IL DECLINO DELL’IMPERO ROMANO (caduta o trasformazione?) -seconda parte-

Per quanto riguarda le persecuzioni contro i cristiani fino alla fino alla metà del III secolo, esse consistettero in provvedimenti di polizia decretati in alcune province e per periodi di tempo determinati da singoli governatori. Le accuse che li determinavano erano in genere di adunata sediziosa, di attività illegali, -come la stregoneria-, di turbamento dell’ordine pubblico a causa di un troppo insistente proselitismo e soprattutto dal rifiuto di rendere omaggio al simulacro dell’imperatore che per i magistrati romani era solo un atto di fedeltà e di lealismo verso lo stato, -e a maggior ragione nei momenti in cui le difficoltà e i problemi che attanagliavano lo stato stesso erano più gravi-, mentre per la maggior parte dei cristiani era una forma di adorazione religiosa incompatibile con la loro fede.

Si noti che storici e giuristi hanno formulato tre ipotesi circa i fondamenti giuridici che avrebbero giustificato le azioni penali contro i cristiani:

1) secondo alcuni, sulla base di quanto riportano alcuni autori, in modo peraltro ambiguo e poco chiaro, quali Sulpicio Severo (Chronicarum libri duo, XX, 21, 4) ed Eusebio di Cesarea (Hist. Eccl., II, 2, 1-6), vissuti nel IV secolo, e soprattutto Tertulliano (Apologia, 2, 189), il quale afferma che fosse punito solo il “nomen christianum”, nonchè un frammento di dubbia interpretazione del perduto trattato “Contro i cristiani” di Porfirio di Tiro, sarebbe esistita una legge specifica contro i cristiani. Questa sarebbe derivata da un “senatusconsultum” emanato sotto il regno di Tiberio, il quale avrebbe avuto una relazione di Ponzio Pilato in merito a disordini scoppiati in Giudea a causa dei discepoli di Gesù. Secondo i medesimi autori peraltro Tiberio avrebbe richiesto al senato di inserire Cristo tra le divinità riconosciute da Roma, ma il senato avrebbe rifiutato. Altri fanno risalire la presunta “lex” contro i cristiani a Nerone, il quale, come riferiscono Tacito (Annales, XV, 44) e Svetonio (Nero, XVI, 2) li aveva accusati di aver appiccato l’incendio che distrusse Roma nel 64: secondo questa ipotesi Nerone non avrebbe soltanto incolpato del disastro i seguaci della nuova religione ma avrebbe pure fatto promulgare una specifica legge che puniva la fede cristiana in quanto tale. Questa disposizione risalente a Nerone viene detta “institutum Neronianum”, espressione peraltro che si trova solo in un passo di Tertulliano (Ad nationes, I, 7, 9). In realtà però  sia nelle testimonianze degli storici, sia dai reperti epigrafici non si è mai avuto alcun riscontro circa l’esistenza di una “lex” o di un “senatoconsultum” di questo genere che avrebbe considerato un “crimen” l’adesione al credo cristiano in quanto tale (1); e d’altro canto il fatto stesso che Tacito e Svetonio non accennino nè ad alcuno specifico provvedimento legislativo anti-cristiano adottato da Nerone, nè all’esistenza di uno simile promulgato da Tiberio, sembra smentirne l’esistenza, così come la circostanza che talora i governatori delle province si siano rivolti agli imperatori sul modo di procedere contro i cristiani, -richiesta evidentemente superflua, ove fosse esistito un espresso provvedimento legislativo che proibisse la pratica della loro religione-.

Un arcosolio nelle catacombe dei santi Marcellino e Pietro a Roma.
Un arcosolio nelle catacombe dei santi Marcellino e Pietro a Roma.

2) un’altra tesi, sostenuta da Theodor Mommsen, il celebre storico e filologo tedesco (1817-1903), asserisce che i cristiani venivano condannati in virtù dello “ius coercitionis” col quale i singoli magistrati potevano adottare a loro discrezione misure repressive e restrittive della libertà personale per ragioni di ordine pubblico qualora lo ritenessero necessario o opportuno.

3) infine un’altra parte della dottrina ha ritenuto che la base giuridica delle persecuzioni fosse da ricercare nel diritto penale comune e che i cristiani fossero condannati perché giudicati colpevoli di specifici reati a loro ascritti (incendio, veneficio, stregoneria, sedizione, ecc.) e non in quanto cristiani.

Esiste peraltro un certo numero di rescritti imperiali (cioè di risposte date dagli imperatori ai governatori delle province che li interpellavano in merito a determinate questioni) riguardanti il tema del comportamento delle autorità con i cristiani, che appaiono spesso incerti, oscillanti e anche incoerenti, e che proprio per questo mostrano che non esisteva una normativa chiara ed univoca sul modo di procedere al riguardo. Famoso è il rescritto dato da Traiano a Plinio il Giovane, che in qualità di proconsole della Bitinia, gli chiedeva lumi su tale questione (Epistulae, X, 96 e 97): la risposta dell’imperatore appare piuttosto contraddittoria, perché se da un lato sembra considerare giustificata un’azione contro i cristiani, dall’altro sconsiglia Plinio dall’intraprendere un’azione di sua iniziativa, ma solo sulla base di accuse specifiche e non anonime (in pratica su “querela di parte”). Inoltre gli accusati, se negavano di essere crisitani, confermando il loro dire con sacrificio di incenso agli dei, dovevano essere assolti senza richiedere loro un formale atto di culto verso l’imperatore o la maledizione contro il nome di Cristo. A causa di tale ambiguità la decisione di Traiano, che pure ispirò in genere la linea seguita dagli imperatori successivi in merito alla politica sui Cristiani, suscitò più tardi l’ironico commento di Tertulliano (Apologeticum, II, 8-10), il quale la definì una  “sententiam necessitate confusam”, poichè i suoi correligionari non dovevano essere ricercati e perseguiti, come innocenti, ma se scoperti e confessi puniti come colpevoli.

Affresco nelle catacombe di Generosa a Roma.
Affresco nelle catacombe di Generosa a Roma.

Occorre inoltre precisare che spesso le accuse contro i cristiani erano motivate da malumori ed invidie verso una comunità religiosa (che probabilmente al popolo appariva come una sorta di società segreta con scopi di “potere occulto”) notevolmente arricchitasi nel corso degli anni e che tuttavia sfuggiva alla regolamentazione imposta dalla legge alle associazioni senza fini di lucro (come “sodalitates” e “collegia”).

Meno conosciuto, ma forse più interessante è il rescritto che Adriano inviò a C. Minucio Fundanio, proconsole d’Asia, nel 124, -il cui testo è stato tramandato sia nella “Storia Ecclesiastica” di Eusebio di Cesarea (IV,9) sia nell'”Apologia” di Giustino (I, 68)-, e che peraltro era stato richiesto dal predecessore di quest’ultimo, Graniano, che chiedeva istruzioni in merito, -non bastandogli evidentemente quanto aveva stabilito Traiano-: l’imperatore manifesta la nobile preoccupazione che gli accusati debbano subire ingiuste punizioni e che vengano premiate le malevole intenzioni degli accusati. “Se pertanto qualcuno accusa i cristiani e dimostra che essi hanno agito contro le leggi, -scrive Adriano- allora decidi valutando la gravità della colpa, ma se qualcuno, per Ercole, li diffama, allora procedi per calunnia, pronuncia una sentenza e punisci questa criminale condotta”. Adriano adottò dunque una linea decisamente più generosa verso i cristiani, almeno di principio, sostenendo che dovessero essere condannati solo se avessero commesso specifici reati e non solo in quanto tali (ovviamente spettava ai singoli magistrati, aventi notevoli poteri discrezionali, stabilire se fossero colpevoli di “delicta” o “flagitia” meritevoli di pena). Pure altre fonti, come l'”Historia Augusta”, confermano l’atteggiamento favorevole di Adriano verso il cristianesimo, il quale avrebbe addirittura l’intenzione di dedicare a Cristo templi e statue.

Poi dalla fine del II secolo il diffondersi del movimento estremista e fanatico dei Montanisti (così chiamato dal nome del loro fondatore, Montano, prete originario della Frigia) accentuò l’avversione popolare contro i cristiani in genere, accomunati al fanatismo dei montanisti. Questi ultimi infatti predicavano la necessità di un totale isolamento dalla società “pagana”, il rifiuto della cariche pubbliche, giungendo fino al disconoscimento dell’autorità civile, ed ispiravano quindi nei loro seguaci un’atteggiamento fortemente sprezzante verso la socità ed i costumi romani, anche in forza della proclamata attesa della prossima “fine del mondo”. Per tanto durante il governo di Marco Aurelio (161-180) si ebbe una recrudescenza di persecuzioni anticrisitane in alcune parti dell’Impero delle quali però l’imperatore filosofo non è da ritenere direttamente risponsabile, sebbene egli non nutrisse soverchie simpatie nei confronti dei seguaci della nuova religione -ai quali accenna come esempio di fanatismo irrazionale in un passo dei suoi “Ricordi” (X, 3)-. A tale recrudescenza diede occasione anche il rifiuto opposto dai cristiani, -e dai montanisti in particolare-, di partecipare, o quanto meno di associarsi idealmente, ai riti e ai sacrifici promossi da Marco Aurelio in tutto l’Impero nel 168 al fine di propiziarsi gli dei in un momento assai critico per lo stato romano, flagellato dalle pestilenze (specie la “peste antonina”, della quale tratteremo più oltre) e dalle invasioni germaniche mentre era pure alle prese con la guerra contro i Parti. In questo periodo si collocano l’episodio dei 48 martiri di Lione, il cui processo e la cui condanna da parte dei magistrati romani avvennero in conseguenza di una sommossa popolare anti-cristiana, nel 177; e quello dei 12 “martiri scillitani” che furono giustiziati nel 180 a Cartagine.

Sotto il successore di Marco Aurelio, Commodo, per quanto sia ricordato dalle fonti come uno dei peggiori imperatori (2) non si ha notizia di persecuzioni anticristiane; anzi si tramanda che la sua amante Marzia, -o Marcia-, presunta cristiana, o almeno simpatizzante del cristianesimo, abbia ottenuto la liberazione e il richiamo dei cristiani che erano stati condannati al lavoro nelle miniere in Sardegna (3).

Da tutti gli studi compiuti emerge peraltro la difficoltà, se non l’impossibilità, di dare una motivazione unica ai procedimenti giudiziari contro i cristiani (sia i veri e propri processi, sia i provvedimenti di polizia), che ebbero caratteristiche differenti e spiegazioni eterogenee a seconda del luogo e del periodo in cui avvennero.

Tuttavia al di fuori dei periodi “caldi”, i seguaci della religione cristiana non si nascondevano, non erano una setta clandestina (anzi talora gli atti persecutori prendevano le mosse proprio da denunce di persone “molestate” dal proselitismo inopportuno di alcuni cristiani), i loro testi sacri potevano circolare liberamente (ed erano noti anche al di fuori delle loro cerchie, tanto che gli intellettuali che confutarono sul piano filosofico-religioso la fede cristiana, -come ad esempio il filosofo neoplatonico Porfirio di Tiro-, mostrano talora di averne una approfondita conoscenza); le catacombe erano luoghi di sepoltura e non di celebrazioni liturgiche, poiché di norma il culto cristiano era praticato in case private adattate a chiese, le “domus ecclesiae”, che si erano moltiplicate dalla fine del II secolo quando i beni terreni delle comunità cristiane aumentarono notevolmente.

Ma i rapporti tra cristiani e non cristiani (genericamente “pagani”, termine che come abbiano già detto, ha un significato soltanto polemico e spregiativo, per indicare qualunque espressione religiosa e spirituale estranea al monoteismo ebraico-cristiano) furono in effetti assai più complessi ed articolati di come la storiografia cattolica ha voluto far credere, sia perché i cristiani non erano certo un “corpo separato” dal resto della società antica imperiale, sia perché tanto i “pagani” quanto i “cristiani” non sono da considerare come “gruppi” unitari, ma come un insieme di sette e di conventicole tra di loro assai diverse sul piano dottrinale e organizzativo. Le relazioni e gli scambi tra tutti questi gruppi erano piuttosto intensi e “multilaterali”: vi erano cristiani che tornavano al paganesimo; pagani che adoravano Cristo; cristiani che conciliavano la fede cristiana con la fede professata in precedenza o comunque con altre dottrine, soprattutto nell’ambito multiforme dello gnosticismo e del neoplatonismo; persone del tutto indifferenti in materia di religione.

Una testimonianza molto interessante di questo fermento spirituale (nel quale spesso si mescolavano ciarlataneria e opportunismo) l’abbiamo ad esempio in alcune opere di Luciano di Samosata, scrittore di lingua greca, ma di origine siriaca, del II secolo, in particolare in “La morte di Peregrino Proteo”, in cui  l’autore rappresenta il suicidio di un filosofo cinico, che era stato per un certo periodo anche cristiano in Palestina, riuscendo con le sue doti a conquistarsi un notevole ascendente nella chiesa, ma che poi abbandona la chiesa cristiana, -che Luciano rappresenta come un misto di creduloneria, di dabbenaggine e di scaltro opportunismo-. Peregrino fa allestire un rogo ad Olimpia sul quale sale volontariamente durante i giochi del 165, terminando così la sua esitenza che allo scettico Luciano appare più che quella di un asceta venerabile, quella di un fanatico che cerca di ingannare sè stesso e gli altri.

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Colombe in un affresco del III secolo nelle catacombe di San Callisto a Roma.

Anche i temi iconografici presenti negli ipogei e nelle catacombe, -che erano usate da comunità religiose di vario tipo (giudei, seguaci dei culti di Mitra, di Sabazio, della Grande Madre, ecc.), e non solo dai cristiani- dimostrano, oltre che le spiccate tendenze sincretistiche di queste comunità, la coesistenza di credenze e di culti diversi. Si riscontrano dunque accanto a figurazioni tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, altre derivate dalla mitologia greco-romana, -quali Orfeo che ammansisce le fiere col canto, Amore e Psiche, fatiche di Ercole, scene dei poemi omerici, ecc.-, alle quali spesso è da attribuire un significato allegorico (ma l’interpretazione allegorica dei miti era usuale anche negli ambienti “pagani” -si veda quanto abbiamo detto negli articoli sui codici miniati della tarda antichità-), oltre a immagini che appartenevano al simbolismo mistico comune a tutta la tarda antichità (pavoni -simbolo di immortalità, poichè le loro carni erano ritenute incorruttibili-, colombe, il cervo alla fonte, la Fenice -della quale abbiamo ampiamente parlato nella specifica trattazione ad essa dedicata-, ecc.)(4).

Un imperatore che, secondo le fonti storiche, in particolare l'”Historia Augusta”, nutrì una particolare inclinazione e comprensione verso il cristianesimo fu Alessandro Severo (regnante tra il 222 e il 235). Di lui si dice (cap. XXIX) che nel suo larario domestico venerava l’immagine di Cristo, insieme a quelle di Apollonio di Tiana, di Orfeo, di Abramo e di altri profeti e benefattori (il che è indice del sincretismo religioso che ispirava, oltre l’imperatore, la società e la cultura romane di quel periodo); che avrebbe voluto inserire Cristo nel novero degli dei romani e dedicargli templi e statue (così come prima di lui Adriano), ma fu dissuaso dal suo intento dalla considerazione che se l’avesse fatto le altre divinità avrebbero cessato di essere adorate (cap. XLIII); che aveva fatto proprio ed eretto a principio aureo del vivere civile la norma “Quod non vis tibi fieri, ne alteri feceris” (“non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”). Alessandro Severo affidò anche al cristiano Sesto Giulio Africano, -scrittore ed erudito noto soprattutto per i “Cestoi” e la “Cronografia”- (165-240 circa), l’allestimento e la direzione di una biblioteca da lui fatta costruire presso il Pantheon di Roma; fu forse quella la prima volta in cui una persona dichiaratamente cristiana fu insgnita di una carica pubblica. Filippo l’Arabo (244-249) ebbe poi fama di essere cristiano lui stesso (come abbiamo detto nella nota n. 4 della prima parte della presente trattazione).

La situazione cambiò però nettamente con il suo successore, Decio (249-251), il quale come molti degli imperatori di quel tormentato periodo giunse al potere facendo uccidere il predecessore; egli infatti, in parte per convinzioni personali, in parte nell’intento di ridare compattezza a un impero che mostrava sempre più segni di sfaldamento, decise di emanare un editto con cui si comandava a tutti i cittadini di dare prova del loro lealismo e della loro fedeltà all’imperatore compiendo un sacrificio agli dei di Roma davanti a un magistrato, che avrebbe rilasciato loro una sorta di attestato comprovante il fatto che avevano ottemperato all’obbligo (“libellus”); coloro che si fossero rifiutati sarebbero stati condannati a morte (in modo straziante se “humiliores” o schiavi). Non si trattava dunque di un provvedimento espressamente rivolto contro i cristiani, ma di fatto, costringendoli ad un atto che per essi aveva una pregnanza religiosa e non un significato meramente civile, inferiva un notevole colpo all’organizzazione ecclesiastica (5). Pur se l’editto fu applicato in modo disuguale nelle diverse province (infierì maggiormente in quelle orientali e in Africa, -dove peraltro il cristianesimo era più diffuso-, meno in quelle europee), ebbe importanti conseguenze: infatti buona parte dei cristiani, com’è facilmente comprensibile, per sottrarsi ad una terribile sorte accettarono l’imposizione, mentre solo un’esigua minoranza affrontò il martirio, o in qualche caso fuggì in luoghi nascosti. Altri ancora, con la corruzione o in altro modo, riuscirono a procurarsi l’attestato senza avere effettivamente compiuto il sacrificio: costoro furono detti “libellatici”; mentre coloro che avevano sacrificato agli dei furono definiti “lapsi” (letteralmente “scivolati” < da “labor, labi”). Tuttavia la persecuzione non durò a lungo, perchè Decio fu a sua volta ben presto eliminato da un rivale, Treboniano Gallo, che non rinnovò il provvedimento.

Si aprì allora la questione dei “lapsi”, poichè la maggior parte di questi ultimi avrebbero voluto essere riammessi nella chiesa cristiana; quella parte degli ecclesiastici che era riuscita a salvarsi (o perchè “libellatici”, o perchè fuggiti in luoghi sicuri, o perchè in alcune parti dell’impero poco popolate e con scarsa presenza cristiana il provvedimento non era stato attuato, o perchè non sempre al rifiuto del sacrificio seguiva automaticamente la condanna a morte -spesso i magistrati, che avevano larghi poteri discrezionali, si limitavano a punizioni corporali e/o detentive-) si divise tra gli intransigenti i quali, equiparando l’agire dei “lapsi” ad una vera e propria apostasia sostenevano non potessero essere riaccolti; e gli “indulgenti”, che giudicavano doversi riammetterli dopo un’adeguata penitenza. I secondi, guidati da papa Cornelio e da Cipriano, vescovo di Cartagine, erano in netta prevalenza (anche perchè in effetti il rigore sarebbe stato controproducente e avrebbe rischiato di far regredire la diffusione e l’influenza del cristianesimo); gli intransigenti invece furono rappresentati soprattutto dal prete romano Novaziano, il quale fu eletto papa nel 251 in contrapposizione a Cornelio, considerato il papa legittimo, dando così inizio ad uno scisma, che pur tra alterne vicende si protrasse fino al IV secolo (6).

La prima parte del periodo di governo di Valeriano (253-260) fu tranquilla per i Cristiani; ma, a partire dal 257 la benevolenza dell’imperatore venne meno e fu scatenata una nuova persecuzione. Tale mutamento di indirizzo fu dovuto quasi certamente alla situazione altamente drammatica che stava vivendo allora l’Impero Romano, sconvolto da tre gravi flagelli, che lo portarono sull’orlo del collasso: la grande pestilenza detta “di Cipriano” (dal nome del sopracitato vescovo di Cartagine che la descrisse nelle sue lettere e soprattutto nel trattato “De mortalitate”, ritenedola segno dell’imminente fine del mondo), che infierì in tutto l’impero tra il 249 e il 262 (più o meno); le invasioni barbariche di Franchi e Alamanni in Gallia e quelle, ancora più devastanti, di Goti, Eruli, Carpi e Boriani nella penisola balcanica e in Anatolia; le ripetute e gravi sconfitte subite dai Romani in Siria ad opera dei Persiani Sassanidi. Nel clima di terrore e di disperazione che si era creato nel mondo romano si diffuse la credenza che responsabili, almeno in parte, di questi disastri fossero i cristiani che avrebbero suscitato l’ira degli dei, -o che comunque erano percepiti come una sorta di “corpo estraneo”, di “untori” e di menagrami in un momento in cui tutti avrebbo dovuto stringersi intorno alle istituzioni tradizionali romane, anche quelle religiose, indipendentemente dalle convinzioni personali-.

Secondo il vescovo Dionisio di Alessandria (190-265 circa) però la persecuzione sarebbe da addebitare a Fulvio Macriano, “procurator arcae” (una sorta di tesoriere dell’esercito), il quale avrebbe suggerito il drastico provvedimento per consentire all’imperatore di appropriarsi dei beni della chiesa cristiana al fine di rimpiguare le ormai esaurite casse statali e poter così continuare la difesa delle province orientali contro i Sassanidi. Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, VII, 17) e altre fonti minori citano invece quale causa scatenante della persecuzione un episodio aneddotico di assai dubbia autenticità: un senatore cristiano, certo Asturio, si trovava nei pressi del santuario del dio Pan a Cesarea di Filippo, accanto alle sorgenti del Giordano, in Gaulanitide (regione attualmente divisa tra Israele e Siria)(7), durante una festa in occasione della quale avveniva ogni anno un “miracolo”, ossia un capro immerso nella fonte spariva perchè preso dal dio. Il senatore pregò il dio cristiano di annullare il miracolo e così avvenne. I fedeli del culto di Pan indignati e risentiti per la preghiera di Asturio (che reputavano avesse suscitato le ire di Pan), ottennero non solo la condanna a morte di Asturio, ma la persecuzione di tutti i Cristiani, e in particolare del clero.

Infatti una peculiarità dell’editto di Valeriano fu che esso colpiva espressamente gli esponenti del clero (Vescovi, presbiteri e diaconi), di cui si ordinava l’arresto, oltre che la confisca di tutti i beni e gli edifici dei culto dei Cristiani. Con un secondo editto nel 258 poi l’imperatore comminò la pena di morte a tutti gli ecclesiastici arrestati in precedenza che non avessero abiurato.

Ma nel 260 il re persiano Sapore (Shapur) I inflisse all’esercito romano una pesantissima sconfitta, -la più grave per Roma da quella di Canne nel 216 a. C.-, nella quale secondo la maggior parte delle fonti fu catturato lo stesso Valeriano (per altri, come ad es. lo storico bizantino Zosimo nell'”Historìa Nea”, fu preso prigioniero a tradimento durante un Incontro con gli emissari di Sapore), il quale finì tristemente i suoi giorni subendo un duro trattamento da parte del monarca persiano (sarebbe stato addirittura reso schiavo), -che per gli autori cristiani, come ad es. Lattanzio, nel “De mortibus persecutorum”, sarebbe stato un castigo divino per il suo anti-cristianesimo-.

Il suo figlio e successore Gallieno, che era già stato associato al trono dal padre, per il momento preferì non continuare la guerra in oriente, concentrando i suoi sforzi in occidente, sia contro i barbari germanici, sia contro i numerosi usurpatori che insidiavano, oltre che la sua autorità, il vacillante assetto dell’Impero. Gallieno rovesciò la politica anti-cristiana di suo padre ed emanò un editto con il quale, anticipando di sessant’anni quello di Costantino, riconosceva espressamente libertà di culto ai Cristiani. Il testo dell’editto non è stato tramandato e se ne hanno solo testimonianze indirette, in particolare la “Storia Ecclesiastica” di Eusebio di Cesarea, in cui si riporta (VII, 13) il testo di un rescritto rivolto al vescovo Dionisio di Alessandria in cui l’imperatore dichiara, dopo aver sconfitto l’usurpatore Lucio Mussio Emiliano, che si era a lui ribellato, di estendere anche all’Egitto i benefici concessi ai cristiani e in particolare la restituzione dei beni precedentemente requisiti. E’ questo il primo atto ufficiale con cui la chiesa cristiana e i suoi rappresentanti ricevevano un riconoscimento giuridico da parte dello stato romano; da questo momento per circa quarant’anni, fino agli editti di persecuzione di Diocleziano e Galerio non vi furono più persecuzioni o repressioni nel territorio dell’Impero Romano. Come abbiamo già detto nella prima parte, nel 272 Aureliano dopo aver sconfitto Zenobia, regina di Palmira, che si era resa indipendente sottraendo all’autorità di Roma buona parte dell’Oriente, su richiesta dei cristiani di Antochia destituì il vescovo Paolo, già funzionario di Zenobia, che sosteneva tesi teologiche di stampo modalistico e adozionistico (si veda al riguardo la nota n. 6), e impose come successore di lui Domno, in comunione con Roma.

Ma dopo questo lungo periodo di pace tra la fine del III e gli inizi del IV secolo si giunse ad una persecuzione generalizzata ad opera di Diocleziano e soprattutto di Galerio, il “cesare ” di Diocleziano, che spinse il sovrano dalmata, che nei primi anni del suo governo era stato tollerante verso i cristiani, sulla via della repressione. E’ solo in questo periodo che si configura una precisa intenzione di punire e di eliminare dal corpo sociale tutti coloro che, specialmente in un momento difficile per l’Impero, stretto tra gravi problemi interni ed esterni, sembravano essere nemici o comunque estranei dello spirito e della grandezza di Roma e dei suoi capi. Per questo fu espressamente richiesto di sacrificare agli dei protettori di Roma e al genio dell’imperatore: rifiutare questo atto di devozione e lealtà equivaleva a dichiararsi nemici di Roma, non voler rivolgere i propri voti al Cielo per la salvezza della patria e dell’imperatore.

Causa scatenante del primo editto di persecuzione, nel 297, che peraltro coinvolgeva pure i Manichei, ed anzi era rivolta principalmente verso di essi, sarebbe stata la sconfitta subita da Galerio in quell’anno da parte del re persiano Narsete, che avrebbe esasperato la pregressa ostilità di quest’ultimo nei confronti dei cristiani. L’intento di questo primo editto tuttavia era soprattutto di espellere dall’apparato dello stato tutti i funzionari e gli ufficiali che non fossero integralmente devoti al “mos maiorum”, e quindi anche alla religione avita, che Diocleziano si proponeva di restaurare.

Secondo Lattanzio (De mortibus persecutorum, 10) mentre Diocleziano e Galerio si trovavano ad Antiochia -capoluogo della provincia di Siria-, dopo la conclusione della pace di Nisibis con l’Impero Sassanide, nel 299, fu celebrata una solenne cerimonia religiosa per ringraziare gli dei della vittoria conseguita dai Romani sui Persiani. In quella circostanza fu anche compiuto un sacrificio cruento per interrogare la volontà divina. Ma gli arùspici, -i sacerdoti che “leggevano” nelle viscere degli animali sacrificati secondo un antica disciplina di origine etrusca (detta appunto “Etrusca Disciplina)- non riuscirono a rinvenire i “segni” che avrebbero garantito la validità del rito, e neppure ci riuscirono ripetendo il sacrificio. -Nel testo di Lattanzio non è precisato, ma probabilmente si trattava dell’assenza del “caput iecinoris”, un’escrescenza situata sul lobo destro del fegato, la cui mancanza rendeva nulla la consultazione (in tal caso si diceva che le viscere erano “mute”, “exta muta”)-.

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Il “Buon Pastore”, immagine nelle catacombe di San Callisto a Roma.

La causa dell’infausto prodigio fu attribuita alla presenza di persone che esercitavano un’influenza negativa e che furono identificati con i cristiani, e pertanto iniziò una persecuzione, che come si è detto, fu caldeggiata soprattutto da Galerio. In principio tuttavia i provvedimenti anti-cristiani furono abbastanza contenuti e si limitarono alla confisca dei beni, alla distruzione delle “domus ecclesiae”, con divieto di ricostruirle, al divieto di riunione e alla perdita di cariche e onori eventualmente detenuti.

Sempre da Galerio fu ispirato un secondo decreto di persecuzione promulgato nel 303 in occasione della festa dei “Terminalia”, celebrata “die VII ante Kalendas Martias” (23 Febbraio), e dedicate al dio Terminus, una delle più antiche divinità romane, preposto ai confini dello stato come dei terreni agricoli, il cui culto era ormai desueto, o meglio spogliato della valenza più autenticamente sacrale per ridursi a una sagra paesana in cui i proprietari dei fondi rustici imbandivano tavolate e banchetti. La scelta di questa data intendeva ribadire l’intenzione di restaurare lo spirito religioso dell’antica Roma. In tale decreto si comandava di distruggere le chiese e di sequestrare le sacre scritture Cristiane (8); e che i cittadini “honestiores” (cioè gli appartenenti alle classi senatoria ed equestre) fossero retrocessi a “humiliores”, mentre questi ultimi vennero inseriti nella categoria degli “infames” (alla quale appartenevano i condannati per gravi reati, coloro che esercitavano professioni “infamanti”, -quali gladiatori, attori, prostitute, ecc.-): questo significava ridurre le loro garanzie nei processi e soprattutto renderli passibili delle pene strazianti.

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Orfeo che suona la lira, affresco nelle catacombe dei santi Marcellino e Pietro.

Pochi mesi dopo però scoppiarono due gravi incendi nel palazzo imperiale di Diocleziano a Nicomedia, in Bitinia (capitale della “Praefectura Orientis”)) e di tali iatture furono accusati i cristiani: pertanto i provvedimenti contro di essi divennero più duri e si ordinò che anche gli ecclesiastici già arrestati fossero condannati a morte. Da notare tuttavia che mentre nelle province orientali le persecuzioni infierirono con maggiore intensità, specie dopo che nel 305 Galerio era succeduto a Diocleziano come “augusto”, in quelle occidentali appartenenti alle prefetture d’Italia e delle Gallie, governate rispettivamente da Massimiano e da Costanzo Cloro, -padre di Costantino-, esse ebbero intensità alquanto minore: soprattutto nella “Praefectura Galliarum” (che comprendeva la parte più occidentale dell’Impero, dalla Britannia alla Mauretania Tingitana, nell’attuale Marocco) in pratica la persecuzione non fu attuata.

Secondo lo storico Franco Cardini “i Cristiani erano in generale […] fedeli sudditi, disposti ad obbedire al loro imperatore […] ma non ad adorare lui o la Dea Roma e a partecipare pertanto a riti che per i Romani erano solo una prova formale di fedeltà e di ossequio. Su questa “buccia di banana” erano scivolati […] i rapporti tra le autorità romane e le comunità cristiane” (articolo sulla rivista “Iesus”, dicembre 2012).

Sarebbe bene peraltro ricordare che vittime di una persecuzione religiosa violenta e durevole (forse più di quella che subirono i cristiani) furono anche i Manichei, -i seguaci del profeta babilonese persiano Mani (216-277)-, che erano numerosi soprattutto in Egitto e in Palestina e contro i quali già nel 296 il proconsole d’Africa Giuliano aveva adottato severe misure che furono inasprite da Diocleziano nel 302 (di questa feroce persecuzione però non si fa mai cenno, anche perchè le condanne contro i Manichei furono poi ribadite dalla chiesa e dai sovrani cristiani).

Le persecuzioni nelle diocesi balcaniche Pannoniarum, Moesiarum e Thraciae e in quelle anatoliche Asiana e Pontica durarono fino agli inizi del 311, allorché Galerio, già gravemente malato, il 30 aprile di quell’anno emanò, – a Nicomedia, o secondo altri a Sèrdica, in Tracia- l’editto che poneva fine ad esse. Cinque anni dopo l’imperatore forse più esecrato dai cristiani, moriva tra atroci tormenti, nei quali i seguaci delle religioni perseguitate videro una punizione divina (9). Nella diocesi Orientis, che comprendeva Siria ed Egitto, governata da Massimino Daia, succeduto a Galerio come “Cesare”, e anch’egli acerrimo nemico dei Cristiani, la persecuzione si protrasse fino a quando quest’ultimo non venne sconfitto da Licinio nella battaglia combattuta a Campo Sereno nei pressi di Adrianopoli il 30 aprile 313.

Con la vittoria di Costantino su Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio, il 23 ottobre 312, e quella suddetta di Licinio su Massimino Daia, avevano finalmente termine le guerre civili scoppiate tra i vari “augusti” e “cesari”, i quali, nelle intenzioni di Diocleziano, avrebbe dovuto regnare nella concordia e nell’armonia. In realtà però come quasi sempre succede nelle “res humanae”, la ambizioni individuali e familiari, nonché le incomprensioni e le divergenze di tipo sia politico, sia personale, avevano prevalso, facendo così naufragare la “tetrarchia” inaugurata dal grande imperatore. I due augusti rimasti vincitori si accordarono allora per governare insieme l’Impero, -alleanza che invero si rivelò ben presto anch’essa effimera- (10). A tal fine si incontrarono a Milano, dove per suggellare l’accordo Licinio sposò la sorellastra di Costantino, Costanza, -figlia di Costanzo Cloro e della sua seconda moglie Teodora, mentre Costantino era il rampollo della prima, Elena-; in quella occasione emanarono l’editto (11) che poneva definitivamente fine nell’Impero di Roma alle discriminazioni e ai provvedimenti repressivi, sia temporanei e occasionali, sia sistematici contro gli appartenenti alle comunità cristiane.

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Si noti peraltro che nell’editto di Milano emanato da Costantino e Licinio nel febbraio 313, che confermava e precisava il precedente editto di Nicomedia del 311, una delle motivazioni della nuova politica verso i cristiani era che anch’essi rivolgessero ferventi preghiere al loro dio per la salvezza dell’imperatore e dell’Impero Romano: quindi l’idea di fondo che aveva animato sia gli intellettuali sia le autorità politiche nel secolo precedente, -ovvero l’unità fondamentale di tutte le fedi entro un quadro più vasto di ispirazione spiritualistica-, rimaneva, ma accettando la forte “specificità identitaria” (per usare un’espressione moderna) dei cristiani. Ora non si pretendeva più un’adesione formale al culto di Roma, ma in qualche modo la “religio christiana”, che si avviava a diventare la sola religione in Europa, -pur se declinata in molte differenti versioni e dottrine, non di rado ferocemente avverse tra di loro-, inglobava essa stessa l’idea di “Roma Aeterna”, il cui vasto dominio era stato predisposto dalla divina provvidenza per preparare l’avvento del cristianesimo. Ma nell’editto si fa esplicito riferimento ad una divinità che ciascuno è libero di cercare a suo modo: “UT DAREMUS ET CHRISTIANIS ET OMNIBUS LIBERAM POTESTATEM SEQUENDI RELIGIONEM QUAM QUISQUE VOLUISSET, QUOD QUICQUID EST DIVINITATIS IN SEDE CAELESTI, NOBIS ATQUE OMNIBUS QUI SUB POTESTATE NOSTRA SUNT CONSTITUTI, PLACATUM ET PROPITIUM POSSIT EXISTERE”.

Rilevi su una delle porte del Duomo di Milano, opera dello scultore Arrigo Minerbi (1881-1960), che ricordano l'Editto di Costantino e Licinio (rappresentati rispettivamente a sinistra e a destra).
Rilevi su una delle porte del Duomo di Milano, opera dello scultore Arrigo Minerbi (1881-1960), che ricordano l’Editto di Costantino e Licinio (rappresentati rispettivamente a sinistra e a destra).

E nel 382, quando l’Impero, che ormai aveva fatto del cristianesimo la propria religione (o ideologia) ufficiale, l’imperatore Valentiano si decise a rimuovere dall’aula del Senato di Roma l’ara dedicata alla vittoria, il senatore e scrittore Q. Aurelio Simmaco, rivolgendosi all’imperatore affinché recedesse dalla sua decisione, in ossequio all’antica tradizione che aveva fatto grande Roma, -e dunque non in nome di un principio o di una fede religiosa-, nella “Relatio de ara Victoriae” si richiamò esplicitamente a Costantino, che aveva dato cittadinanza al cristianesimo senza rinnegare i principi di Roma, e al suo operato. Quanto il senatore esprime sembra sviluppare quanto già nell’editto costantiniano è sottinteso, -o meglio affermato in estrema sintesi-: “AEQUUM EST, QUIDQUID OMNES COLUNT -(che ricorda il “quidquid divinitatis” di Costantino)- UNUM PUTARI. EADEM SPECTAMUS ASTRA, COMMUNE CAELUM EST, IDEM NOS MUNDUS INVOLVIT. QUID INTEREST, QUA QUIDEM PRUDENTIA QUISQUE VERUM REQUIRAT? UNO ITINERE NON POTEST PERVENIRI AD TAM GRANDE SECRETUM” (12).

Nella relazione di Simmaco, come già nell’editto di Costantino, si esprime dunque l’idea che le religioni storiche non siano altro che vie attraverso le quali ciascuno cerca di giungere ad una realtà divina o spirituale, che è unica per tutti, ma che ognuno può venerare nel modo che gli è più congeniale. S. Ambrogio invece, che polemizzò duramente con Simmaco, riteneva che il solo dio dei cristiani, quello concepito e adorato dalla teologia ecclesiastica fosse l’unico e vero dio (“ipse enim solus verus deus est”) e quella purtroppo fu la concezione che prevalse, con tutte le tragiche conseguenza che ben conosciamo.

D’altra parte con l’imposizione della religione cristiana, anche in territori e in segmenti sociali, quali il proletariato rurale, che fino ad allora erano stati quasi del tutto estranei alla nuova fede, e con il venirsi a sostituire della ritualità cristiana ai culti ufficiali che, per quanto in modo esteriore, avevano costituito l’apparato ideologico dello stato romano, iniziò un processo di osmosi con le forme, e pure con lo spirito, della religiosità antica per cui la chiesa, quando non riusciva a scalzarle né con la persuasione né con la violenza, tentava di incorporare, dando loro una superficiale vernice cristiana, credenze e riti propri delle religioni precedenti. Questa “politica” rimase poi costante nell’operare della chiesa, che in qualche modo accettava compromessi con credenze ad esse estranee purchè fossero inserite entro il contesto ideologico-dottrinale da essa imposto e soprattutto sotto la sua assoluta  e indiscutibile autorità.

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Da qui la cooptazione di molteplici elementi e pratiche derivate dalle religioni “pagane” (processioni, venerazione dei santi -che ereditavano le “competenze” specifiche degli antichi dei-, culto delle reliquie, voti, ecc.) nella pietà e nella liturgia cristiane; uno degli aspetti più caratteristici, e più significativi di questo processo fu la “cristianizzazione” di molte delle feste del calendario romano -ma pure di quello greco e celtico (13)-: il “Dies Natalis Solis Invicti” viene scelto per celebrare il Natale di Cristo in Roma fina dalla prima metà del IV secolo, probabilmente al tempo di papa Giulio I (337-354), -poiché la figura di Cristo viene a identificarsi con quella degli altri dei solari redentori come Helios, Mitra, Juppiter Helipolitanus, ecc.); il Lupercali diventano la festa della Purificazione di Maria Vergine, il 2 febbraio (e tale data si sovrappone anche a quella di una delle principali festività del calendario celtico, Imbolc);

nel “dies III ante Idus Maias” (il 13 maggio), l’ultimo e più importante giorno delle “Lemuria”, -le feste romane dedicate alla commemorazione dei defunti-, si stabilisce la festa di tutti i santi, che però in un secondo tempo, nell’835 (come abbiamo visto nell’articolo su Halloween e la commemorazione dei defunti), viene spostata al 1 novembre per sostituire il Samhain , il capodanno celtico, che veniva ancora celebrato nell’Europa centro-settentrionale; l’Assunzione di Maria Vergine prese il posto della Natività di Diana, -celebrata alle Idi di agosto- nonché di numerose feste che cadevano nella parte centrale del mese di agosto nel calendario romano (Lychnapsia -festa delle lucerne-, Vinalia rustica, Consualia), ma soprattutto delle “feriae Augusti” (14) (15).

Questo processo di sovrapposizione delle pratiche cristiane a quelle “pagane”, -che era complementare a quello parallelo di eliminazione-, avvenne perché la chiesa cristiana, una volta divenuta maggioritaria, dovette per forza adeguarsi ad incanalare entro l’ortodossia l’autentica religiosità popolare, che mira soprattutto a soddisfare esigenze e pulsioni psicologiche, a cercare un legame, una “communio” con la divinità (si ricordi che l’etimologia più accreditata del termine “religio” è quella che lo fa derivare da “religare”, sottolineandone quindi la funzione di tramite tra l’uomo e gli dei) (16). Ed in effetti questo è il fine della categoria della religione nelle società e nella storia umana.

Peraltro una simile evoluzione (o involuzione, a seconda dei punti di vista) si osserva un po’ in tutte le religioni fortemente “ideologiche” (islamismo, buddismo, zoroastrismo), che si fondano sugli insegnamenti, veri o presunti, di un “maestro”, la cui figura ha dei contorni leggendari, ma che nel diffondersi hanno conglobato, in modo e in misura diverse, elementi della religiosità pre-esistente e più radicata nel sentimento popolare.

Fanciulli che si preparano a una processione in onore di Diana (affresco proveniente da Ostia).

Negli anni ’60, allorchè l chiesa cattolica fu investita dalle bufere e dalle polemiche durante dopo il concilio Vaticano II, fu coniato un orribile, e peraltro ben presto desueto neologismo, “costantinizzazione”, per indicare il compromesso che la chiesa avrebbe accettato con le strutture del potere imperiale e con la religiosità “alienante”, propria del “paganesimo” e del misticismo neoplatonico, tradendo così la sua presunta missione “rivoluzionaria” in senso sociale e divenendo così anch’essa “oppio dei popoli”.

Questa concezione era propria di quelle correnti che, in modo assolutamente arbitrario e incongruente, intendevano ridurre la dottrina cristiana, il “messaggio evangelico”, ad una sorta di rivoluzione sociale ugualitaristica, ad un fattore di rinnovamento politico, trascurando o negando il suo carattere spirituale (“il mio regno non è di questo mondo”) e non rendendosi conto che l’attribuire alla chiesa e alla dottrina cristiana una funzione politico-sociale, più che spirituale, comportava di necessità il demandare alla chiesa stessa un ruolo di potere, sia pure in chiave rivoluzionaria e non conservatrice, farle assumere una posizione temporalista opposta e contraria, rispetto a quella prevalsa nello sviluppo storico-dottrinale della chiesa cattolica, ma ugualmente politica e terrena, e si può considerare dunque l’altra faccia dell’unica medaglia del temporalismo ecclesiastico.

Quanto codesta interpretazione sia sbagliata è dimostrato anche dal fatto che nei primi secoli del cristianesimo non vi fu alcuna corrente o gruppo, organizzato o meno, che abbia attribuito alla dottrina cristiana un significato di rivoluzione sociale, nemmeno quelle più estremiste, quali i montanisti o i novaziani -che erano animate da spiriti apocalittici e millenaristi-. Solo alcune sette gnostiche, quali i carpocraziani, proponevano una visione antropologica e sociale, che si potrebbe definire comunistica, ma di un “comunismo” ben più prossimo a quello platonico o cinico-stoico che a quello marxista. Anche nella setta dei donatisti del IV secolo, -dei quali parleremo in seguito-, in cui al fanatismo religioso si univa la ribellione degli sfruttati e del proletariato agricolo dell’Africa settentrionale, non si può in alcun modo vedere un tentativo, ancorchè maldestro, di instaurare un sistema economico-sociale “rivoluzionario”.

Per tale ragione, più che di “costantinizzazione” (che orrore di parola!) della chiesa, si dovrebbe parlare dell’assunzione di un carattere confessionale da parte dell’impero, da laico ed estraneo alle questioni di coscienza che era; ma la colpa di questo non fu di Costantino, -che è e rimane comunque un grande imperatore e che cercò di risolvere il problema integrando la gerarchia cattolica nelle strutture dell’impero, illudendosi forse di poter instaurare un equilibrio, che si rivelò ben presto impossibile-. Poiché egli aveva indubbie doti di statista, riuscì a mantenere il controllo sul potere sempre più invadente della chiesa; ma così non fu con i suoi successori (ad eccezione di Giuliano “l’Apostata”), i quali non possedendo certo le sue qualità, non riuscirono più a frenare l’invadenza del clero e ne divennero passivi strumenti.

Si deve tenere conto inoltre che una chiesa intesa come comunità universale, moltitudinista, che comprende quanti più individui, se possibile tutta l’umanità, per forza di cose deve disporre di un organizzazione disciplinare, giuridica ed economica altamente strutturata e non può essere quindi né povera né “spirituale” (nel senso di distaccata dalla cose di questo mondo); per essere povera e spirituale dovrebbe essere costituita solo da una minoranza di eletti, -come gli “pneumatici” nel pensiero degli gnostici- ed avere quindi un carattere sostanzialmente aristocratico, che però sarebbe in palese contraddizione con le concezioni assembleariste, comuniste e populiste-pauperiste dei seguaci delle correnti ecclesiologicheodierne a cui si è fatto cenno sopra (senza contare il fatto che anche nei primi secoli le comunità cristiane non erano affatto povere! anzi, come abbiamo detto, erano assai fornite di beni terreni).

Il fatto che la sede imperiale non fosse più a Roma (17) diede di fatto al vescovo dell’Urbe, al quale era ormai attribuito in via ufficiale il primato sulla chiesa universale (pure se tale primato fu non di rado contestato e messo in discussione in Oriente, dando luogo a feroci dispute politico-teologiche -scisma dei Tre Capitoli, iconoclastia, scisma di Fozio, sui quali si vedano la nona e la decima parte de “L’Anima e la sua sopravvivenza” del 29 luglio e 10 agosto 2017-, fino alla definitiva rottura nel 1054), una preminenza non solo spirituale ma anche (anzi soprattutto…) politica, specialmente nell’Italia centro-meridionale, che costituiva un’unica provincia ecclesiastica a lui sottoposta (18).

Pur se la famosa “Donazione di Costantino”, con la quale l’imperatore avrebbe ceduto al papa l’Italia e tutto l’occidente, è un falso confezionato alla metà dell’VIII secolo per convincere il re dei Franchi Pipino il Breve a donare a titolo di piena sovranità i territori da lui conquistati ai Bizantini a Stefano II (III) (19) (20), è però vero che fin dal IV secolo il pontefice (ad onta del fatto che fosse il vicario di colui il quale, secondo il vangelo di Giovanni -XVIII, 33-37- aveva dichiarato non essere il suo regno di questo mondo) esercitò un’influenza, e un’ingerenza, sempre più pesante nelle vicende politiche, ed ambì ad aumentare vieppiù tale influenza, favorito sia dalla lontananza e latitanza degli imperatori, sia dalla progressiva paralisi dell’apparato amministrativo dello stato, che, specie dopo la guerra tra Goti e Bizantini e l’invasione dei Longobardi nel VI secolo, cadde quasi ovunque in totale sfacelo.

Per tale ragione papa e vescovi si trovarono spesso a dover esercitare una sorta di supplenza della pubblica amministrazione e dell’ordinamento giudiziario che erano gravemente carenti, quando non del tutto scomparsi. E la dicotomia, talora sfociata in aperto ed aspro conflitto tra potere civile e potere religioso, tra “sacerdotium” e “regnum”, tra imperatore (prima bizantino, poi del Sacro Romano Impero) e papa caratterizzerà da allora in poi tutta la storia dell’Europa occidentale: in effetti della fine dell’Impero Romano d’Occidente la conseguenza più grave e più gravida di conseguenze fu proprio questa: l’ingombrante presenza di un fortissimo potere che pretendeva, -e pretende tuttora-, di possedere un’autorità assoluta e superiore a qualunque altra, a cui qualsiasi altra forma di autorità, non solo spirituale e intellettuale, ma anche politica, dovrebbe sottostare.

L’imperatore Costantino.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

N.B.: articolo modificato e ampliato nell’aprile 2023.

Note

1) la “lex” era la norma approvata dai “comitia” (le assemblee popolari) su proposta di un magistrato dal quale prendeva il nome; il “senatusconsultum” o (“senatoconsultum”) era la deliberazione adottata dal senato in una determinata materia. In età imperiale avevano valore di legge anche le “costitutiones” stabilite dagli imperatori e in genere formulate da giuristi più o meno famosi.

2) per spiegare l’enorme differenza di carattere e statura morale esistente tra il padre e il figlio, si sospettò che Commodo fosse il frutto di una infedeltà di Faustina Minore, la consorte di Marco Aurelio. Nella “Historia Augusta” (Vita di Marco Aurelio, 19) si riferisce, -come fatto che, pur non essendo certo, “verisimile videtur”-, che un giorno la bella Faustina confessò al marito di essersi innamorata di un gladiatore. Il futuro imperatore si rivolse allora a dei maghi di origine orientale (nel testo “Chaldeos”, ma non è detto che fossero davvero caldei, poichè essendo la Caldea ritenuta terra di maghi, venivano spesso definiti così tutti gli “operatori dell’occulto”, come si direbbe ai giorni nostri), -quei maghi che gli imperatori romani in genere ufficialmente condannavano e contro i quali spesso emisero “provvedimenti restrittivi”, quando non vere e proprie persecuzioni, ma che poi consultavano nel privato-. Costoro gli consigliarono di fare decapitare il gladiatore e di lavarsi con il sangue di lui; dopo di che avrebbe dovuto giacere con la consorte. Così fu fatto e in tal modo Marco Aurelio riuscì a riconquistare l’amore di Faustina. Ma il figlio, -ossia Commodo-, che nacque da quell’amplesso non era figlio di Marco Aurelio, ma del gladiatore, dal quale ereditò tutte le cattive inclinazioni.

3) Marzia, insieme al prefetto del pretorio Quinto Emilio Leto e al cubiculario Ecletto, ordì poi una congiura in seguito alla quale Commodo perse la vita. Secondo quanto narra lo storico greco Erodiano (Storia dell’Impero Romano dopo Marco Aurelio, I, 49-54), la concubina dell’imperatore venne quasi per caso in possesso di una sorta di pro-memoria stilato da quest’ultimo che conteneva una lista di persone da far condannare a morte, in capo alla quale era proprio il nome di lei, seguito da quelli del prefetto, del cubiculario e da una lunga serie di senatori. La causa del risentimento di Commodo sarebbe stata la contrarietà di costoro a che egli apparisse al popolo nel dì di Capodanno, tutto agghindato nei paludamenti imperiali non dal portone del palazzo imperiale, ma da quello della caserma dei gladiatori che egli soleva frequentare, -cosa che pareva del tutto indegna del suo rango-. Pertanto i dignitari pensarono bene di prevenire i disegni dell’imperatore, e Marzia offrì al suo “compagno” -come si direbbe oggi-, una coppa di vino avvelenato. Se non che, Commodo vomitò quanto aveva ingerito durante la cena, e quindi per timore che il veleno non facesse più effetto, i congiurati chiesero al gladiatore Narcisso, l’allenatore di Commodo -il “personal trainer” si direbbe ai giorni nostri- di strangolare il suo augusto allievo, cosa che avvenne il 31 dicembre 192.

4) tra le catacombe più famose e significative per la bellezza e la raffinatezza della decorazione pittorica in cui si nota questo spirito conciliativo, -o per adattamento al simbolismo cristiano di temi iconografici greco-romani, o per una forma di sincretismo religioso-culturale- sono quelle di Priscilla, di Generosa, gli Ipogei di Vibia, degli Aureli, di via Latina, ecc. tutti a Roma. Per quanto siano presenti in diverse parti dell’impero, è nell’area italiana, e soprattutto a Roma, che catacombe e ipogei si segnalano per numero, estensione spaziale e qualità artistica.

5) si noti che dal punto di vista dei “pagani” il sacrificio, -che constava in genere solo da un’offerta di incenso-, e la conseguente concessione del “libellus”, non costituiva un atto propriamente “religioso”, e tanto meno una “professione di fede”, in antitesi con quella cristiana. Infatti una volta che fosse comprovato il loro lealismo verso lo stato romano, i cristiani potevano continuare a tenere le loro riunioni e celebrare i loro riti.

6) Novaziano pertanto negli annali della chiesa Cattolica è ricordato come il secondo “antipapa”. Il primo antipapa è Ippolito, eletto nel 217 in opposizione a Callisto I; si noti che pure costui era stato un sostenitore del rigorismo sia in campo morale e disciplinare, sia in campo teologico, accusando il suo rivale di essere troppo accondiscendente, oltre che alle debolezze umane, a dottrine teologiche da lui ritenute errate, come il monarchianismo dinamico (il Dio-figlio è solo un’emanazione del Dio-padre), il modalismo (Padre, Figlio e Spirito santo sono modi o espressioni dell’unico Dio e non persone divine) e l’adozianismo (Gesù fu solo “adottato” quale figlio da Dio al momento del battesimo nel Giordano), cadendo peraltro nell’opposta tesi eretica di accentuare fortemente la distinzione tra Padre e Figlio, giungendo quindi in una sorta di “diteismo”. Non a caso i residui seguaci di Ippolito e dell’eresia montanista si unirono poi a quelli di Novaziano ai quali per molti aspetti erano simili.

7) con il nome di “Cesarea” fu ribattezzata alla fine del I sec. a. C. l’antica città di Panion, -che aveva preso il nome dal dio Pan, colà venerato-. Tale città è nota perchè nei suoi pressi nel 200 circa a. C. (l’anno preciso è difficile da stabilire per alcune discordanze nelle fonti) le truppe di Antioco III il Grande di Siria vi sconfissero quelle di Tolomeo V Epifane, re d’Egitto, guidate da Scopa: in conseguenza di codesta vittoria la Palestina passò dal dominio del regno tolemaico d’Egitto a quello dei Seleucidi. La specificazione “di Filippo” le fu attribuita, per distinguerla da Cesarea Marittima sulla costa, in onore di Erode Filippo, figlio di Erode il Grande e della sua terza moglie Cleopatra di Gerusalemme, che alla morte del padre aveva ereditato la tetrarchia di Gaulanitide, Traconitide, Batanea e Auranitide.

8) i vescovi e i presbiteri i quali ottemperando all’ordine dell’imperatore, consegnavano ai magistrate inquirenti i testi delle scritture cristiane furono detti “traditores” (dal verbo “trado, -ere” = “consegnare”). Da tale accezione deriva il significato del termine Italiano “traditore”.

9) poco dopo lo scrittore Lattanzio compose la sua operetta “De mortibus persecutorum” per sostenere che gli imperatori che si erano dimostrati ostili verso i cristiani avevano dovuto subire già su questa terra il castigo divino e avevano fatto una brutta fine.

10) in effetti la vittoria di Licinio su Massimino Daia in Oriente fu successiva all’accordo. Già pochi mesi dopo l’accordo di Milano si manifestarono le prime divergenze tra Costatino e Licinio, tanto che essi giunsero ad un scontro armato che si svolse a Cìbale in Pannonia nel 314. Il conflitto fu temporaneamente sanato, ma le discordie rimasero, fino alla definitiva estromissione di Licinio dal governo dell’Impero dopo la battaglia di Adrianopoli nel 323.

11) da un punto di vista giuridico la definizione di “editto” data a questo provvedimento è impropria: infatti non di “edictum” si trattò bensì di “mandatum”. Sia l'”edictum” che il “mandatum” rientrano tra le “constitutiones principum”, i provvedimenti emanati dagli imperatori romani che erano fonti del diritto; la differenza tra i due è che mentre gli “edicta” contenevano istruzioni o criteri generali ai quali i magistrati delle province erano invitati ad attenersi (in pratica si trattava di autorevoli consigli), i “mandata” erano invece disposizioni vincolanti di contenuto imperativo.

12) l’idea delle religioni come “vie” attraverso le quali giungere alla divinità e all’Assoluto, -e che quindi esse di per sé, sia sul piano dottrinale sia su quello liturgico, siano solo “strumenti” mutevoli, dal valore soggettivo e influenzate o determinate da fattori ambientali e storici- è comune in modo più o meno accentuato a quasi tutte le dottrine mistiche, -anche delle religioni monoteistiche- (che per tale ragione sono sempre state viste con sospetto, quando non perseguitate, dalle istituzioni religiose ufficiali). Si confronti ad esempio la frase di Simmaco con questa massima di Gialal ad-Din Rumi (1207-1273), famoso poeta mistico persiano: “Le vie sono diverse, la meta è unica […] Quando vi si giunge, le dispute che sorsero durante il cammino si appianano”.

13) occorre peraltro precisare che a differenza del calendario di Roma, che si diffuse in pratica in tutti i territori dell’occidente colonizzati dai Romani, in Grecia, a causa del particolarismo campanilistico prevalente, non si ebbe mai un calendario unico, nemmeno nell’età ellenistica, e nelle varie città vigevano usi cronografici locali. Il calendario più noto e diffuso è tuttavia quello attico in uso ad Atene. Nei regni ellenistici fu adottato in genere il calendario macedone, che cominciava con la prima Luna Nuova dopo l’equinozio d’autunno, il più delle volte affiancato ad altri calendari locali (siriaco, mesopotamico, egiziano, ebraico).

14) il dogma dell’assunzione in cielo di Maria Vergine con il suo corpo terreno fu stabilito solo nel 1950 da Pio XII, ma nella tradizione cattolica questa ricorrenza era celebrata almeno dal V secolo in oriente e dal VII in occidente dove la festa fu ufficialmente introdotta da papa Sergio I (687-701),- il quale non a caso era di origine siriaca-. Nelle chiese orientali il 15 agosto si celebra non l'”assunzione”, ma la “dormizione” di Maria (“Koìμησις Θεoτoκoυ” = addormentamento della madre di Dio), poiché secondo la credenza orientale Maria Vergine si addormentò profondamente, e durante il sonno rese lo spirito a Dio; dopo tre giorni, ad imitazione di quanto era successo a suo figlio, anche il corpo di Maria fu miracolosamente trasportato in cielo (questo forma di trapasso alla vita eterna è chiamato anche “transito della beata Vergine”). Si osservi che nelle chiese orientali la solennità della “dormizione” è preceduta da un periodo di penitenza, simile alla quaresima della durata di due settimane.

15) nel 18 a. C: l’imperatore Ottaviano Augusto dichiarò il mese di agosto, -che da lui prese anche il nome (“augustus”) al posto del più antico “sextilis”-, nel quale ricorrevano alquante festività della religione romana, interamente festivo.

16) si noti che nel latino classico il termine “religio” indica l’aspetto oggettivo ed esteriore della religione (le credenze, i riti), mentre “pietas” designa il sentimento interiore (la “fede”, la “devozione”). “Fides” non ha mai nel latino classico un significato religioso o sacro, significa la fiducia, il fare affidamento su qualcuno o qualcosa; in quello cristiano acquista poi quello di “fede” religiosa, sia in senso soggettivo (l’atteggiamento interiore) sia in senso oggettivo (il contenuto o l’oggetto della fede stessa). In greco a questi tre termini si possono far corrispondere all’incirca (poiché non coincidono proprio in modo esatto) rispettivamente οσìoτης (religio), ευσεβεια (pietas) e πìστις (fides).

17) la capitale dell’Impero Romano d’Occidente fu prima Milano; in seguito Ravenna, dove la sede imperiale dove la sede imperiale fu trasferita nel 402 da Onorio, perché, essendo più lontana dal confine alpino e circondata da paludi, ritenuta più sicura e difendibile dalle incursioni barbariche. Rimase poi capitale sotto gli Ostrogoti e i Bizantini. Quando però la nostra penisola fu invasa dai Longobardi di fatto fu la capitale solo dell’Esarcato bizantino (in pratica parte dell’attuale Romagna).

18) la “provincia ecclesiastica” è un organismo che riunisce più diocesi (dette “suffraganee”), a capo della quale è un metropolita (o più comunemente arcivescovo). Fino al IX secolo il papa era il metropolita di tutta l’Italia suburbicaria, -ovvero quella centro-meridionale-. Solo a partire dall’VIII- IX secolo furono istituite in tale area altre province ecclesiastiche -peraltro di assai esigua estensione, specie in confronto con quelle enormi dell’Europa centro-settentrionale-, prima nelle zone più meridionali d’Italia, che erano sotto il controllo politico bizantino e che fino alla conquista normanna dipesero da Costantinopoli; in seguito per accontentare i piccoli sovrani degli staterelli longobardi e di quelli formalmente bizantini di Campania e Sannio (province di Salerno, Benevento, Napoli, Amalfi, ecc.); infine, dal XII sec. pure in quelle centrali. Nell’Italia settentrionale invece si trovavano le tre grandi province ecclesiastiche di Milano, Ravenna e Aquileia, che rimasero pressochè immutate fino al XV secolo (salvo l’istituzione della provincia di Genova nel 1133 e il fatto che la diocesi di Pavia fosse “immediatamente soggetta” al papa).

19) nel marzo 752 fu eletto pontefice il presbitero Stefano, ma morì pochi giorni dopo prima di ricevere la consacrazione; per tale ragione egli, -che avrebbe dovuto essere Stefano II-,  non fu considerato papa legittimo. A lui fu chiamato a succedere un altro Stefano, il quale venne quindi designato come Stefano II. Solo con le decisioni del Concilio Lateranense III del 1179 fu stabilito che la legittimità di un pontefice fosse garantita dalla validità dell’elezione e avesse corso dalla proclamazione dell’eletto, mentre la consacrazione era solo accessoria. Secondo tale norma l’elezione del marzo 752 sarebbe dunque stata valida e per tale ragione l’eletto fu inserito nella lista dei papi legittimi come Stefano (II), mentre i suoi successori omonimi furono designati con una doppia numerazione: Stefano II (III), Stefano III (IV), fino a Stefano IX (X) (1057-1058) che fu l’ultimo papa con tale nome. Si tenga inoltre presente che l’usanza di cambiare nome al momento dell’elezione, iniziata da Giovanni II (533-535), -probabilmente per il fatto che, chiamandosi costui Mercurius, gli sembrava poco conveniente alla sua nuova dignità portare il nome di una divinità romana-, rimase sporadica fino alla fine del X secolo quando invece divenne normale prassi, con le sole eccezioni di Adriaan Floriszoon, papa nel 1522-1523, -Adriano VI- (ultimo papa non italiano fino a Giovanni Paolo II) e di Marcello Cervini, papa per meno di un mese nell’aprile 1555, -Marcello II-, i quali mantennero come nome pontificale il proprio nome di battesimo.

20) tuttavia in quella circostanza non fu fatta dal re una vera e propria donazione, ma solo una promessa di compiere tale atto (la “Promissio Carisiaca”, o “Patto di Quierzy” – la cittadina della Gallia Belgica, Carisium, poi divenuta Quierzy, dove fu stipulato questo accordo), che non fu poi effettivamente perfezionata, anche se si ebbero diverse donazioni parziali di territori ex-longobardi ed ex-bizantini ai pontefici da parte dei sovrani franchi, in specie di Carlo Magno, che andarono a costituire la “stato della Chiesa”.

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