I SABEI DI HARRAN -seconda parte-

Altre notizie sui Sabei ed i loro culti si trovano nella “Cosmographia” del geografo arabo Shams ad-Din ad-Dimashqi (1256-1327), in cui sono descritti la forma dei templi, il colore degli ornamenti, il materiale di cui erano fatti i simulacri, i sacrifici offerti ai diversi pianeti; sappiamo inoltre che i seguaci della setta si purificavano con frequenti abluzioni (e dunque sotto questo aspetto mostrano affinità con i mandei e gli altri gruppi di “battezzatori” -Ebioniti, Elkasaiti, Emerobattisti-); proibivano l’uso alimentare della carne di maiale e di altri animali (come gli Uccelli in genere) (rimembrando dunque nelle prescrizioni alimentari i Giudei); non praticavano la circoncisione; erano monogami, ma ammettevano il divorzio. L’insigne scienziato persiano Ibn Ahamad al-Biruni (973-1048) sosteneva che Zoroastro provenisse da Harran, contro la più comune e accreditata ipotesi che fosse nativo della Battriana, e che i Sabei fossero discendenti di Ebrei rimasti in Mesopotamia dopo l’editto emanato da Ciro II il Grande di Persia nel 538 a C. con il quale si concedeva ai deportati di tornare in Palestina.

Stando a quanto riferisce il famoso erudito e storico persiano Al-Masudi (897-957) nella sua opera principale “Muruj adh-Dhahab” (“Le Praterie d’Oro”), -capitolo LXVII-, i templi sabei di Harran erano consacrati alle “sostanze intellettuali” e agli astri, in quanto questi ultimi rappresentano “stati di pensiero e di coscienza”.Tra di essi, secondo l’autore, che avrebbe visitato di persona l’arcana città nel 943, si annoveravano il tempio della Causa Prima, il tempio della Ragione, quelli dell’Autorità, della Necessità, dell’Anima. Questi ultimi tre avevano forma circolare, mentre degli edifici dedicati agli Spiriti Planetari, il tempio di Saturno descriveva un esagono, quello di Giove un triangolo, il tempio del Sole, -nel quale Al-Masudi vede l’equivalente della “Ka’bah” della Mecca-, un quadrato, quello di Mercurio in triangolo inscritto in un rettangolo, quello di Venere un triangolo inscritto entro un quadrato; il tempio della Luna infine, -il più maestoso-, aveva una struttura ottagonale. Tutti i templi erano orientati verso occidente e la festa principale veniva celebrata ad Harran nella ricorrenza dell’equinozio di autunno. La pianta della città era circolare, circondata da un muro in cui si aprivano sette porte, ciascuna delle quali consacrata a un  pianeta, di cui recava l’immagine e i simboli, nonché enigmatici talismani che avrebbero avuto la funzione di attirare le energie cosmiche proprie di ciascun pianeta a beneficio degli abitanti della città, al centro della quale si trovava il tempio del Sole, così come il Sole sta al centro del cosmo nella concezione tolemaica. I nomi attribuiti agli astri, o meglio alle divinità planetari, riflettono il sincretismo delle credenze dei Sabei: il Sole è chiamato Helios, la Luna Sin, Mercurio Nabuq, Venere Baltis, Marte Ares, Giove Bel e Saturno Cronos (quindi tre hanno nomi che riprendono quelli ellenici e quattro quelli mesopotamici).

Ruderi del tempio della Luna.

Il medesimo Al-Masudi aggiunge che vi era pure un grande tempio dalla forma rotonda in cui si aprivano sette porte, coronato da una cupola ettagonale di inusitata altezza: “alla sommità della cupole venne posta nei tempi antichi una pietra preziosa delle dimensioni di una testa bovina, la cui luce si irradia tutt’intorno all’edificio. Molti potenti re tentarono senza successo di impadronirsi di codesta meravigliosa gemma; ma tutti coloro che osano avvicinarvisi fino a una distanza di dieci passi, immantinente cadono a terra esanimi. Pure qualora si impieghino delle lance o simili strumenti, arrivati ad eguale distanza, si fermano a mezz’aria e ricadono a terra, e qualunque tipo di proiettile scagliato contro la pietra subisce la medesima sorte é […]. Alcuni sapienti reputano che tale fenomeno sia causato da pietre magnetiche dotate di proprietà repulsive […]. In codesto tempio trovasi anche un pozzo profondo la cui imboccatura è conformata pure essa di sette lati ed è costruito in guisa che chiunque abbia l’ardire di appropinquarvisi oltre misura ne venga trascinato dentro e precipiti fino in fondo. Il pozzo è circondato da un anello che reca la seguente iscrizione in caratteri siriaci: -Questo pozzo conduce alla sala degli archivi, in cui sono custodite la storia del mondo, la scienza dei cieli, e il segreto di tutte le cose passate, presenti e future-. Nel pozzo sembrano trovarsi tutti i tesori del mondo, ma coloro che si reputino degni di possederli, dovranno dimostrare di meritarli in virtù di potere, scienza e saggezza da essi acquisiti[…] (1). Il tempio con la cupola e il pozzo sono collocati sopra un blocco di roccia simile a una montagna così salda e resistente che risulta impossibile praticarvi qualsiasi tipo di scavo. Coloro che videro questo tempio con i loro occhi asseriscono di aver provato un sentimento di profonda tristezza, ma nel medesimo tempo una sorta di attrazione inquieta verso la misteriosa costruzione”.

Al-Msudi riferisce altresì di aver osservato durante la sua visita ad Harran due iscrizioni in lingua siriaca sovrastanti la porta di un luogo di culto dei Sabei, contenenti aforismi di ispirazione neoplatonica (e gnostica): “Colui che riconosce la sua natura diventa Dio” e “L’uomo è una pianta con le radici rivolte verso il Cielo”.

Come si può facilmente comprendere, è probabile che la descrizione di Al-Masudi non sia del tutto realistica, ma intenda riflettere l’ideologia e la visione teologica e cosmologica dei Sabei, tanto più che sembra ricalcare lo schema della “città ideale” di Adocentyn, esposto nel “Gayat al-Hakim” (“Il fine del Savio”), astrusa opera di alchimia e astrologia attribuita all’arabo spagnolo Muhammad al-Majiriti, vissuto a Cordova nel X secolo, di cui fu eseguita una traduzione latina per ordine del re Alfonso X di Castiglia, detto “il Saggio” (1221-1284), -il quale aveva promosso la traduzione e il commento di alquanti testi scientifici e filosofici arabi-. Con il titolo di “Picatrix” questa traduzione dello strano testo fu conosciuta ed ebbe una vasta diffusione nell’Europa medioevale e poi nel Rinascimento, esercitando una certa influenza negli ambienti intellettuali e filosofici, e riscuotendo alta, -e forse eccessiva- considerazione dai neoplatonici italiani del XV secolo, come Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola. L’utopia filosofico-umanitaria espressa in “Adocentyn” prelude a sua volta alle consimili “città ideali” immaginate da diversi pensatori di età posteriore, da Tommaso Moro a Francesco Bacone, a Tommaso Campanella, -e che avevano il loro lontano prototipo nella “Repubblica” platonica-.

Nel “Picatrix” la città ideale fondata da Ermete Trismegisto è così descritta: “I Magi caldei asseriscono che Ermete per il primo costruì una dimora che ospitava simulacri per mezzo dei quali riusciva a prevedere il flusso d’acqua del Nilo in relazione alle fasi lunari [dunque, si potrebbe osservare, secondo un principio simile a quello che governa i moti delle maree]. Egli eresse poi un tempio del Sole e vi si celava entro così che fosse sempre presente, pur se nessuno poteva vederlo. Fu lui che fondò altresì una città nell’Egitto orientale la cui lunghezza era di 12 miglia e in essa un castello con quattro porte, una su ciascuno dei lati. Pose la figura di un’aquila sulla porta orientale, di un toro sulla porta occidentale, di un leone su quella meridionale e di un cane su quella settentrionale (2). In codeste immagini fece entrare delle entità spirituali, le quali emettendo dei suoni intelligibili manifestavano la loro volontà, né ad alcuno era dato varcare le porte senza il loro consenso. In quel luogo piantò pure certi alberi, tra i quali ve n’era uno assai grande, dai cui rami nascevano e si sviluppavano frutti di qualunque genere. Sulla sommità del castello edificò una torre alta 20 cubiti, che culminava in una cuspide arrotondata il cui colore splendente mutava ogni sette giorni, e, completato il ciclo settimanale, tornava al colore iniziale (3).

La mitica città di Adocentyn in una stampa del XVII secolo.

La città era dunque illuminata dalla luce che si rifletteva sulla cuspide della torre, assumendo ogni giorno un diverso colore, di modo che di quello stesso colore rifulgeva l’intera città. La torre era circondata da un canale ricco di acque in cui guizzavano una miriade di pesci di moltissime specie. Attorno alle mura della città Ermete collocò immagini intagliate in virtù delle quali gli abitanti diventavano vieppiù valenti ed erano protetti da qualunque malanno e iniquità. Codesta città meravigliosa chiamavasi Adocentyn e coloro che n essa vivevano conoscevano in profondità la scienza degli antichi e i loro segreti, specie l’astronomia”.

Pur avendo il loro centro principale in Harran, i Sabei erano presenti in tutta la Mesopotamia settentrionale ed i califfi abbassidi di Bagdad nutrivano per essi grande stima e considerazione, poiché coltivavano le arti, la filosofia e le scienze. La figura più illustre e autorevole tra i dotti sabei è quella di Thabit ibn-Qurra, celebre scienziato, il quale tradusse in arabo molti testi di matematici e astronomi greci, quali Archimede, Euclide e Tolomeo. Nato nell’836 ad Harran, si trasferì poi a Bagdad dove fu uno degli animatori della cosiddetta “Casa della Sapienza” (“Bayt al-Hikmah”) fondata dal califfo Harun ar-Rashid (regnante dal 786 all’809), una sorta di università, ove si traducevano, si studiavano e si commentavano le opere dei filosofi e degli scienziati greci, sia nella lingua originale, sia nelle numerose versioni che ne erano state fatte in siriaco, armeno, copto e altre lingue orientali. Qui egli si dedicò anche alla filosofia e alla medicina, dando un fondamentale contributo all’innesto nella cultura arabo-islamica della sapienza occidentale. Nell’872 Thabit ibn-Qurra, non si conosce bene per quali ragioni, si separò dai suoi correligionari di Harran e fondò una nuova comunità sabea a Bagdad, che però fu perseguitata dal califfo Al-Qahir (932-934), che non mostrava la stessa tolleranza dei suoi predecessori. Un altro notevole esponente della cultura sabea di Harran fu l’astronomo e astrologo Abu Abd-Allah al-Battani (858-929), che godette ampia reputazione anche tra gli studiosi europei fino al XVII secolo con il nome latinizzato di “Albatenius”.

Nel 975 il sabeo Abu Ishaq ben-Hillal, segretario dei califfi Al-Muti (946-974) e Al-Ta’i (974-991), ottenne un editto di tolleranza per i suoi correligionari residenti a Hurran, Raqqa e nei rimanenti territori della provincia di Diyar Mudar. Nel X secolo vi erano ancora molti Sabei nell’Osroene e a Baghdad, ma nel 1033 era rimasto ad Harran il solo tempio della Luna, che fu poi distrutto allorché nel 1081 la città fu occupata dalla dinastia turca dei Numairidi; da quell’anno non si ha più alcuna notizia dei Sabei come gruppo o setta religioso-filosofica. Ricordiamo inoltre che nel 1104 fu combattuta ad Harran un’importante battaglia durante la quale i capi crociati Boemondo d’Altavilla, principe di Amtiochia, e Baldovino II, conte di Edessa (i sovrani di due dei principali stati fondati dai Franchi dopo la prima crociata nel 1099), vennero sonoramente battuti dai Turchi Selgiuchidi, guidati dall’atabek Jarkemish di Mosul.

Tuttavia quando ormai la comunità sabea si era estinta, almeno ufficialmente, lo scrittore e viaggiatore arabo andaluso Ibn-Jubayr al-Kinani (1145-1217) scriveva parlando degli abitanti della città: “Harran è piena di gente affabile e caritatevole, che accoglie con benevolenza i forestieri, protegge ed aiuta i poveri. Qui coloro che sono senza tetto non si sentono abbandonati poiché i cittadini di Harran li provvedono di cibo e di tutto quanto abbisognano”.

Nel 1259 infine la città venne completamente distrutta e rasa al suolo dall’invasione dei Mongoli, mentre gli abitanti superstiti trovavano riparo nelle città vicine di Urfa (Edessa), Mardin e Mosul, che offrivano migliori opportunità di difesa. Da allora il sito di quella che fu una della più importanti città del Vicino Oriente giace abbandonato e semisepolto tra la sabbia, ed in esso risulta difficile riconoscere un segno dello splendore di un tempo.

La “Torre degli Astronomi”.

Le poche testimonianze di quella che fu l’antica e gloriosa città di Harran si trovano nei pressi della cittadina di Sanliurfa: tra i ruderi che costellano il sito archeologico svetta una torre alta più di 50 metri, detta “Torre degli Astronomi”, visibile da molti km di distanza nel mezzo della pianura desertica, che forse segnava il centro del tempio di Sin, e che dovrebbe essere quella citata da Libanio. Oltre a questa torre i pochi edifici riconoscibili sono l’università e la grande moschea eretta da Marwan II, nonché l’imponente castello fortificato da Saladino nell’area a sud della città.

Le rovine dei templi che costituivano il centro religioso di cui parla Al-Masudi ed altri autori si trovano però in una località a circa 40 km da Sanliurfa, chiamata Eski Sumatar, al confine con la Siria, dove si ergono spezzoni di mura, statue, rilievi e altri avanzi architettonici. Quivi si innalza un collina artificiale che rappresenta il cuore dell’Universo e sulla cui sommità si possono osservare una costruzione circolare e un pozzo chiuso da una lastra di pietra che è presumibilmente quanto rimane del santuario dei pianeti. In questa collina, avente il diametro di circa 150 metri e un’altezza non superiore ai 50 metri, si può riconoscere in modo molto approssimativo l’aspetto di una piramide: che essa sia artificiale risulta evidente dalla sua collocazione centrale nel complesso templare e i numerosi blocchi di pietra affioranti a diversa altezza sui suoi fianchi. Il tumulo, sovrastato un tempo da un alta torre conica dotata, secondo moderne ipotesi di rampe a spirale, doveva nelle intenzioni dei Sabei riprodurre sia nella forma sia nel simbolismo le piramidi d’Egitto, alle quali sembra, qualora ne avessero la possibilità, gli Harraniani si recassero in pellegrinaggio come al luogo dove avevano le loro sepolture i loro profeti principali Agatodémone ed Ermete Trismegisto; questo pellegrinaggio che era compiuto soprattutto dai sacerdoti avrebbe dovuto compiersi di preferenza al ricorrere del solstizio d’inverno.

Ma ora questo luogo venerando è solo un cumulo desolato di macerie ricoperto da una distesa di pietre infrante e di mura crollate. Dell’originaria costruzione ottagonale rimangono assai scarse testimonianze: qualche tratto di mura, alcune basi di torri e di pilastri consumati dall’erosione del vento desertico. La cospicua quantità di pietra da taglio riutilizzata durante i secoli per edificare le case del vicino villaggio può tuttavia dare un’idea delle dimensioni dell’antico tempio. L’unico elemento che trova preciso riscontro nella descrizione di Al-Masudi è l’imboccatura del pozzo, ora riempito di macerie e detriti e ricoperto da una lastra di pietra; tuttavia non v’è dubbio alcuno che le poche rovine che appaiono agli occhi del visitatore, suscitando una sensazione di curiosità e di mistero, siano le ultime testimonianze del grande santuario dei sabei descritto dallo scrittore persiano.

Il tumulo al centro del sito archeologico di Eski Sumatar.

Intorno al tumulo si trovano semisepolti avanzi di strutture architettoniche e di sculture appartenenti ai templi consacrati ai pianeti. Di quello del dio lunare Sin sopravvivono alcuni elementi di una sovrastruttura in pietra squadrata ed ambienti scavati nella roccia, di cui il principale è stato per lungo tempo adibito alla funzione di stalla. Le pareti di queste stanze, annerite dal fumo, recano però ancora traccia di iscrizioni e formule divinatorie in caratteri siriaci, affiancate dalla raffigurazione del crescente lunare, simbolo di Sin, e da ritratti di sacerdoti insieme alla triade divina costituita da Sin, Baal-Shamen (“Signore dei Cieli”) e Bar Nemre (“Figlio del Risplendente”). Questo rilievo conferma una notizia data dallo scrittore ecclesiastico Giacomo di Sarug (451-521), originario anch’egli dell’Osroene, secondo la quale i Sabei veneravano in special modo la predetta triade di divinità celesti. Purtroppo la superstizione degli abitanti attuali, convinti che in queste sale si celino pericolosi spiriti e demoni maligni, ha causato la quasi completa distruzione delle immagini scolpite in quello che doveva essere un mirabile santuario rupestre.

A poca distanza dal santuario di Sin si osserva la base di un’altra costruzione quadrata di cui resta soltanto la sala sotterranea, un tempo accessibile tramite un varco inclinato, ora del tutto ostruito. La completa assenza di iscrizioni e decorazioni impedisce di stabilire a quale divinità planetaria il tempio fosse dedicato. Proseguendo il cammino intorno alla collina in direzione sud-est appare una grande lastra circolare in pietra squadrata che segna la collocazione del tempio di Saturno. La particolarità più rilevante di esso è la presenza di un corridoio discendente in parte sgombro da macerie, e quindi ancora percorribile, che conduce ad una piccola stanza di forma cubica posta in corrispondenza del centro della piattaforma sovrastante e interamente scavata nella roccia. Questo ambiente è stato successivamente trasformato in luogo di sepoltura di cui si vedono tuttora loculi e arcosoli e qualsiasi traccia di decorazione o iscrizione è stata pertanto eliminata. In un angolo della stanza si apre l’imboccatura di un pozzo quadrato completamente ingombro di detriti. Stando a quanto assicurano i nativi, tutti i templi possiedono, o possedevano, un pozzo simile che darebbe accesso ad un vasto sotterraneo il quale mette in comunicazione tra loro tutti gli edifici del complesso secondo uno schema radiale di cui il tumulo centrale è il punto focale. A sua volta il sotterraneo sarebbe collegato ad una lunga galleria attraverso la quale si poteva giungere al tempio della Luna di Harran, e poi fino alla rocca di Edessa, -l’attuale Urfa-, a più di 70 km di distanza.

Sala ipogea del tempio di Sin.

Purtroppo le condizioni  rovinose in cui si trova il complesso non consente di accertare le veridicità della leggenda, sebbene le presenza di lunghe gallerie, di pozzi e di ambienti ipogei che si trovano sparsi ovunque nel sottosuolo carsico della regione, alcuni dei quali senza dubbio artificiali, sembrino avvalorare questa ipotesi.

Procedendo ancora verso sud-est, a distanza di circa mezzo chilometro l’uno dall’altro ci si imbatte nelle rovine di almeno altri tre templi, dei quali uno ha pianta quadrata e due circolare. Pure in essi si riscontrano dei corridoi discendenti che si dirigono verso la collina centrale, ma l’enorme quantità di detriti che ne ostruiscono l’accesso impedisce qualunque tentativo di esplorazione degli stessi, per cui fino a quando non verranno intrapresi scavi metodici e restauri delle strutture murarie non si potrà avere un quadro completo di come doveva presentarsi il complesso templare.

Tutti gli edifici sono circondati da un insieme di altari, piattaforme e segnacoli ricavati nella roccia e spesso dotati di canali di scolo e di vasche di raccolta, ed interi tratti di terreno pietroso sono ricoperte di iscrizioni in caratteri siriaci delle quali alcune ormai consunte e per nulla o scarsamente leggibili, mentre di altre, più riparate o incise più in profondità, è più facile decifrare e comprendere il testo; tra queste ultime una incisa su una lastra di pietra sulla sommità della collina riporta la seguente iscrizione in siriaco: “Io, Tiridate, figlio del governatore arabo Adonai, ho costruito questo altare e questa colonna in onore di Marelahe [la divinità suprema dei Sabei] nel mese di shubat [febbraio] dell’anno 476 [dell’era Seleucide, -corrispondente al 165-](4), quale voto per la vita del mio signore e re e dei suoi figli, per la vita di mio padre Adonai, per la mia propria vita e quella dei miei fratelli e dei miei figli”. La data quivi indicata consente di stabilire un “terminus ante quem” circa l’edificazione e la sistemazione del complesso cultuale.

L’archeologo tedesco Theodor Hary, che condusse accurate campagne di scavo ad Eski Sumatar tra il 1995 e il 1999, ritiene che le costruzioni i cui resti sono stati quivi rinvenuti siano oltre che templi parti di un elaborato osservatorio astronomico. A sostegno della sua tesi l’illustre studioso osserva che la disposizione al suolo in semicerchio dei santuari planetari intorno al monte centrale riproduce quella dei pianeti durante un allineamento astronomico verificatosi il 17 maggio del 93: quel giorno, poco dopo il tramonto guardando verso l’orizzonte in direzione ovest si sarebbero visti tutti i pianeti allora conosciuti collocati in Cielo come sulla Terra i templi ad essi corrispondenti, concentrati in un arco di 69 gradi, -Sole a 24° del Toro; Venere, Marte e Mercurio rispettivamente a 12°, 15° e 18° dei Gemelli; Luna (crescente) a 4° circa del Cancro; Giove a 11° del Cancro; Saturno a 3° del Leone-, di modo che dovevano offrire uno spettacolo assai suggestivo.

Hary ha notato che i templi consacrati ai pianeti formanti a quella data la triplice congiunzione nei Gemelli sono scavati accanto a una doppia galleria, nella quale egli vede una rappresentazione di quel segno. Alla luce della sua interpretazione astronomica del sito archeologico l’archeologo teutonico riconosce nei numerosi bassorilievi scolpiti sulle rocce i punti levata delle principali costellazioni alla data sopra indicata. Purtroppo però la quasi sistematica distruzione degli edifici, delle sculture e delle iscrizioni avvenuta nel corso dei secoli rende assai difficile per non dire impossibile ricostruire nella sua integrità la trasposizione del tema celeste operata dagli astrologi sabei e soprattutto comprendere il significato che aveva esso per loro, in particolare l’allineamento planetario tra Toro e Leone (5).

Risulta peraltro evidente che questo luogo venne scelto perché la sua conformazione naturale era stata ritenuta adatta per rappresentare sulla Terra un ordine celeste determinato. Tale conformazione per poter esprimere esattamente il simbolismo astrale dei Sabei dovette però subire un intervento umano piuttosto cospicuo, che si nota soprattutto nel tumulo centrale, ma è indubbio anche nei santuari planetari scavati nella roccia in cui elementi naturali vennero utilizzati ed adattati agli schemi architettonici ed iconografici degli ideatori del complesso templare.

Nei pressi di Eski Sumatar nel 2012 sono state scoperte 120 tombe scavate nella roccia, delle quali alcune risalenti ad oltre 5000 anni fa. In esse sono stato rinvenuti molti oggetti assai interessanti e curiosi, tra cui non pochi giocattoli (come quelli nella foto a lato), dal che si è dedotto che vi fossero stati sepolti dei fanciulli.

Alcuni studiosi moderni sostengono, o quanto meno ipotizzano, che il culto astrale dei Sabei abbia un’origine assai più remota, che addirittura affonderebbe le sue radici nella preistoria. Infatti nel 1960 in una località sita a pochi chilometri da Harran, chiamata Gobekli Tepe (“collina dell’ombelico”) una missione archeologica americana incuriosita dall’aspetto inusuale della collina, che faceva supporre non fosse naturale, ma opera umana, e dal rinvenimento intorno ad essa di oggetti di selce lavorata, iniziò degli scavi che però furono ben presto abbandonati poiché non avevano portato ad alcuna scoperta interessante.

Nel 1994 si ebbero altri ritrovamenti casuali di pietre lavorate e altri manufatti litici, dopo che un pastore il quale pascolava le sue capre notò alcune strane pietre che spuntavano dal terreno; in seguito ad essi gli scavi ripresero sotto la guida di un archeologo tedesco, Klaus Schmidt e così vennero alla luce sei recinti circolari con diametro dai 10 ai 30 metri, con pilastri grossolanamente antropomorfi, -“a tau”, come un tronco con le braccia aperte-, alti dai 2 ai 7 metri e pesanti oltre 10 tonnellate. Ma molti altri si presume che siano ancora sepolti sotto la collina, la cui presenza è stata rivelata dalle sofisticate strumentazioni geotecniche utilizzate per sondare il terreno. Sulla maggior parte dei monoliti si vedono bassorilievi e graffiti raffiguranti animali di vario genere (volpi, leoni, cinghiali, uccelli, insetti, ecc.), il che induce a pensare che al tempo in cui furono erette tali imponenti costruzioni l’ambiente naturale fosse assai più rigoglioso di quanto non sia ora, in cui nell’Anatolia sud-orientale prevalgono le distese steppiche, quando non desertiche, un luogo coperto di fitte foreste che ospitavano una ricca fauna; ma non mancano pure disegni astratti ed elementi geometrici che presentano talora un aspetto assai enigmatico.

Uno dei recinti del santuario megalitico di Gobekli Tepe.

Ma quello che rende più importante questa scoperta è l’epoca di costruzione del complesso, quasi certamente templare, che mediante gli strumenti con isotopi di carbonio è stata fatta risalire a circa 9.500 anni a. C. (dunque quasi 12.000 anni fa), ossia un’epoca assai precedente a quella degli edifici ritenuti in assoluto i più antichi, -come i templi megalitici di Stonehenge e di Malta-, ai quali si attribuisce un’età non superiore ai 3.000-3.500 anni a. C. E’ certo tuttavia che l’erezione di questo complesso monumentale durò centinaia di anni e fu dunque opera di diverse generazioni umane, che diedero il loro contributo all’edificazione del singolare tempio.

Secondo Schmidt si tratterebbe di un santuario consacrato al culto degli antenati; ma studi più recenti, -ad es. quelli di M. Sweatman e di D. Tsikritis-, propendono a ritenerlo anche e soprattutto un osservatorio astronomico, dove si praticava anche il culto degli astri (e pertanto si potrebbe riallacciare in qualche modo misterioso e del tutto ipotetico a quello dei Sabei venuto millenni dopo la distruzione del tempio di Gobelki Tepe), in quanto molti dei graffiti sui pilastri, -e in particolare il pilastro n. 43, detto “pilastro dell’avvoltoio”-, sarebbero asterismi, disegni che descrivono le costellazioni nelle epoche durante le quali fu costruito il tempio.

Un’altra circostanza che rende questo sito archeologico così misterioso è che intorno all’8.000 a. C. inspiegabilmente esso fu abbandonato e tutte le costruzioni, le stele, i pilastri che erano stati eretti con tanta fatica, i rilievi e i graffiti scolpiti nella roccia con maestria insospettabile per una popolazione primitiva furono sepolti sotto migliaia di metri cubi di terra così da creare la collina entro la quale rimasero celate per millenni queste mirabili testimonianze degli albori della civiltà. Perché mai dopo aver speso tante energie per edificare codesto santuario di assai cospicue dimensioni quegli uomini primitivi, -ma che dimostrano di aver posseduto ragguardevoli cognizioni architettoniche e astronomiche-, lo abbandonarono in modo precipitoso, quasi volendo cancellarlo non solo dalla loro quotidiana esistenza, ma pure dalla memoria della loro stirpe? La risposta data da Schmidt e da altri studiosi lega la distruzione del tempio alla comparsa dell’agricoltura: come si è detto, gli autori della singolare costruzione erano senza dubbio individui appartenenti a popolazioni ancora arretrate che vivevano di raccolta, caccia e pesca, con una struttura sociale semplice (che probabilmente non era incentrata sulla famiglia nelle forme che vennero in età successive) e che dunque conducevano un’esistenza relativamente “facile”, dove non esisteva il “lavoro”, almeno nelle forme complesse che avrebbe poi assunto, né un’organizzazione sociale rigida (e che pertanto si può identificare con la mitica “età dell’oro” e con la vita di Adamo ed Ava nell’Eden avanti il “peccato originale”). Con l’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento la situazione cambiò radicalmente: l’impegno e la fatica che essi richiedevano erano assai più intensi, per cui le condizioni di vita divennero molto più dure; la coltivazione dei cereali e di altre piante comportò la proprietà privata dei terreni; ne derivò l’introduzione di gerarchie sociali strutturate al posto di quelle “aperte” dei raccoglitori-cacciatori e la nascita della famiglia patriarcale; la religione divenne prerogativa di una classe sacerdotale che si arrogava la funzione di intermediaria e interprete della volontà degli dei, e la divinità stessa venne sentita più lontana e severa, assumendo i tratti del padre, del re e del giudice (per cui in pratica gli dei erano il padre e il re in cielo, come questi ultimi erano a loro volta gli dei in terra), allontanandosi dal pacifico e spesso impersonale animismo terrestre e astrale con cui veniva percepita in precedenza. Questo passaggio da un’esistenza fondata su raccolta, caccia e pesca, -e dunque abbastanza in armonia con la natura (non del tutto, poiché anche gli uomini primitivi disponevano di strumenti rudimentali e di una primordiale “tecnologia”)- ad una organizzazione sociale ed economica fondata sull’agricoltura, sarebbe stato espresso nei miti, come quello della Genesi biblica, che descrivono la “cacciata dal Paradiso terrestre”, o della fine dell'”età dell’oro”, o come l’apertura del “vaso di Pandora” (6)(7).

Ma come e perché a un certo momento della storia umana si scelse di adottare l’agricoltura come mezzo di sostentamento, e con essa un modo di vita e una struttura sociale completamente diversi? E perché un popolo, o un gruppo di popoli, cacciatori-raccoglitori, che non era abituato a sforzi intensi e prolungati e che non aveva grandi esigenze aveva sentito il bisogno di erigere un monumento tanto grande e complesso? Alla prima domanda Schmidt e altri rispondono adducendo un mutamento climatico che avrebbe drasticamente ridotto la flora e la fauna dell’area del Vicino Oriente e quindi la loro disponibilità a servire da cibo per gli umani, costringendo questi ultimi a cercare altre vie per potersi sfamare e a coltivare e allevare gli esseri viventi che prima erano loro offerti dalla natura stessa. Invero a questa risposta si potrebbe obiettare che essa può ritenersi valida solo se si presume che tale mutamento climatico, -definito talora “piccola glaciazione”-, abbia riguardato non solo il Vicino Oriente, ma buona parte del continente antico, esclusa l’Africa centro-meridionale e l’estremo nord dell’Eurasia.

Alla seconda domanda non è stata finora data una risposta plausibile, poiché in effetti è abbastanza strano che un edificio tanto complesso sia stato costruito in molti decenni da tribù di raccoglitori-cacciatori i quali non dovevano essere abituati a sostenere il dispendio di energie fisiche e mentali che l’erezione di esso comportava; e d’altro canto non si comprende quale necessità ne avessero, salvo, come abbiamo osservato, quella di disporre di un luogo ideale per l’osservazione degli astri.

In ogni caso è quanto meno azzardato ipotizzare un legame diretto tra l’arcaico complesso templare di Gobekli Tepe e il santuario astrale dei Sabei riscoperto a Eski Sumatar, se non quello, peraltro labile che codesta area dell’alta Mesopotamia sia particolarmente adatto all’osservazione del Cielo stellato e a percepire la stretta interdipendenza tra mondo celeste e mondo terreno.

Note

1) dell’esistenza di un ipotetico luogo o regno segreto ubicato nel sottosuolo, ove sarebbero conservate tutte le conoscenze, anche delle cose future, in alcune leggende e tradizioni asiatiche chiamato “Agartha”, abbiamo trattato ampiamente negli articoli su “I Continenti scomparsi tra scienza e mito” (27 marzo e 1 e 2 aprile 2013).

2) le effigi degli animali posti sulle porte di Adocentyn richiamano gli “esseri viventi” (“Zoa” nella traduzione greca dei LXX) della famosa “visione di Ezechiele” descritta all’inizio del libro biblico attribuito al profeta ebraico (I, 4-12), nel quale egli descrive un misterioso veicolo trainato e sostenuto da questi strani esseri alati, di derivazione senza dubbio babilonese, che corrispondono appunto a quelli di Adocentyn, salvo il cane, che sostituisce quello con figura interamente umana. In questi esseri sono stati visti anche i quattro segni zodiacali della “croce fissa” (Toro, Leone, Scorpione -rappresentato dall’Aquila- e Acquario), che costituiscono a loro volta il “Tetramorfo” della tradizione ermetica. Tra l’altro come vedremo oltre nel prosieguo della nostra trattazione, nei ruderi del tempio dei pianeti descritto da Al-Masudi, che si possono tuttora vedere in un villaggio nei pressi dell’antica Harran, studiati negli anni 90 da un archeologo tedesco, si riscontra una precisa relazione con i segni del Toro e del Leone. In effetti considerando i legami dei Sabei con Ermete Trismegisto, a cui è attribuita la scoperta dell’alchimia, oltre che con la scienza astrologica, tali corrispondenze sono del tutto plausibili.

3) è presumibile che tali colori fossero quelli attribuiti da una tradizione pressoché universale ai sette pianeti: giallo (oro) al Sole, bianco (argento) alla Luna, azzurro o grigio a Mercurio, verde a Venere, rosso a Marte, blu (o porpora) a Giove, nero (o marrone) a Saturno.

4) l’era Seleucide parte dall’agosto del 311 a. C., quando Seleuco Nicatore (“Vincitore”), uno dei diadochi di Alessandro Magno, al quale era stata assegnata gran parte dei territori asiatici conquistati dal condottiero macedone, tornò a Babilonia dal suo esilio in Egitto e si insediò stabilmente sul trono di quello che divenne l’Impero Seleucide, il più vasto tra gli stati succeduti a quello di Alessandro. Egli ne era stato scacciato da Antigono Monoftalmo (“Monocolo”), -un altro dei diadochi-, e dal figlio di lui Demetrio Poliorcete (“Assediatore di città”), che intendevano ricostituire l’impero di Alessandro Magno e gli avevano sottratto la Siria e la Mesopotamia. Dopo aver vinto Demetrio Poliorcete nella battaglia di Gaza del 312 a. C. potè ricostituire i suoi domini, dando inizio alla dinastia che durò fino all’occupazione dei Parti e alla conquista romana nel 64-63 a. C., quando però i domini seleucidi si erano ridotti solo a parte della Siria.

5) in effetti una concentrazione di pianeti in un settore ristretto dell’eclittica, -o dello zodiaco che dir si voglia-, è sempre considerata foriera di eventi importanti e di profondi mutamenti storici.

6) anche il furto del fuoco agli dei da parte di Prometeo e il dono che questi ne fece agli uomini può essere visto in una duplice valenza: da un lato simbolo della capacità di discernimento personale acquisita dall’umanità (la “scienza del bene e del male”), che fa prendere coscienza all’uomo della sua condizione tutt’altro che felice; dall’altro come il vero e proprio sviluppo di una rudimentale tecnologia, di cui l’utilizzo del fuoco è espressione e sintesi, e quindi l’inizio di quella che suolsi definire “civiltà”, che però nasce proprio dall’insoddisfazione per la semplice “vita di natura”. Questa interpretazione della caduta dell’uomo da una condizione di “felicità” ad una di sofferenza si può affiancare e integrare con altre in cui ad esempio le figure di Eva e del suo “pendant” ellenico Pandora vengono assunte come allegorie della sensazione, o della sensibilità, o della memoria, o dell’intelligenza superiore: esse con il loro atto di “disubbidienza” (ovvero di autonomia rispetto a un ordine in cui non sono contemplate iniziative individuali) aprono la coscienza umana all’idea di “bene” e di “male”, prima in senso fisico, e poi morale e metafisico. Si veda a tale riguardo quanto abbiamo scritto nella quarta parte di “Miti e misteri di Atlantide – la Lemuria” del 17 gennaio 2015.

7) sulla necessità dell’agricoltura derivante dalla condanna inflitta da Zeus agli uomini a guadagnarsi l pane con il duro lavoro si veda anche Esiodo, “Le Opere e i Giorni” (vv. 286-319), il quale però esprime una valutazione meno pessimistica di tale necessità e le attribuisce un elevato valore etico.

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