INCENSO E MIRRA, GLI AROMI CHE SCRIVONO NELL’ARIA (prima parte)

Dell’incenso e della sua importanza nell’antichità per i molteplici usi sacri e profani abbiamo già trattato in una lungo excursus nell’articolo riguardante la Fenice, -la quale, come abbiamo visto, sia nella vita, sia nella morte, sia nella rinascita, è in stretta relazione con la pianta e la preziosa resina che se ne ricava- (pubblicato il 24 dicembre 2013).

Tuttavia dato il simbolismo mistico-religioso e l’impiego pratico assai più largo di quanto non sia ora che aveva nell’antichità, nonché le sue virtù magiche e protettive, sull’incenso sono fiorite numerose leggende e poi tradizioni popolari, in bilico tra religione e superstizione.

Nel mondo greco-romano le lacrime bianco-dorato della resina della “Boswellia sacra” (e di altre specie del medesimo genere, appartenente alla famiglia botanica delle Burseracee, quali la “B. resinifera” -che cresce soprattutto nell’Arabia meridionale, e la ” B. Caterii” -che è prevalente in Eritree e Somalia-), le quali se poste su una superficie ardente emanano un mistico effluvio ispirarono miti suggestivi.

Celebre è la storia sull’origine dell’incenso narrata da Leucònoe, una delle figlie di Minia -mitico fondatore e re della città di Orcòmeno in Beozia-, nel IV libro delle “Metamorfosi” di Ovidio (vv. 167-270). Come è noto, nel poema ovidiano spesso i miti esposti si incastrano l’uno nell’altro, sia perché l’irrompere di un nuovo personaggio o il presentarsi di una situazione imprevista nello svolgersi della vicenda offre al poeta l’occasione di introdurre una digressione alla storia principale, sia perché uno dei protagonisti racconta in prima persona od effonde con un lirico canto (come avviene per Orfeo) le vicende di un altro mito.

Albero dell'incenso (Boswellia sacra) nell'isola di Socotra, al largo della costa meridionale dell'Arabia, famosa fin dall'antichità per la raccolta dell'incenso.
Albero dell’incenso (Boswellia sacra) nell’isola di Socotra, al largo della costa meridionale dell’Arabia, famosa fin dall’antichità per la raccolta dell’incenso.

Procedimento questo non raro ed usuale soprattutto nella novellistica antica e moderna (ed in effetti la più estesa opera ovidiana partecipa da un lato del poema didascalico, dall’altro della novellistica in versi, -oltre che dell’erudita poesia mitologica alessandrina-).

Le tre sorelle Miniadi, delle quali già abbiamo parlato nell’articolo sulle “Civette sul comò”, apparso su “L’oasi di Tammuz” il 16-05-2013, devote alla casta dea Pallade, si dedicavano con alacre passione ai lavori donneschi, come usavasi dire un tempo, quali la filatura e la tessitura, e sdegnavano il culto di Bacco, per cui alla fine vengono punite dal dio che le trasforma in pipistrelli (1). Per rendere meno monotona la loro opera e più dilettevole il tempo trascorso nel compierla, esse amavano narrarsi a turno delle storie avvincenti.

Dopo che Arsinoe ha narrato la patetica e tragica storia di Piramo e Tisbe, tocca a Leuconoe raccontare la sua storia ed ella sceglie quella riguardante la metamorfosi di Leucotoe, una bellissima affascinante principessa araba, figlia di Orcamo, re degli Achemenidi (2).

Per vendicarsi del Sole, -il dio che percorrendo il cielo col suo carro infuocato vede tutto quanto i mortali e gli immortali compiono, anche qualora essi cerchino di celarsi al suo sguardo, e con la sua luce rischiara anche gli eventi che umani e celesti vorrebbero mantenere sepolti nelle tenebre-, il quale aveva rivelato il suo adulterio con Marte, Venere indusse in lui una irrefrenabile passione per l’affascinante Leucotoe, la figlia di Orcamo, settimo nella linea di discendenza di Belo, e di Eurìnome, la più bella creatura che esistesse nel paese degli aromi.

In questa incisione della metà del XVI sec., opera di G. A. Rusconi, sono illustrati due momenti del mito ovidiano: Helios che tenta di soccorrere Leucotoe (a sinistra) e Clizia in muta contemplazione del Sole nascente.
In questa incisione della metà del XVI sec., opera di G. A. Rusconi, sono illustrati due momenti del mito ovidiano: Helios che tenta di soccorrere Leucotoe (a sinistra) e Clizia in muta contemplazione del Sole nascente.

Per soddisfare il suo amore, dal quale era completamente dominato, il Sole, assunte le sembianze della madre di lei Eurinome, entrò nella camera di Leucòtoe, dove trovò la sua amata intenta a filare in mezzo a dodici ancelle al tenue chiarore di un lume.

Le disse allora che aveva la necessità di conferire con lei in merito a riservate questioni e chiese dunque alle ancelle di ritirarsi. Esse ubbidirono al comando della regina e non appena non vi furono più inopportune testimoni, il dio riprese il suo vero aspetto e il consueto splendore, e si rivolse a lei con queste parole: “Ille ego sum […] qui longum metior annum, / Omnia qui video, per quem videt omnia tellus, / Mundi oculus”. La fanciulla, sbigottita da quell’inaspettata visione, lasciò cadere a terra la conocchia ed il fuso; benché impaurita, non seppe però resistere alla foga amorosa del dio.

Ma l’oceanina Clizia, innamorata non corrisposta del Sole, fu colta da invidia e gelosia per la rivale, che, pur non avendo affatto cercato l’amore del dio, era riuscita a suscitare il suo sentimento. Spinta dal risentimento e dalla disperazione, ella riferì quanto era accaduto ad Orcamo, il padre di Leucòtoe. Questi sopraffatto da ira violenta, nonostante la figlia protestasse di aver subito l’impeto del dio, la seppellì viva in una profonda fossa, riversandovi sopra un pesante cumulo di terra.

Nel tentativo di salvare la fanciulla, il figlio di Iperione con uno dei suoi raggi dorati aprì un varco nel tumulo, attraverso il quale Leucòtoe potesse rialzare il capo e tornare a respirare; ma ormai la poveretta giaceva esanime (“Nec tu iam poteras enectum pondere terrae / Tollere, nympha, caput, corpusque exsangue iacebas”). Invano l’almo dio cercò di infondere con il suo calore nuova vita in quelle ormai gelide membra; ma poiché il fato si oppose a tutti i suoi sforzi, cosparse di nettare odoroso il luogo dell’impietosa sepoltura, mormorando tra i lamenti: “O Leucotoe, tu giungerai comunque al Cielo!”. Non appena ebbe pronunciato queste parole, il mortale corpo della fanciulla, imbevuto del divino nettare, si disciolse in un mistico aroma che penetrò nel suolo; e così a poco a poco un tenue virgulto di incenso, facendosi largo a fatica tra le zolle con le radici, spuntò sopra il tumulo.

Quanto a Clizia, benché il suo dolore potesse in qualche modo scusare il suo atto, il Sole non volle più intrattenere rapporti con lei; e così la ninfa disperata e incapace di rassegnarsi incominciò a deperire: notte e giorno rimase accovacciata sulla nuda terra con la chioma scarmigliata a rimpiangere il suo amore perduto: non faceva che fissare il volto del dio che, giorno dopo giorno, continuava a percorrere il Cielo per donare la luce a tutti i mortali, seguendone con lo sguardo l’eterno giro. fino a che le sue membra finirono per radicarsi nel terreno, e il suo pallido viso si trasformò nella larga corolla di un fiore: dalla metamorfosi di Clizia era nato il Girasole, che durante l’estate continua a volgersi senza posa verso l’oggetto del suo amore.

Questo mito, -non attestato prima di Ovidio, e di presumibile origine mesopotamica-, sembra voler significare che l’arbusto dell’incenso, e di conseguenza la gommoresina dalla cui lenta combustione si sprigiona il caratteristico aroma, nasce da un incontro dell’ombra con la luce, del terrestre con il celeste e crea una mistica via tra terra e cielo. Le offerte di incenso erano sempre presenti in qualsiasi tipo di sacrificio sia  nell’antichità greco-romana, sia nelle civiltà del Vicino-Oriente come quelle mesopotamiche ed egiziana; anche nella Bibbia è attestato un largo impiego di incenso e di altri aromi. In particolare si parla delle fumigazioni con le preziose resine nei libri dell’Esodo e del Levitico, dove vengono esposti i precetti concernenti il culto divino: “Aronne brucerà su di esso [l’altare] l’incenso aromatico: lo arderà ogni mattina quando accomoderà le lampade e lo arderà anche al vespro allorché riempirà le lucerne”.

Adorazione con incenso davanti all'Arca dell'Alleanza.
Adorazione con incenso davanti all’Arca dell’Alleanza.

Più tardi, nel tempio di Gerusalemme alla ricorrenza annuale del “Giorno dell’Espiazione” (“Yom Kippur”), il sommo sacerdote entrava con il turibolo nel “Sancta Sanctorum” per ardervi sull’ara “due manciate di incenso odoroso polverizzato”: allora una nube densa e profumata avvolgeva in ogni parte il luogo sacro ove era custodita l’Arca dell’Alleanza.

Le volute profumate di fumo prodotto dall’incenso che ardeva sugli altari e da lì si alzavano verso il cielo, avevano il fine di attirare gli dei, ed unire il visibile all’invisibile: così scrive un antico commentatore negli “scholii” all’orazione  di Eschine.

Tuttavia l’impiego dell’incenso nel culto aveva anche lo scopo più prosaico di attenuare l’odore greve ed acre del sangue e delle carni arse sulle are durante i sacrifici cruenti; d’altra parte le scuole mistico-filosofiche che rifiutavano il sacrificio animale, come gli Orfici e i Pitagorici, oltre alle offerte di frutti ed erbe, usavano con larghezza l’incenso nelle loro riunioni mistiche.

Anche nel tempio dedicato alla dea Allat (3) a Palmyra in Siria, il culto divino prevedeva un impiego abbondante degli effluvi di incenso.

La dea Allat (Allatu in accadico) con un leone seduto accanto a lei in un rilevo proveniente da Palmyra.
La dea Allat (Allatu in accadico) con un leone seduto accanto a lei in un rilevo proveniente da Palmyra.

L’animale sacro di Allat era il leone, che nel tempio suddetto è raffigurato in un grande rilievo dove tiene e protegge tra le zampe un’antilope (o una gazzella): questa immagine è stata interpretata come la ripulsa dei sacrifici animali cruenti, ed in effetti nel tempio è stata rinvenuta la seguente iscrizione: “Allat benedice chi non versa sangue nel tempio”.

L’incenso oltre che quello nei riti religiosi, aveva anche un uso profano, come deodorante degli ambienti. Ma in effetti tra l’impiego sacro e quello profano non esisteva una netta differenza o linea di demarcazione, dal momento che nei riti sacrificali, oltre che favorire un trasporto mistico aveva pure la funzione di togliere gli odori non proprio paradisiaci delle macellazioni che venivano fatte in nome degli dei; e d’altro canto nelle case serviva non solo per eliminare le emissioni odorose moleste, -che certo nell’antichità non mancavano-, ma pure per allontanare gli spiriti maligni e attirare le “energie positive” delle divinità: in pratica aveva il compito di purificare l’aria e gli spazi sia in senso fisico sia in senso spirituale.

Le prime menzioni dell’incenso nell’antica Grecia si hanno nel frammento 1 (v. 7) di Senòfane e nel fr. 44 (v. 30) di Saffo -la quale così invocava Afrodite: “Vieni per me da Creta a questo sacro / Tempio, dov’è il bosco tuo leggiadro / Di meli, dove odorano d’incenso / Le are fumanti” (trad. di G. Perrotta); da questi versi si può dedurre che l’impiego dell’incenso avesse già allora un’ampia diffusione in terra ellenica, facendone supporre l’introduzione agli inizi del VII secolo a. C., -come conferma anche la scoperta di alcuni “thymiateria” (incensieri) ascrivibili a tale periodo.

In Grecia l’incenso giunse grazie ai mercanti fenici, che ne detenevano il monopolio, ragion per cui si credette che le profumate stille solidificate nascessero in Siria.

"Thymiaterion" (bruciaprofumi) greco del IV sec. a. C.
“Thymiaterion” (bruciaprofumi) greco del IV sec. a. C.

L’incenso e la mirra, -oltre a moltissime altre essenze e spezie delle quali avremo modo di riparlare (storace, nardo -al quale abbiamo già accennato nell’articolo sulla Fenice-, galbano, làdano, ecc.)-, si aggiunsero e in parte sostituirono quelle usate fin dalle età più antiche, quali la rosa, il mirto, il lauro, il rosmarino -che venivano di solito mescolate ad olio d’oliva-: ad esempio nell’Iliade (XXIII, 186) si dice che Afrodite unse il corpo di Ettore con olio profumato di rose, perché Achille nel trascinarlo intorno alle mura di Troia non gli lacerasse la pelle, mentre nell’Odissea si ricordano i legni resinosi di cedro e di tuia messi ad ardere da Calipso, dai quali si sprigionavano aromatici effluvi (Od. V, 59-64).

Anche il termine con il quale in Grecia si designò l’incenso, “λìβανoς” o “λiβανωτòς” deriva probabilmente dalla radice semitica “LIBNY”, che dovrebbe indicare qualcosa di bianco.

L’Arabia meridionale fu riconosciuta come vera patria dell’incenso nel V sec. a. C., con Erodoto, il quale riferisce (Storie, III, 107), che gli arbusti che lo producono fossero custoditi da serpentelli alati di vario colore, che soltanto il fumo dello storace (4) riusciva ad allontanare consentendo così ai nativi di raccogliere la preziosa resina (per la precisione, gommoresina).incenso

Teofrasto riferisce che gli alberi dell’incenso e della mirra prosperavano nel paese dei Sabei (il biblico regno di Saba) e nella sua opera (“Historia plantarum” “Περì Φυτων Iστoρìας”, IX, IV, 4-6) si trova la descrizione di come veniva organizzato il commercio delle aromatiche resine che avevano fatto la fortuna di quel lontano paese: “Tutto il raccolto d’incenso e di mirra viene radunato nel tempio del Sole, che è il luogo di gran lunga più sacro del regno di Saba. Guardie armate vi montano la guardia. Ciascuno conferisce lì la sua parte di aromi e fattone un mucchio, l’affida alla sorveglianza delle guardie ,dopo aver avuto cura di collocare sul suo cumulo una tavoletta ove sono indicati il numero delle misure che contiene e il prezzo richiesto. Quando i mercanti vengono a rifornirsi, esaminano le scritte e ognuno fa pesare la quantità che gli occorre […]. Più tardi giunge il sacerdote del Sole, il quale preleva per il dio un terzo delle somme versate. Il rimanente del denaro viene lasciato sul posto fino a che i proprietari tornano a prelevarlo”.

L’offerta di incenso agli dei era compiuta con un rituale preciso che prevedeva che l’offerente si servisse solo del pollice, dell’indice e del medio (che poi sono le dita che vengono tenute sollevate mentre il braccio è piegato verso l’alto nel gesto della “benedictio latina”), gesto mostrato in numerose raffigurazioni e descritto da Aristofane nei “Calabroni” (vv. 94-96). Al largo impiego dell’incenso e di altri aromi orientali ed esotici si oppose Platone, il quale sosteneva che nel culto divino si dovessero preferire le erbe e le piante aromatiche offerte dal suolo ellenico, abitualmente impiegati fin dai tempi omerici (in particolare per aromatizzare l’olio d’oliva che serviva sia per il culto sia come unguento e balsamo) (Leggi, VIII, 847).

Secondo un aneddoto riportato da Plutarco (Alessandro, 679), durante una cerimonia sacrificale il giovane Alessandro di Macedonia aveva imprudentemente arso sull’ara un’inverosimile quantità di incenso e pertanto era stato redarguito dal suo precettore Leonida. Questi aggiunse che gli sarebbe stato concesso di compiere un tale spreco di un prodotto così raro e costoso solo dopo che avesse conquistato le terre donde la preziosa essenza proveniva (5).

Memore di questi ammonimenti, Alessandro, dopo la conquista di Gaza, -che era uno dei principale porti da cui le spezie e gli aromi orientali erano esportati verso i paesi dell’occidente-, inviò a Leonida un immenso carico di incenso e di mirra (500 talenti di incenso -pari a quasi 13 tonnellate- e 100 di mirra, -equivalenti a 2 tonnellate e 586 Kg-)(6) e lo informò che da allora in poi non sarebbe più stato costretto a lesinare le essenze destinate al culto divino: “Ti abbiamo mandato incenso e mirra in abbondanza perché tu la smetta di essere avaro con gli dei!”.

Da un’iscrizione trovata nell’isola di Delo (7), risalente al 250 a. C., apprendiamo che un quarto di mina di incenso costava 1 dracma e 4 oboli, mezza mina 2 dracme e 4 oboli (dunque, come avviene oggidì, aumentando la quantità di prodotto acquistata, il prezzo in proporzione diminuiva).

Teofrasto di Ereso (371-287 a.C), il grande naturalista e filosofo discepolo di Aristotele, nel IX libro della sua celebre opera sulle piante, -ove tratta di erbe e arbusti aromatici e del loro uso medicinale-, dà per primo un ampia descrizione della pianta dell’incenso e del modo con il quale la resina da esso prodotta veniva raccolta: “L’incenso, la mirra, la cassia ed anche il cinnamomo [la cannella] si trovano nella penisola arabica, nei regni di Saba, Hadramyta, Kitibaina e Mamali [le regioni dell’Arabia meridionale, dallo Yemen all’Oman]. Gli alberi dell’incenso crescono sia spontaneamente sulle montagne, sia in tenute coltivate alle pendici dei monti. […] L’albero dell’incenso, -così dicono-, non è molto grande, alto circa cinque cubiti [poco meno di 2 metri e mezzo; in realtà però l’albero di incenso può raggiungere anche i 6-7 metri], ma alquanto ricco di fronde; le sue foglie sono simili a quelle del pero, ma più piccole e dal colore verde brillante, come la ruta; la corteccia è del tutto liscia e senza nodi come quella del lauro” (Historia Plantarum, IX, 2-3).

L'arbusto della mirra con primo piani delle foglie e della gommoresina da esso secreta.
L’arbusto della mirra con primo piani delle foglie e della gommoresina da esso secreta.

Nella sua esposizione il naturalista greco accomuna la descrizione della mirra a quella dell’incenso, per la somiglianza degli arbusti che producono le due preziose resine (che in effetti appartengono alla stessa famiglia botanica, quella delle Burseracee), per il fatto che essi vivono all’incirca nelle medesime regioni, e per l’affinità dell’uso al quale erano adibiti, e così prosegue: “L’albero della mirra è di minori dimensioni ed ha un aspetto più ramificato e cespuglioso; si dice abbia un tronco assai duro e resistente, contorto nella parte più vicina al terreno. […] Né l’uno né l’altro di questi alberi è grande, ma quello che ci offre la mirra è più esile ed ha una crescita più lenta […]; inoltre le sue foglie sono simili a quelle dell’olmo, benché, a differenza di quest’ultimo, arricciate e spinose”.

Secondo Teofrasto le notizie e le descrizioni di queste specie vegetali (che ovviamente non erano note alla maggior parte degli Elleni, che ne conoscevano solo i prodotti) erano state riferite per la prima volta da alcuni marinai, i quali, partiti dalla “baia degli Eroi” (8), erano sbarcati sulle coste arabiche e si erano addentrati nell’interno per rifornirsi di acqua sulle montagne. Lì avevano visto gli alberi dell’incenso e della mirra e i procedimenti con i quali erano raccolte e conservate le resine da essi essudate. Da costoro si seppe che venivano praticate delle incisioni sia sul tronco sia sui rami; ma mentre le incisioni sui tronchi erano più profonde, poiché inferte con asce, sui rami erano più superficiali e delicate. Aggiunge pure che talvolta venivano poste al di sotto dei rami delle stuoie di palma onde raccogliere le gocce di resina: quelle raccolte in questo modo sono più fini e trasparenti, mentre quelle cadute direttamente sul terreno e da lì recuperate lo sono di meno.

L’autore aggiunge ancora che a quanto affermano altre testimonianze l’albero dell’incenso assomiglia al lentisco, e così il suo frutto, ma ne differisce nelle foglie che sarebbero rossastre; inoltre che le lacrime di resina secrete da piantine giovani sono più pallide e meno fragranti, mentre quelle prodotte dagli arbusti nel loro pieno rigoglio hanno colore dorato e profumo più intenso. L’albero della mirra invece è simile al terebinto, ma più scabro e spinoso, mentre le sue foglie hanno aspetto più tondeggiante e, qualora le si mastichi, hanno lo stesso sapore del terebinto; inoltre che pure la mirra derivata dagli alberi più vecchi sia più aromatica (9).

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) in altre versioni in uccelli notturni. Nelle “Metamorfosi” i nomi delle tre sorelle sono Arsinoe, Leuconoe e Alcitoe (la quale dopo il racconto eziologico sull’origine dell’incenso, narra la storia della ninfa Salmace che non avendo potuto suscitare l’amore di Ermafrodito, ottiene dagli dei di confondere il suo corpo con quello del suo amato). In altre fonti si fanno i nomi di Aristippe (o Arsippe), Leucippe e Alcatoe. Leuconoe significa “dalla bianca mente”, e quindi “ingenua, innocente”.

2) gli Achemenidi erano propriamente i membri delle dinastia reale persiana che regnò dal VII sec. a. C. fino al 331 allorché il suo ultimo rappresentante, Dario III Codomano, fu vinto da Alessandro Magno. Essa prende il nome da un semileggendario Achaemens (Hakhamanis in persiano), vissuto nel VII sec. a. C. avo dei più grandi sovrani dell’antica Persia, come Ciro II il grande, Dario I e Serse I. Qui però il nome indica in modo generico una dinastia orientale.

3) di questa dea abbiamo parlato nell’articolo sulla “Pietra Nera” della Mecca. Era una delle principali divinità degli Arabi preislamici, -considerata paredra o figlia di Allah-, in età ellenistica e romana identificata sia con Atena (come già in Erodoto -Storie, III, 8-), sia con Artemide, nonché assimilata all’aramaica Attaratteh (Atargatis nella forma greca).

4) lo storace è una resina balsamica dall’odore che ricorda quello della vaniglia (quest’ultima non conosciuta nell’antichità, dal momento che proviene dall’America), estratta dal tronco di un arbusto appartenente alla famiglia delle Stiracacee, lo “Styrax officinalis”. Con il nome di storace (a volte di “storace nero” per distinguerlo dal precedente) viene indicato anche il balsamo ottenuto dalla spremitura della corteccia bollita di un altro arbusto, della famiglia delle Amamelidacee, il “Liquidambar orientalis”, che cresce in Anatolia.

5) a questo episodio accenna anche Plinio il Vecchio in Nat. Historia, XII, 62.

6) nel sistema attico-euboico il talento, come misura ponderale, corrispondeva a 25,86 kg e la mina a 431 grammi. In altri sistemi le corrispondenze erano diverse (da 29,11 kg nel sistema tolemaico a 37,8 kg nel sistema egeico per il talento; e per la mina rispettivamente da 485 gr. a 630 grammi).

7) com’è noto l’isola di Delo è quella dove secondo la versione prevalente del mito, Latona (o Leto) diede alla luce Apollo e Artemide. Quest’isola, prima dell’evento, sarebbe stata vagante nel mare, ed era chiamata Ortigia (“l’isola delle Quaglie” < Oρτυξ = “quaglia”); essa fu la sola terra che accettasse di dare ospitalità alla partoriente, poiché le altre, intimorite dalle minacce di Hera, la sposa di Zeus, gelosa della rivale, le avevano rifiutato il loro aiuto. Tuttavia prima di essere in un’isola, era stata una ninfa figlia dei titani Ceo e Febe e aveva il nome di Asteria; ella per sfuggire alla brame del solito Zeus, si trasformò in quaglia; in seguito poiché il sommo nume insisteva, si gettò nel mare e divenne un’isola errante (si vedano al riguardo Esiodo, Teogonia, 404-411; Callimaco, Inno a Delo, v. 36 e seguenti; Bibliotheca di Apollodoro, I, 4). Dopo che Latona si fu sgravata dei pargoli, l’isola rimase fissata al fondo del mare e cambiò il nome in Delo (la Splendente, la Ben Visibile). Alcuni però, e in particolare l’autore dell'”Inno omerico ad Apollo” (che, nonostante il nome con cui è noto, non è opera di Omero), distinguono le due isole, sostenendo che Artemide sarebbe nata per prima ad Ortigia, e poi Apollo a Delo; in questo caso si ritiene che Ortigia sia da indentificare con l’isoletta di Renea, separata da Delo da un brevissimo tratto di mare; in questa isoletta gli abitanti di Delo avevano l’usanza di partorire i bambini e seppellire i morti, essendo vietato nascere o morire nell’isola sacra ad Apollo, dio per eccellenza di tutto quello che è puro e splendido.

8) questa “baia (o golfo) degli Eroi” (Hρωων κoλπoς)  citata da Teofrasto è di discussa identificazione: secondo alcuni sarebbe la parte più settentrionale del golfo di Suez, nei cui pressi, e precisamente sulle rive dei “laghi Amari”, le paludi poi inglobate nel canale di Suez, sorgeva una città,- della quale peraltro si sa pochissimo- chiamata “Heroopolis” (“Città degli Eroi”), dalla quale derivò il nome attribuito all’attuale golfo di Suez, “sinus Heroopoliticus” (vedasi a tale riguardo Plinio il Vecchio, “Nat. Historia, V, 65; per altri sarebbe da identificare con l’ampio golfo che cinge a nord lo “stretto di Hormuz”, tra il Golfo Persico e l’Oceano Indiano. In effetti la prima ipotesi sembra poco probabile poiché in tal caso si troverebbe assai distante dai luoghi ove vivono la “Boswellia” e la “Commiphora”, gli alberi che secernono dal tronco e dai rami rispettivamente l’incenso e la mirra, per cui sembrerebbe più ammissibile la seconda identificazione, tanto più che l’ignoto navigatore che nel I secolo compose il “Periplus Maris Erythraei” descrivendo i luoghi visti nella sua circumnavigazione dell’Arabia, parla della coltivazione dell’incenso e dell’influenza del monsone nell’area arabica sud-orientale.

9) sia il lentisco (Pistacia lentiscus), sia il terebinto (Pistacia terebinthus) sono arbusti appartenenti alla famiglia delle Anacardiacee, diffuse nelle regioni circum-mediterranee e del Medio Oriente. Dal primo, il Lentisco, si ricava una resina, detta “mastice di Chio”, -dall’isola delle Sporadi che ne era la più grande produttrice-, dal colore giallo intenso, con vari impieghi sia medicinali, sia cosmetici; dalla corteccia del secondo, il Terebinto, si estrae la “trementina di Chio”.

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