LA AMAZZONI AD ATLANTIDE (quinta parte) -Mirra e Adone-

Il nome della regina delle Amazzoni libiche, Myrina, è lo stesso di un’antica dea lunare dell’Asia minore, alla quale si accenna anche nel libro II dell’Iliade. Anche la sposa di Toante, re di Lemno (isola delle Sporadi settentrionali nell’Egeo al largo delle coste della Dardania), figlio di Dioniso e di Arianna, -la quale, dopo essere stata abbandonata da Teseo, fu impalmata da quel dio- portava questo nome ed è assai probabile che sia da indentificare con la divinità lunare, considerando anche l’ambientazione geografica del mito nel quale si inserisce, prossima all’area dove la dea Myrina ebbe culto. Myrina, che sarebbe stata figlia di Creteo, il fondatore della città di Iolco in Tessaglia (dalla quale poi sarebbe partito Giasone alla conquista del “Vello d’oro”), e di Tiro, figlia di Salmoneo, è anche l’eponima di una cittadina tuttora esistente nell’isola di Lemno (1). Si noti che il mito del quale Myrina e soprattutto Toante sono partecipi ha un carattere che in termini moderni potremmo definire “femminista”-.

Le donne dell’isola di Lemno, a causa di una punizione della dea Afrodite, sdegnata contro di esse poiché trascuravano il culto che le spettava, avevano cominciato ad emanare un odore tanto sgradevole che i loro uomini le avevano allontanate da sé, preferendo la compagnia delle schiave provenienti dalla Tracia. Per questa ragione, grandemente offese dal questo comportamento, esse decisero di sbarazzarsi di padri e mariti, nonché delle nuove compagne da essi scelte, e li uccisero tutti in una notte.

Veduta dell'isola di Lemno.
Veduta dell’isola di Lemno.

Soltanto Ipsipile, la figlia di Toante e della regina Myrina, non ebbe cuore di eliminare il padre e lo salvò prima nascondendolo nel tempio di Dioniso (suo padre) e poi trasportandolo in segreto nella vicina isola di Enoe. Eliminati gli uomini, le donne governarono l’isola da sole ed elessero Ipsipile loro regina, instaurando quindi una sorta di società tutta femminile, come era quella delle Amazzoni.

Questa era la situazione allorché giunsero a Lemno gli Argonauti che vi sbarcarono per fare una sosta durante la loro spedizione verso la Colchide alla ricerca del “Vello d’oro”. Le donne dopo una prima reazione ostile, poiché credettero che fossero invasori venuti a conquistare il loro regno, accolsero benevolmente i nuovi venuti e si unirono a loro; Ipsipile, in quanto regina, scelse come marito Giasone, il capo degli Argonauti, e ne ebbe due figli gemelli, Euneo (talora detto Toante minore) e Nebrofono (chiamato anche Deipilo). Una volta ripartiti gli Argonauti però le donne scoprirono che la loro regina aveva salvato suo padre e adirate contro di lei la vendettero come schiava a Licurgo, re di Nemea. Questi le affidò il compito di nutrice del suo figlioletto Ofelte, ancora in fasce.

Accadde che, mentre percorreva la foresta Nemea con il bambino in braccio, Ipsipile si imbattè in Adrasto, re di Argo, ed altri  sei condottieri, che si stavano recando a Tebe per far guerra ad Eteocle, uno dei figli di Edipo. Essi le chiesero di indicare loro una fonte ove dissetarsi. La donna deposto il pargoletto sopra o accanto a un cespuglio, -che secondo alcune versioni sarebbe stato di sedano o di prezzemolo selvatico-  si incamminò per mostrare loro la via; ma durante la sua breve assenza un serpente avvolse con le sue spire il piccolo soffocandolo. Licurgo, furente con la nutrice distratta, voleva castigarla con la morte, ma Adrasto, a causa del quale era avvenuto il funesto incidente, la prese sotto la sua protezione e fece celebrare solenni esequie per il bimbo prematuramente perito; non solo, ma istituì in suo onore i famosi Giochi Nemei. In memoria della pianta presso la quale il piccolo Ofelte (2) aveva trovato la morte, i vincitori dei giochi ricevevano come premio una corona di sedano (3). In altre versioni Ipsipile fu salvata dall’intervento di Euneo e Nebrofono: ella li avrebbe riconosciuti come suoi figli grazie a un talismano, un tralcio di vite dorato, che essi portavano con sé e che era un dono fatto un tempo da Dioniso al loro nonno Toante.

Alla sventurata storia di Ipsipile il grande tragediografo Euripide (480-406 a.C.)  dedicò una tragedia della quale sono venuti alla luce numerosi frammenti papiracei (tanto che se ne conosce circa la metà); mentre il poeta latino Stazio (45-96) tratta della storia di Ipsipile e di Ofelte in un ampia sezione (dal v. 646 del IV libro a tutto il VI) del suo poema “Tebaide”, che ha come oggetto la guerra dei “Sette contro Tebe”, cioè della guerra mossa da Polinice e da altri sei condottieri suoi alleati contro Eteocle, re di Tebe, -il quale non voleva cedere il trono al fratello Polinice come era stato stabilito in precedenza, con un accordo per il quale i due fratelli avrebbero dovuto alternarsi al governo con scadenza annuale-.

Derivata con molta probabilità da questa antica dea madre, -sia per la somiglianza del nome, sia per l’area geografica dove il mito del quale è protagonista è ambientata, sia per il legame con il dio della vegetazione e del rifiorire della natura dopo la pausa invernale- è pure la figura di Mirra (Myrrha), detta anche Smirna, la figlia di Cinira, re di Cipro, -nonché fondatore della città di Pafo, dove sorgeva un venerato santuario di Afrodite,- che fu la madre di Adone, nato da una relazione incestuosa con il padre. Mirra infatti aveva concepito una insana e violenta passione per il padre, in seguito ad una maledizione di Afrodite, adirata per il fatto che la di lei madre Cencreide si era vantata della bellezza ineguagliabile della figlia, oppure, in altre versioni ella stessa, si sarebbe inorgoglita della propria avvenenza, considerandola superiore a quella della dea: quindi in questo caso un peccato di orgoglio e non di empietà come quello che avevano commesso le donne di Lemno.

Mirra in un affresco di età ellenistica custodito nei Musei Vaticani.
Mirra in un affresco di età ellenistica custodito nei Musei Vaticani.

Secondo la versione del poeta Paniassi, riportata in quel prezioso testo di erudizione mitologica noto come “Biblioteca dello pseudo-Apollodoro”, Mirra, -qui chiamata Smirna-, era figlia di Tiante (nome che assomiglia alquanto a Toante) re di Assiria, e sarebbe stata punita da Afrodite perché non le tributava i dovuti onori (quindi la causa del castigo sarebbe la medesima di quello che aveva colpito le donne di Lemno)(4).

Con la complicità della nutrice, che l’aveva trattenuta da un tentativo di suicidio, riesce a giacere con il padre per dodici notti (o per nove, a seconda delle versioni), ma alla fine è scoperta dal padre che dopo aver acceso una fiaccola la riconosce con orrore. Egli la insegue con l’intento di darle una crudele punizione per il misfatto, fino a che Mirra, sfinita per la lunga corsa, viene trasformata da Zeus, ovvero dagli dei in generale impietositi per la sua sorte, nell’albero della mirra (Commiphora myrrha, arbusto appartenente alla famiglia delle Burseracee, così come l’incenso) (5), mentre le sue lacrime si mutano nelle gocce di resina profumata che la pianta stilla.

In un’altra e prevalente versione la fanciulla viene mutata nell’albero della mirra dalla stessa dea Afrodite, pentita di averle inflitto una così dura punizione, proprio mentre Cinira, raggiuntala, stava per colpirla con la sua spada. Comunque trascorsi nove mesi la corteccia della pianta si fende e Mirra dà alla luce un bambino che sarà chiamato Adone. Il pargolo viene raccolto da Afrodite che lo nasconde in un cofano o in un canestro, affidandolo poi a Persefone, regina degli Inferi affinché ella lo custodisca con la massima diligenza e chiedendole di celarlo in qualche recesso del suo oscuro regno.

L'albero della Mirra.
L’albero della Mirra.

Ma Persefone, spinta dalla curiosità, aprì il cofano e vi trovò il misterioso infante. Colpita dalla sua bellezza, la regina dell’Ade lo condusse nel suo palazzo e lo trattenne presso di sé rifiutandosi di restituirlo ad Afrodite quando ella tornò per riprendersi lo strano cofano. Risentitasi per quel rifiuto, la dea si appellò al giudizio di Zeus, ma quest’ultimo non volle trattare la questione di persona e lo deferì a un  tribunale presieduto da Calliope, musa della poesia epica. Il tribunale stabilì che Adone, il quale nel frattempo era divenuto un baldo giovane, avrebbe trascorso un terzo dell’anno in compagnia di Persefone, un altro terzo con Afrodite e il rimanente terzo da solo o con chi avesse voluto.

In una variante del mito, allorché l’infelice Mirra, ormai trasformata in albero fu colta dalle doglie, non riusciva a dare alla luce il frutto del suo colpevole amore, tanto che il tronco si incurvava e si contorceva per il dolore; allora la dea Ilizia, colei che aiutava le partorienti a sgravarsi, mossa a pietà dai suoi lamentosi gemiti, accorse presso l’albero e posando le mani sulla corteccia pronunciò le formule liberatorie.

L'albero della Mirra.
L’albero della Mirra.

Si aprì allora nel tronco un varco dal quale spuntò il piccolo Adone. Le Naiadi, le ninfe delle acque dolci, raccolsero l’infante e lo allevarono con premurose cure. Una volta cresciuto, Adone diventò un fanciullo così aggraziato che Afrodite lo nascose in un cofano per preservarlo dai pericoli del mondo che affidò poi a Persefone, la quale, come abbiamo detto sopra, non volle più restituirlo ad Afrodite.

E’ evidente che questa sentenza esprime in forma allegorica il ciclico rinnovarsi della natura, incarnata da Adone, che dopo la pausa invernale, -Adone con Persefone agli Inferi-, torna a rifiorire sulla terra.

Sembra che il figlio di Mirra il terzo dell’anno a sua disposizione amasse trascorrerlo insieme ad Afrodite e questo provocò l’irrefrenabile gelosia di Ares, il quale trasformatosi in un enorme cinghiale aggredì il suo giovane rivale e lo uccise. Dal sangue versato da Adone sarebbe nato il fiore dell’anemone; secondo un’altra versione l’anemone esisteva già, ma cambiò colore divenendo purpureo quando fu irrorato dalle lacrime versate da Afrodite per la  misera fine del suo amato. E a proposito di fiori, un episodio inserito nel mito in un secondo tempo vuole che la rosa, da bianca, sia diventata rossa allorché Afrodite che stava accorrendo in aiuto di Adone si punse un piede con una delle sue spine. Nel “Canto funebre per Adone” composto da Bione di Smirne, poeta bucolico del II secolo a. C., dal sangue di Adone sbocciano le rose, mentre dalle lacrime di Afrodite gli anemoni. Nel poema in 20 canti dedicato da Gian Battista Marino (1569-1625) alla vicenda del mitico eroe (dove la storia però è trattata assai liberamente discostandosi spesso dalle versioni canoniche del mito, con numerosissime digressioni e descrizioni sui cinque sensi, sui cieli, i pianeti, ecc.)

Anemone coronaria.
Anemone coronaria.

Venere trasforma in anemone il cuore di Adone. In altre varianti del mito la storia è ambientata in Arabia o in Assiria (6). Afrodite si sarebbe innamorata di Adone perché colpita da un dardo lanciatole da suo figlio Eros irritato per essere stato da lei severamente redarguito dalla madre per i guai che combinava. In altre versioni, -tra cui quella accolta dal poeta Ovidio-, la “ferita” d’amore sarebbe stata invece provocata in modo accidentale mentre Afrodite teneva in braccio Eros (7)

Tuttavia altre fonti propongono una diversa genitura di Adone, collocandola però sempre nell’ambito fenicio-cipriota. Secondo alcune versioni riferite dallo pseudo-Apollodoro -oltre a quella più conosciuta che abbiamo narrato in precedenza-, Adone sarebbe stato sì figlio di Cinira, ma non incestuoso, bensì procreato dalla sua legittima consorte Metarme, -cha aveva avuto da Cinira un altro figlio, chiamato Ossìporo-.

Pigmalione e Galatea in un dipinto di Ernest Normand del 1881.
Pigmalione e Galatea in un dipinto di Ernest Normand del 1881.

Quest’ultima a sua volta era figlia di Pigmalione (8) e di Galatea e sorella di Pafo (nome che poi fu dato anche alla città fondata da Cinira). Una poetica leggenda narra che Pigmalione (nome di probabile origine fenicia, che dovrebbe significate “incudine dell’Altissimo”) aveva scolpito una bellissima statua di donna in avorio; era tanto bella che egli se ne innamorò e per questo implorò la dea Afrodite di infondere vita al mirabile simulacro. La sua preghiera fu esaudita e così egli potè sposare la ex-statua divenuta donna in carne ed ossa e chiamata Galatea (da non confondere con la Galatea amata dal pastore Aci).

Pure in questa versione Adone muore giovinetto per le ferite procurategli da un cinghiale, ma in questo caso l’animale gli era stato mandato contro dalla dea Artemide adirata con lui per una ragione che nel testo dello pseudo-Apollodoro non viene indicata, ma che secondo altre fonti sarebbe l’irritazione della dea contro Afrodite, rea di aver perseguitato il suo protetto Ippolito, restio a concedersi agli amori terreni e come lei dedito alla castità. Altri ancora affermano che ad aizzare il cinghiale contro Adone sarebbe stato Apollo, sempre come “vendetta trasversale” contro Afrodite perché questa gli aveva accecato il figlio Erimanto che per caso l’aveva vista nuda al bagno.

Fiori di mirra.
Fiori di mirra.

Infine ricordiamo una narrazione nella quale Adone è figlio di un re di Libia chiamato Ammone (che è evidentemente da identificare nella somma divinità egizia Amon) -il cui padre anche in questa variante è Cinira, re di Cipro- e di Mirra; Cinira un giorno avendo abusato di bevande inebrianti, si addormenta in una posa sconveniente e in tale situazione è scoperto da Mirra, che lo riprende in modo beffardo. Offeso da questo comportamento, Cinira maledice e scaccia la nuora e il nipote Adone, che si rifugiano in Arabia, mentre Ammone si ritira in Egitto, nell’oasi di Siwa, dove esisteva un famoso oracolo di Ammone -consultato anche da Alessandro Magno- accanto ad una strana  fonte le cui acque avevano la singolare proprietà di essere fredde a mezzodì per poi intiepidirsi progressivamente fino a divenire assai calda a mezzanotte per poi tornare a raffreddarsi.

In un’altra versione ancora, attestata da Esiodo, Adone era nato da Fenice e da Alfesibea; Fenice era figlio di Agenore re di Tiro in Fenicia, e di Telefassa, e quindi fratello di Europa, rapita da Zeus  che aveva assunto le sembianze di un candido toro, e di Cadmo, il quale aveva fondato la città di Tebe in Beozia, allorché era pervenuto in Grecia alla ricerca della sorella scomparsa (9).

Come si può notare, in tutte le versioni tramandate il mito di Adone è legato a Cipro e alla Fenicia; ed infatti Adone altri non è che il dio fenicio-cananeo della vegetazione e del ciclico rinnovarsi della natura, venerato soprattutto a Byblos (dove fu accostato all’egizio Osiride) e a Sidone. Osserviamo ancora che il nome ADON significa propriamente “signore” (ed è connesso con ADAM = uomo) e si ritrova pure tra gli Ebrei come ADON-A-I =”mio Signore”: un semplice attributo o un inglobamento nel dio ebraico della figura della divinità cananea?

Peraltro si ritiene che il nome Adon (che tra l’altro richiama quello di ATON, il dio unico introdotto dal faraone “eretico” Amenofi IV, detto poi Akhenaton-, probabile fonte del monoteismo ebraico) non fosse in origine il nome proprio di una divinità, ma un appellativo, divenuto poi usuale come nome proprio (un po’ come Baal, il dio del cielo atmosferico che si applicò a varie divinità originariamente distinte), per designare ed invocare il dio ESHMUN, che godeva particolare culto a Sidone e il suo equivalente ALYAN, venerato a Byblos. Osserviamo che questa città appariva anche nel mito dell’egizio Osiride, almeno nella versione tramandata nell’opera di Plutarco di Cheronea “Iside ed Osiride”. Infatti la bara contenente le spoglie di Osiride, assassinato dal malvagio fratello Seth, gettata nelle acque del Nilo, dopo aver percorso un lungo tratto di mare, aveva toccato la costa nei pressi della città fenicia di Byblos. Arenatasi sul lido, fu poi ricoperta da un cespuglio di erica che era cresciuto intorno ad essa, fino a che non assunse l’aspetto di un tronco d’albero che fu tagliato e portato al palazzo del re per farne una colonna.

Adone morente rappresentato su urna fittile etrusca.
Adone morente rappresentato su un’ urna fittile etrusca.

Qui alla fine il corpo di Osiride fu ritrovato da Iside che lo  riportò in Egitto (10). Si può dunque ipotizzare un’identificazione assai antica tra le due divinità, che sono peraltro molto simili perché entrambe muoiono e risorgono, e incarnano i frutti della natura e della terra che danno nutrimento all’uomo ( prima quella materiale e terreno, poi quello spirituale ed eterno).

Ed molto probabile che proprio da Byblos. -attraverso l’isola di Cipro-, il culto di Adone sia stato introdotto in Grecia, dove è attestato dai tempi più antichi (ne parlano nelle loro opere già Esiodo nell’VIII sec. a. C. -della cui versione del mito abbiamo già detto- e Saffo nel VI). E già nell’area fenicio-cananea si ritrovano le linee essenziali del mito che poi, variamente arricchito e modificato da poeti e narratori, si diffuse nel mondo ellenico; in una scultura rupestre scoperta a Ghineh in Libano, presso Byblos, si vede un giovane dio ucciso da un animale selvatico, probabilmente un cinghiale, mentre sulla destra appare la dea Astarte in lacrime. In Roma invece il culto di Adone è attestato per la prima volta da Ovidio (Ars Amatoria, I, 75 ss.), ma si impose solo nel II-III secolo, quando fu associato ed assimilato ad altre divinità orientali.

Ad Atene le feste “Adonie” erano celebrate nel mese di “sciroforione” (mese del calendario luni-solare attico che cadeva tra giugno e luglio), l’ultimo dell’anno attico; avveniva prima la “prothesis” l’esposizione di un simulacro del dio in legno, argilla, cera o altro materiale poco prezioso su un catafalco sul quale le donne disperate effondevano un funebre compianto; seguivano poi la sepoltura e le manifestazioni di esultanza per la risurrezione di Adone. Dal poeta bucolico Teocrito (Idilli, XV, 109-144) apprendiamo come si svolgeva la festa ad Alessandria: qui i simulacri di Adone ed Afrodite venivano collocati sopra due giacigli ornati di avorio ed ebano, coperti di drappi purpurei e deposti in mezzo a canestri colmi di frutti selvatici. Durane la festa venivano anche apprestati delicati “giardini” di piantine e fiori in cestini d’argento. Il giorno seguente si proclamava il ferale annuncio della morte dell’eroe e le donne si percuotevano il petto, si strappavano i capelli e accompagnavano in lacrime l’immagine di Adone fino alle rive del mare, ove l’abbandonavano all’abbraccio delle onde (11).

Alle feste in onore di Adone per commemorare la  sua morte e resurrezione si collega anche la consuetudine dei “Giardini di Adone”:

Offerta di un "giardino di Adone" su un "lekythos" di età ellenistica.
Offerta di un “giardino di Adone” su un “lekythos” di età ellenistica.

erano questi zolle di terreno deposte in piccoli contenitori di ceramica, o semplici cocci, nei quali si seminavano i semi di alcune piante consacrate al dio, come la lattuga e il finocchio, aggiungendovi talvolta anche chicchi di cereali, come orzo e frumento. I semi germogliavano rapidamente, ma poiché avevano poca terra a disposizione, le piantine che ne nascevano, nonostante le cure che le devote dedicavano loro, erano destinate ad avere una vita effimera, simbolo della brevità della primavera e della vita terrena; coltivati durante il periodo invernale, o all’inizio della primavera, i “giardini” venivano poi sacrificati o gettati in mare o in un fiume durante le feste di Adone. Una testimonianza dell’antichità e diffusione dei “Giardini di Adone” ci è offerta anche dal profeta Isaia -sec. VIII-VII a.C.- (XVII, 9-11), che mostra come questo culto fosse praticato anche dagli Israeliti.

Il luogo ove sarebbe avvenuto il martirio del dio era ritenuto nelle vicinanze dell’attuale villaggio di Afqa in Libano:

Il fiume di Adone in Libano.
Il fiume di Adone in Libano.

lì in primavera i prati si ricoprono di anemoni scarlatti, mentre le acque del fiume che vi scorre accanto, e che sfocia nel mare nei pressi di Byblos, acquistano una colorazione rossastra dovuta si credeva al sangue di Adone, nella ricorrenza del suo martirio, e per questo era chiamato “fiume di Adone” (attuale Nahar Ibrahim). Peraltro Luciano di Samosata (125-192 circa) riferisce che già ai suoi tempi vi era chi attribuiva il fenomeno a cause puramente naturali, e cioè al fatto che i venti che soffiavano in quel periodo trasportassero nel fiume la terra argillosa e rossastra sulle sue rive facendo assumere alle sue acque quella strana colorazione (De Dea Syria, VIII).

Lo scrittore, esploratore ed etnologo inglese Richard F. Burton (1821-1890) afferma che ancora ai suoi tempi le rovine del tempio di Afqa erano meta di pellegrinaggio e i pellegrini vi formulavano fervidi voti ad una entità spirituale designata come “Sayyidat al-Kabirah” (la Grande Signora). Fino ai primi decenni del 900 cristiani e musulmani sciiti vi portavano i malati affinché fossero guariti dalla “Sayyidat Afqa”, uno spirito femminile che aveva lo stesso nome del luogo, ed appendevano strisce di stoffa bianca ad un grande albero di fico che proiettava la sua ombra sulla sorgente. Secondo la leggenda da essi tramandata, il tempio era stato costruito dal consorte di “Sayyidat Afqa”, il quale fu poi ucciso da una fiera; ella lo aveva cercato fra le montagne fino a che non trovò il suo corpo martoriato: come si può facilmente comprendere questa leggenda è derivata dal mito di Adone e di Astarte, che come molti altri miti è riuscito sopravvivere in forme sotterranee o folkloristiche anche all’affermazione prima del cristianesimo e in seguito dell’islamismo.

Il dio Eshmun, che abbiamo citato prima, oltre che dio della rinascita della vegetazione dopo il riposo invernale, era anche una divinità della guarigione, il quale secondo quanto è tramandato da alcuni autori tardi, come il filosofo neoplatonico Damascio del VI secolo e Fozio, patriarca di Costantinopoli nel IX secolo, fu identificato dai Greci con Asclepio (corrispondente al romano Esculapio), dio della sanità e della medicina. Il suo grandioso santuario a Sidone, -del quale rimangono notevoli vestigia-, era frequentato soprattutto per ottenere da Lui miracolose guarigioni, attestate dai numerosi “ex voto” ivi ritrovati. Fozio riferisce che Eshmun era un giovane cacciatore che viveva nelle foreste a contatto con la natura e gli animali, e quindi con notevole affinità con la dea Artemide e i suoi seguaci (come Ippolito). Di lui si invaghì perdutamente la dea Astrònoe, -nella quale è da ravvisare Astarte, la dea che assunse poi il nome di Afrodite quando fu accolta nel pantheon ellenico-; ma Eshmun, fedele ai suoi ideali, respinse le appassionate profferte d’amore della dea, non solo ma si evirò e morì per questo dissanguato, -il che apparenta strettamente la sua storia a quella di Attis, altro dio ella vegetazione che si evira per essere fedele alla Grande Madre Cibele-.

Il "trono di Astarte" tra le rovine del tempio di Eshmun a Sidone.
Il “trono di Astarte” tra le rovine del tempio di Eshmun a Sidone.

Allora Astrònoe diede al giovane il nuovo nome di Paeon -che significa “risanatore”-, e lo risuscitò trasmutandolo in dio della Natura rinascente e della guarigione. Notiamo che nei pressi di Beirut esiste tuttora un villaggio chiamato Qabr Shmoun (“Tomba di Eshmu”):

Ma la figura che senza dubbio mostra le maggiori affinità con l’Adone cananeo e poi ellenico è senza dubbio il mesopotamico Tammuz. Ma approfondiremo questo aspetto nella sesta parte.

CONTINUA NELLA SESTA PARTE

Note

1) sull’isola di Lemno secondo la leggenda sarebbe caduto Efesto, dio della metallurgia, quando fu scagliato sulla terra da suo padre Zeus in un accesso di ira allorché egli prese le difese della madre Era. Per tanto l’isola era consacrata a tale divinità che vi godeva un culto particolare.

2) per la sua triste vicenda Ofelte fu poi chiamato anche con il nome di “Archemoro”, che significa “che dà inizio ad un (infausto) destino”.

3) secondo altre fonti, i Giochi Nemei sarebbero stati fondati da Eracle dopo l’uccisione del Leone Nemeo, che costituì la prima delle sue dodici fatiche. Si ha notizia certa di questi giochi, che si svolgevano a Sicione, città nella valle di Nemea, a intervalli di due anni, fin dal 573 a. C. ;ma con tutta probabilità venivano celebrati da un’epoca assai anteriore. In origine comprendevano solo gare atletiche ed equestri, ma nell’età ellenistica vi si aggiunsero anche esibizioni poetiche e musicali.

4) Smirna è anche il nome di un’Amazzone che sarebbe stata la fondatrice dell’omonima città in Lidia, ma è probabile che l’omonimia non sia affatto una coincidenza, e che le due figure siano in qualche modo da identificare, nel senso che entrambe siano delle ipostasi, poi alquanto modificate nelle narrazioni mitologiche, della “Grande Madre” anatolica.

5) peraltro il nome della mirra è ritenuto di origine semitica (cfr. l’arabo “murr”=amaro).

6) il mito di Mirra e Adone è trattato in vari testi antichi; in particolare si vedano “Biblioteca di Apollodoro”, III, 14; Ovidio, “Metamorfosi”, X, 298-518; Igino, “Fabulae”, 137.

7) nella famosa tragedia “Mirra” (1784) di Vittorio Alfieri l’incesto non viene consumato e la vicenda è tutta incentrata sul dramma interiore della fanciulla, combattuta tra il suo inconfessabile amore (che infatti ella manifesta solo alla fine), la devozione filiale e la lealtà al fidanzato Pereo (del quale non  si fa cenno nelle diverse varianti antiche del mito).

8) questo Pigmalione non è da confondere con il malvagio fratello di Elissa-Didone che aveva assassinato il di lei marito, Sicarba (Sicheo), costringendola ad emigrare nelle terre dell’occidente dove avrebbe fondato Cartagine.

9) molto spesso nella mitologia in generale, ma soprattutto in quella greca si accavallano tra di loro innumerevoli varianti, dovute talora anche alle interpretazioni e alla fantasia di mitografi e poeti, che rendono difficile ricostruire le forme originarie dei miti.

10) ora non ci soffermiamo a narrare nei particolari tutto il mito di Iside ed Osiride. Vorrei sottolineare però che in questa parte ha molte affinità con quello greco di Demetra alla ricerca di sua figlia Persefone (sia Demetra che Iside si trattengono a fare la nutrice in famiglia, vorrebbero donare l’immortalità a uno dei bambini dei loro ospiti, ma ne sono impedite dall’inopportuno intervento dei genitori, ecc.).

11) si può osservare come le lamentazioni sul corpo di Adone morto, oltre a mostrare un’evidente affinità con le celebrazioni cristiane del venerdì santo, sembrano seguire all’incirca lo schema del lamento funebre (“corrotto”) per i defunti eseguito da lamentatrici professioniste (le “prefiche”) fino ad epoche relativamente recenti: scoperta, -in apparenza casuale-, della persona morta; incredulità; disperazione (che si esterna anche con espressioni parossistiche); remissione; preghiera; commemorazione e lode del defunto.

/ 5
Grazie per aver votato!

Una risposta a “LA AMAZZONI AD ATLANTIDE (quinta parte) -Mirra e Adone-”

  1. Just desire to say your article is as astonishing.
    The clearness in your post is just spectacular and i can assume
    you are an expert on this subject. Well with
    your permission allow me to grab your feed to keep up to date with forthcoming post.

    Thanks a million and please continue the rewarding work. yoս cɑn vieѡ tɦɑt rigɦt ɦere http://nursyz.com/activity/p/746808/

    Tɦɑnk yoս!

    Rupert

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *