L’ARABA FENICE (quarta parte)

Prima di proseguire nella nostra esposizione notiamo che in greco il termine “Phoinix”, oltre ad essere il nome proprio dell’uccello del quale stiamo trattando, ha diversi altri significati: 1) la porpora e la stoffa dipinta di rosso porpora; 2) la regione principale luogo di produzione di tali stoffe e il popolo della Siria-Palestina che abitava tale regione; 3) la palma da datteri (e talora anche i frutti stessi); 4) uno strumento musicale a corde, chiamato anche “cetra punica”; inoltre è il nome proprio di almeno due personaggi mitologici, tra i quali uno dei figli di Agenore, re di Tiro, e di Telefassa. Egli, come i suoi fratelli, era partito dal regno paterno alla ricerca della sorella Europa, che era stata rapita da Zeus, -il quale aveva assunto all’uopo le sembianze di candido toro-, e trasportata a Creta, dove divenne madre di Minosse. Nessuno dei fratelli riuscì a ritrovare Europa, ma tutti si stabilirono nei luoghi dove le loro ricerche li avevano condotti, fondandovi regni più o meno gloriosi, ai quali diedero talvolta il loro nome. Fenice dopo aver vagato lungamente, si insediò in quella parte della Palestina (1) che da lui prese il nome di Fenicia.

In realtà però è molto più probabile che sia il personaggio mitologico ad aver tratto il nome da quello del territorio che i Greci avevano chiamato Fenicia, dal colore della porpora -e che peraltro era un calco del semitico “Kanaan” derivato a sua volta dall’accadico “Kinahhu”, che indicava a sua volta il colore rosso della porpora, ovvero del prodotto che era strettamente associato agli abitanti della regione che ne avevano fatto la loro principale attività economica (si veda al riguardo quanto abbiamo detto nella prima parte della trattazione sugli Hyksos)-.

L’altro personaggio mitologico che portava il nome di Fenice è un figlio di Amintore, maestro di eloquenza ed esperto nell’arte militare, che fu uno degli educatori del giovane Eracle. Insieme ad Achille, che era stata anch’egli da lui ammaestrato, partecipò all’assedio di Troia. Si ritiene che i questo caso il nome alluda ad una caratteristica fisica, e cioè al colorito rossastro.

Il significato fondamentale però al quale tutti gli altri sono in vario modo riconducibili è quello di rosso sangue, derivato dall’aggettivo “phoinòs”. Per quanto riguarda la palma, il passaggio semantico dovrebbe essere avvenuto partendo da ornamenti a forma di palma, in uso nel mondo greco fin dall’età micenea, eseguiti con fili di porpora o comunque con colorazione scarlatta, e che fu poi attribuito alle piante dalle quali tali decorazioni erano ispirate. Tuttora il nome scientifico della palma da datteri è “Phoenix dactylifera”, anche la palma ornamentale più diffusa nelle regioni mediterranee appartiene al genere “Phoenix” (“Phoenix canariensis”). Abbiamo visto tra l’altro che per Ovidio la Fenice costruisce il suo nido proprio sulla sommità di una palma ed è probabile che egli nell’omofonia del nome del volatile e di quello della pianta abbia visto una sorte di arcano e fatale legame sulla base del principio per cui “nomen est numen”. Anzi nel poemetto che abbiamo già citato di Lattanzio, -De Ave Phoenice-, che esamineremo in modo più approfondito nel seguito della nostra trattazione, si afferma espressamente (v. 71)  che la palma avrebbe preso il nome “Phoenix” proprio dall’uccello che alla sua sommità costruisce il proprio nido.

Per inciso osserviamo che in una delle iscrizioni sull’obelisco egizio che si trova attualmente in piazza del Popolo a Roma, uno dei due che furono fatti trasportare nell’Urbe da Augusto nel 10 d. C., -l’altro è quello che si trova ora nella Piazza di Montecitorio-, proprio dalla sacra città di Eliopoli, dove era stato eretto da Ramses II, si trova citato il tempio di Bennu (o di Bojnew) che l’erudito egiziano Ermapione tradusse in greco come “Tempio della Fenice” (“naos tou Phoinikos”), -secondo quanto è riportato dallo storico del IV secolo Ammiano Marcellino ( Rerum Gestarum libri, XVII, 4)-. E’ ben strano che il famoso archeologo ed ellenista Antonio Nibby (1792-1839), nella sua opera “Descrizione di Roma nell’anno 1838” abbia reso tale espressione con “tempio della palma”! Questo particolare tuttavia dimostra come le palme, l’incenso e la mirra si intreccino spesso nella storia della Fenice.

L'obelisco Flaminio in piazza del Popolo a Roma.
L’obelisco Flaminio in piazza del Popolo a Roma.

Il nome dello strumento musicale deriva invece dalla sua probabile provenienza.

Anche Pomponio Mela, geografo vissuto nel I secolo, riporta nella sua opera “Chorographia” (o “De situ orbis”) (III. 83-84) un breve descrizione della Fenice e delle sue inusuali qualità, ma senza distaccarsi nella sostanza da quanto dicono Ovidio e Plinio (oltre a diversi autori  -Marziale, Stazio, Luciano di Samosata, ecc.- che accennano al mito della Fenice nelle loro opere senza trattarne diffusamente): durata della vita di 500 anni, costruzione di un nido olezzante di aromi, nascita dalle spoglie della precedente Fenice; volo nella città di Heliopoli, dove trasporta il corpo del genitore sull’ara del tempio del Sole ed ivi ne celebra il rituale funebre con la cremazione delle spoglie (da questo particolare può essere derivato il successivo sviluppo del mito in cui la Fenice arde sé stessa su una di fragranti aromi). L’autore sembra però riaccostarsi alla versione di Erodoto, poiché afferma che la traslazione del corpo avviene in un involucro di mirra.

Lo storico Tacito invece in un famoso passo degli “Annales” (VI, 28, 1-6) riferisce di un’apparizione della Fenice in Egitto che, data la prossimità temporale con quella di cui parla Plinio, -poiché è di essa precedente di due anni, come si può dedurre dai consoli in carica (2)-, è senza dubbio da identificare con essa. La discordanza può derivare dalle fonte sulle quali si documentarono i due autori; peraltro, essendo Plinio contemporaneo del fatto, la sua testimonianza (sebbene non diretta) è da ritenere più attendibile. Ma leggiamo quanto dice il celebre storico romano: “Durante il consolato di Paolo Fabio Persico e di Lucio Vitellio [34], dopo un lungo volgere di secoli, tornò in Egitto la Fenice offrendo agli eruditi egiziani e greci copiosa materia di dotte dissertazioni su quell’evento prodigioso. Tutti concordano nell’asserire che quell’animale sia sacro al Sole e che nel becco e nella varietà multicolore del piumaggio sia diverso da tutti gli altri uccelli, ma le opinioni divergono quanto alla durata della sua esistenza. L’opinione prevalente è che viva 500 anni; ma alcuni gli attribuiscono una vita di 1461 anni. Si afferma altresì che altre volte era venuta in Egitto al tempo di Sesostri, poi durante il regno di Amasi, e infine di Tolomeo III di Macedonia, allorchè giunse volando nella città chiamata Eliopoli, circondata da un grande seguito di altri uccelli ammirati e festanti per il rinnovarsi della sua gloriosa apparizione. Ma gli eventi antichi sono ben difficili da accertare: infatti tra Tolomeo III e Tiberio intercorrono meno di 250 anni,  per cui taluni non ritengono autentica questa Fenice, né davvero proveniente dall’Arabia e che non abbia fatto nulla delle cose che la storia tramanda: ovvero che, quando abbia terminato il tempo della sua lunga giornata terrena e si appropinqui il momento di spirare, costruisca un nido e prima di morire vi deponga il suo uovo, dal quale nasce un pulcino ancora immaturo, la cui prima cura non appena sia divenuto adulto è quella di seppellire il genitore. E questo non a caso: infatti solo dopo aver fatto la prova caricandosi con un fardello di mirra dal peso equivalente a quello della defunta Fenice, ne trasporta il corpo sull’altare del Sole ove gli dà fuoco. Tutte notizie di assai dubbia attendibilità e intrise di leggenda: tuttavia non si dubita che talvolta in Egitto si veda davvero quello strano volatile” (traduzione di Tammuz).

Nel testo di Tacito compaiono alcuni nuovi elementi inseriti nella storia che veniva tramandata sulla Fenice. Innanzitutto riscontriamo che l’autore segnale una variante della leggenda in cui la vita (o per meglio dire ciascuna delle vite) dell’affascinante pennuto durerebbe 1461 anni: questo periodo di tempo corrisponde esattamente ad un “ciclo sothiaco”, ovvero dell’intervallo attraverso il quale la stella Sirio, -la più luminosa del cielo notturno- dopo aver compiuto un intero giro dello zodiaco torna alla posizione iniziale. Questo succedeva poiché l’anno civile egiziano, di 360 giorni distribuiti in tre stagione di quattro mesi ciascuno, più i 5 giorni  cosiddetti “epagòmeni” (-aggiunti-, nei quali si diceva fossero nati gli dei) (3) non teneva conto del fatto che la durata reale di una rivoluzione della Terra intorno al Sole è di 365 giorni e 6 ore: pertanto, poiché non vi erano anni bisestili, l’inizio dell’anno arretrava di un giorno ogni 4 anni.- e per questa ragione l’anno civile egiziano era chiamato anche “anno vago”, appunto perché il suo inizio era variabile-.

La stella Sirio.
La stella Sirio.

Di conseguenza anche la “levata eliaca” di Sothis, ovvero Sirio, -cioè il suo apparire all’orizzonte all’alba avanti il sorgere del Sole-, ritardava di un giorno ogni 4 anni. Per rimediare a questa imperfezione Tolomeo III con l'”Editto di Canopo” aveva stabilito l’introduzione di un sesto giorno epagomeno ogni 4 anni, ma la sua riforma non fu sempre osservata, così che fu solo con l’introduzione del calendario giuliano da parte di Ottaviano Augusto che pure in Egitto si ebbe una misurazione del tempo stabile

.La stella Sirio (“Alpha Canis Maioris”) era assai importante per gli Egiziani poiché la sua “levata eliaca” coincideva con l’inondazione del Nilo che con il suo fertile limo fecondava le terre d’Egitto ed era considerata una divinità con il nome di Sopdet; questo nome fu poi reso dai Greci nella loro lingua con Sothis (4). Il grammatico ed erudito romano Censorino, -vissuto nel III secolo- ci fa sapere nella sua opera “De Die natali”, in cui tratta di varie questioni di cronologia e cronografia, che nel 139 l’inizio dell’anno civile egiziano coincideva con la levata eliaca di Sothis e corrispondeva al 21 luglio del calendario giuliano (che era quindi il principio di un nuovo ciclo sothiaco): in tal modo si è potuto stabilire in quale anno cominciasse ciascun ciclo della stella, e dunque che quello precedente era iniziato nel 1322 a. C. Per quell’anno non si ha però notizia che nei luminosi cieli egiziani fosse apparsa la Fenice.

Le precedenti visite del misterioso uccello sul suolo egiziano che l’illustre storico latino riferisce risalgono invece ad altri anni: la prima, all’epoca del regno di un “Sesoside”, che sarebbe da identificare nel faraone Sesostri III, della XII dinasta manetoniana (5), -il quale governò all’incirca dal 1870 al 1830 a.C. (6); la seconda al regno di Amasi, ovvero ad un periodo tra il 570 e il 526 a. C.; la terza al tempo di Tolomeo III, detto “Euergetes” (benefattore) terzo sovrano della dinastia macedone dei Lagidi, discendente da Tolomeo Sotere (salvatore) figlio di Lago, generale e diàdoco di Alessandro Magno (8), dal 246 al 222 a. C.

Un statua di epoca romana personificante la stella Sirio, identificata con Iside e Demetra.
Un statua di epoca romana che raffigura Sothis, la dea della stella Sirio, identificata con Iside e Demetra.

Tacito peraltro rileva l’incoerenza, o per meglio dire la non corrispondenza della memoria di tali apparizioni con la consolidata tradizione riguardante la Fenice che attribuiva tra una visita e l’altra del divino volatile nella terra dei Faraoni  un intervallo non minore di 500 anni -secondo l’opinione prevalente-, quando non assai superiore; mentre tra le ultime tre segnalate erano trascorsi meno di 250 anni.

Un altro elemento caratterizzante della descrizione tacitiana è il corteo festoso con il quale gli altri uccelli accompagnano il volo della Fenice, che riprende quanto già affermavano i più venerabili e prischi testi egizi, e che per altro verso ricorda quanto similmente veniva tramandato degli uccelli sacri delle tradizioni orientali ai quali già abbiamo accennato (Simurgh, Garuda, ecc.) e sui quali torneremo in seguito.

Infine il trasporto delle spoglie genitoriali ad Eliopoli in un involucro di mirra, che conferma quanto aveva detto per primo Erodoto. Ma qui Tacito aggiunge per la prima volta (almeno in modo esplicito) un altro elemento destinato poi a svilupparsi in quello che diverrà la caratteristica dominante nella leggenda della Fenice nel Medio Evo e nell’età moderna, ossia il rogo funebre. Qui però come abbiamo detto la Fenice non immola sé stessa sulla pira, ma celebra le esequie del genitore dopo che è già nata ed è anzi diventata adulta e volata al santuario di Eliopoli sulla pietra Benben, dalla quale è partita la nostra ricerca.

Peraltro è bene precisare che il ritorno della Fenice nel sacro tempio di Eliopoli era certificato dai sacerdoti, che soli assistevano all’evento miracoloso; dopo di che ne davano il solenne annunzio al popolo, il quale, ricevuta la lieta novella, elevava al cielo espressioni di giubilo e principiava a celebrare grandi feste.

Ma per quanto riguarda il 36 (o il 34), che risulta essere l’anno dell’ultima apparizione della Fenice, sono stati osservati altri portenti o fenomeni astronomici insoliti tali da corroborare il presagio offerto dal grande volatile? Per quanto riguarda l’aspetto astronomico, -e astrologico- dobbiamo rilevare che nel 34, e precisamente il 4 ottobre, si verificò una congiunzione Giove-Saturno a 16° del Leone. Chi segue i miei articoli ricorderà forse che già ebbi modo di accennare al fatto che tali congiunzioni avvengono a scadenza circa ventennale; tuttavia esse si ripetono a cicli di 10 in segni della medesima triplicità, di Fuoco, di Terra, di Aria, di Acqua (sempre in quest’ordine) (9), e che pertanto,- insieme ad altri fattori astronomici (precessione degli equinozi, congiunzioni di altri pianeti lenti, eclissi solari, apparizioni di comete, ciclo delle macchie solari, ecc.)- sono degli indicatori di mutamenti ciclici, in particolare quella che apre una nuova serie di dieci. Quella che stiamo prendendo in esame fu la seconda di una serie di congiunzioni nei segni di Fuoco.

Il 14 settembre del 36 si verificò invece una congiunzione tra Saturno ed Urano, evento certamente più raro della congiunzione tra Giove e Saturno, poiché si produce a intervalli di circa 45 anni, in genere nel segno zodiacale che nell’eclittica è opposto a quello in cui era avvenuta la precedente congiunzione. Le congiunzioni (e gli altri aspetti) tra i pianeti lenti, che compiono il loro giro sull’eclittica in parecchi anni o decenni sono considerate foriere di mutamenti e principio di nuove fasi storiche. Com’è noto, gli antichi non conoscevano i pianeti trans-saturniani (10); tuttavia è lecito, guardando in modo retrospettivo ai fenomeni astronomici delle età antiche, tenere in considerazione anche tali aspetti. La scoperta dei pianeti Urano, Nettuno e Plutone (11) sul piano simbolico è stata vista  come l’affiorare o l’irrompere nel mondo terrestre e umano di nuove complesse problematiche tecnico-scientifiche, sociali e psicologiche che hanno profondamente modificato le condizioni dell’umanità negli ultimi secoli,- pur se l’uomo nella sua sostanza è rimasto quello delle caverne-.

Anche Flavio Filòstrato (detto “l’Ateniese”, per distinguerlo da altri letterati omonimi) (170-248 circa)) nella sua “Vita di Apollonio di Tiana”(12) inserisce una breve digressione sulla Fenice (III, 49), precisando anch’egli che ne esiste un solo esemplare per volta. Nella sua lunga peregrinazione nelle contrade dell’India misteriosa tra i molti saggi e profeti con i quali viene in contatto il filosofo incontra un asceta chiamato Iaskhas il quale gli parla del sacro volatile: “La Fenice -disse [Iaskhas]- è un uccello che visita l’Egitto ogni 500 anni, ma nel rimanente tempo della sua vita percorre in volo i cieli dell’India. Ella è unica perché emette bagliori simili a quelli del Sole e sfavilla come fosse rivestita d’oro; per grandezza e aspetto è simile ad un’aquila, e quando sente l’approssimarsi della sua fine, si accovaccia su un nido fatto con varie spezie nei pressi delle sorgenti del Nilo… Nel  momento in cui sta per struggersi, ella intona funebri inni per sé stessa. Impresa questa che viene eseguita pure dai cigni, secondo il racconto di chi ha l’intelligenza di sentirli”.

Due nuovi particolari sono aggiunti da Filòstrato alla leggenda: il fatto che la Fenice sebbene nasca e muoia in Africa, presso le sorgenti del Nilo, -che, come abbiamo già detto, erano un luogo sconosciuto e favoloso- viva abitualmente in India; e che essa all’approssimarsi della morte elevi al cielo un canto celestiale, che la accomuna per questo aspetto ai cigni. In effetti la particolarità del canto incantevole del sacro pennuto era già presente nel mito egizio della Fenice, anche se non era legato al momento del trapasso.

L’accostamento del canto della Fenice a quello del cigno non è certo casuale: l’uno e l’altro vanno interpretati nel quadro della spiritualità neopitagorica e neoplatonica espressa dalla figura di Apollonio di Tiana, e Filostrato senza dubbio aveva in mente il passo del “Fedone” platonico (cap. 35) nel quale la leggenda del melodioso canto del cigno avanti la sua dipartita è metafora dell’anima lieta di ricongiungersi presto al mondo superiore. I Cigni infatti -afferma Socrate- “venuto che è il dì della morte, se prima cantavan bene, allora cantano più e meglio, godendo dell’andare a quell’Iddio del quale sono ministri [ovvero ad Apollo, al quale erano sacri]”. A torto quindi gli uomini credono che tale canto sia espressione di dolore, poiché, -osserva il filosofo- nessun uccello effonde la sua melodia allorchè sia afflitto da fame o freddo, o provi qualche sofferenza: e per quanto riguarda i cigni “essendo… tutta cosa d’Apollo, sono indovini; ed avendo in visione i beni dell’Ade, nel giorno di loro morte cantano molto soavemente, e fanno festa e allegrezza più dell’usato” (traduzione di Francesco Acri). In pratica quindi il canto del cigno sarebbe la metafora del sublime momento in cui l’anima liberata dai vincoli terreni torna alle regioni celesti che sono la sua vera patria, e per questo il saggio indiano precisa riferendosi ai candidi pennuti “per ha l’intelligenza di sentirli” ovvero di comprendere l’autentico significato della loro effusione lirica (13).

Nell’opera “Perì zòon idiòtetos” (La natura degli animali” di Claudio Eliano (170-235), autore romano, ma che scrisse tutte le sue opere in greco, seguendo l’indirizzo atticista della cosiddetta “Nuova Sofistica”, per la prima e unica volta troviamo che si parla dalla Fenice al plurale, cioè le Fenici (Phoinikes). E’ possibile che Eliano credesse nell’esistenza di più di una Fenice nello stesso tempo, in contrasto con una tradizione assolutamente unanime che affermava esservene una sola per volta? L’ipotesi è alquanto improbabile; questo plurale si potrebbe spiegare come inteso in senso “diacronico”, indicherebbe cioè varie generazioni o incarnazioni dell’unica Fenice.

In effetti in quest’opera in 17 libri l’autore descrive la vita e le abitudini di molti animali per dimostrare che essi possiedono intelligenza,sensibilità e sentimenti, talora superiori a quelli umani: pertanto si può accostare alle opere di simile argomento di Plutarco di Cheronea, in particolare al “De sollertia animalium”.

E infatti nel capitolo dove parla della Fenice (o meglio delle Fenici) -VI, 58- comincia la sua trattazione affermando che esse, pur non avendo imparato l’aritmetica, sanno contare per dono della natura, e senza aver bisogno delle dita o di altri artifici. Così riescono a capire quando è trascorso il ciclo di 500 anni al termine del quale devono tornare ala sacra città di Eliopoli.Araba-Fenice33 Eliano sottolinea che nessun altro è a conoscenza di tale mistero, se non forse qualcuno dei sacerdoti; e mentre questi ultimi discutono tra di loro sul momento esatto in cui dovrebbe giungere, la Fenice (poiché nel seguito dell’esposizione ella ridiventa singolare) è già arrivata, e così i sacerdoti devono celebrare il rito ma nello stesso tempo confessare pure che ne sanno meno degli uccelli! Sapere dove sia l’Egitto -prosegue Eliano-, in quale parte di esso si trovi la città di Eliopoli, nella quale il suo destino ha stabilito debba volare, in quale punto debba deporre le spoglie del genitore, in quale sarcofago non sono forse manifestazioni di intelligenza? Se non sono da ammirare queste prove di abilità, -si chiede lo scrittore-, dovremmo ammirare le astuzie legali, le imprese belliche e simili opere intentate dagli uomini per nuocersi l’un l’altro?

Quindi Eliano, che non fa una descrizione accurata né dell’aspetto né delle abitudini della Fenice, adduce l’esempio di questo uccello per lodare la sua accortezza e intelligenza che gli fa superare gravi ostacoli e gli consente di portare a termine la sua “missione”; e questo anche per contrappore il nobile scopo per il quale la Fenice usa le sue doti alla meschinità e all’avidità al servizio delle quali gli uomini mettono spesso la loro astuzia.

Osserviamo altresì che l’ammirazione che Eliano esprime per l’intelligenza e le capacità di orientarsi del mitico uccello possono a buon diritto applicarsi a molti altri Uccelli, ed in specie a quelli migratori che sanno dirigersi nei luoghi di svernamento e poi ritrovare la via del ritorno nei luoghi natii, scegliere le posizioni più adatte per stabilirvisi e costruire artistici nidi.

Anche il naturalista e geografo Gaio Giulio Solino, vissuto, probabilmente a Roma, tra il III e il IV secolo, nella sua opera COLLECTANEA RERUM MEMORABILIUM (detta anche “De Mirabilibus Mundi”), nel capitolo ove tratta dell’Egitto e della sua fauna, introduce una descrizione della Fenice (cap. XXXIII), che peraltro riprende le caratteristiche attribuite allo splendido pennuto dalla consolidata tradizione greco-latina, riassumendo in pratica quanto dell’uccello aveva già affermato Plinio (che fu la fonte principale dell’opera di Solino): “aquilae magnitudine, capite honorato in conum plumis extantibus, cristatis faucibus, circa colla fulgore aureo, postea parte purpureus absque cauda, in qua roseis caeruleus interscribitur nitor” (ha le dimensioni di un aquila, il capo adorno di un cimiero di piume erette, la gola ornata di ciuffi, il collo ha il fulgore dell’oro, la parte posteriore del corpo è di colore purpureo, salvo la coda, nella quale sfavilla un piumaggio azzurro misto al rosa). Solino attribuisce alla Fenice un età di 540 anni, -precisando però che alcuni autori assegnano alla vita del meraviglioso volatile una durata di ben 12.954 anni (la metà di un “Grande Anno”)-, al termine dei quali costruisce il suo nido di rami di cannella sull’altare della città del Sole nell’isola di Panchaia. Osserviamo peraltro che, a differenza di Plinio, il quale mostra di non credere alla notizia che nell’anno ottocentesimo di Roma, -ovvero nel 47- la Fenice sarebbe stata catturata e portata all’imperatore Claudio, Solino sembra non mettere in dubbio questo evento (14).

CONTINUA NELLA QUINTA PARTE

Note

1) la Palestina prese il nome dal popolo dei Filistei (“Philistim” con espressione ebraica e cananea) -uno dei cosiddetti “Popoli del Mare”- che vi si insediarono nel XII secolo a. C. Questa denominazione però divenne comune ed usuale solo a partire dall’età ellenistica, quando veniva usata come attributo di SIria -Syria Palaestina-, per indicare la parte più meridionale di tale area geografica, -che in senso lato indicava tutta la regione tra Anatolia, Mesopotamia, Arabia, Egitto e Mare Mediterraneo-.

2) il modo di datare avvenimenti e documenti nell’antica Roma era quello di indicare i consoli in carica nell’anno preso in esame. La datazione numerando gli anni a partire da quello della fondazione di Roma (“ab Urbe còndita”) era eccezionale e usato in prevalenza da storici ed annalisti.

3) si narra che il dio Thot, divinità della saggezza e della sapienza, oltre che della misurazione del tempo, avesse vinto tali giorni in una patita a “senet” (gioco molto popolare e diffuso nell’antico Egitto, simile alla dama o agli scacchi, pur se non se ne conoscono bene le regole) con Atum. Il grande dio primordiale non voleva infatti che dall’unione dei suoi due nipoti Gheb (la Terra, che era però maschile) e Nut (il Cielo, femminile) nascessero degli eredi. Ma grazie all’astuzia di Thot Nut potè dare alla luce i suoi 4 figli, nei primi 4 giorni epagomeni, mentre nel quinto nacque Horus da Iside e Osiride. Dopo l’editto di Canopo, i giorni epagomeni erano pertanto i seguenti: 24 agosto: nascita di Osiride; 25 agosto: nascita di Horus; 26 agosto: nascita di Seth; 27 agosto: nascita di Iside; 28 agosto: nascita di Nephtys.

4) Sirio (“Seirios”) significa invece “l’ardente” ed allude al fatto che nell’emisfero boreale questa sfavillante stella appare poco sopra l’orizzonte nel periodo dell’anno di solito più torrido. Essa si mostra però in tutto il suo splendore nel cielo invernale, quando si staglia nitidamente accanto alla costellazione di Orione.  In latino fu chiamata “Canicula”, perché si trova nella costellazione del Cane Maggiore, e considerata la cagna del cacciatore Orione vicino al quale si trova nella volta celeste.

5) tuttavia gli storici greci (Erodoto, Diodoro Siculo) tendono a confondere tra loro i tre faraoni chiamati Sesostri, tutti appartenenti alla XII dinastia, o meglio ad assimilarli al terzo e ultimo che fu il più importante.

6) la cronologia degli antichi sovrani è spesso incerta ed i testi di storia non di rado (per non dire sempre…) attribuiscono loro anni diversi per l’inizio e la fine del loro periodo di regno: ad esempio per Sesostri III variano tra il 1881-1840 al 1870-1831.

7) questa dinastia si era insediata in Egitto dopo la morte del condottiero macedone. Tolomeo divenne prima satrapo di quella regione nel periodo della reggenza di Perdicca; poi con la fine anche formale dell’Impero Macedone nel 305 a. C. si proclamò re.

8) nella nota n. 5 alla seconda parte dell’articolo sugli Hyksos.

9) talora, a causa delle variazioni nel moto dei pianeti ( e in particolare del cosiddetto “moto retrogrado” per cui essi sembrano tornare indietro nel loro cammino, per poi riprendere il moto diretto) si possono verificare delle congiunzioni in un segno di elemento diverso da quello del ciclo in corso: per citare un esempio recente, la congiunzione Giove-Saturno del 1° gennaio 1981 che avvenne a 9° della Bilancia (segno d’Aria) -pur collocandosi in un ciclo di Terra-. In questo caso, com’è ovvio, la congiunzione ha un significato particolare e più gravido di conseguenze.

10) il pianeta Urano fu scoperto nel 1781 da W. Herschel; Nettuno nel 1846 da J. G. Galle e H. L. D’Arrest; Plutone nel 1930 da Clyde Tombaugh. Questi pianeti sono presi in considerazione dall’astrologia umanistica e psicologica, mentre l’astrologia classica rimane fedele ai pianeti contemplati dai testi e dagli autori antichi. Ma in realtà le due impostazioni rispondono a diversi punti di vista e diversi piani della ricerca astrologica nelle sue articolazioni che riguardano sia l’individuo, nelle sue interazioni personali e sociali, sia le entità più vaste, per cui si possono ritenere complementari.

11) nel 2006 l’Unione Astronomica Internazionale decretò che Plutone, a causa delle sue dimensioni ridotte e di altre sue caratteristiche, non era da considerarsi un vero pianeta, ma un “pianeta nano”, al pari di Cerere ed Eris, altri due pianetini del Sistema Solare.

12) Apollonio di Tiana -Tiana è la città dell’Asia Minore nella quale era nato nel 4 a. C.- fu un celebre e venerato filosofo e mistico vissuto nel I secolo. Della sua figura che nell’antichità fu ora contrapposta ora accostata a quella di Cristo abbiamo già accennato in altri articoli. -come in quello sui continenti scomparsi-. Filostrato scrisse la sua “Vita” per incarico dell’imperatrice Giulia Domna, consorte di Settimio Severo, la quale a tal fine gli aveva consegnato le memorie di Damide (o Damis) discepolo di Apollonio, il quale le aveva donate a un avo di Giulia Domna.

13) un famosa testimonianza letteraria della credenza nel canto del cigno prima della morte ci è offerta anche dalla favola 277 di Esopo, nella quale un cigno catturato per sbaglio al posto di un oca si salva dalla sua triste sorte con il canto che la pericolosa situazione che sta vivendo lo induce ad emettere.

14) l’opera di Solino, benché scarsamente originale e senza dubbio inferiore a quella di Plinio, godette notevole fortuna nel M.E., tanto che il poeta toscano Fazio degli Uberti (XIII secolo) scelse Solino come sua guida nel poema didascalico “Dittamondo”, dove egli immagina di compiere un viaggio percorrendo le contrade di tutto il mondo allora conosciuto.

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