IL DECLINO DELL’IMPERO ROMANO (caduta o trasformazione?) -prima parte-

Affrontiamo stavolta un tema storiografico sul quale molto si è discusso, ma che non ha certo perduto la sua attualità. Anzi negli ultimi decenni, in seguito agli avvenimenti che hanno modificato il mondo contemporaneo e in particolare l’Europa, ha riacquistato un vivo interesse.

Il termine “caduta”, benché divenuto abbastanza abituale riferito alla fine dell’Impero Romano, fin dall’opera dello storico inglese Edward Gibbon (1737-1794) “Declino e caduta dell’Impero Romano”, divenuta un classico della storiografia di orientamento illuministico, è a mio avviso assolutamente improprio: innanzitutto perchè a “cadere”, tra il IV e il V secolo, fu solo l’Impero d’occidente, cioè una parte di quello che era stato il grande dominio di Roma; inoltre perché il termine “caduta” esprime l’idea di un collasso repentino e in qualche modo imprevedibile, cosa questa che non sembra possa riferirsi in senso stretto alla grande entità politico-sociale della quale stiamo trattando.

La parte orientale, l’Impero Romano d’Oriente, divenuto poi Impero Bizantino, non solo sopravvisse al primo, ma per alcuni secoli godette di un livello di civiltà, se non pari a quello del mondo greco-romano (perché le sue condizioni economico-sociali e culturali avevano molte ombre e anche la letteratura e la filosofia bizantine non ebbero certo l’originalità e la genialità di quelle del mondo classico), certo ben superiore a quello dell’Europa occidentale.

L'Impero Romano nel III secolo, al tempo della "grande anarchia militare"
L’Impero Romano nel III secolo, al tempo della “grande anarchia militare”

Quest’ultima nell’Alto Medio Evo, tra i secoli VI e XI, pur non essendo sprofondata in una completa inciviltà (poiché pure in essa vi furono nel pensiero e nell’arte manifestazioni degne di nota), conobbe senza dubbio un forte arretramento rispetto a quello che era stato il mondo greco-romano. Inoltre l’Impero Bizantino finì per cause abbastanza diverse da quelle che avevano portato alla dissoluzione dell’Impero d’Occidente.

In secondo luogo per la “pars occidentis” non di “caduta” si trattò, -intendendo con tale termine un evento relativamente rapido e breve, come la conquista militare di uno stato da parte di un altro più forte che ingloba quello sconfitto-, ma di una lenta e lunga agonia, i cui prodromi si possono avvertire già alla fine del II secolo (o addirittura nel I, secondo alcuni storici come il Mazzarino), dovuta a fattori interni, -che poi esamineremo in particolare- più che esterni (le “invasioni barbariche”), pur se questi ultimi la accelerarono e provocarono poi una frattura traumatica con il tessuto socio-culturale e l’ordinamento giuridico-amministrativo romano.

Molte sono le spiegazioni e le interpretazioni di questo processo storico date dagli studiosi; si potrebbe liquidare l’argomento adducendo il continuo divenire e l’instabilità di tutte le vicende umane, individuali e collettive, per cui ogni cosa conosce una nascita, uno sviluppo, un culmine e infine una inevitabile decadenza e morte; ed in effetti non ci si è mai posta la questione, almeno non in questi termini, per molte altre civiltà ed imperi che si erano succeduti nel Vicino e Medio Oriente prima dell’Impero Romano, o per quelli che vennero poi, la cui fine non ha dato luogo ad analisi così articolate e nel medesimo tempo così contrastanti.teodos2 Ma poiché, oltre alle peculiarità del fenomeno, l’interpretazione che si dà all’Impero Romano e alle modalità e cause del suo esaurirsi, è fondamentale per l’interpretazione e il giudizio che viene dato poi a tutta la civiltà e la storia europea -e non solo- successiva, per tale ragione il tema è stato trattato in modo assai più approfondito e ha suscitato un ampio dibattito.

A questo si aggiunga la tendenza manifestatasi negli ultimi decenni a dare a questo processo storico, e in generale a tutti i momenti cruciali della storia d’Italia e d’Europa, una “lettura” viziata dagli sviluppi recenti che si sono avuti nelle aree già appartenenti al dominio romano (specie in Europa) e non solo, o viceversa a interpretare gli avvenimenti attuali alla luce di quelle lontane vicende.

E’ peraltro evidente che, come in qualunque altra scienza, umana o naturale, la ricerca storica non può e non deve giungere a conclusioni certe e definitive, e compito dello storico, come di qualunque studioso serio, non è quello di costruire “teoremi” e sfornare presunte “verità”, contingenti e funzionali al clima socio-culturale in cui si trovi ad operare, o addirittura ispirate da interessi politico-sociali, ma offrire dati ed elementi documentari, su cui ciascuno possa fondare una propria interpretazione, personale ma non arbitraria.

E’ interessante peraltro notare che già autori latini che scrissero ben prima che cominciassero a manifestarsi con drammatica evidenza tutti i sintomi della crisi che avrebbe condotto alla fine dell’Impero delinearono una concezione storica, di carattere per cosi dire “biologico”, secondo la quale la vicenda storica di Roma poteva paragonarsi al ciclo della vita umana. Secondo Seneca il Vecchio (I sec. a. C.- I sec. d. C.): “la prima infanzia di Roma fu sotto Romolo; poi trascorse la puerizia sotto gli altri re”. L’adolescenza  corrispose alla prima età repubblicana, fino alla seconda guerra punica; “allora si rafforzò la potenza di Roma, la sua giovinezza ebbe inizio. […] Estese il suo potere su tutto il mondo, per terra e per mare; finchè, soggiogati tutti i re e le nazioni […] usò male delle sue stesse forze e così da sé stessa si finì”. In seguito dopo le guerre civili del I sec. a. C. “ricadde nel regime dell’impero di uno solo, come in una seconda infanzia. Infatti, perduta la libertà […] invecchiò come se non fosse più capace di sostenersi se non appoggiandosi al sostegno dei regnanti”.

Questa tesi di L. Anneo Seneca il Vecchio (detto anche Seneca retore, per distinguerlo dal più famoso Seneca il filosofo, suo figlio), che evidentemente esprime l’attaccamento e il rimpianto per l’antica repubblica romana, della quale il principato è visto come una sorta di degenerazione, fu ripresa oltre un secolo dopo da Lucio Anneo Floro, uno storico di origine africana, che scrisse al tempo di Traiano ( per altri di Adriano) un’opera storica con l’intento di esaltare la grandezza dell’Impero Romano, caratterizzata da una ininterrotta serie di conquiste. Per Floro l'”infantia” della “res publica” romana è da collocarsi nel periodo dei re, l'”adulescentia” arriva fino alla conquista dell’Italia, la “iuventus” è posta nelle tarda epoca repubblicana fino ad Augusto e la “senectus” ricorre nell’età del principato da Tiberio in poi, nella quale non si ebbe più un significativo incremento della potenza romana. Tuttavia Floro sostiene che l’Impero conobbe un nuovo vigore e una “seconda giovinezza” al tempo di Traiano, che tornò ad ampliarne i confini  a restaurarne le istituzioni.

Quindi possiamo affermare che già gli autori romani della prima età imperiale avevano coscienza dell’ineluttabile declino al quale la potenza di Roma sarebbe andata incontro e di come già si avvertissero i primi sintomi della decadenza e della “crisi” che ne minacciavano la sopravvivenza, e alla fine ne avrebbero causato il tracollo.

Com’è noto molte sono le cause alle quali sono stati attribuiti il declino e la fine dell’Impero Romano d’Occidente, ma in sintesi esse si possono raggruppare in tre principali ordini:

1) mutamenti culturali-spirituali nella società tardo-romana (e in particolare l’affermarsi del cristianesimo);

2) crisi economica, che portò a una vera e propria involuzione nel sistema finanziario, con il crollo della produttività e di quello che oggi si direbbe il PIL;

3) indebolimento e snaturamento delle strutture amministrative e militari dell’Impero.

A queste cause di fondo, tra le quali com’è ovvio esiste una indubbia interdipendenza (ma in quale misura e modalità però i pareri degli storici sono discordi), sono da aggiungere i grandi movimenti di popolazioni germaniche e in seguito di altre stirpi (Unni, Alani, Slavi, ecc.), le quali però non avrebbero potuto sconvolgere e sovvertire in modo irreversibile l’Impero se le strutture economico-sociali e i fondamenti politico-amministrativi di quest’ultimo fossero stati solidi come nei primi secoli; in tal caso l’Impero avrebbe potuto resistere e assorbire l’impatto di queste invasioni dall’esterno e integrarle nel suo ordinamento.

Le pressioni esterne sull'Impero Romano.
Le pressioni esterne sull’Impero Romano.

Di questo abbiamo un’indiscutibile riprova nell’evoluzione e nelle vicende dell’Impero d’Oriente che risentì in modo meno devastante di tali sommovimenti e non ne fu travolto. A tale riguardo non si dimentichi che già nei secoli precedenti vi erano state incursioni di barbari che si erano spinti in profondità anche nella penisola balcanica giungendo fino ad Atene (come l’invasione dei Goti nel 253 e degli Eruli nel 267).

L’irrompere, in modo più o meno violente e massiccio di intere popolazioni entro i territori di altre, spesso più civilizzate e dotate di un grado superiore di organizzazione sociale, non era certo fenomeno nuovo nella storia umana in generale e del bacino mediterraneo in particolare: si potrebbero citare infatti parecchi esempi di stati o di “imperi” collassati a causa di invasioni esterne: ad esempio il “Medio Regno ” egiziano finito in seguito all’invasione degli “Hyksos” intorno al 1730 a. C.; il secondo impero babilonese (quello del grande Hammurabi) a cui pose termine la popolazione di incerta origine etnica dei Cassiti intorno al 1600 a. C.; l’Impero degli Ittiti, abbattuto dall’invasione dei cosiddetti “Popoli del Mare” intorno al 1200 a. C.; l’arrivo dei Dori in Grecia, di poco posteriore, col quale ebbe termine la civiltà micenea ed iniziò il “Medioevo Ellenico”; ecc. Spesso pure in questi casi la fine di codesti organismi statali fu dovuta in realtà più a una crisi interna, per cui le invasioni di popoli “barbari” e il conseguente abbattimento di essi -talora definitivo, talora temporaneo-, vennero a riempire un vuoto economico, sociale e istituzionale che si era già creato in precedenza. D’altro canto gli invasori subirono ampiamente l’influenza delle popolazioni conquistate, di superiore civiltà, secondo  il principio enunciato nella celeberrima sentenza di Orazio (Ep., II, 156), “Graecia capta ferum victorem cepit”, -che peraltro si attaglia solo in minima parte al processo di incivilimento dei “barbari”, dal momento che i Romani non avevano certo invaso e imposto i loro costumi alla Grecia conquistata-.

In questo senso l’estinguersi dell’Impero Romano d’Occidente presenta analogie e ripropone situazioni che pur con grandi diversità erano già accadute; ma quello che caratterizza il crollo dell’Impero Romano rispetto ai similari eventi che abbiamo or ora ricordato, -oltre al fatto che rispetto a questi ultimi, sui quali le nostre conoscenze, derivanti quasi esclusivamente da fonti archeologiche ed epigrafiche, sono spesso incerte e controverse, la “caduta” di Roma è assai meglio studiata e conosciuta-, è che le “invasioni barbariche” si abbatterono su una società e su un organismo statale ben più complesso e strutturato, pur se in preda a una profonda crisi, di quanto, per quello che ne possiamo sapere, non fossero gli “antichi imperi d’Oriente”, provocandone la definitiva disarticolazione. Da qui l’impressione di forte arretramento e imbarbarimento che colpisce chi  osservi il contrasto tra lo splendore e la raffinatezza della civiltà greco-romana, pur nella sua fase di decadenza e la “rozzezza” dei regni barbarici (o romano-barbarici), -ad esempio nelle manifestazioni artistiche-.

Quanto al primo punto che abbiamo sopra elencato, l’imporsi del cristianesimo fu ritenuto la prima causa della crisi già da alcuni storici della tarda antichità, come il bizantino Zosimo, vissuto tra il V e il VI secolo, -autore della “Storia Nuova”-; ma si ritrova poi soprattutto nell’età moderna in una certa tradizione storiografica di derivazione illuminista, della quale il massimo rappresentante fu l’inglese Edward Gibbon (1737-1794), la cui monumentale opera abbiano citato in precedenza.

La tesi di quest’ultimo è che lo stato romano fu logorato e consunto dall’interno a causa della perdita di senso civico, di spirito patriottico e di attaccamento alle istituzioni indotta dal diffondersi delle dottrine cristiane: i Romani divenuti imbelli e non più davvero preoccupati per le sorti della loro patria, si affidarono in pratica solo ai mercenari, appartenenti spesso alle medesime stirpi di coloro che dovevano combattere, per cui di fatto essi anticiparono la creazione dei regni romano-barbarici e non seppero opporre una valida difesa alle forze destinate a distruggere, o comunque snaturare il loro mondo.

Questa tesi peraltro fu precorsa da similari indirizzi della storiografia umanistica, specie dal Machiavelli, per il quale l’aspirazione alla beatitudine ultraterrena (che peraltro esisteva anche nel mondo “pagano”, e anzi, sia pure in forme diverse, è presente in qualunque civiltà evoluta, -si pensi alle religioni misteriche del mondo greco-romano-) avrebbe soppiantato quella alla gloria terrena, e di conseguenza avrebbe disincentivato l’azione costruttiva sulla quale si fondava la romanità.

Il dio Mitra.
Il dio Mitra.

A questa analisi si può obiettare che, anche prescindendo dal diffondersi e poi dal prevalere del cristianesimo, il clima spirituale e culturale nelle regioni che componevano l’Impero Romano era già profondamente cambiato dalla metà del II secolo in poi, specie nella parte orientale;  tutta la società era percorsa in varia misura da aneliti mistico-spirituali che si esprimevano in dottrine sia di tipo filosofico, -quali il neopitagorismo e il neoplatonismo-, sia di carattere propriamente religioso, quale fu il “monismo solare”, del quale si può considerare un aspetto o una variante il culto di Mithra, quanto mai diffuso soprattutto nell’esercito, negli appartenenti alla pubblica amministrazione e seguito da molti imperatori.

Quindi nel III secolo, anche tra i non cristiani, la mentalità corrente non era più quella dell’età propriamente classica; si pensi ad esempio che il retore e filosofo Filòstrato di Lemno (1) intorno al 220 sentì la necessità di scrivere un’opera (“Περì Γυμναστικης”, “Sulla Ginnastica”) per esortare i suoi concittadini a dedicarsi all’educazione fisica e a riscoprire la pratica dello sport, che ai suoi tempi, pur non potendosi dire desueto, anche in quella che era la patria delle Olimpiadi non aveva più l’importanza e la funzione pedagogica che aveva avuto un tempo.

Nel Cristianesimo si ripropone peraltro un mitologema tutt’altro che ignoto alle religioni precedenti: quello del dio che si scarifica per la salvezza dell’umanità, la cui morte e resurrezione è nel medesimo tempo lo strumento e la vivente immagine della via salvifica tramite la quale l’uomo può la sua condizione profana e terrena per ascendere a quella spirituale -che è la “vera” vita- e partecipare così allo “status” della divinità. E pure il simbolismo naturalistico-agrario (quanto all’origine, poiché le dottrine mistiche furono elaborate un colti ambienti sacerdotali, non certo da rozzi contadini) col quale tale processo mistico è espresso -l’identificazione del dio redentore con la spiga di grano-pane e/o il grappolo d’uva-vino, che non danno solo la vita fisica, ma anche e soprattutto quella spirituale) è tutt’altro che una novità ma è legato alle figure degli dei della rigenerazione e della rinascita di tutto il mondo antico (Tammuz mesopotamico, Attis anatolico, Osiride egizio, Dioniso greco, ma pure Balder germanico, ecc.).

Ritratto marmoreo di Alessandro Severo custodito al Museo Archeologico di Milano.
Ritratto marmoreo di Alessandro Severo custodito al Museo Archeologico di Milano.

Molti, se non tutti gli imperatori del III secolo, da Alessandro Severo a Costantino stesso, si richiamarono in modo più o meno esplicito ad una religiosità di ispirazione solare e di carattere spiccatamente enoteistico (2), se non monoteistico, che portò alla proclamazione del “dies VIII ante Kalendas Ianuarias” (il 25 dicembre) poco dopo il solstizio d’inverno, allorché il Sole, riprende ad allungare la sua corsa nel cielo,- quale DIES NATALIS SOLIS INVICTI. L’introduzione di questa festività avvenne ad opera di Aureliano, il quale aveva mostrato considerazione anche per i cristiani: Infatti, dopo la sconfitta di Zenobia di Palmira (3) nella battaglia di Emesa nel 273, egli rimosse dalla sua sede il vescovo di Antiochia, -capoluogo della provincia di Siria-, Paolo di Samosata (270-275 circa), -ritenuto eretico, in quanto sosetnitore di una dottrina adozianista (che considerava cioè la persona di Gesù di Nazareth solo “adottata” da Dio al momento del battesimo)-, già consigliere e funzionario della sovrana (la quale a sua volta si era mostrata filo-cristiana), su richiesta della comunità cristiana della città: questo fu il primo intervento ufficiale di un imperatore nelle questioni interne della chiesa: dunque molto prima di Costantino. Ed in effetti il suo intervento, grazie al quale fu eletto il “candidato” gradito al vescovo di Roma, prefigurava un centralismo religioso imperniato sulla preminenza della capitale dello stato romano, che poi avrebbe avuto ampio sviluppo nell’Impero Bizantino-, e si inquadrava nell’opera di questo imperatore, volta restaurare l’unità dell’Impero e la centralità di Roma. Questo provvedimento di Aureliano dimostra in modo inconfutabile che prima della persecuzione di Diocleziano e Galerio i cristiani non erano perseguiti “ipso facto”, ma solo se e quando accusati di crimini specifici (ma su tale questione torneremo mel seguito della presente trattazione).

Ma nel corso del III secolo furono compiuti altri tentativi, sia da parte dei “pagani”, sia da parte di alcuni cristiani, per giungere a una sintesi e a una conciliazione sulla base di una spiritualità che vedeva nella filosofia ellenica, nella religione cristiana e in alcune espressioni religiose “pagane” degli aspetti della ricerca dell’unica realtà divina; tentativo vanificato dal prevalere nell’ambito del cristianesimo delle correnti più intolleranti e dogmatiche, che precluse definitivamente tale possibilità.

Mosaico pavimentale romano del III sec. proveniente da Munster in Germania. Il disco solare è l'immagine sensibile del principio primo dell'Universo.
Mosaico pavimentale romano del III sec. proveniente da Munster in Germania. Il disco solare è l’immagine sensibile del principio primo dell’Universo.

Ricordiamo ancora che, sempre nel III secolo, alcuni imperatori, tra i quali segnatamente Alessandro Severo (222-235) e Filippo l’Arabo (244-248), adottarono provvedimenti in difesa della pubblica moralità e del buon costume (soprattutto per reprimere la promiscuità e gli abusi nelle terme, la prostituzione maschile e l’impudicizia negli spettacoli) (4), non solo per una riviviscenza dell’antico “mos maiorum” romano, ma soprattutto per una concezione più spirituale della vita e dell’uomo, per cui il presunto libertinismo che viene spesso attribuito al mondo greco-romano (e invero spesso esagerato) (5) era già in larga parte tramontato prima che il cristianesimo prendesse il sopravvento.

Allorché Costantino emanò nel 313 l’Editto di Milano, il cristianesimo aveva ancora una presenza alquanto modesta nelle diocesi occidentali dell’impero (nell’Italia settentrionale ad esempio esistevano comunità cristiane di una certa rilevanza solo nelle grandi città, come Milano, Ravenna e Aquileia); più consistente era la sua presenza nelle diocesi orientali, in particolare in alcune regioni dell’Asia Minore, dove si stima che fosse cristiana circa metà della popolazione.

Ma nel complesso si può affermare che la conversione di massa al cristianesimo seguì più che precedere l’età costantiniana (specie nella “pars occidentis”, mentre in molte regioni dell’oriente i cristiani erano una minoranza cospicua) fu largamente indotta dal fatto che le classi dirigenti, a cominciare dalla corte imperiale, avevano abbracciato, -in modo più o meno convinto-, la nuova fede. Dopo l’Editto di Tessalonica del 380, con il quale l’imperatore Teodosio proclamò il cristianesimo “religione di stato” e proibì espressamente qualunque culto religioso che non fosse quello cristiano (con la parziale eccezione dell’ebraismo, che fu tollerato, ma soggetto a forti restrizioni), esso fu in pratica imposto con la forza a tutti gli abitanti dell’impero.

Lo sfortunato tentativo di Giuliano detto “l’Apostata”, nipote di Costantino, imperatore dal 361 al 363, più che di restaurare il “paganesimo” (6), di fondare una sorta di “chiesa”, ispirata ai principi del neoplatonismo e con una religiosità spiccatamente filosofica, da contrapporre a quella cristiana, era fatalmente destinato a infrangersi contro la struttura ormai ben più organizzata e compenetrata nelle istituzioni di quest’ultima.

Dopo le controversie trinitarie e cristologiche che avevano agitato la prima metà del IV secolo, e oltre, -in particolare quella legata all’arianesimo, che era riuscito a conquistarsi il favore dell’imperatore d’Oriente Costanzo II-, il cristianesimo ortodosso, nella sua forma ormai racchiusa entro formule dogmatiche rigide, poteva considerarsi a tutti gli effetti l'”ideologia” ufficiale dell’Impero: il dogmatismo religioso corrispondeva in pieno all’assolutismo imperiale, entrambi si erano sviluppati in parallelo e il secondo inverava sul piano temporale quello che il primo rappresentava su quello spirituale. Così le libertà personali e civili che avevano caratterizzato la repubblica e i primi secoli dell’impero sparivano per lasciare spazio ad un sistema politico-sociale totalitario, dove non era più consentito pensare quello che si voleva.

Con Teodosio cominciarono ad essere perseguitati non solo tutti coloro che non praticassero il culto cristiano, ma pure gli “eretici”, ovvero coloro che davano delle dottrine cristiane un’interpretazione difforme da quella stabilita e professata dalla chiesa ufficiale, divenuta un sostegno dell’autorità imperiale, così come quest’ultima si era fatta garante dell’ortodossia religiosa: l’adesione alla fede cristiana non fu più una scelta, ma un obbligo, e da allora la libertà di coscienza fu calpestata e sepolta in Europa per moltissimi secoli, fino all’illuminismo, alla Rivoluzione francese e oltre. Quella scatenata dai fanatici cristiani manovrati da una gerarchia ecclesiastica spesso boriosa e prepotente fu una vera persecuzione ideologica. Esemplare il caso della vergine Ipazia, la filosofa-scienziata di Alessandria (vera martire “pagana” della ricerca filosofica e scientifica libera e indipendente) barbaramente assassinata nel 415 da turbe di violenti aizzati da ignoranti monaci cristiani, -a loro volta istigati dal patriarca Cirillo-.

Nella Repubblica e nell’Impero Romano fino ad allora (7) non esisteva il “reato di opinione”, né tanto meno di eresia: gli eventuali provvedimenti contro i seguaci di determinate religioni non li punivano per la credenza che professavano in sé (poiché lo stato romano non si interessava di questioni spirituali riguardanti la sfera personale dell’individuo, ed in sostanza era “laico”, pur se come in tutte le società antiche la religione, intesa come espressione rituale e non dogmatica, vi aveva parte nel conferire autorevolezza alle istituzioni statali), ma in quanto accusati di altri reati, o di diffondere idee ritenute pericolose o nocive per l’ordine pubblico e/o la stabilità politico-sociale.

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La liberta Ispala Fecenia denuncia al Senato le nefandezze dei baccanali in un dipinto di Cesare Maccari (1840.1919) nel Palazzo di Giustizia di Roma.

Ed infatti nel corso della storia di Roma furono adottati provvedimenti repressivi anche nel confronto di altre sette religiose, se sospettate di alimentare o favorire comportamenti illeciti, contrari all’ordine pubblico o alla pubblica moralità, o attività sovversive. Un esempio celebre è quello dei “Baccanali”, i culti licenziosi di Bacco (ben diversi da quelli puri e spirituali della regione orfico-dionisiaca), che, secondo quanto riferisce Tito Livio (Ab urbe condita, XXXIX, 8-19), erano stati importati da un indovino greco (“Graecus ignobilis”, ovvero un greco di oscuri natali, ma nell’aggettivo “ignobilis” è percepibile anche una connotazione dispregiativa in senso morale) in Etruria e di qui a Roma, dove sarebbero stati resi ancora più lascivi da una donna campana, una certa Annia Paculla. Nel 186 a. C. in seguito alle rivelazioni di un liberta, -tale Ispala Fecenia-, già seguace del culto, fu aperta un’inchiesta approfondita, che portò a numerose condanne, anche a morte, non solo a Roma, ma in diverse zone dell’Italia meridionale e in seguito alla quale il Senato di Roma deliberò, con il famoso “Senatoconsultum de bacchanalibus” che questo tipo di riti fosse vietato. O per meglio dire non era proibito il culto di Bacco in sé, ma questo doveva essere o di tipo privato, o se pubblico avvenire con l’autorizzazione e il controllo di un magistrato.

Altro esempio interessante di intervento dello stato nella repressione di illeciti legati alla religione, e che si potrebbero definire di abuso della credulità popolare, è quello di cui fa menzione  Flavio Giuseppe nella sua opera “Antichità Giudaiche” (XVIII, 65-80), avvenuto nel 20 d. C.. Decius Mundus, cavaliere romano, si era invaghito di una matrona, Paolina, sposata a un certo Saturnino e devota del culto egizio di Iside. Il cavaliere, certo che avrebbe ricevuto una risposta negativa dalla donna, qualora si fosse apertamente dichiarato, architettò un astuto stratagemma per soddisfare le sue turpi voglie sfruttando l’ingenua devozione di Paolina per la religione egizia. Con l’aiuto di una sua liberta, di nome Ida, e la complicità di alcuni sacerdoti del tempio di Iside, -certo assai più devoti al dio denaro che agli dei d’Egitto-, che erano stati corrotti con ricchi donativi (Ida diede loro 25.000 dracme e ne promise altrettante una volta che il suo patrono avesse conseguito lo scopo), il cavaliere riuscì nel suo intento: i sacerdoti infatti dissero a Paolina che il dio Anubi (il dio sciacallo che presiedeva alla mummificazione dei defunti e faceva parte del tribunale di Osiride nell’al di là) voleva avere un intimo convegno con lei. La donna, giubilante per quella inaspettata rivelazione, si precipitò al santuario dove trovò Decius Mundus travestito da Anubi, con il quale giacque durante la notte. L’inganno fu però scoperto perché la matrona raccontò quanto le era accaduto al marito Saturnino, il quale, intuito che l’incontro non era stato con il dio egizio, ma con un essere terreno, avvertì a sua volta l’imperatore Tiberio. In seguito al suo intervento, la liberta e i sacerdoti furono crocifissi, il tempio di Iside fu demolito, la sua statua gettata nel Tevere (poveretta! in fondo anche lei era una vittima di quegli indegni sacerdoti che avevano screditato il suo culto) e proibiti i riti egiziani (8). Quanto a Decius Mundus, essendo egli cittadino e cavaliere romano, la sua condanna consistette solo nell’esilio (9).

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) la cui opera principale peraltro fu la “Vita di Apollonio di Tiana”, il filosofo e mistico neopitagorico del I secolo che era una delle figure di riferimento della spiritualità “pagana”, -ma pure di settori cristiani più aperti- dell’età imperiale romana, che abbiano più volte citato nelle nostre trattazioni. Questa biografia edificante era stata composta su invito dell’imperatrice Giulia Domna, la moglie di Settimio Severo. Il carattere e spirito di queste due opere può sembrare in contraddizione, ma si ricordi che Filostrato era soprattutto un retore, seguace della cosiddetta “Seconda Sofistica”, -che a differenza di quella antica aveva interessi soprattutto letterari-, cioè una persona che sapeva parlare e scrivere con efficacia e facondia su qualunque argomento gli venisse proposto.

2) per “enoteismo” si intende una dottrina religiosa che pur non contemplando un “solo” dio, concepisce una sola divinità come creatrice del mondo, della quale le altre sono solo emanazioni o aspetti (o ipostasi), e che sola viene venerata.

3) Zenobia, consorte di Odenato, sovrano di Palmira, -nominato “Corrector totius Orientis” dall’imperatore Gallieno intorno al 264, divenuta reggente per il figlio Vaballato (Wahab-Allat, “Dono di Allat”,- la dea che prima dell’avvento dell’Islam era venerata dagli Arabi come paredra di Allah-)-, si era proclamata imperatrice d’Oriente, ma fu poi sconfitta da Aureliano.

4) di Alessandro Severo ricordiamo che secondo l'”Historia Augusta”, egli sarebbe stato un simpatizzante del cristianesimo (ma pure di altre correnti spirituali), ed aveva due larari domestici in uno dei quali venerava Apollonio di Tiana, Cristo, Abramo e Orfeo e altri benefattori; nell’altro teneva le immagini di condottieri (Achille, Alessandro Magno) e scrittori (Virgilio, Cicerone) (Hist. Aug. Sev. Alex., 29-31). Inoltre fece suo il motto “Quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris” (Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fato a te), che avrebbe anche comandato fosse scritto sul Palatino e su altri palazzi pubblici. Quanto a Filippo l’Arabo, originario della regione palestinese della Traconitide (di cui abbiamo parlato nella terza parte dell’articolo sull’incenso e la mirra), secondo una tradizione attestata da Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica, VI, 21 e 34) e da S. Gerolamo (De viris illustribus, 54), i quali tra l’altro accennano a una penitenza a cui si sarebbe sottoposto, sarebbe stato cristiano (cosa peraltro improbabile). La penitenza sarebbe stata imposta per la morte del suo predecessore, il diciannovenne imperatore Gordiano III, della quale egli sarebbe stato responsabile (ma che non è accertata). Egli, -secondo quanto riferisce Aurelio Vittore (Liber de Caesaribus, 28)-, avrebbe proibito severamente la prostituzione maschile dopo aver visto un giovane “prostituto” che assomigliava a suo figlio, anch’egli di nome Filippo e associato da lui al trono.

5) l’idea di una grande licenziosità che nell’immaginario comune caratterizza il mondo greco-romano, specie quello della fine della Repubblica e dell’Impero, è dovuto in parte alla luce sinistra che alcuni autori cristiani in buona o in cattiva fede gettarono su quella civiltà per sottolinearne i “vizi” in contrapposizione alle “virtù”, -considerate esclusivo appannaggio della religiosità ebraico-cristiana-; in parte al fatto che talvolta in passato la stessa critica storica ha considerato certe rappresentazioni letterarie e figurative, che vanno inquadrate in un particolare contesto, e sono proprie di ambienti determinati (e per di più elaborate o esagerate dall’intento artistico), come testimonianze di un costume generale e diffuso. Inversamente, il Medio Evo, che nell’idea corrente sarebbe stato un’età austera e bigotta, non era affatto puritano e i gaudenti e le pratiche dissolute vi abbondavano (talora proprio negli ambienti ecclesiastici che avrebbero dovuto dare il buon esempio -Boccaccio docet…-). Come si accennava sopra, è a mio avviso vergognoso che per blandire i gusti volgari del pubblico odierno (questo sì licenzioso, ben più dei Romani antichi!) si continuino ad ammannire produzioni cinematografiche e televisive (quali le serie ROMA, -2005-2007- e un’altra più recente sulla vita di Spartaco, del 2010-2013), che sono un concentrato di lussuria e di violenza e che di storico non hanno nulla!!

6) il termine “paganesimo” peraltro non indica una precisa dottrina o culto religioso, ma ha un significato meramente polemico e spregiativo, per indicare qualunque religione o credenza estranea al monoteismo ebraico-cristiano (o anche vista come una “contaminazione” tra quest’ultimo e le tradizioni extra-ebraiche, -come in certe correnti gnostiche-), ed è quindi un’etichetta applicabile ed applicata alle più svariate dottrine, credenze ed esperienze religiose, spirituali o anche semplicemente culturali.

7) in effetti i prodromi si questa situazione si erano già avuti fin dal 341-342, quando gli imperatori Costante e Costanzo II figli di Costantino, decretarono misure persecutorie contro la celebrazione dei culti non cristiani.

8) il culto di Iside e Osiride (o di Iside e Serapide -la divinità greco-egizia che aveva  sostituito Osiride-) fu però in seguito riammesso e fu assai in auge specialmente nel II secolo, come è attestato anche dal romanzo “Le metamorfosi” di Apuleio, nel quale il protagonista trova la salvezza grazie alla protezione di Iside. La figura della dea madre egiziana influì poi notevolmente nello sviluppo della devozione mariana nell’ambito del cristianesimo.

9) peraltro già negli ultimi tempi della repubblica erano stati decretati dal Senato dei provvedimenti repressivi contro i seguaci della religione isiaca a Roma nel 59, 58, 53, 50 e 48 a. C. Osserviamo che la reiterazione di questi senatoconsulti sembra significare con tutta evidenza che essi non producessero alcun sensibile effetto e che la religione egiziana continuasse ad avere un certo seguito a Roma. A partire da Caligola però gli imperatori si mostrarono in genere favorevoli alla religione di Iside.

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