STORIA MINIMA DELL’IDEA DI DIO NEL PRIMO MILLENNIO CRISTIANO-terza parte (il “filioque”; lo “scisma dei Tre Capitoli”)–

Com’è noto, la confessione ufficiale di fede che accomuna tutte le principali (per numero di fedeli e per importanza storica) chiese cristiane è il “simbolo niceno-costantinopolitano”, -meglio conosciuto in ambito cattolico come “Credo”-, ovvero quella sintesi dei dogmi sui quali si fonda la dottrina cristiana “ortodossa” (1).

Questa formulazione, che è strettamente connessa alle dispute trinitarie e cristologiche sorte intorno all’arianesimo, -che, come abbiamo visto nella parte precedente, infiammarono quasi tutto il IV secolo-, fu raggiunta e proclamata nel corso del I concilio di Costantinopoli nel 381, e costituiva l’ampliamento di una precedente formula che era stata approvata dal I concilio di Nicea (2). Essa rappresenta indubbiamente una soluzione di compromesso che salvaguardasse l’unità e la trinità di Dio, e soprattutto la doppia natura e sostanza, umana e divina, di Cristo, nonché la stretta congiunzione tra le due nature, che non sarebbero unite in modo accidentale ed estrinseco, ma essenziale e sostanziale.

Cupola della chiesa di Aghia Sophia a Nicea (attualmente Inzik) dove si tenne il I concilio di Nicea.

Passando in rassegna le principali concezioni cristologiche dei primi secoli del cristianesimo abbiamo avuto modo di considerare come questo punto sia di gran lunga il più irto di difficoltà e il più difficile da giustificare alla luce delle riflessione filosofica e teologica, poiché significa fondere due realtà assolutamente antitetiche (a meno che non si dia all’espressione “Dio incarnato” o “incarnazione del Figlio” un senso mistico-simbolico, di scoperta e raggiungimento del divino presente in sé stessi come in ogni cosa dell’universo, e in sostanza un’interpretazione di tipo gnostico), per cui una sintesi di questo genere non potrà mai essere davvero armonica e soddisfacente, -come dimostrano le infinite controversie che abbiamo elencato in precedenza-.

Tuttavia anche in merito a questo formulario, che avrebbe dovuto sintetizzare i contenuti della fede cristiana nella sua forma “ortodossa”, si scatenarono violente polemiche che contrapposero l’oriente (ovvero Costantinopoli) all’occidente (ossia Roma). La controversia nacque da una semplice parola, “filioque” (“e dal figlio”), -con la quale si esprimeva la “processione” dello Spirito Santo sia dal Padre sia dal Figlio-, che in occidente fu aggiunta alla versione latina del simbolo niceno-costantinopolitano e che per contro fu ritenuta espressione di una concezione eretica del legame tra Padre e Figlio e aspramente combattuta dalla teologia orientale. La formula del “Credo” latino è la seguente: “[Credo] in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem, qui ex Patre -Filioque- procedit”, con la quale veniva tradotta la redazione greca della professione di fede nicena: “[Pisteuòmen] kai eis to Pneuma to Aghion, to Kyrion kai to zoopoiòn, to ek tou Patròs ekporeuòmenon” (in italiano: “crediamo nello Spirito Santo, il Signore e il Vivificatore, l’emanato dal Padre”): dunque nella versione latina -e in quella italiana da essa derivata- il participio presente passivo greco è stata reso con un verbo all’indicativo presente attivo; non solo, ma il verbo usato, “εκπoρευω”, più che il significato di “procedere”, “avanzare”, ha, specie nella lingua del NT, quello di “uscire”, “emanare” (si notino anche i diversi prefissi presenti nei due verbi: “ek” = da; “pro” = davanti): di conseguenza l’entità, o la sostanza, -lo “Spirito Santo”-, che nel testo originale sembra “emanata” dal Padre, -e dunque uscire da esso non per sua volontà, ma per volontà del Padre, o addirittura per una emanazione spontanea “ab aeterno”, in modo simile ad una ipostasi neoplatonica-, nella traduzione latina sembra “procedere” indotta da una sua volontà autonoma. Pertanto quella che a prima vista potrebbe apparire una sottigliezza terminologica denota invece una profonda differenza concettuale.

Sembra che l’inserimento del “filioque” sia apparso in Spagna e sia stato adottato ufficialmente dalla chiesa spagnola nel sinodo di Toledo del 589; in seguito tale espressione aggiunta al “Credo” si estese in modo graduale nella chiesa latina, specialmente per impulso di Carlo Magno. L’imperatore infatti, -il quale, nonostante il suo basso livello culturale, voleva imitare gli imperatori bizantini ingerendosi nelle questioni teologiche-, in un sinodo da lui convocato ad Aquisgrana (la capitale del suo impero) nel novembre dell’809 prescrisse la recita del “Credo” durante la messa -già in uso nel territorio franco- nella forma che prevedeva l’inserzione del “filioque”. Papa Leone III, -colui che aveva conferito al sovrano franco la dignità di imperatore-, pur accettando come ortodossa codesta innovazione, sconsigliò l’inserimento del “filioque” nella professione di fede, e così pure che quest’ultima fosse cantata durante la messa, -come non avveniva a Roma e nei territori direttamente controllati dal pontefice romano-.

Le decisioni di Carlo Magno e del papa non ebbero immediate conseguenze, ma avrebbero contribuito a riattizzare il conflitto sempre latente tra Roma e Costantinopoli , diversi anni più tardi quando, sommandosi ad altri motivi di attrito, contribuirono a provocare un altro scisma tra chiese d’oriente e d’occidente. Questo avvenne dopo che nell’858 l’imperatore bizantino Michele III, -detto “l’Ubriaco”, a causa della sua condotta intemperante-, ebbe destituito il patriarca Ignazio (3), facendo nominare al suo posto l’insigne teologo e letterato Fozio (“Luminoso”) (4): la sostituzione, dopo un’iniziale ratifica dei legati papali, fu sconfessata da papa Nicolò I, il quale impose al nuovo patriarca di ritirarsi e di cedere la cattedra a Ignazio. Fozio però, spalleggiato dall’imperatore, non solo non ubbidì, ma scomunicò e depose a sua volta il pontefice romano. In quella circostanza inoltre produsse un documento in cui elencava tutte le questioni che dividevano Roma dall’oriente (e nelle quali secondo Fozio i Latini sbagliavano): tra di esse, -insieme al celibato dei presbiteri, al giorno di inizio della quaresima, ecc.-, figurava l’importante tema del “filioque”: per il patriarca bizantino affermare la processione dello Spirito Santo anche dal Figlio, oltre che dal Padre, equivaleva a sostenere una forma di modalismo (si veda quanto abbiamo detto sul modalismo nella prima parte della presente trattazione), poiché confondeva le persone della Trinità. In pratica, nella visione “cattolica” vi sarebbe una sorta di equiparazione, nel grado e nelle qualità, delle persone divine che perderebbero così la loro specifica sostanza (dal punto di vista “romano” ovviamente non è proprio così, poiché esse mantengono una differenza, pur se lo “Spirito santo” è una sorta di elemento di unione tra le altre due), mentre la concezione “ortodossa” postula un'”emanazione” delle altre due dal Padre -in cui potrebbe vedersi, sebbene in modo alquanto diverso, un riflesso della teoria delle “ipostasi” neoplatonica-; rimane peraltro il fatto che appare assai difficile conciliare la “filiazione” della seconda persona della trinità attribuendo ad essa natura e sostanza uguali a quelle del Padre, nonché stabilire la natura e la sostanza dello “Spirito Santo”, che non è né “padre” né “figlio”, rispetto alle altre due persone divine della trinità (5).

Ma oltre alle questioni teologiche e canonico-liturgiche un altro fattore che alimentava il risentimento di Fozio, e in generale del clero bizantino, nonché dell’imperatore, verso la linea di condotta delle chiesa di Roma, era l’invio di missionari latini in Bulgaria (6). Quest’ultima (che comprendeva allora anche le attuali Macedonia e Serbia meridionale) rientrava nella zona di influenza, sia religiosa sia politica, di Bisanzio e quindi l’espansione missionaria di Roma in un territorio già dipendente dall’Impero Romano d’Oriente, pur se era stato occupato dai Bulgari, fu giudicata un grave abuso e un’aperta violazione del trattato stipulato nell’812 tra Michele I Rangabè (811-813) e Carlo Magno per delimitare l’estensione territoriale e la sfera di competenza dei rispettivi imperi, -e con il quale, pur non cessando le gelosie e le rivalità, le due principali entità politiche europee cercavano un “modus vivendi”-.

Ma nell’867 l’imperatore Michele III fu assassinato e il suo successore Basilio il Macedone, accordatosi con il papa, destituì Fozio e rimise sul trono patriarcale Ignazio, il quale in un concilio tenutosi nell’869 revocò le deliberazioni del suo predecessore. Nel frattempo però il sovrano bulgaro Boris, -primo re bulgaro cristiano-, che non intendeva sottostare né a Roma né a Bisanzio-, si riaccostò all’Impero di Costantinopoli, che aveva accettato di concedere una relativa autonomia alla chiesa bulgara, così che Ignazio nominò un metropolita per quella nazione, suscitando le ire di papa Giovanni VIII, succeduto nell’872 al più conciliante Adriano II (867-872). Si produsse così un momentaneo cambiamento nella politica sia di Roma sia di Bisanzio così che quando Ignazio venne a morte, il pontefice romano accettò che Fozio fosse richiamato a rivestire la carica di patriarca; ma ben presto quest’ultimo tornò a ribadire le sue precedenti posizioni sia nel campo teologico, sia in quello gerarchico-disciplinare: annullò i decreti con i quali il concilio celebrato dieci anni prima aveva sconfessato la sua dichiarazione contro la chiesa di Roma e indisse un nuovo concilio, -che fu però convalidato dal papa- tenutosi a Costantinopoli tra l’879 e l’880: in esso fu sancita la riabilitazione di Fozio e si confermò il testo del simbolo niceno-costantinopolitano nella sua forma originaria, -ossia senza l’aggiunta del “filioque”- (7).

Mosaici nella cappella di S. Aquilino nella basilica di S. Lorenzo a Milano.

Sebbene Fozio “pro bono pacis”, -tenuto conto che in quel periodo si profilava un nuovo aggravamento della minaccia degli Arabi, e dunque la prudenza consigliava di mettere da parte i motivi di discordia per organizzare una difesa comune-, abbia cercato di non arrivare ad una rottura, Giovanni VIII non riconobbe come validi i deliberati del Concilio, e soprattutto la dipendenza, sia pure in forma autonoma, della chiesa bulgara da Bisanzio; inoltre, anche in seguito alla relazione negativa fattagli dal suo legato Marino (che poi gli sarebbe succeduto come papa), rinnovò la scomunica a Fozio. Quest’ultimo tuttavia alla morte di Basilio il Macedone nell’886 fu di nuovo deposto dal figlio e successore di lui, Leone VI il Saggio (detto anche “il Filosofo”), il quale lo riteneva coinvolto in una congiura di palazzo, e terminò i suoi giorni sei anni più tardi in un monastero in Armenia (8). Egli fu poi canonizzato ed è tuttora venerato come santo dalla chiesa ortodossa.

Per quanto riguarda la questione del “filioque”, esso fu poi definitivamente inserito dalla chiesa latina nel “Credo” e quest’ultimo a sua volta entrò a far parte dell'”ordinarium missae”, da quando nel 1014 fu cantato a Roma nella messa per l’incoronazione dell’imperatore del SRI Enrico II lo Zoppo (o il Santo, poiché fu canonizzato nel 1146) ad opera di papa Benedetto VIII (1012-1024).

Esporremo ora in breve alcune notizie su due altre controversie ecclesiastiche, che pur rivestendo minore interesse, rispetto alle precedenti, sotto il profilo strettamente teologico e dottrinale, ebbero notevole rilevanza nelle vicende storiche dell’Alto Medioevo.

La prima riguarda il cosiddetto “scisma dei Tre Capitoli”; con tale nome si intende una polemica sorta intorno agli scritti di tre vescovi, -Teodoro di Mopsuestia (350-428), Teodoreto di Cirro  (393-458 circa) e Iba di Edessa (m. 457)-, tutti appartenenti alla “scuola di Antiochia”, che, come abbiamo visto in precedenza, insieme a quella di Alessandria, era la principale fucina del pensiero teologico dei primi secoli del cristianesimo.

L’imperatrice Teodora in un famoso mosaico in S. Vitale a Ravenna.

Tali opere, invero alquanto tempo oltre la morte dei loro autori, furono considerate sospette di nestorianesimo. In effetti i sopraddetti vescovi, pur sostenendo una netta distinzione della natura divina e di quella umana in Cristo ed avendo polemizzato contro Cirillo di Alessandria -il principale oppositore delle tesi nestoriane-, non avevano abbracciato in pieno la cristologia di Nestorio (9), tant’è vero che Teodoro di Mopsuestia aveva accettato la definizione di Maria come “Theotokos”, mentre gli altri avevano sottoscritto, pur con qualche riserva, i deliberati del concilio di Calcedonia del 451, nel quale erano stati condannati come eresie tanto il nestorianesimo, quanto il monofisismo.

Nel 543, -dunque quasi un secolo dopo il concilio di Calcedonia-, l’imperatore Giustiniano, indotto sia dalle pressioni della sua consorte Teodora, filo-monofisita, sia dalle difficoltà politiche e militari che gli consigliavano di promuovere la compattezza sociale religiosa dell’impero, emise un decreto di condanna nei confronti dei tre vescovi della scuola antiochena, i cui scritti furono giudicati ereticali (10); tale condanna era dettata dall’intento di conciliarsi il favore dei monofisiti e dei loro simpatizzanti, che erano numerosi, specie nell’Anatolia orientale e in Siria, nonchè da quello di non apparire sbilanciato a favore del nestorianesimo. Sembra peraltro, -secondo quando afferma Facondo di Ermiana e altri scrittori africani- che la decisione in tal senso sia stata sollecitata anche dall’intervento di Teodoro Askìdas, metropolita di Cesarea di Cappadocia, e di altri prelati ammiratori di Origene, il grande teologo alessandrino del III secolo, le cui dottrine erano state fonte di controversie e di perplessità, e che poco prima erano state a loro volta giudicate eterodosse con un editto approvato da un sinodo ordinario (11). L’artefice principale di questa condanna sarebbe stato l’apocrisario (ambasciatore) pontificio Pelagio -che in seguito come vedremo diverrà papa-, a sua volta richiesto da Gelasio, igùmeno del monastero di S. Saba in Palestina.

Questa diretta intromissione dell’imperatore nelle questioni teologiche non fu affatto gradita alle chiese d’occidente e al papa di Roma, Vigilio, poiché, come sappiamo, mentre in oriente era il potere civile che imprimeva il suo indirizzo alla chiesa, anche in ambito puramente dottrinale, in occidente al contrario era la chiesa che tendeva ad ingerirsi nel governo e negli affari temporali (12): per tale ragione il papa non volle approvare l’operato di Giustiniano. In quel periodo però la nostra penisola era infiammata dall’aspro conflitto tra i Goti e i Bizantini; questi ultimi nel 546 assediavano Roma, sotto la guida del loro re Totila, e per salvarsi dal pericolo da essi rappresentato Vigilio fu convinto a rifugiarsi a Costantinopoli, dove, cedendo alle continue pressioni dell’imperatore e del patriarca bizantino, nel dì di Pasqua del 548 dovette promulgare un “Iudicatum” in cui, pur con manifesta ambiguità (poiché affermava espressamente di rimanere fedele ai canoni del concilio di Calcedonia), si associava alla condanna dei tre capitoli (13).

Ma il papa ebbe un nuovo ripensamento e, sostenendo che la precedente dichiarazione (il “Iudicatum”) gli fosse stata estorta, chiese all’imperatore di indire un concilio ecumenico. In un primo tempo Giustiniano non acconsentì alla richiesta, ma alla fine dopo alterne e drammatiche vicende, il concilio venne convocato nel 553 a Costantinopoli (mentre il papa avrebbe voluto che  tenesse in Italia). In esso fu ribadita la condanna dei “Tre Capitoli” e vennero dichiarate eretiche l’intera opera di Teodoro di Mopsuestia, alcuni scritti nei quali Teodoreto di Cirro sosteneva le tesi di Nestorio nella sua disputa con Cirillo di Alessandria, e la lettera, -indirizzata al persiano Mari-, in cui Iba di Edessa difendeva a sua volta la posizione di Teodoreto. Papa Vigilio, -il quale invero non aveva partecipato all’adunanza di prelati e che si trovava in pratica nella condizione di prigioniero-, sebbene con forte riluttanza, si risolse a sottoscrivere anch’egli i canoni del concilio, allineando la chiesa romana con quella costantinopolitana (14).

Colonne antistanti la basilica di S. Lorenzo Maggiore a Milano risalente al IV secolo.

Ma la sua decisione non venne condivisa dalla maggior parte delle chiese dell’occidente, e soprattutto dalle province ecclesiastiche dell’Italia annonaria (l’Italia settentrionale), della Pannonia, del Norico e della Dalmazia, che diedero inizio allo scisma. Dei tre metropoliti dell’Italia settentrionale (Milano, Ravenna e Aquileia), quello di Ravenna, che aveva stretti legami con Bisanzio e in pratica era la più importante città della penisola (15), si sottomise quasi subito tornando alla comunione con Roma (e soprattutto con Bisanzio); l’arcivescovo di Milano, Ausano (556-566) aderì allo scisma e così pure il suo successore Onorato (567-572). Ma quest’ultimo, a causa della sopravvenuta invasione dei Longobardi nel 568, fu costretto ad abbandonare la città riparando a Genova, allora sotto il dominio bizantino -che però sarebbe stata conquistata a sua volta dai Longobardi nel 641-; tuttavia pur godendo dell’ospitalità e della protezione dei Bizantini, egli si mantenne fedele alla linea scismatica e non volle sottoscrivere la condanna dei tre capitoli. Non così il suo successore, Lorenzo II, il quale si adeguò alle statuizioni del II concilio di Costantinopoli, ponendo fine all’adesione allo scisma della diocesi di Milano (16).

Dopo la morte di papa Vigilio nel 555 fu designato quale vescovo di Roma da Giustiniano il presbitero Pelagio, che in quel periodo si trovava anch’egli a Costantinopoli (17); l’imperatore con tale nomina intendeva accattivarsi la fedeltà e la benevolenza degli Italici e degli occidentali in genere, che sapeva in gran parte fautori dei “Tre Capitoli”, poiché l’eletto in precedenza, insieme a Dazio, arcivescovo di Milano, Verecondo, vescovo di Giunca in Bizacena -nell’Africa Proconsolare-, e altri prelati, si era mostrato uno dei più intransigenti nel difendere la dottrina calcedoniana sulle due nature di Cristo anche in alcuni scritti, come quello “In defensionem Trium Capitulorum”, ampiamente ispirato al “Pro defensione Trium Capitulorum concilii Chalcedonensis libri XII” di Facondo d’Ermiana, in cui criticava con asprezza Vigilio per la sua ambiguità sulla questione. La sua posizione gli aveva procurato anche numerose ostilità -tanto che nella notte del 23 dicembre 551 egli aveva dovuto fuggire da Costantinopoli per ripararsi nella chiesa di S. Eufemia di Calcedonia (quella dove si era tenuto il famoso concilio) per evitare le ritorsioni dei pro-monofisiti-. Ma dopo che fu preconizzato come romano pontefice da Giustiniano egli accettò di sottoscrivere la condanna dei “Tre Capitoli” e di approvare i decreti del II concilio costantinopolitano, alienandosi in tal modo il sostegno della maggior parte delle chiese occidentali.

Pelagio I sbarcò in Italia nella primavera del 556 e appena giunto a Roma fu consacrato da due soli vescovi (quelli di Perugia e di Ferentino) e da un presbitero di Ostia -e dunque senza osservare le norme canoniche nelle quali si prescrive che la consacrazione episcopale deve essere officiata da almeno tre vescovi-; ma poco tempo dopo nel dì di Pasqua del 556 (16 aprile), per placare l’ostilità del clero e del popolo nei suoi confronti, il nuovo papa dovette prestare un solenne giuramento nella chiesa di S. Pancrazio davanti al generale Narsete, -che due anni prima aveva vinto definitivamente i Goti e riconquistato tutta l’Italia all’Impero d’Oriente ed era allora il rappresentante dell’imperatore-, con il quale dichiarava la propria innocenza in merito alle colpe che gli venivano imputate, ovvero di aver causato la morte del suo predecessore Vigilio e di essersi allontanato dall’ortodossia calcedoniana. Ma la “giustificazione” di Pelagio I non fu ritenuta sufficiente da alcune province ecclesiastiche che, come abbiano visto, si separarono temporaneamente da Roma.

Ben più a lungo che a Milano si protrasse lo scisma nella provincia di Aquileia: l’arcivescovo Macedonio non solo rifiutò di sottoscrivere la condanna dei tre capitoli e di riconoscere i canoni costantinopolitani, ma per sottolineare la sua indipendenza sia dal pontefice di Roma, sia da quello di Costantinopoli, si attribuì “motu proprio” il titolo di patriarca (18). Non di meno dopo la discesa dei Longobardi anche la provincia aquileiense si trovò in gravi difficoltà per cui il successore di Macedonio, Paolino I, si portò a Grado sulla laguna veneta che era rimasta in mano dei Bizantini, chiedendo la loro protezione senza tuttavia rinnegare la sua posizione scismatica. E così fu per i suoi successori Probino, Elia e Severo; ma alla morte di quest’ultimo nel 606, l’esarca di Ravenna Smaragdo (il quale già aveva avuto acuti contrasti con Severo) convocò tutti i vescovi delle diocesi dipendenti dal metropolita di Aquileia a Ravenna e impose come nuovo patriarca Candidiano, fedele a Roma e a Bisanzio. Una volta finito il sinodo però i vescovi le cui sedi si trovavano in territorio longobardo ritrattarono la precedente elezione e scelsero come metropolita un certo Giovanni, il quale riportò la sede patriarcale ad Aquileia, di modo che si ebbero due titolari che si contendevano la cattedra: uno scismatico tricapitolino e l’altro ortodosso (con sede a Grado).

Fu solo nel 698 che lo scisma tricapitolino ebbe fine: infatti in quell’anno il re dei Longobardi Cuniperto, dopo aver sconfitto nel 690, Alachi, duca di Trento, l’ultimo protettore delle fazioni ariana, tricapitolina e sciamanica della nazione longobarda, -che ormai si andava fondendo con quella italiana-, e nel 697 l’usurpatore e ribelle Ansfrido, convocò a Pavia un sinodo nel quale il patriarca di Aquileia Pietro si convinse a sottoscrivere la condanna dei “Tre Capitoli” e a riconoscere il II concilio di Costantinopoli, ferma restando la fedeltà ai canoni calcedoniani.

Mosaico pavimentale nella basilica di Aquileia.

Egli ebbe comunque confermato il titolo patriarcale, che d’altra parte veniva riconosciuto anche al patriarca di Grado. Per parte sua il papa Sergio I, quasi a voler concludere con un atto concreto la spinosa vicenda, comandò che gli scritti dei tre vescovi fossero dati alle fiamme, illuminando con i sinistri e corruschi bagliori dell’intolleranza dottrinale la ritrovata pace.

Uno strascico, o meglio una conseguenza durevole dello scisma, fu l’appartenenza della diocesi di Como alla provincia di Aquileia, che si protrasse fino al XVIII secolo -ovvero fin a quando nel 1751 il patriarcato di Aquileia fu soppresso ad opera di papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini)(19)-. I vescovi di tale diocesi furono infatti i più pervicaci nell’adesione allo scisma, tanto che nel 607 il vescovo Agrippino appena eletto si sottrasse all’ubbidienza del metropolita di Milano, -della cui provincia era parte, ma il cui titolare come abbiamo visto si era sottomesso al papa- per aggregarsi alla provincia aquileiana, dal cui patriarca si era fatto consacrare. Tale ostinazione era dovuta forse anche al fatto che un tale Abbondio, vescovo di Como -che nella memoria della diocesi godeva fama di santità e che fu poi proclamato patrono della diocesi-, nel 450 era stato inviato a Costantinopoli da papa Leone I, -detto “Magno”- (440-461)-, per sollecitare il patriarca Anatolio a sconfessare il II concilio di Efeso che aveva legittimato il monofisismo e proporre la convocazione di un nuovo concilio -che, come sappiamo, fu poi celebrato a Calcedonia, grazie al sostegno dell’imperatore Marciano (450-457) e della sua sposa Pulcheria-.

Un’altra conseguenza dello scisma, sebbene rientrato, fu il diffondersi della devozione e della dedicazione di luoghi di culto a S. Eufemia nei territori dipendenti da Aquileia o da essa influenzati: ella era infatti la patrona di Calcedonia e nella basilica a lei consacrata si era tenuto il concilio del 451 che era divenuto il punto di riferimento degli scismatici (per i quali ovviamente erano il papa e i bizantini in errore, poiché a loro dire avrebbero tradito o quanto meno travisato lo spirito del concilio stesso).

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) sul significato di “simbolo”, si veda quanto abbiamo detto nella nota n. 1 alla VI parte di “Enigmi, misteri e paradossi” del 6 febbraio 2017. Dal senso generale di “mettere insieme” (< “sin” = insieme + “ballein” = gettare), deriva in questo caso il significato di raccolta di proposizioni di contenuto dottrinale, proposte come articoli di fede.

2) dalla tradizione cattolica il testo del “Credo”, almeno nelle grandi linee, fu attribuito agli stessi apostoli e pertanto fu detto “Simbolo apostolico”; ma tale tradizione fu confutata da Lorenzo Valla che nel 1444 ebbe una polemica con il frate francescano Antonio da Bitonto il quale sosteneva che ciascuno degli apostoli avesse contribuito con un versetto alla stesura del “Creo”.

3) la causa  della destituzione fu l’aver Ignazio negato l’eucarestia a Bardas, zio materno di Michele III, a causa del suo comportamento immorale e peccaminoso, e in particolare per aver ripudiato la legittima consorte per convivere con la nuora.

4) di Fozio e della sua opera erudita, il “Myriobiblon”, -o “Bibliotheca”, -nella quale l’autore riassume il contento di 280 opera letterarie antiche, delle quali molte altrimenti sconosciute-, abbiamo detto più volte nelle nostre trattazioni.

5) la figura dello “Spirito Santo” è la più indeterminata e controversa della trinità cristiana. Spesso è stato identificato con la “Sapienza” (Sophia) di cui parlano alcuni libri della Bibbia -in particolare il libro omonimo e quello dei “Proverbi” in quest’ultimo libro invero il termine indica una saggezza applicata alle circostanze della vita terrena- (tra l’altro si tenga presente che il termine corrispondente a “spirito” in ebraico “ruah” è di genere femminile), e già nell'”Apologia ad Autolico” di Teofilo di Antiochia, in cui si trovano i primi accenni alla dottrina della trinità, questa appare costituita da Dio-Padre, Logos (Figlio) e Sophia. La “Sapienza” o “Sophia” è uno degli Eoni principali dei sistemi gnostici dove viene talora indicata con altri nomi; tuttavia in genere nella maggior parte delle scuole viene distinta dallo “Spirito Santo”, e talora appare sdoppiata in una “Sophia” superiore (Ennoia) e una inferiore, la quale ultima è designata a volte con altri nomi quali “Achamoth” (parola forse in relazione con Chokhmah, significante anch’esso “sapienza” in ebraico e col quale sarà designata la terza ipostasi dell'”Albero sefirotico” della Qabbalah, la dottrina mistica ebraica medioevale), Prùnikos, ecc. Quest’ultima è considerata la genitrice del Demiurgo, di Ialdabaoth e di altri arconti nei quali si identifica il dio ebraico, e la causa della caduta dello spirito nella materia, pur senza avere l’intenzione di compiere tale misfatto L’accentuazione del carattere femminile dello “Spirito Santo” ha portato a vedere in tale figura il perfetto corrispondente della “dea-madre” delle triadi divine composte da un Dio-Padre celeste, una Dea-Madre-Terra e un Dio-Figlio-giovane che sacrifica sé stesso, prima per la rinascita primaverile della natura e poi per donare la vita eterna agli uomini, che da lui traggono la scintilla divina, il seme spirituale facendo germogliare il quale possono acquistare la vera vita.

6) la popolazione dei Bulgari era una stirpe di origine uralo-altaica, la cui sede più antica si trovava con ogni probabilità in Asia centrale, nell’area del Pamir. Essi nei primi secoli dell’era volgare si spostarono verso occidente e nel 632 fondarono un regno detto della “Grande Bulgaria”, il cui sovrano era il khan Kubrat, che si estendeva dalla catena del Caucaso al fiume Don e alle coste del Mar d’Azov, che aveva come capitale l’antica città ellenica di Fanagoria nell Bosforo Cimmerio. Quando la “Grande Bulgaria” fu gradualmente sottomessa e annessa al regno dei Càzari, una parte di essi, sotto la guida di Asparukh, il figlio minore di Kubrat, si spostò ancora verso occidente e nel VII secolo oltrepassò il Danubio e, approfittando delle difficoltà dell’Impero Bizantino alle prese con l’espansione arabo-islamica, si insediò in Tracia e in Macedonia, dove, fondendosi con gli Avari e gli Slavi, che già vi si erano stabiliti in precedenza, diedero vita al primo “impero bulgaro” con capitale Preslav che fu riconosciuto dall’imperatore Costantino IV Pogonato nel 681. I rapporti tra il Regno Bulgaro e l’Impero Bizantino da allora furono improntati ad un alternarsi di sanguinosi conflitti e di instabili alleanze. Tuttavia sul piano religioso e culturale Bisanzio esercitò sempre una profonda influenza sullo stato e sul popolo bulgaro, -così come su buona parte della penisola balcanica-.

7) ne risultò dunque che l’ottavo concilio ecumenico valido e autentico per i cattolici è quello che si svolse nell’869, mentre per gli ortodossi è quello dell’879 (anzi per la maggior parte degli orientali non è da considerarsi “ecumenico” né l’uno, né l’altro, poiché in essi più che di definizioni dogmatiche si trattò di questioni personali, riguardanti soprattutto la posizione di Fozio ed essi classificano come ecumenici solo i primi sette). Si noti peraltro che gli abitanti cristiani dell’Impero d’Oriente continuarono sempre a chiamarsi e a definirsi “Romani” (“Pωμαιoι”), anche quando l’imperatore  Eraclio decise di adottare il greco, -parlato dalla popolazione della Grecia e dell’Anatolia centro-occidentale-, come lingua ufficiale dello stato e assunse il titolo di “Basileus” (in forma completa “pistòs en Christo basileus”, “imperatore fedele in Cristo”) al posto di “Autokrator” (termine con il quale in greco era reso il latino “Imperator”). “Rumelìa” (Terra dei “Romei”) era detta la parte della regione balcanica soggetta all’autorità di Bisanzio, e tale denominazione sopravvisse a lungo anche dopo la fine dell’Impero d’Oriente. Il termine “bizantino” invece entrò in uso nella storiografia e nella pubblicistica europee solo nel XVIII secolo.

8) Leone VI era stato accusato dal padre di tramare alle sue spalle e per tale ragione, nonché per l’infedeltà alla consorte Teòfano, fu torturato, dovette subire tre mesi di carcere e rischiò pure di essere condannato alla pena capitale. La seconda deposizione di Fozio fu probabilmente dovuta anche alla volontà del nuovo imperatore di intraprendere un riavvicinamento con Roma in un momento piuttosto critico per l’impero, stretto tra la minaccia dei Bulgari a nord, -e che miravano alla stessa Costantinopoli-  e quella degli Arabi a sud e a sud-ovest (ed infatti durante il regno di Leone VI essi riuscirono a conquistare la Sicilia).

9) per l’esattezza Nestorio aveva sviluppato le sua dottrina cristologica proprio partendo da quella di Teodoro di Mopsuestia, che era stato il suo maestro, ma accentuando la distinzione tra elemento divino ed elemento umano in Cristo che egli estendeva dalla “natura” alle “persona”, -ossia due nature e due persone-.

10) è probabile che la denominazione di “Tre Capitoli” con cui è passato alla storia questo scisma, si riferisca proprio ai tre anatemi contenuti nel decreto da Giustiniano, anche se poi in pratica venne ad indicare le parti delle opere dei tre teologi condannati e indirettamente le loro stesse persone.

11) in effetti è incerto se alcune delle dottrine attribuite ad Origene, in particolare la pre-esistenza delle anime e la metensomatosi, siano state davvero da lui sostenute o prese in esame in via ipotetica (anche perché molte delle sue opere sono state modificate, censurate, distrutte o comunque perdute). E’ certo però che la sua cristologia è subordinazionista (il Logos-figlio è subordinato all’Uno-padre) e duofisita, poiché il Cristo ha due nature, quella divina del Logos, e quella umana, che però non si fondono e rimangono distinte: in altre parole non vi è l'”unione ipostatica” e da questo punto di vista presenta analogie con il nestorianesimo. Altre tesi qualificanti del pensiero di Origene sono: il carattere intrinsecamente limitato e doloroso dell’universo che promana da Dio attraverso una serie di enti sempre meno spirituali (motivo neoplatonico); la degradazione delle creature che decadono sempre più rivestendosi di un corpo materiale più o meno greve e opaco; la salvezza che viene conseguita con l’illuminazione delle menti ad opera del Cristo che con la sua incarnazione conduce tutti gli esseri ragionevoli alla contemplazione e alla vera conoscenza (la “gnosi”), che non può essere disgiunta dall’ascesi mistica e dal distacco da tutti i desideri mondani; l'”apocatastasi universale”, la reintegrazione definitiva in Dio di tutti gli esseri, allorché Dio sarà tutto in tutti. Il pensiero di Origene aveva però largamente influenzato la teologia orientale, in particolare la scuola della Cappadocia, e soprattutto Gregorio di Nissa; e d’altra parte, pur dopo le condanne subite, alcune idee del maestro rimasero fondamentali nelle chiese orientali, specie l'”apocastasi” che è alla base della loro escatologia: infatti a differenza che in occidente l'”inferno” (o per meglio dire la “kòlasis”, la punizione) è temporanea e alla fine dei tempi il “regno di Dio” si estenderà a tutte le creature che ad esso pienamente parteciperanno.

12) questo ineguale atteggiamento era dovuto, oltre che alla differenza nelle condizioni politiche e nel contesto storico tra oriente e occidente, alla profonda diversità di spirito tra cristianesimo orientale e cristianesimo occidentale, che si era manifestata sin dai primissimi tempi: molto più mistico e contemplativo il primo, assai più volto al terreno (o “impegnato nel sociale”, come si direbbe oggi, il secondo). Per gli orientali “il regno di Dio non è di questo mondo”; il mondo e la società umana sono intrinsecamente e irrimediabilmente imperfetti; possono migliorare attraverso il perfezionamento morale e l’elevazione spirituale dei singoli individui, ma comunque non è questo lo scopo della vita terrena: essa è solo una preparazione alla vita eterna. Ed infatti la sola vera e autentica realizzazione dell’ideale spirituale cristiano è la vita del monaco, completamente distaccato dalle cosa del mondo (così che anche il laico dovrebbe essere quanto meno “monaco in spirito”); la spiritualità del cristianesimo orientale, pur nelle cospicue differenze dottrinali, si avvicina alle analoghe concezioni del manicheismo e delle religioni orientali come il giainismo e il buddismo (dove pure la via spirituale, la vera libertà si può trovare solo al di fuori del “mondo” e dei suoi falsi valori) . Per gli occidentali invece la chiesa può e deve occuparsi pure degli affari mondani, poiché farebbe parte della sua missione anche guidare gli uomini sulla terra, in quanto “animali sociali”, e cercare di realizzare la giustizia terrena (a modo suo naturalmente). Questo processo, -favorito anche da circostanze esteriori quali l’inserimento della gerarchia ecclesiastica nel sistema feudale-, portò dunque alla concentrazione di un forte potere politico ed economico nelle mani del clero; d’altro canto dal medesimo atteggiamento derivò la tendenza, manifestatasi a più riprese nella cristianità occidentale, a veicolare in movimenti religiosi istanze di riforma politica e sociale. Questo non significa ovviamente che in occidente sia mancata una grande tradizione mistica (basti pensare alla scuola tedesca del XIII-XIV -Eckhart, Tauler, Suso, ecc.-, che presenta significative analogie sia con la mistica bizantina coeva, sia con il neoplatonismo antico di Plotino e di Proclo, sia con il pensiero dell’estremo oriente indù e buddista), spesso guardata con sospetto, quando non condannata dalle chiese istituzionali; ma nell’insieme il cristianesimo occidentale nel suo volgersi in primo luogo alla morale sociale ha sempre giustificato dal punto di vista tanto teologico quanto giuridico il temporalismo ecclesiastico. In oriente invece, per quanto il clero non fosse certo insensibile al potere e alla ricchezza, la chiesa, -sia intesa come comunità dei credenti, sia nelle sue forme istituzionali e canoniche-, non mirò mai a rivestire una funzione politica in proprio, -tanto più che non vi furono mai quei “vuoti di potere” che in occidente la chiesa potè invece abilmente sfruttare-, ed in genere fu sempre sottomessa al potere politico (in particolare all’imperatore bizantino prima, e poi allo zar russo); -anche se i singoli prelati talora svolsero un’opera politica, specie di carattere patriottico-irredentistico (ad esempio durante la sollevazione dei Greci contro i Turchi; talora in Russia alla fine dell’800 alcuni pope sostennero le rivendicazioni del popolo per ottenere una qualche forma di giustizia sociale dal regime zarista; o in tempi più recenti basti pensare alla figura dell’arcivescovo cipriota Makarios)-.

13) in effetti Vigilio, -come abbiamo visto nella parte precedente-, era stato eletto papa nel 537, proprio con il favore dei Bizantini e in particolare di Teodora, alla quale egli, allorchè si trovava a Costantinopoli in qualità di “apocrisario”, -ovvero di ambasciatore del papa-, aveva fatto balenare la possibilità di poter riabilitare la dottrina monofisita qualora fosse stato eletto pontefice romano. Ma dopo l’elezione non mantenne fede alle promesse fatte a Teodora e così tradì anche lei, dopo aver tradito il suo predecessore Silverio, che per fare posto a lui era stato deposto e imprigionato.

14) dopo che ebbe accettato di aderire alle imposizioni dell’imperatore, a Vigilio fu concesso di tornare a Roma, ma morì sulla via del ritorno durante una sosta a Siracusa.

15) dopo l’invasione dei Longobardi Ravenna, che già era stata la capitale dell’Impero Romano d’Occidente dal 402 per decisione dell’imperatore Onorio, -trovandosi in una posizione meno esposta di Milano alle scorrerie del barbari-, assurse al rango di capitale bizantina in Italia e sede dell’Esarca, il più alto magistrato bizantino e rappresentante dell’Imperatore d’Oriente in Italia.

16) la diocesi ambrosiana durante questo periodo di esilio dei suoi presuli fu amministrata dal clero inferiore, al quale si aggiunsero poi anche dei missionari di provenienza orientale e in specie siriaca che avevano il compito di riportare il clero e il popolo sulla “retta via” del concilio costantinopolitano. E’ da rilevare che è proprio da questa circostanza, -ossia la riorganizzazione del clero ad opera di orientali-, che ebbe origine il “rito ambrosiano”, tuttora adottato, sebbene in forma temperata e avvicinata al rito romano- dalla diocesi milanese e che presenta elementi propri delle liturgie orientali (diversa disposizione delle parti della messa, recita del “kyrie” anche alla fine della celebrazione, inizio della quaresima la domenica e non il mercoledì, movimento anche circolare del turibolo nelle cerimonie solenni, ecc.). Dopo la conquista della Liguria da parte del re longobardo Rotari l’arcivescovo Giovanni Bono nel 649 rientrò in Milano riportandovi la sede episcopale.

17) dopo la fuga di Vigilio da Roma durante il lungo assedio dei Goti, che si protrasse per un anno, dal dicembre 545 al dicembre 546, Pelagio aveva svolto le funzioni di vicario del papa. In tale veste egli aveva cercato invano di risparmiare alla città il sacco che subì da parte delle truppe di Totila, allorché questo riuscì ad espugnare la città; era riuscito soltanto dopo lunghe trattative che fosse limitata la violenza fisica contro i cittadini. In seguito fu inviato dallo stesso Totila a Costantinopoli per negoziare le condizioni di pace; qui si trattenne alcuni anni dove partecipò al concilio del 553 sostenendo la dottrina calcedoniana delle due nature di Cristo.

18) il titolo di “patriarca” apparve nel I concilio di Nicea, dove fu attribuito ai vescovi di Roma, Antiochia e Alessandria, i cui primi titolari erano stati l’apostolo Pietro (vescovo prima di Antiochia e poi di Roma) e l’evangelista S. Marco. Nel primo concilio di Costantinopoli del 381 anche il titolare della sede bizantina fu designato come patriarca, e a partire del concilio di Calcedonia del 451 pure Gerusalemme diventò sede patriarcale. In tal modo si fissò la divisione territoriale della chiesa cristiana ortodossa in cinque patriarcati di cui quello di Alessandria aveva giurisdizione sull’Egitto, la Cirenaica e la Nubia; quello di Gerusalemme sulla Palestina e l’Arabia settentrionale; quello di Antiochia sulla Siria e la Mesopotamia; quello di Costantinopoli sull’Anatolia e parte della penisola balcanica; mentre dal papa di Roma dipendevano tutte le altre terre dell’Occidente. Nella concezione orientale dunque la chiesa universale avrebbe era costuita da cinque grandi entità territoriali-disciplinari in comunione tra di esse e che avrebbero dovuto agire di concerto, tanto nelle questioni dogmatiche-dottrinali, quanto in quelle terrene; in quella occidentale al contrario il patriarca di Roma, ovvero il papa, era, ed è, il capo assoluto della chiesa a cui devono obbedire tutti i presuli anche i patriarchi.

19) il territorio del patriarcato fu ripartito tra le arcidiocesi di Udine e di Gorizia, situate rispettivamente nella repubblica di Venezia e nei domini degli Absburgo, che avevano sollecitato il provvedimento papale.

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