I SABEI DI HARRAN -prima parte-

Nella ricerca precedente, trattando della religione del Mandei, abbiamo accennato ai “Sabei di Harran”, setta con la quale essi talora sono stati confusi. Di questa setta misteriosa si hanno poche notizie certe e non si sa neppure se nelle fonti che ne parlano, quasi sempre in termini piuttosto generici, con tale denominazione si intenda sempre lo stesso gruppo religioso, -o etnico-religioso-, ovvero con essa siano state indicate e confuse sette diverse, per quanto accomunate da alcuni aspetti, che esamineremo meglio in seguito. Il nome di “Sabei” con il quale si designano i membri della setta non significa che debbano essere identificati con l’omonima popolazione che abitava il famoso regno di Saba sito nell’area sud-occidentale della penisola arabica, -o con una comunità staccatasi da quest’ultima-, con la quale quasi certamente non esiste alcun rapporto anche perchè l’omofonia del nome esistente in italiano e in altre lingue non si riscontra nella fonetica delle lingue semitiche e nell’ortografia degli alfabeti aramaico e arabo -dove la lettera iniziale del nome che indica gli abitanti del regno di Saba è una “sin”, una “s” dentale, mentre l’iniziale dei Sabei di Harran è una “sad”, una “s” enfatica-.

Dei “Sabei”, con il nome di “S’abiun” o “S’abia” si fa menzione alcune volte nel “Corano” (nelle sure II, V e XXII), ove sono citati nel novero delle “genti del libro” (“Ahl al-Kitab”), ossia di coloro che sono seguaci di una religione rivelata, i cui insegnamenti e dottrine sono contenuti in un testo sacro, – oltre ai Sabei, Cristiani, Ebrei e Zoroastriani (questi ultimi peraltro talora sono inseriti espressamente nella lista, ma altra volte no, ed in effetti nei posteriori sviluppi dell’espansione musulmana in Asia fu ad essi riservato un trattamento assai meno tollerante che verso i cristiani e gli ebrei)-. Le “genti del libro” non erano considerate  alla stregua dei cosiddetti “pagani”, i quali erano costretti o a convertirsi all’Islam o ad essere uccisi senza pietà, e pertanto era loro consentito entro certi limiti, variabili secondo i tempi e i luoghi, e dietro la corresponsione di una tassa, -la “gizya”-, di continuare a professare il loro culto. Di essi nelle sure summenzionate del Corano si afferma che, “poiché credono in Dio e nell’Ultimo Giorno e operano il bene, non avranno nulla da temere quando giungerà il tempo delle resurrezione e del giudizio finale”: in tal guisa sembrerebbe siano equiparati ai musulmani, ma in effetti, come abbiamo detto sopra, non fu mai davvero così.

Tuttavia non si è finora riusciti ad avere notizie precise su questa setta o a identificarla con certezza con un’altra più o meno nota. Come abbiamo visto nella parte precedente, si è ipotizzato che quello di Sabei fosse un altro nome dei Mandei, sulla scorta anche di una presunta derivazione del termine dal verbo aramaico “s’ebà”, -“immergere in acqua”-, che faceva pensare a costoro, o agli Elkasaiti, o gli Emerobattisti, o a una qualche altra setta di “battezzatori”, praticanti abluzioni e lavacri rituali. Ma queste ipotesi sono da ritenersi improbabili, e comunque non suffragate da alcuna prova documentale o indiziaria. Esclusa anche la possibilità di una derivazione dal greco σεβω (σεβωμαι) = “adorare, venerare”, l’etimologia più attendibile è quella che riconnette il termine Sabei alla radice araba “s-b-ah (l’ultima lettera in effetti indica propriamente un suono laringale)”, esprimente l’idea del “venire fuori, uscire, levarsi”, che in questo caso andrebbe riferita al sorgere degli astri, per cui in conformità alle dottrine attribuite ai Sabei nei testi antichi dovrebbe significare “quelli del sorgere degli astri”, ovvero adoratori degli stessi. Un’altra ipotesi interpreta la derivazione semantica dalla radice che indica il levarsi o l’uscire nel senso che indichi coloro che hanno da poco appreso i rudimenti della fede islamica, i neofiti, o si siano accostati all’Islam, pur non essendosi staccati del tutto dalle pristine credenze e non potendosi dunque considerare maomettani a tuti gli effetti (secondo questa interpretazione dunque Sabei significherebbe “coloro che escono -da una “falsa” religione- per aprirsi a quella “vera”).

E’ stata avanzata allora la supposizione, -che tuttora è quella che riscuote maggior credito-, che i Sabei di cui si parla nel Corano siano i membri di una comunità religiosa fiorente nella Mesopotamia settentrionale, e in particolare nell’antica città di Harran nei primi secoli della nostra era, e della cui esistenza si hanno testimonianze fino al secolo XI, i quali in ragione della loro provenienza sono stati chiamati dagli studiosi moderni con l’espressione convenzionale di “Sabei di Harran”. Le loro dottrine, per quanto se ne conosce, si possono considerare un sincretismo religioso in cui sulla base dell’astralismo assiro-babilonese si sono innestati elementi giudaici, egizi ed ellenistici, e pertanto sarebbe giustificato l’appellativo di “adoratori degli astri”. Il fatto che nel Corano essi siano stati classificati come “gente del libro”, potrebbe destare qualche perplessità, dato che solo con una notevole forzatura si possono apparentare agli zoroastriani e ai seguaci del giudaismo, anche nelle sue forme più eterodosse; tuttavia dobbiamo tenere conto della circostanza che, dopo la conquista islamica di vaste regioni asiatiche, spesso i seguaci di correnti religiose di incerta definizione, -cioè nè praticanti un rozzo politeismo, nè credenti in religioni abramitiche-, spesso seguaci di antichi culti reinterpretati entro una cornice giudaica o cristiana (come ad esempio gli Yezidi di cui abbiamo già parlato o gli stessi Mandei), tendevano a modificare e ad adattare, almeno esteriormente, le loro credenze in modo che si potessero fare rientrare tra quelle “del libro”, e sfuggire così alle persecuzioni, se non alle discriminazioni.

Rovine dell’antica città di Harran.

Prima di proseguire nella nostra trattazione dobbiamo precisare che la città di Harran, -in greco “Kharrai” e in latino Charrae-, è un’antica città della Mesopotomia nord-occidentale, tra le montagne del Tauro e il fiume Khabur, attualmente entro i confini della Turchia; di origini assai remote, se hanno notizie fin dal III millennio a. C., poiché la troviamo menzionata in iscrizioni cuneiformi accadiche con il nome di “Kharranu” (“strada -carovaniera-“) e nell’AT con il nome di “Haran”, nonchè nelle tavolette conservate negli archivi delle città di Ebla e di Mari e nei testi assiri e ittiti: da essi apprendiamo che, come il nome stesso evidenzia, godeva di chiara fama quale importante stazione carovaniera. Lo storico e filosofo arabo Hisham Ibn al-Kalbi (737-820) attribuisce la fondazione di Harran a Noè, mentre Yaqut al-Hamani (1179-1229), geografo siriaco, afferma invece, -nel “Kitab Mu’jam al-Buldan” (“Dizionario delle contrade”) che fu la prima città edificata dopo il diluvio dai discendenti di Noè. Secondo altre fonti leggendarie Harran sarebbe stata fondata da Nimrod, figlio di Kush, nipote di Cam e bisnipote di Noè, al quale la Bibbia (Genesi, X, 8-9) attribuisce la fondazione di alquante città della Mesopotamia, tra cui Babilonia, Ninive e Kalakh (ma tra quelle espressamente citate nel testo biblico non compare il nome della città di Harran), che in realtà furono fondate in epoche e da genti diverse. Da una tavoletta trovata nell’archivio reale di Ebla risalente alla fine del III millennio a. C. apprendiamo che il re di Harran aveva sposato una principessa eblaita.

Nel XIV secolo a. C. appartenne al regno di Mitanni, fondato dal popolo dei Churriti, da cui passò agli Assiri; nella città di Harran trovò rifugio l’ultimo re assiro, Asshur-uballit II, dopo che nel 612 era stato cacciato da Ninive e per questo nel 610 a. C. fu devastata dai Medi, i quali insieme ai Caldei, avevano posto fine al secondo Impero Assiro. Da Harran proveniva Nabonido, -o Nabonide, o Nabonedo-, l’ultimo sovrano dell’Impero Neobabilonese, o Caldeo, regnante dal 556 al 539, quando Ciro II di Persia conquistò il suo stato, figlio di una sacerdotessa del dio Sin. Costui era divenuto re per aver sposato la principessa Nitocris, figlia di Nabucodonosor II e secondo alcuni fonti avrebbe cercato di imporre il culto di Sin al di sopra di quello di Marduk, il dio nazionale di Babilonia; di tale tentativo e del malcontento da esso suscitato avrebbe approfittato il re persiano per presentarsi come il restauratore delle autentiche tradizioni babilonesi. Harran seguì poi le sorti dell’Impero persiano Achemenide, di quello di Alessandro Magno, del regno Seleucide, e poi dell’Impero partico Arsacide allorché alla metà del II secolo a. C. fu conquistata dal re arsacide Mitridate I. Poco dopo tuttavia, nel 132 a. C. in quella regione della Mesopotamia si insediò una dinastia di origine araba, -o aramaica-, che fondò un piccolo regno vassallo degli Arsacidi che dal nome del capostipite della dinastia, Osroes (variante del persiano Khosroes) trasse il nome di Osroene, con capitale Edessa (1). Questo regno si mantenne con alterne vicende nei secoli a venire, subendo il predominio ora dei Persiani ora dei Romani, finchè alla metà del III secolo non fu annesso da Roma. Tuttavia anche in seguito a causa dell’area di confine in cui si trovava e della sua importanza strategica, l’Osroene fu spesso coinvolta nelle continue e lunghe guerre tra i Romani e i Persiani (2). Stando a quanto riferisce lo storico Dione Cassio Cocceiano (155-235 circa) (Storia Romana, XXXVII, 5) la città dopo la conquista da parte di Alessandro Magno nel 331 a. C. ospitò una colonia di Macedoni, senza l’aiuto dei quali Lucio Afranio, il legato di Pompeo, e i suoi soldati sarebbero morti di fame e di freddo nell’inverno del 65 a. C.

La città è citata diverse volta anche nella Bibbia: ad Harran si stabilì Abramo proveniente da Ur nella Mesopotamia meridionale, -poi detta Caldea-, con la moglie Sara, il nipote Lot e il vecchio padre Terach, che quivi spirò all’età di 205 anni (Gen., XI, 31-32); da qui in seguito il patriarca biblico si diresse con la famiglia alla volta della terra di Canaan. Nei pressi di Harran Giacobbe, addormentatosi durante una sosta nel cammino che avrebbe dovuto condurlo alla città, fece un sogno in cui gli apparve una scala maestosa sulla quale gli angeli salivano e scendevano. Una volta destatosi, eresse allora la pietra sulla quale si era coricato, dando a quel luogo il nome di Betel, “Casa di Dio” (Gen., XXVIII, 10-22)(3).

Ma dagli Europei il nome di Charrae, che Harran aveva assunto in età ellenistica, è ricordato soprattutto perché la città fu teatro di due battaglie combattute tra i Parti e i Romani, entrambe con esito disastroso per questi ultimi, la più pesante delle quali avvenne del 53 a C. quando il triumviro M. Licinio Crasso fu sconfitto dal generale parto Surena trovando la morte; nel 296 invece il Gran Re sassanide Narsete riportò una memorabile vittoria sul cesare Galerio.

La città infatti, in grazia della sua posizione, rivestì per secoli una grande importanza strategica, ma fu celebre soprattutto come centro religioso, una delle sedi principali del culto del dio lunare Sin, e in generale di culti astrali mesopotamici, che, pur assorbendo influenze zoroastriane, elleniche e neoplatoniche, si protrassero e sopravvissero fin oltre la conquista araba nel 639.

Testa del dio Sin.

Il tempio di Sin godeva di grande venerazione ed era il più importante tra quelli dedicati a questa divinità insieme a quello gemello che si ergeva ad Ur nella Mesopotamia meridionale nella regione poi chiamata Caldea. In età ellenistica e partica il culto di Sin si fuse con quello dell’analogo dio lunare anatolico Men, dai Romani designato con il nome di “Lunus”, maschile di Luna (4). A venerare questa divinità stava recandosi l’imperatore romano Caracalla, nel corso della campagna militare che aveva intrapreso contro i Parti, allorché venne ucciso l’8 aprile 217, vittima della vendetta di un centurione al quale egli aveva assassinato il fratello.

Stando a quanto narra il retore Libanio (314-394), -uno degli ultimi difensori della tradizione e dello spirito ellenico contro l’invadenza e l’intolleranza dei cristiani-, “al centro della città di Carre si ergeva un tempio magnifico, considerato da molti pari al Serapeo di Alessandria [dunque non soltanto un luogo di culto, ma un centro culturale e un osservatorio astronomico]. Una torre di questo tempio era anche usata come posto di guardia poiché alla sua sommità si poteva osservare tutta la pianura circostante”. Lo scrittore aggiunge che possenti statue arricchivano il tempio, ma dopo l’editto di Tessalonica del 380 con il quale l’imperatore Teodosio I proibì tutti i culti non cristiani, -salvo una parziale tolleranza per gli ebrei-, il prefetto del pretorio d’Oriente Maternus Cinegius ordinò la distruzione del tempio, dal quale furono asportati tutti gli oggetti di valore (5). Ciononostante in un’epoca imprecisata, ma comunque successiva al V secolo il complesso templare fu in larga parte ricostruito, continuando ad essere il centro della religione sabiana, -o della comunità spirituale che in tali edifici esprimeva il proprio culto “filosofico”-.

All’epoca della conquista islamica Harran si trovava nel territorio della tribù dei Mudar (“Diyar Mudar”) che dominavano la parte occidentale dell’Alta Mesopotamia (detta “Jazira”), le cui città principali, oltre ad Harran, erano Edessa (poi chiamata al-Ruha in arabo e Urfa in turco) e Raqqa. Nel 745 il califfo ommayade Marwan II (688-750), ultimo della sua dinastia, vi trasferì da Damasco la capitale del suo stato, e la abbellì con un sontuoso palazzo e una grandiosa moschea, di cui non rimangono che poche rovine. Dopo meno di venti anni però, nel 762, perse la dignità di capitale a favore di Bagdad ove il califfo Al-Mansur, della nuova dinastia degli Abbassidi, succeduta a quella degli Ommayadi, aveva stabilito la sua sede.

Il califfo abbasside Abd Allah Al-Mamun (786-833; regnante dall’813) comandò espressamente a tutte le minoranze religiose stanziate nei territori che da lui dipendevano di scegliere un profeta e un libro rivelato ai cui insegnamenti si richiamasse la loro religione, così da non rientrare nel novero dei cosiddetti “pagani” che non erano in alcun modo tollerati. Secondo quanto riferiscono Ishaq ibn-Nadim, storico ed erudito del X secolo,- nella sua opera “Fihirst”-(6), ed Abu Yussuf Absha al-Qadi (o al-Qatiy’i), scrittore cristiano contemporaneo ai fatti narrati il califfo giunto ad Harran con il suo esercito vittorioso, chiese agli abitanti se essi fossero musulmani; udita la loro risposta negativa, volle accertarsi allora se fossero ebrei o cristiani, ma essi lo negarono. Pertanto Al-Mamun replicò che se non fossero rientrati nel novero delle “Genti del Libro”, non erano protetti dalla legge del Corano e pertanto la loro città sarebbe stata saccheggiata dal suo esercito. Il califfo avrebbe concesso una settimana agli abitanti della città per dargli una risposta che li avrebbe salvati dalle devastanti conseguenze di un giudizio negativo su di loro (7). Allora gli abitanti di Harran dopo aver riflettuto a lungo escogitarono l’espediente di dichiararsi Sabei, la misteriosa comunità di cui non si sapeva più nulla, ma che essendo citata da Maometto tra i monoteisti, godeva della protezione delle autorità islamiche, e in tal guisa poterono ottenere la tolleranza per il loro credo. In altre fonti avrebbero anche aggiunto di essere seguaci del profeta Al-Khidr, enigmatica figura menzionata nel Corano con accenti di profonda venerazione (nel testo sacro islamico non viene dichiarato il suo nome datogli solo dall’esegesi posteriore), che una tradizione orientale identificava con Hermes Trismèghistos, -l'”Ermete Tre Volte Grandissimo”, il rivelatore della dottrina ermetica, sia quella mistico-filosofica, che troviamo esposta soprattutto nei 42 dialoghi e trattati che costituiscono il “Corpus Hermeticun”, sia quella magico-alchemica-, il quale era identificato dagli Ebrei, o quanto meno dalle correnti giudaiche mistiche, con il patriarca Enoch, supposto autore di diversi testi mistici e visionari, e delle opere tramandate sotto il suo nome (sulle quali ci siamo soffermati diverse volte nelle nostre trattazioni, in particolare nelle “Osservazioni sulla nascita del cristianesimo”, III parte, del 9 ottobre 2016, e “Sugli Angeli e sui Demoni”, II parte, 25 giugno 2016, e IV parte, 4 dicembre 2018).

Poiché abbiamo citato il profeta Al-Khidr, credo sia opportuno a questo punto introdurre nella nostra ricerca una digressione su tale figura, che ha rivestito una certa importanza nelle correnti mistiche dell’islamismo. Di essa si parla in un lungo passo coranico (sura XVIII -“Al-Kahk”, “la Caverna”, 60-82), ove si narra che un certo Musa (che potrebbe essere o non essere il Mosè biblico, -dal momento che in tale narrazione non si trova alcun elemento o riscontro che lo accomuni o identifichi con il fondatore del popolo ebraico e della religione jawistica-) parte dalla sua terra insieme a un suo servitore per recarsi in un luogo detto “Confluenza dei due mari” (“Magma al-Bahrain”), -forse lo spazio martino tra Golfo Persico e Mar Rosso-. Giunti alla loro meta, Musa scopre di non avere più con sé il pesce salato ed essiccato che aveva portato seco come sostentamento; in effetti il pesce aveva ripreso vita e si era tuffato in mare, il servo pur avendo assistito allo strano fenomeno, non ne aveva fatto cenno al suo padrone per timore di essere redarguito. Mentre i due cercano in qualche modo di recuperare la cena, sfuggita dalle loro mani (o di trovare un altro pesce da adibire allo scopo), incontrano un venerabile personaggio, -definito nel testo coranico “uno dei nostri servi [di Dio]”-, al quale Musa chiede di poterlo seguire affinchè gli insegni la “retta via”. Il vecchio acconsente alla richiesta solo se Musa sarà paziente e non lo interrogherà in merito alle azioni che gli vedrà compiere, pure se non ne avrà compreso la ragione. Ed in effetti prima la guida pratica una falla in una nave su cui si erano imbarcati (il racconto coranico è assai stringato); poi uccide un giovanetto senza motivo apparente, infine rafforza un muro pericolante in un villaggio i cui abitanti avevano poco prima rifiutato loro l’ospitalità. Nonostante la promessa fatta, Musa non riesce a trattenere il suo stupore e chiede quindi spiegazioni sullo strano comportamento del vecchio. Questi allora gli chiarisce il fine delle sue apparentemente inspiegabili azioni: ha reso inservibile la nave perché ha voluto fare in modo che cadesse nella mani di pirati; ha ucciso il ragazzo perché egli avrebbe distolto dalla vera fede i suoi pii genitori, ai quali Allah avrebbe mandato un altro figlio virtuoso; ha raddrizzato il muro perché esso celava un tesoro destinato ai figli di un uomo probo che l’avrebbero scoperto divenuti adulti.

Al-Khidr ed Elia in una miniatura persiana. Nella fonte tra i due si nota il pesce resuscitato.

In effetti nel testo coranico non viene mai citato il nome dell’inquietante profeta che mette alla prova la fede di Musa, ma l’esegesi posteriore, specie negli “Hadit”, i commenti al testo sacro islamico, l’ha sempre designato come “Al-Khidr” (“il Verde”). La storia narrata nel Corano, sebbene assai sintetica, mostra sicuri collegamenti con miti assai antichi, in particolare con l’epopea di Gilgamesh e con le avventure presenti nella “Vita di Alessandro Magno” dello “pseudo-Callistene” (della quale abbiamo altre volte parlato), e Musa assume nella storia le caratteristiche attribuite ai due eroi, quello mesopotamico e quello macedone, entrambi tesi a scoprire il significato della vita e a cercare la “fonte -o l’erba- dell’immortalità”. Gilgamesh alla ricerca dell’immortalità giunge in un’isola paradisiaca, chiamata Dilmun, ove vive Utanapishtim, il saggio sopravvissuto al diluvio universale. Questi gli svela che, pur non potendo l’uomo aspirare all’immortalità, prerogativa degli dei, esiste una pianta che ha il potere di restituire la giovinezza agli anziani; essa cresce nelle profondità marine ed ha aspetto simile a quello del biancospino. Gilgamesh allora si tuffa nell’oceano, dove riesce a trovarla. Tornato a terra, intende portare il prezioso vegetale ad Erech (Ur), la sua città, ma durante una sosta durante il lungo cammino, mentre si stava bagnando in una fresca sorgente, gli viene sottratto da un serpente, il quale, dopo aver inghiottito la pianta, riacquista il giovanile vigore mutando pelle. In tal modo l’umanità fu privata del dono dell’eterna giovinezza.

Quanto ad Alessandro Magno, in una delle lettere scritte a sua madre Olimpiade e ad Aristotele, in cui narra le sue mirabolanti avventure e le sue scoperte di piante, animali e popolazioni meravigliosi e finora sconosciuti, troviamo un episodio pressochè identico a quello iniziale della storia coranica. L’eroe con i suoi soldati si trovano agli estremi confini del mondo, nel paese dell’Ade ove regnano le tenebre alla ricerca dell’agognata fonte dell’immortalità. Dopo svariate vicissitudini giungono in un luogo ove scorgono molte sorgenti d’acqua tra le quali una si nota per la sua viva brillantezza. Alessandro comanda al cuoco, di nome Andrea, di ammannirgli il desinare; questi all’uopo piglia un pesce salato e va a lavarlo nelle acque della fonte splendente, ma non appena il pesce viene immerso in quelle acque miracolose riprende vita e fugge via nella fonte stessa. Il cuoco, trasecolato da quel miracolo, beve di quell’acqua e ne attinge una certa quantità che conserva in un recipiente d’argento, senza fare cenno al padrone di quanto era accaduto. Solo in un secondo tempo ne parla ad Alessandro, dopo che per accattivarsi le grazie di una figlia di Alessandro, chiamata Kalè (Bella), -di cui non v’è menzione nelle fonti di contenuto sicuramente storico-, le aveva offerto l'”acqua della vita”. In tal modo ella diviene una ninfa marina, una Nereide, mentre Andrea, punito dal re, che ordina di gettarlo in mare, si trasforma a sua volta in un demone marino (8).

Alcuni studiosi moderni, come Patricia Crone, sostengono che il nome Andreas sia la forma grecizzata di Atrahasis, il nome che nella più antica versione assiro-babilonese del mito del diluvio universale è attribuito al sopravvissuto alla punizione divina (e che nel poema di Gilgamesh verrà invece denominato Utanapishtim, mentre nelle versioni sumeriche è chiamato Ziusudra); il nome Andreas a sua volta si sarebbe trasformato presso gli Arabi in “Idris” e come tale entrò anche nel Corano, dove è citato nelle sure XIX (“Maryam”)(56-58), e XXI (“Al-Anbiya” -i Profeti-),(85-86); in questi passi coranici si dice pochissimo di lui, ma secondo la maggior parte degli esegeti sarebbe nato a Babilonia, discendente e depositario della sapienza di Seth, il figlio di Adamo. Allorché la maggior parte del popolo di Babilonia cominciò ad allontanarsi da Dio, Idris e i suoi seguaci emigrarono in Egitto (e tale circostanza potrebbe deporre per l’identificazione con Hermes Trismegisto); egli sarebbe stato altresì il primo uomo ad usare la penna (ossia avrebbe inventato la scrittura), a osservare i moti degli astri e a introdurre l’impiego di pesi e misure -e pertanto, stando all’interpretazione più consolidata, sarebbe da identificare con il patriarca antidiluviano Enoch-.

Secondo lo scrittore e storico persiano Muhammad ibn Jarir al-Tabari (839-923) invece Al Khidr sarebbe stato un discepolo di Abramo vissuto a Babilonia e che poi avrebbe seguito il maestro nella sua migrazione verso occidente; avrebbe acquisito l’immortalità quando attraversò il fiume della vita ignaro delle portentose virtù di quel corso d’acqua, mentre l’attributo di “verde” gli deriverebbe dal fatto che usava sedersi su una pelliccia bianca che con lui sopra emanava riflessi verdi splendenti.

Il colore verde potrebbe essere indizio di un legame della figura di Al-Khidr pure con Glauco -che significa appunto verde-azzurro-, figlio di Poseidone e della ninfa Naide, della mitologia greca: era questi un pescatore di Antedone, in Beozia, il quale avendo un giorno constatato che i pesci da lui catturati al contatto con una particolare erba riprendevano vita volle tentare anch’egli l’esperimento e assaporò quell’erba: fu così che non solo acquisì l’immortalità, ma si ritrovò trasformato in divinità marina (come l’Andrea della vita di Alessandro Magno)(9). Moderne teorie vedono nella figura di Al-Khidr una reincarnazione di alcune divinità del pantheon cananeo, in particolare Khotar wa Khasis (“Abile e Intelligente”), dio inventore ed artefice, dal quale derivò probabilmente l’Efesto greco -sebbene questi tanto per il suo legame per le viscere della terra ricche di metalli, quanto per l’aspetto deforme, sia da mettere in relazione anche con i Nani della mitologia nordica-, e Chusor, dio legato alle acque, inventore della navigazione e protettore dei marinai, poiché Al-Khidr nell’islamismo “popolare” è associato anch’esso al mare e invocato contro le tempeste (10). Ed in effetti il colore verde indicare una derivazione o comunque un legame di questo personaggio sia con una divinità marina, sia con un dio della vegetazione e della primavera.

La seconda parte della breve narrazione coranica, ove Al-Khidr commette una serie di azioni in apparenza riprovevoli, ha invece quasi puntuale riscontro nella leggenda giudaica di Elia (il profeta biblico) e rabbi Yehoshua ben Levi, celebre maestro ebreo vissuto nel II secolo, che la tradizione fece protagonista di diversi episodi edificanti o a sfondo mistico. Anche in questo caso Yehoshua vede compiere a Elia, che gli era apparso per dispensargli i suoi insegnamenti, atti inspiegabili (quello del muro pericolante è identico alla storia coranica, gli altri sono diversi), ma che trovano poi la loro spiegazione in una prospettiva diversa da quella in apparenza più ovvia. Pertanto avremmo anche una possibile identificazione con il profeta Elia, che però non esclude, ma viene a sommarsi a quelle con Gilgamesh e Alessandro Magno, tenendo conto che nella medesima sura si parla anche del “Bicorne” (“Dhu’l Qarnayn”), che l’esegesi predominante, sebbene non esclusiva, ritiene essere proprio il condottiero macedone che nelle numerose biografie più o meno romanzate diffuse in diverse lingue aveva assunto sempre più i caratteri di una sorta di profeta e di mistico che cerca l’Assoluto (11).

Si tenga conto che nel Corano, pur prevalendo gli elementi storici e dottrinali propri dell’ebraismo, vennero a confluire molteplici elementi provenienti dalle fonti più disparate -dall’antica religione araba ai miti mesopotamici ed egizi-; è certo inoltre che Maometto non avesse una conoscenza diretta, o comunque approfondita, dei testi biblici e che le sue cognizioni sulla dottrina e le tradizioni ebraiche e cristiane derivavano soprattutto da scritti extra-canonici largamente permeati di influenze elleniche e iraniche, come si evince dalle qualità e dagli eventi che attribuisce a personaggi dell’AT e del NT che si trovano nei testi apocrifi, ma non in quelli canonici.

In conclusione avremmo dunque quattro personaggi che potrebbero coincidere (ma forse no): il profeta poi denominato Al-Khidr, il profeta Idris, citati nel Corano, il patriarca ebraico Enoch e il filosofo semidivino Ermete Trismegisto, -ovviamente per la tradizione ermetica e giudaica estranea all’islamismo l’identificazione è solo tra quest’ultimo ed Enoch-.

Ermete Trismegisto in una stampa moderna.

Le notizie sui Sabei di Harran si possono trovare soprattutto in fonti musulmane, dalle quali apprendiamo che essi erano seguaci di un culto astrale di probabile origine babilonese, in cui erano innestate componenti egizie ed ellenistico-platoniche, anche perché il dio Sin fu identificato con il Thoth egizio, ugualmente divinità lunare, e con Ermete Trismegisto greco-alessandrino profeta della gnosi ermetica e scopritore o iniziatore della scienza alchimistica.

Secondo altre ipotesi la comunità di Harran sarebbe stata fondata, o quanto meno rinnovata, da alcuni filosofi greci, -Damascio, Simplicio, Marino, Lido, Prisciano e altri-, i quali dopo che Giustiniano nel 529 ebbe chiuso l’Accademia platonica di Atene, erano emigrati nei territori dell’Impero Sassanide dove trovarono benevola accoglienza da parte di Kushraw (Cosroe) I. Attraverso gli insegnamenti di costoro e i testi da essi seco portati, la comunità di Harran sarebbe stata il tramite, o uno dei tramiti (poiché anche la vicina Edessa era sede di una importante scuola teologica di ispirazione nestoriana ove furono tradotte dal greco in siriaco molte importanti opere filosofiche, specie di Platone e dei neoplatonici quali Plotino e Porfirio, che in tale forma furono conosciute dagli Arabi) dell’ingresso a pieno titolo della filosofia e della scienza greche nella cultura islamica.

Il filosofo e teologo persiano Al-Shahrastani (1086-1153), autore di una sorta di enciclopedia delle religioni, il “Kitab al-Milal wa al-Nihal” (“Libro delle sette e delle credenze”), afferma che i Sabei di Harran professavano un culo astrale, che vedeva negli astri degli enti portatori di sostanze spirituali, -e quindi “intelligenze” che veicolano la discesa del principio divino verso il mondo materiale (e in questo senso si potrebbero riallacciare sia al misticismo astrologico caldeo, sia alla concezione aristotelica, sia all’emanatismo di Proclo), che riconoscevano due profeti principali, Adimùn, -l’Agatodemone alessandrino, a sua volta identificato con Seth-, ed Hermes, -ossia Ermete Trismegisto, identificato, come abbiano detto sopra, con la figura del profeta Al-Khidr e/o con quella di Idris, entrambi citati nel Corano-, ai quali però veniva aggiunto anche Orfeo (così che i profeti sarebbero in tal modo tre); che credevano in un creatore del mondo sapiente, santo, eterno, di inaccessibile maestà, un Essere supremo, “Marilaha”, il cui emblema è una colonna, un “betilo”, -secondo la più antica rappresentazione semitica della divinità, al quale si può ascendere con l’auto degli spiriti-. Questi “Spiriti” sono entità superiori pure e incontaminate nella sostanza, nello stato e nell’atto, assolutamente incorporei, privi di qualsivoglia qualità o proprietà fisica e quindi al di fuori delle categorie di tempo e di spazio. Essi intercedono per noi presso il Dio supremo; essi pur essendo fuori dal mondo, sono la causa efficiente del trasformarsi di quest’ultimo e producono tutti i mutamenti che avvengono nella natura, e attraverso di loro fluisce sugli esseri inferiori la forza della maestà divina. Si può entrare in comunicazione con essi spiriti soltanto quando si sia purificata l’anima dalle pulsioni carnali e distrutte tutte le passioni che la inquinano.

Fra gli Spiriti, i più importanti e venerabili sono quelli che regnano sui sette pianeti (i cinque pianeti in senso proprio e i due luminari), che sono per così dire i loro templi: fra lo Spirito e il suo tempio intercorre la medesima relazione esistente tra l’anima e il corpo, essendo il tempio, ossia l’astro, il rivestimento visibile della sua essenza spirituale: lo spirito -o angelo- di Saturno è Isbal, quello di Giove Rufiyael, di Marte Rubyael, l’angelo del Sole è Sams, di Venere di Bitael, mentre gli spiriti di Mercurio e della Luna sono rispettivamente Haraquiel e Syliael (12). I pianeti sono anche chiamati “Padri”, mentre gli elementi della tradizione empedoclea-pitagorica-aristotelica vengono considerati “Madri”: i pianeti esercitano la propria influenza sul mondo fisico attraverso di essi, ed esiste una stretta relazione tra i fenomeni terrestri (alternanza delle stagioni, precipitazioni atmosferiche, eruzioni vulcaniche, terremoti, ecc.) e l’azione spirituale dei pianeti. Al-Saharastani dichiara altresì che tra i Sabei si distinguevano coloro che veneravano unicamente le essenze spirituali degli astri, professando quindi una forma di misticismo contemplativo, e coloro che invece adoravano simulacri raffiguranti le divinità astrali: in altre parole vi sarebbero state una corrente prettamente filosofica assimilabile al neoplatonismo, e una corrente “pagana” che manteneva un vero e proprio culto degli astri come presso gli antichi Assiro-Babilonesi (13).

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) secondo altri invece il nome deriverebbe dall’antico nome della capitale, Urhay, nome che fu poi cambiato in Edessa nel periodo seleucide per ricordare l’omonima città capitale della Macedonia.

2) secondo altri storici il regno si sarebbe costituito già nel 137 con l’approvazione del seleucide Antioco VII Sidete. Del regno dell’Osroene e della dinastia degli Abgaridi che vi regnò abbiamo altre volte trattato, in particolare nella terza parte della ricerca sulla “santa sindone” del 15 maggio 2018 e nella nota n.9 alla quinta parte de “Le Amazzoni, guerriere della Luna”, del 26 ottobre 2015.

3) i “betili”, rozze pietre conficcate nel terreno in cui si riteneva fosse presente una divinità, erano tipiche espressioni della religiosità delle popolazioni semitiche occidentali.

4) il dio Sin, come la maggior parte delle divinità maschili assiro-babilonesi, era rappresentato in aspetto di un’austera figura stante con lunga barba e sul capo una tiara fornita di corna sormontata da una mezzaluna. Ma in età più tarde, in seguito anche all’identificazione con Men e altre divinità anatoliche e persiane, quali Attis e Mitra, fu raffigurato in aspetto giovanile con il tipico berretto frigio, ma sempre caratterizzato dal crescente lunare. Sul tempio di Carre e sul culto di Lunus si veda anche quanto abbiano detto nella quinta parte di “Le Amazzoni, guerriere della Luna” del 26 ottobre 2015.

5) Maternus Cinegius, fanatico cristiano, prefetto del pretorio dal 384 fu responsabile della devastazione di moltissimi dei più venerati santuari dell’antichità, tra i quali il tempio di Apollo a Didyme, che ospitava un celebratissimo oracolo, il tempio e oracolo dei Cabiri a Samotracia, il tempio di Zeus Belos ad Apamea, i templi di Baalbeck e quelli di Palmyra.

6) abbiamo già citato quest’opera parlando dei Manichei e dei Mandei poiché in essa, nel 9° capitolo, l’autore tratta di diverse sette e religioni, lasciandoci molte preziose notizie su di esse.

7) in effetti non è ben chiaro come sia possibile che una città che nel 745 era divenuta capitale, sia pure per breve tempo, del mondo islamico, -e pertanto doveva essere abitata in prevalenza, se non nella totalità, da un popolazione di seguaci della religione fondata da Maometto-, solo dopo poco più di 70 anni fosse tornata ad essere sede principale di un culto estraneo all’Islam. Tuttavia così riportano le fonti ed io mi limito a riferire le loro informazioni.

8) nell’immersione di Gilgamesh nell’oceano, così come nell’esplorazione del fondo del mare compiuta da Alessandro entro una campana di vetro a sua volta racchiusa in una gabbia di ferro, -nella “Vita dello Pseudo-Callistene” (I, 38)-, si può vedere una rigenerazione spirituale, un “battesimo” che schiude le porte alla “vita eterna”, sebbene sia l’uno sia l’altro siano poi malinconicamente costretti a riconoscere la limitatezza della vita umana terrena.

9) accanto al tema dell’erba o pianta dell’immortalità troviamo spesso quello del serpente: abbiamo visto sopra come un serpente abbia sottratto a Gilgamesh il vegetale miracoloso; in altri miti invece un serpente fa scoprire con il suo comportamento la virtù di un’erba magica poiché risuscita con essa un suo simile e così suggerisce a uno dei protagonisti della storia il modo di far rivivere un altro personaggio che era defunto. Possiamo tra essi menzionare un altro Glauco, -omonimia probabilmente non casuale-, figlio di Minosse, re di Creta, e di Pasifae, il quale, essendo soffocato dopo essere caduto entro una giara di miele, risuscitò quando l’indovino Poliido gli pose sul corpicino  l’erba portentosa; e l’eroe lidio Tilo, che rivisse quando la sorella Moira gli pose sulla bocca l'”erba di Giove”. Il motivo del serpente che risuscita per mezzo di un’erba magica recatagli da un altro rettile riappare poi largamente nella novellistica popolare europea e ne abbiamo esempi pure in alcune fiabe dei fratelli Grimm (“Le tre foglie della serpe”; “La serpe bianca”) -si veda al riguardo quanto abbiamo scritto nella seconda parte di “Uccelli nel mito” del 7 giugno 2014.

10) la figura di Al-Khidr appare anche nelle “Mille e Una Notte” nella storia di Abu Mohammed il Poltrone e di Harun ar-Rashid (notte 304), in cui egli appare al protagonista, che stava trasvolando il mare in groppa a un “ginn”, “vestito di verde, con i capelli fluttuanti, il volto illuminato”, tenendo in mano una lancia dalla quale sprizzavano scintille, e lo invita a pronunciare la professione di fede islamica.

11) per non esulare troppo dal nostro tema, ora non ci soffermiamo sui molti altri possibili collegamenti che sono stati fatti, con maggiore o minore attendibilità, tra questi saggi, profeti e semidei e molte altre figure mitiche o semimitiche, tra i quali S.Giorgio, -divenuto “dio” della fertilità e del ridestarsi della natura a primavera-, e “Zeleni Jurij” (il “Verde Giorgio”) del folklore slavo, nonché l’essere metà uomo e metà pesce, chiamato Oannes, che, secondo quanto tramanda Beroso, sacerdote e astronomo caldeo vissuto tra il IV e il III sec. a. C., all’inizio dei tempi uscì dal mare eritreo per insegnare agli uomini le scienze e le arti. Tuttavia non possiamo fare a meno di osservare come nella storia delle religioni e delle civiltà, pure a grandi distanze nel tempo e nello spazio, si riscontrino figure analoghe, sia quali forme dei medesimi archetipi, sia come risultato del sovrapporsi di temi ed influenze diversi, sebbene in qualche modo convergenti. E di questo processo sincretistico, -che è poi il fondamento e il lievito per lo sviluppo di tutte le civiltà-, sono tutt’altro che immuni anche le religioni “abramitiche”, nonostante il loro ostentato e presuntuoso disprezzo per le religioni “pagane”.

12) questi nomi differiscono da quelli attribuiti agli spiriti planetari dalle tradizioni cabalistiche e cristiane esoteriche, che, come abbiamo precisato nella quarta parte della ricerca sugli Angeli e sui Demoni, del 4 dicembre 2018, sono Cassiel per Saturno, Sachiel per Giove, Samael per Marte, Michael per il Sole, Anael per Venere, Raphael per Mercurio e Gabriel per la Luna.

13) come abbiamo visto nelle parti precedenti, anche nelle religioni manichea e mandea gli elementi astrali rivestono notevole risalto, ma con l’importante differenza che mentre per questi ultimi l’influenza dei pianeti sull’uomo e sul mondo è negativa, per i Sabei al contrario essa è altamente positiva. Essi pertanto mostrano di uniformarsi in questo senso alla visione platonico-aristotelica degli astri e dei cieli come “intelligenze” che mediano e trasmettono la pura energia del Dio-Uno-Motore Immobile al mondo sub-lunare, suffragando così l’ipotesi di una forte influenza, se non derivazione dal pensiero greco.

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