LA FESTA DI HALLOWEEN E LA COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI -prima parte-

Siamo giunti ormai all’autunno, i  giorni si fanno vieppiù brevi e la Natura, sebbene stravolta dai deleteri effetti delle attività umane, sempre meno in armonia con essa, ci ricorda la ricorrente alternanza dei suoi cicli. Fin dall’antichità i mutamenti del tempo cosmico e gli eventi astronomici che lo scandiscono sono stati avvertiti e recepiti nel tempo umano, dando alle luogo a festività che riflettono le credenze religiose diverse, ma nella sostanza simili presso le varie popolazioni.

Negli ultimi anni anche nella nostra Italia è invalso l’uso di festeggiare “Halloween”, e dunque mi sembra opportuno dare qualche spiegazione sulla provenienza e il significato autentico di questa ricorrenza.

In effetti, se Halloween, nelle forme che ormai tutti ben conosciamo e che ci sono divenute in qualche modo familiari, è una festa di importazione (e peraltro di origine relativamente recente anche negli USA, poichè non risale a oltre la metà dell’800), essa deriva da antiche celebrazioni e riti nei quali si esprimeva un’idea pressochè universale: il ritorno dei defunti sulla terra in determinati periodi dell’anno, quando le forze cosmiche, nel loro ciclico mutamento, lo consentono.halloween

In particolare la festività della quale il moderno e consumistico Halloween si può ritenere la trasformazione e l’impoverimento, o se si vuole la banalizzazione e le degenerazione in pesudo-festa consumistica (al pari delle varie feste della mamma, del papà, della donna, di S. Valentino, ecc -le quali ultime però sono state inventate nel XX secolo e non si innestano in alcuna vera tradizione) è quella di SAMHAIN, il capodanno celtico (al quale abbiamo accennato in altri articoli). Durante questa ricorrenza, -la quale, come in tutte le civiltà, in cui il capodanno, in qualunque momento venga a cadere, segna l’inizio di un nuovo ciclo temporale, sia nella Natura sia nel mondo umano-, la porta dell’invisibile muro che separa il mondo dei vivi da quello dei morti (1) si spalanca e questi ultimi, insieme a varie entità demoniache, possono riversarsi in massa sulla terra per molestare o spaventare gli umani.

Questa festa, – una delle quattro principali del calendario celtico, anzi la più importante-, fu poi cristianizzata nell’835 da papa Gregorio IV con l’istituzione, o meglio lo spostamento in quella data, della ricorrenza di Tutti i Santi. Il motivo che indusse la chiesa romana a questa innovazione nel calendario liturgico fu il persistere della tradizione di Samhain, e di altre di origine “pagana”, celtica o germanica, nell’Europa centro-settentrionale (2) specie nelle aree di recente “conversione”, -più o meno forzata- al cristianesimo, continuando così quella che era ed è tuttora la politica della chiesa cattolica, vale a dire di “annettersi” in qualche modo le tradizioni pre- o extra-cristiane, quando non sia possibile sradicarle, cercando di stravolgerne il significato, adattandolo ad esprimere i contenuti che le sono propri. E’ probabile che l’introduzione di codesta festività sia avvenuta su richiesta o comunque per consolidare l’opera dei missionari nelle terre dell’Europa settentrionale, quali ad esempio Anscario, consacrato dal papa primo vescovo di Amburgo. La diffusione della “nuova” festività, che ne doveva sostituire due più antiche (la primitiva celebrazione dei santi cristiani e la festa “pagana” del capodanno celtico), fu poi favorita dall’imperatore Ludovico il Pio.

Secondo l’opinione prevalente, l’etimologia di “Samhain”, -che in questa forma è propria del gaelico e dell’antico irlandese-, sarebbe “fine dell’estate” (< “Sam”= estate + “Fuin”= fine), poiché tale data segna la fine dell’epoca dei raccolti, nonché dei sei mesi della luce, che costituiscono la seconda parte dell’anno celtico, per dare inizio ai sei mesi dell’oscurità, durante i quali le forze generative della Natura sono dormienti. Alcuni studiosi, come Whitley Stokes (1830-1909), profondo conoscitore delle tradizioni celtiche, ricollegano il nome Samhain ad un termine che significa “riunione,assemblea” connesso alla radice indoeuropea “s[e]m” (che indica l’unità e si ritrova anche nel latino “semel”), poiché in tale ricorrenza si sarebbero tenute importanti riunioni di capi e di druidi; tale spiegazione del nome sembra in effetti avere maggiore fondamento della precedente, poiché in Europa e nelle isole britanniche in particolare, com’è risaputo, l’estate finisce ben prima dell’arrivo del mese di novembre (3). D’altra parte si potrebbe interpretare la “fine dell’estate”, non come fine della stagione calda (che nelle terre nordiche è senza dubbio breve), ma come fine del periodo dell’anno in cui concentra la maggior parte dei lavori agricoli, al quale segue un lungo periodo di quiescenza.

Un frammento bronzeo del "Calendario di Coligny".
Un frammento bronzeo del “Calendario di Coligny”.

Nel “Calendario di Coligny”, l’unico calendario gallico finora noto, il primo mese dell’anno, corrispondente all’incirca a novembre è riportato con il nome di “Samonios”. Questo calendario è costituito da due tavole di bronzo risalenti al II secolo (quando ormai la civiltà celtica in Gallia era quasi definitivamente tramontata) che nel novembre del 1897 furono rinvenute mutile e frantumate in 173 frammenti in un pozzo nei pressi nella cittadina di Coligny, non lungi da Lione. I frammenti furono poi ricomposti nel Museo Gallo-Romano di Lione ove è tuttora conservata; tuttavia il restauro delle preziose tavole fu completato solo nel 1960, e dunque è soltanto da allora che sono stati compiuti studi approfonditi per comprendere i principi ispiratori di questo calendario che mostra una notevole complessità. In esso i nomi dei mesi sono latinizzati, ma lasciano comunque intendere quale fosse la forma originaria. Accanto ai frammenti fu ritrovata anche una statua bronzea di Marte di pregevole fattura, probabile copia di originale greco, alta 1,74 m. Si suppone che le tavole siano state compilate per tramandare il calendario degli antichi culti religiosi, nonché le profonde conoscenze astronomiche dei Druidi, e poi intenzionalmente distrutte dai cristiani a causa del loro carattere “pagano”.

Questo calendario, come abbiamo detto assai complesso, contiene la rappresentazione di una sequenza di 5 anni lunari, ciascuno composto di 12 mesi, la cui durata è di 30 e 29 giorni (alternati gli uni agli altri), più due mesi intercalari per armonizzare il ciclo delle lunazioni con il ciclo solare. I mesi di 30 giorni sono classificati come MAT(U), “fortunato”, quelli di 29 sono definiti ANMAT(U) (o AMBILIS) “infausto”.

Il calendario celtico, -come la quasi totalità dei calendari antichi-, era “luni-solare”, ossia combinava il ciclo lunare, rappresentato dal mese (come già abbiamo avuto modo di dire in altri articoli, il latino “mensis” significava in origine lunazione), con quello solare, rappresentato dall’anno tropico: dunque i mesi corrispondevano alle lunazioni, ma queste, – a differenza di quanto avviene nei calendari lunari (come quello islamico), nei quali l’anno è costituito da dodici lunazioni senza alcun rapporto con il ciclo solare- sono agganciate al cammino solare. Infatti l’anno inizia con la prima Luna nuova, -il più delle volte (come nei calendari babilonese, ebraico e attico)-, oppure con la prima Luna piena (come nel caso dell’anno celtico) successiva a un determinato punto astronomico (in genere un solstizio o un equinozio, oppure la levata eliaca di una stella di particolare luminosità): per questa ragione gli anni lunisolari possono talora durare tredici mesi anziché dodici; in tal caso l’anno viene detto “embolismico”.

Il “Calendario di Coligny” -l’unico calendario celtico pervenuto- al 17° giorno di Samonios riporta l’indicazione “Trinox Samo Sindiu” (“da questo giorno [la celebrazione del]le tre notti di Samonios”): da quanto abbiamo detto sul carattere lunisolare di codesto calendario si può arguire che la data di inizio di tale festa era mobile a seconda degli anni, essendo dipendente dalle lunazioni. Pertanto dobbiamo arguire che la data del primo novembre debba ritenersi un posteriore adattamento al calendario giuliano.

I rituali, le celebrazioni e le feste durante il capodanno celtico si protraevano dunque per tre giorni (come la maggior parte delle feste nel mondo greco-romano e antico in genere) ed erano caratterizzati soprattutto dall’accensione di grandi falò che rischiarassero le tenebre notturne e scacciassero gli spiriti maligni. Talora si facevano anche rotolare dalla cima delle colline delle balle di rami e sterpi secchi infuocati, usanza  nella quale è da vedere secondo alcuni un rito di rigenerazione del Sole, con il quale si intendeva “aiutare” l’astro vivificatore per eccellenza a ritrovare forza e vincere le tenebre. E’ inoltre probabile, sulla scorta di usanze attestate in età più recenti, che già allora fosse costume portare a casa propria alcuni tizzoni ardenti tolti da quei grandi fuochi e riaccendere con essi il focolare domestico, affinché ciascun nucleo familiare potesse partecipare del rinnovamento cosmico significato dai riti pubblici di Samhain. In questi riti legati al fuoco è forse da vedere il lontano antecedente dei lumi posti entro zucche scavate e intagliate (ma in origine rape) che sono divenuti l’emblema stesso della festa di Halloween.

Peraltro l’accensione di grandi fuochi era una consuetudine che caratterizzava le festività celtiche, in particolare, oltre che Samhain, la celebrazione omologa di Beltane, nel cuore del segno del Toro, che segnava l’inizio del semestre di luce.

Come nelle tradizioni proprie del capodanno in molti paesi, in questi giorni fervevano le pratiche divinatorie, di cui sono rimaste come pallido riflesso alcune usanze tuttora in auge (o che almeno lo erano fino a tempi relativamente recenti) come ad esempio quello di sbucciare una mela e dalla lunghezza del nastro di buccia che il consultante riusciva a tagliare con un taglio continuo si traeva il presagio sul quesito che ovviamente era tanto più favorevole quanto più lungo era il nastro. Un altro presagio che si poteva trarre dalla buccia della mela era questo: se una fanciulla voleva conoscere l’iniziale del nome del futuro marito gettava alle sue spalle una buccia di mela tagliata a nastro come detto prima: nella disposizione assunta dalla buccia una volta caduta a terra si sarebbe potuto scorgere la lettera cercata (inutile dire che per ottenere l’informazione richiesta in questo genere di divinazione -come peraltro in molti altri- occorre una buona dose di immaginazione).

La prima festa dedicata a “tutti i Santi” nella Chiesa Romana ricorreva il 13 maggio, e fu istituita allorchè nel 610 papa Bonifacio IV riconsacrò il Pantheon come basilica cristiana con il nome di “Santa Maria ad Martyres” facendovi trasportare una enorme quantità -secondo la tradizione ventotto carrettate- di ossa e reliquie, trasformando così il luogo di culto di tutti gli dei dell’antica religione romana in un sacrario di tutti i santi di quella cristiana (4). La data del 13 maggio (“dies tertius ante Idus Maias”) era stata scelta anch’essa con lo scopo di cancellare, cristianizzandola, una precedente festa della tradizione religiosa romana, le “LEMURIE”. Esse, come quasi tutte le festività greche e romane, duravano per più giorni, durante i quali si celebravano riti diversi; per la precisione le “Lemurie” venivano celebrate il 9, 11 e 13 maggio, ma il terzo di tali giorni, quello conclusivo era il più solenne e dunque a quello si volle sovrapporre la commemorazione liturgica cristiana.

In seguito alla celebrazione liturgica di tutti i “santi” (non solo di quelli ufficialmente canonizzati, -e che si suppongono dunque rifulgenti nella gloria del paradiso-, ma di tutti gli “eletti” che si trovino nelle beate sedi) si affiancò la “Commemorazione di tutti i fedeli defunti” -cioè anche di coloro che attendono nel purgatorio la completa redenzione dalle loro colpe-. Tale commemorazione, che per molti aspetti si può considerare uno sdoppiamento e un ampliamento della festività di tutti i santi, sembra sia iniziata nel 998, allorché l’abate Odilone di Cluny stabilì la celebrazione liturgica annuale “Pro omnium defunctorum” nel giorno successivo a quella per i santi, ovvero il 2 novembre.

Tale celebrazione si estese poi gradualmente a tutta la chiesa latina e alla metà del XIV secolo fu accolta nel XIV° degli “Ordines Romani” (detto anche “Ordinarium”), anche se non fu mai considerata festa di precetto. Nelle Chiese Orientali è uso celebrare una liturgia per tutti defunti morti in grazia di Dio nel sabato precedente la Sessagesima, la domenica due settimane prima l’inizio della quaresima. Nella data di tale celebrazione, peraltro di secondaria importanza, ovviamente mobile come la Pasqua, dalla quale dipende, ma che cade comunque sul finire dell’inverno, è forse da vedere un riflesso delle antiche feste “Antesterie”, uno dei più importanti cicli festivi dell’antica Grecia, -delle quali riparleremo in seguito-.

La celebrazione della festività di tutti i santi presso le Chiese Orientali fin dal V secolo ha invece luogo nella domenica seguente la Pentecoste. Si tega presenta che l’anno liturgico delle Chiese orientali dal 462 coincide con l’anno civile bizantino: inizia il primo settembre e termina il 31 agosto. La maggior parte di queste chiese segue tuttora il calendario giuliano ed è quindi sfalsata rispetto a quello gregoriano di 13 giorni (in meno rispetto ad esso)- ad es., il 12 ottobre corrisponde al 29 settembre-: per tale ragione le date delle festività liturgiche nelle chiese orientali e in quella latina non coincidono mai.

In effetti però il termine “Halloween” è di origine prettamente cristiana e sembra risalga al 1745 circa quando appare impiegato in alcune contrade scozzesi; esso è la contrazione di “All Hallow Eve” (“Sera -o Vigilia- di tutti i Santi”), espressione attestata già nel 1556 in Inghilterra; “hallow” è un termine dell’antico inglese significante “santo”, “sacro” che fu poi adattato per designare i “santi” cristiani.

Come abbiamo accennato sopra, anche nel mondo romano ed ellenico antico si trovano diversi riti e celebrazioni con i quali si intendevano onorare i defunti e gli dei inferi, e nello stesso tempo placare il loro eventuale risentimento verso i vivi e scongiurare l’azione malefica che avrebbero potuto esercitare nei loro confronti.

Tra le ricorrenze legate ai defunti e la mondo infero presso i Romani ricordiamo innanzitutto il MUNDUS PATET (“Si apre il Mundus”), uno dei riti più arcaici e misteriosi dell’antica Roma, di sicura derivazione etrusca. Il “Mundus” era una fossa di forma circolare, una specie di pozzo, sacro alle divinità infere, -in particolare a Dis Pater (il dio romano equivalente a Plutone) e a Proserpina-, che veniva sempre scavato in tutte le città di fondazione o rifondazione romana e che metteva in comunicazione il mondo ipoctonio con quello terrestre. Esso era normalmente chiuso da una grossa pietra, -detta “Lapis Manalis”-, ma veniva aperto tre volte all’anno: il 24 agosto (“dies IX ante Kalendas Septembres”), il 5 ottobre (“dies III ante Nonas Octobres”) e l’8 novembre (“dies VIII ante Idus Novembres”). In questi giorni, che erano classificati tra i “dies religiosi”, cioè tra quelli infausti e non favorevoli per matrimoni, partenze, per dare inizio a qualsivoglia impresa, ecc., veniva celebrato un sacrificio alle divinità infere con valore espiatorio e purificatorio, ma pure per propiziare il rinnovamento delle forze cosmiche.

Plutarco (Vite Parallele, Romolo, 11) afferma che fu Romolo a scavare il “mundus”. Quando stava completando la fondazione della nuova città, egli fece venire dall’Etruria alcuni dotti affinché redigessero i testi giuridici e religiosi con i quali dare un assetto civile alla futura Roma. Indi prese a scavare una fossa rotonda nelle quale furono deposte le offerte delle messi e dei frutti delle coltivazioni, insieme a manciate di terra che ciascuno di coloro che si apprestavano ad abitare la sua città avevano portato dal loro paese d’origine. Partendo dal “mundus” Romolo segnò con l’aratro il limite che circondava la città, sul quale sorsero le prime mura (il “Pomerium”), ritenute sacre. Plutarco precisa che il fondatore di Roma sollevava il vomere e interrompeva il solco nei punti ove avrebbero dovuto sorgere le porte della città, di modo che quegli spazi non fossero sacri e avessero così potuto far transitare cose indispensabili alla vita quotidiana, ma ritenute impure (5)(6).

Più simili all’odierna Commemorazione dei Defunti erano le feste PARENTALIA, dedicate ai “parentes”, gli antenati, dal 13 al 21 febbraio, durante le quali si effettuavano visite e offerte alle tombe dei propri familiari e si invocavano i Mani;Pompei_Casa_Giulio_Polibio_Lararium oltre il culto privato, si provvedeva da parte della autorità ad onorare i defunti, in particolare quelli caduti in difesa della patria, con una cerimonia pubblica che comprendeva un’offerta presentata dalle Vestali a Tarpeia, una delle divinità funerarie romane. “Feralia” veniva chiamato il giorno conclusivo del ciclo commemorativo (dies IX ante Kalendas Martias) che era il più solenne, nel quale si tenevano conviti familiari ed i templi erano chiusi (7). L’aggettivo “feralis” deriva da “fero, -ferre” (portare) e fu quindi attribuito a questa festività poiché in essa si recavano offerte sui sepolcri dei propri congiunti defunti. Secondo Ovidio, -il quale nei “Fasti” espose una vasta dissertazione sulle credenze, i riti e le tradizioni del popolo romano-, per accontentare i Mani (poiché “non avidos Styx habet ima deos” : “il profondo Stige non ospita dei avidi”, II, 536) era sufficiente una tegola di coccio sulla quale erano deposte corone di lauro, chicchi di grano, un pizzico di sale, pane imbevuto di vino puro e alcune violette sparse: insomma umili offerte bastavano per onorare i defunti, forse in memoria del tempo in cui tra i Romani vigevano austeri costumi.

Altre importanti celebrazioni funerarie erano le LEMURIA, già ricordate; in esse si celebravano riti e sacrifici per placare i “Lemures”, gli spiriti di coloro i quali, o perché periti di morte violenta, o perché avevano subito gravi ingiustizie in vita, o per altre ragioni, erravano senza pace negli intermondi  e potevano apparire come spettri per tormentare i vivi (8). Il rito principale era compiuto dal “pater familias”, il quale postosi allo scoccare della mezzanotte davanti al larario domestico lanciava una manciata di fave scure in numero pari a quello dei membri della propria famiglia dietro le sue spalle per nove volte invocando gli spiriti di stare lontano dalla sua famiglia e dalla sua casa, con la formula rituale : “Manes exite paterni!”.

Secondo lo storico greco Diodoro Siculo ( Bibliotheca Historica, VIII, 6, 2) le “Lemuria” sarebbero state istituite da Romolo per onorare la memoria di Remo. Nella versione riportata da Diodoro Remo non sarebbe stato ucciso dal fratello, -come vuole la più comune tradizione accreditata da Tito Livio-, ma da Celere, uno dei compagni di Romolo.

E’ noto lo stretto legame che nel mondo antico e in particolare in quello greco-romano esisteva tra le fave (Vicia faba, pianta appartenente alla famiglia delle Papilionacee, come quasi tutti i legumi) e il mondo dei morti, e dunque il valore e il simbolismo ambivalente ad esse attribuito, ed il divieto di cibarsi di esse, o anche solo di toccarle che possiamo riscontrare presso diverse scuole mistico-filosofiche, in primis gli Orfici e i Pitagorici.seminare-le-fave

Sembra che la prima attestazione di tale divieto risalga al mondo egizio, almeno secondo la concorde testimonianza degli autori antichi (Erodoto,  Storie, II, 37: Diodoro Siculo, B. H., I, 89; Porfirio di Tiro, “De abstinentia”, II, 25), i quali affermano che soprattutto i sacerdoti aborrivano questo legume, considerandolo impuro, e che in Egitto non veniva coltivato. Peraltro le testimonianze archeologiche ed epigrafiche sono discordanti con queste notizie, poiché in alcune tombe sono state ritrovate come offerta funeraria e vengono menzionate in papiri secondo i quali venivano donate al dio Nilo.

Anche agli adepti dei Misteri Eleusini era raccomandato di astenersi delle fave, mentre nei precetti attribuiti ad Orfeo si sostiene che cibarsi di fave sia la stessa cosa che addentare la testa dei propri genitori. Ed in effetti tra le possibili spiegazioni di questo tabù è che la fava sia ritenuta una sorta di embrione umano: Porfirio di Tiro (Vita di Pitagora, 44) narra di una meravigliosa metamorfosi: una volta fu deposto sotto terra un vaso che conteneva una fava; dopo 90 giorni fu dissotterrato e vi si trovò la testa di un bambino perfettamente formata. Nella cosmogonia orfica la fava nasce come l’uomo e con l’uomo dalla putrefazione: essa è dunque simbolo di vita e di morte, è simile alla natura dell’universo. Pertanto la proibizione del consumo di fave riflette la stessa idea e concezione che aveva pure ispirato nella dottrina di Pitagora l’astensione dalle uova, anch’esse simbolo della generazione e dell’Universo. Nella scuola pitagorica si doveva praticare un rigoroso vegetarianesimo, ma, pur essendo le fave vegetali, esse, e in minor misura altri legumi, come i lupini erano in qualche modo assimilate agli alimenti di origine animale.

Per Aristotele, -secondo quanto è riferito da Diogene Laerzio VIII, 34-, avendo la pianta della fava un gambo privo di nodi essa sarebbe simbolo della comunicazione tra l’Ade e il mondo superno: rappresenta le “porte degli Inferi”, la scala per le anime degli eletti allorché risalgono alla luce dalle dimore di Ade. Il gambo cavo delle fave sarebbe lo strumento della metensomatosi e del ciclo delle rinascite. E pure gli scoliasti di Omero, ad esempio Eustazio di Tessalonica (Ad Iliadem, V, 589), osservano che i sacerdoti evitavano le fave scure perché esse erano il simbolo dell’ascesa delle anime purificate dal mondo infero alle dimore spirituali. Si tramanda che lo stesso Pitagora sarebbe morto pur di non infrangere il divieto: essendo la sua casa assediata dai Crotoniati che temevano volesse assumere il potere nelle città, egli preferì essere raggiunto e catturato dagli inseguitori piuttosto che attraversare un campo di fave -almeno questo è quanto narra Diogene Laerzio (VIII, 45)-.

Alcuni però ritengono che la causa del tabu sia un’altra, ovverosia che la fave avrebbero un effetto eccitante che distoglierebbe dalla meditazione e allontanerebbe dalla ricerca interiore. Non solo, ma poiché il termine greco “κυαμoς” che indica la fava, in senso metaforico poteva designare anche gli attributi sessuali, il divieto di cibarsi di fave vorrebbe in realtà significare l’astensione dai piaceri venerei -come sostiene ad esempio Aulo Gellio (in “Noctes Atticae”, IV, 11)-. Ed in effetti a mio modesto avviso è senza dubbio questo l’autentico significato dell’interdizione pitagorica.

In conclusione possiamo affermare che la fava aveva un significato simbolico complesso e ambivalente, come è ambivalente la Terra, alla quale è intimamente legata: accogliente grembo materno che custodisce il riposo dei semi preparantisi alla schiusa, così come il sonno dei defunti, benefica donatrice delle messi; ma pure luogo delle ombre, matrice degli incubi, degli spettri e delle illusioni funeste che travìano gli spiriti.

Presso i Greci erano dedicate ai defunti le feste GENESIE (τα Γενεσiα) che si svolgevano il 5 di Boedromione, mese corrispondente all’incirca ad agosto-settembre (come abbiamo detto sopra anche il calendario, -o meglio, i calendari-, greci,- poiché ve ne era più di uno, anche se ora prenderemo in considerazione solo quello attico che era il più diffuso- era lunisolare e dunque ogni anno i mesi cambiavano la loro posizione rispetto all’anno tropico), simili alle Parentalia romane; tuttavia non si conosce molto su di esse. In origine tuttavia dovevano essere l’anniversario della dipartita del genitore (γενετωρ), come si evince anche dal nome stesso (connesso con γιγνομαι).

Si ha notizia anche di feste “Nekysia” in onore dei defunti; ma si suppone, in base alla testimonianza di vari autori e in particolare di Esichio di Alessandria, -importante lessicografo del V secolo-, che “Genesia” e “Nekysia” fossero nomi che designavano la medesima celebrazione religiosa. Erodoto accenna a tali feste (Storie, IV, 26) come a una ricorrenza di carattere strettamente familiare. Solone però ad Atene la trasformò in una festività pubblica (‘Εoρτη’ δεμoτλης). Durante tale ricorrenza si celebravano sacrifici a Gaia, la Madre Terra, che riaccoglieva nel suo grembo tutti gli esseri dopo la loro dipartita; ai defunti venivano offerti i prodotti migliori dei campi e si effettuavano copiose libagioni in loro onore; li si chiamava tre volte per nome e li si pregava di ricambiare con una sorte favorevole gli offerenti.

Era inoltre consacrato al culto dei morti il terzo giorno delle ANTESTERIE: queste feste, tra le principali del calendario attico, venivano celebrate l’11, il 12 e il 13 del mese di Anthesterion (all’incirca febbraio) in onore di Dioniso. Nell’ultima di queste giornate però  (forse anche per il legame di Dioniso, morto e risorto, con l’al di là), si ricordavano soprattutto i defunti, che in quell’occasione tornavano a far visita ai vivi, e si celebrava un sacrificio ad Hermes Psicopompo (appellativo che significa “guida delle anime” -ovviamente nel regno degli Inferi-).Questa solennità era chiamata “giorno delle pentole” o “le pentole” (οι Χυτροι): le pentole di terracotta, simili alle olle romane, venivano riempite di una zuppa di cereali e legumi ed offerte ai defunti (ma consumate dai celebranti), anche per propiziare la fertilità della terra, dato lo stretto legame tra il mondo infero collocato nelle viscere delle Terra e la Terra madre delle messi.

CONTINUA NELLA  SECONDA PARTE

Note

1) o per meglio dire di coloro che pure avendo perso l’involucro del corpo fisico non sono purificati e liberati dalle tenebre del mondo materiale e non possono accedere alle eteree regioni dello spirito.

2) come abbiamo già detto nell’articolo sulla lepre della regina Budicca, in alcune aree (come Germania occidentale e isole britanniche) si era avuta una commistione e una fusione tra le credenze e soprattutto i riti e il calendario celtici (le cui principali celebrazioni cadevano nel mezzo delle varie stagioni) e quelli germanici (nei quali erano solennizzati soprattutto gli equinozi e i solstizi).

3) la “fine dell’estate” nelle isole britanniche e per le popolazioni celtiche del centro-nord Europa dovrebbe essere stata segnata dalla celebrazione del “Lughnasadh”, la festa del primo agosto che in quelle contrade  coincide con la fine del tempo dei raccolti. “Lughnasadh” significa il “convito di Lugh”, una delle principali divinità celtiche, una delle poche che godeva di culto presso tutte le tribù nelle vaste aree europee ove le popolazioni di tale ceppo si erano insediate. Lugh (detto anche Lugos, Lukh, Llew a seconda dei luoghi) era un dio della luce solare, -come mostra il suo stesso nome derivante dalla radice indoeuropea da cui derivarono il greco λευκος = “bianco” e il latino “lux”- la cui importanza è attestata dai molti toponimi che ricordano il suo nome, come ad esempio Lugdunum (l’attuale Lione; ma esistevano altri centri meno rilevanti con il medesimo nome) e la città spagnola di Lugo (la cittadina di Lugo di Romagna ha invece un’altra etimologia, essendo il suo nome derivato da “Lucus Dianae”; “lucus” era il termine che indicava il bosco sacro a una divinità,- il più delle volte Diana, o altro nume silvestre-, peraltro “lucus” deriva da “lux”, -poiché designava in origine una radura illuminata in mezzo alla selva, passando poi per sineddoche a indicare tutto il bosco- e quindi si riconnette alla medesima radice indoeuropea di Lugh).

Si confronti anche il nome greco dell’autunno Φθυνòπορων = [tempo]che finisce -o consuma- l’estate. In origine infatti le stagioni per gli Elleni erano solo tre, come è attestato in Omero: la primavera (“Εαρ”), la stagione dei frutti -o dei raccolti- (“Οπωρα”, -o “Oπωρη”-) e l’inverno (“Xειμων”). Poi la stagione dei frutti fu divisa in due parti: la prima dal sorgere eliaco della stella Sirio -α Canis Maioris (chiamata dai latini “Canicula”), che in Grecia intorno all’800 a.C. avveniva il 12 luglio- all’apparire di Arturo  (α Bootis) – circa il 22 settembre-, il periodo del calore torrido (“Θερος”) e quello autunnale (“Θθυνοπωρoν” < “φθειρω” + “οπωρα”).

4) un altro cospicuo “rifornimento” alla chiese romane di reliquie e di ossa di martiri, -o presunti tali-, riesumati dalle catacombe e dai cimiteri paleocristiani, fu promosso da papa Pasquale I (817-824).

5) già in precedenza Romolo aveva tracciato sul colle Palatino il solco che delimitava la cosiddetta “Roma Quadrata”, la parte più antica della città (mentre Remo aveva scelto l’Aventino). Dopo la disputa sul chi di loro dovese avere l’onore di fondare la città e l’uccisione di Remo, avvennero i fatti testè narrati.

6) Tito Livio (In “Ab Urbe Condita”, I, 8) parla dell’invito rivolto agli esperti etruschi, dai quali furono introdotti anche le insegne dell’autorità in Roma -quali la “sella curulis”, la “toga praetexta”, i fasci littori, ecc.- ma non accenna all’apertura del “mundus”.

7) Ovido, -in “Fasti”, II, 34- chiama “dies ferales” l’insieme dei giorni in cui si celebravano le “Parentalia”.

8) al di fuori di coloro i quali avendo condotto un’esistenza pura ed onesta si erano conquistati nei Campi Elisi, – e la cui anima, specialmente dopo l’affermarsi delle religioni salvifiche, liberati dai vincoli corporali poteva tornare nell’empireo-, gli spiriti dei defunti nel mondo romano si possono classificare in tre categorie: i “Manes”, coloro che – pur non essendo ben chiara la loro sorte ultraterrena-, erano considerati benevoli e protettori, quanto meno nei confronti delle loro famiglie; i “Lemures”, i quali, sebbene inquieti e in qualche modo risentiti verso il mondo dei vivi, per aver subito ingiustizie o perché ancora troppo legati alle cose terrene (questi erano in soprattutto i morti per causa violenta), non erano considerati del tutto avversi; le “Larvae”, che erano i veri propri spettri, le anime dei malvagi, che erano assolutamente ostili ai viventi e che oltre che suscitare spavento e terrore, potevano provocare veri e propri danni.

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