine “akrìdes” dovrebbe essere sostituito con “εγκρìδες”, focacce al miele, per cui stando alle sopraddette interpretazioni avremmo la conferma della scelta vegetariana di Giovanni Battista e dei suoi discepoli, in conformità allo spirito delle scuole esseniche.

7) tale divieto non vale però, o in misura assai minore, per animali invertebrati considerati nocivi, quali mosche, zanzare, scorpioni e in generale di tutti quelli dotati di aculei e che possono pungere.

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