I PIU’ ANTICHI CODICI MINIATI (seconda parte)

Prima di passare ad esaminare gli altri codici che costituiscono lo specifico oggetto dalla nostra trattazione (Iliade Ambrosiana, Virgilio Vaticano e V. Romano), non possiamo fare a meno di accennare ad un altro manoscritto che mostra notevoli affinità sia nel contenuto sia nei caratteri estrinseci (scrittura, pergamena) sia nello stile delle miniature con il “Codex Vindobonensis”, ovvero il cosiddetto “Dioscorides Neapolitanus” (Codex ex Vindobonensis Graecus I) conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli.

A differenza del codice che abbiamo descritto in precedenza, il “Dioscoride di Napoli” contiene il solo erbario del famoso e celebrato medico e farmacognosta greco dell’antichità, esposto in 170 pagine miniate, nelle quali sono illustrate tutte le piante prese in esame, accompagnate da un commento nel quale si descrivono le loro qualità e caratteristiche, l’habitat e l’utilizzo terapeutico.115_dioscoride_napoli_immagini_piante

La vivacità e la finezza delle illustrazioni, l’impostazione delle pagine, l’alta antichità rendono questo codice una testimonianza fondamentale della cultura medica greco-romana e della sua accoglienza nel mondo bizantino tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, epoca alla quale si fa risalire la sua composizione. Come aveva già sostenuto la studioso Bernard de Montfaucon, che alla fine del XVII secolo lo vide a Napoli e ne lodò la bellezza, è quasi certa la sua origine italiana, sebbene alcuni studiosi inclinino ad attribuire la sua provenienza all’Esarcato di Ravenna, e altri all’Italia Meridionale, in particolare alla Calabria dove si trovava il monastero fondato da Cassiodoro.

Il codice, la cui presenza a Napoli è attestata fin dagli inizi del 500, presso il convento agostiniano di S. Giovanni a Carbonara, fu portato a Vienna nel 1718, durante il periodo della dominazione austriaca nell’Italia meridionale (dal 1714 al 1734), per volere di Carlo VI d’Absburgo, insieme ad altri libri di grande valore e importanza. Esso fu restituito all’Italia solo dopo la prima guerra mondiale e la conseguente caduta della monarchia degli Absburgo, nel 1919; dopo una breve sosta alla Biblioteca Marciana di Venezia, tornò definitivamente a Napoli il 7 giugno 1923 per esservi custodito nella Biblioteca Nazionale.

Le 409 figure di piante che corredano questo magnifico testo sono occupano la parte superiore del “recto” di ciascun foglio. A differenza del Dioscoride viennese, le immagini hanno dimensioni più ridotte e si trovano inserite a gruppi di due o tre per pagina (in due soli casi una figura singola). Il testo esplicativo sarebbe stato scritto dopo la stesura delle immagini.112_dioscoride_napoli_materia_medica Se nel manoscritto viennese si possono notare almeno due stili figurativi. -uno rispondente a una maggior resa plastica, l’altro tendente all’appiattimento delle immagini-, nel Dioscoride napoletano la serie figurativa appare nel complesso omogenea, ma evidenzia peraltro un più debole rifermento all’osservazione naturalistica e una maggiore tendenza al decorativismo e alla stilizzazione, che sembra preannunciare gli erbari medioevali.

Peraltro gli studiosi ritengono che i due codici derivino dagli stessi archetipi, probabilmente del III secolo, benché nel manoscritto viennese l’aderenza ai modelli classici, ai quali era più vicino anche sul piano cronologico, sia più spiccata.

Avanti di continuare il nostro excursus sugli antichi codici miniati, mi sembra opportuno trattare brevemente del materiale sul quale erano redatti (ovvero la pergamena) e della scrittura (onciale -o maiuscola- e capitale) con la quale il testo prendeva forma.

La materia scrittoria per eccellenza impiegata nell’età classica greco-romana era il papiro, prodotto, come è noto, con il fusto di una pianta palustre (Cyperus papyrus) che si coltivava in Egitto, sulle rive del Nilo, fin dalla più remota antichità.

Tuttavia, per varie ragioni (maggior praticità e disponibilità di spazio, minor costo) a partire dal II secolo l’uso del papiro fu progressivamente soppiantato da quello della pergamena, tanto che dal IV sec. in poi la quasi totalità dei testi letterari, filosofici e scientifici furono scritti su codici membranacei (cioè di pergamena), mentre l’impiego del papiro per scritti letterari divenne sempre più raro, per sparire del tutto nell’VIII sec. Esso si mantenne invece per i documenti e continuò fino all’XI secolo, specie nelle aree bizantine o di influenza bizantina, allorché, a causa di una mancata inondazione annuale del Nilo, la produzione su vasta scala del papiro, che era continuata anche dopo la conquista dell’Egitto da parte degli Arabi, non venne a cessare.

Veduta di Pergamo in una stampa moderna.
Veduta di Pergamo in una stampa moderna.

La pergamena è costituita dalla pelle di certi animali convenientemente trattata in modo da ridurla in fogli bene spianati, sottili e lisci. Secondo un’antica tradizione riferita da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XIII, 11), l’uso della pergamena sarebbe stato introdotto da Eumene II, re di Pergamo (dal 195 al 198 a.C.) per rimediare alla mancanza del papiro che il re d’Egitto non voleva mandargli, affinchè egli non potesse creare un biblioteca che oscurasse quella di Alessandria (1).

Moneta con l'effigie di Eumene II, re di Pergamo.
Moneta con l’effigie di Eumene II, re di Pergamo.

Di certo però l’uso della pergamena era più antico, ma il nome stesso indica che Pergamo fu il centro principale della sua produzione. Tuttavia il nome impiegato dai Greci era “diphthera”, i Romani chiamavano la pelle conciata per uso scrittorio “membrana” (da cui codice “membranaceo”), mentre il nome “pergamenum” non si trova prima del IV sec.; nel M.E. era indicata anche con la designazione impropria di “charta”, che in origine significava il foglio di papiro.

Per la preparazione della pergamena venivano adoperate le pelli di diversi animali (che contribuivano così con il loro sacrificio alla diffusione della cultura…), in particolare bovini ed ovini. La morbidezza e il colore dipendevano principalmente dal sistema impiegato nella preparazione che non era uguale dappertutto. Così, per quanto riguarda il M.E., si può distinguere la pergamena fabbricata in Italia e in Spagna, bianca e sottile, da quella della Francia e della Germania, più spessa e scura.

Di norma la pergamena esigeva ancora una preparazione immediata da parte dello scrittore per renderla del tutto liscia levigandola con la pomice e per ridurla alla grandezza desiderata.

I più antichi esempi di pergamena rimasti sono pochi frammenti che risalgono al III secolo, ma di certo, secondo la testimonianza di alcuni scrittori, già in epoche anteriori esistevano codici membranacei. In una lettera di S. Paolo se ne trova un accenno esplicito nell’invito a Timoteo a portare con sé i libri sacri, ma specialmente quelli in pergamena (Ad Tim., II, 4, 13); e Marziale ricorda le opere di Omero, Virgilio e altri autori scritte “in membranis” (Epigràmmata, I,2; XIV, 184, 186, 188, 190, 192). Tuttavia l’impiego della pergamena doveva essere alquanto scarso, perché gli scavi di Ercolano e Pompei non ci hanno dato finora frammenti membranacei, né gli scavi in Egitto (dove in diverse località sono stati trovati numerosi papiri con testi di vario genere) frammenti anteriori al III sec.

A partire dalla fine del III sec. la pergamena divenne d’uso comune, tanto che la troviamo presente nell’editto “De pretiis rerum venalium” emanato da Diocleziano nel 301. Con il secolo VIII i codici membranacei divengono numerosissimi e fino al sec. XIII, quando sorse la concorrenza della carta, la pergamena ebbe il dominio assoluto nel campo librario. Nell’uso diplomatico e amministrativo invece essa si affermò più tardi, perché nella redazione dei documenti ufficiali si conservarono più a lungo le forme tradizionali, e, come abbiamo già detto, fino all’XI sec. continuò a prevalere l’impiego del papiro. Tuttavia i primio documenti su pergamena appaiono in Gallia nel VII secolo.

La pergamena usata per i codici è più fine e levigata, perché destinata a ricevere la scrittura su entrambe le facciate, mentre quella dei documenti è lisciata solo da una parte, mentre dall’altra rimaneva ruvida e scura, poiché in essi si scriveva soltanto sul “recto”.

Nei codici più antichi, -dei secoli IV-VI-, la pergamena è di buona qualità, bianca e fine, senza difetti di taglio o di concia; in seguito diviene pesante e giallastra, con diseguaglianze di colore e irregolarità di concia. Nel XIII sec.si tornò a una buona preparazione; nel XIV secolo si trovano talora pergamene sottilissime; i manoscritti del rinascimento italiano mostrano spesso una singolare bianchezza.

Per i codici di lusso, come pure per i documenti di eccezionale importanza, talvolta invalse la consuetudine di tingere la pergamena prima di procedere alla scrittura del testo; il colore usato con più frequenza era la porpora, ma si trovano anche codici con pergamena azzurra o nera; sulla pergamena purpurea si scriveva in oro o argento, su altri colori in genere con inchiostro bianco o rosso. I codici purpurei contengono di norma i Vangeli o altri testi sacri (2). Numerosi esempi se ne hanno nei secoli V-VII, in soprattutto nelle aree dell’Impero Romano d’Oriente, e poi nel periodo carolingio.

Nell’Alto M.E. non di rado si riadoperavano fogli di pergamena già scritti per compilare nuovi codici: per cancellare la scrittura precedente si immergevano i singoli fogli nel latte e si strofinavano energicamente con una spugna; dopo averli fatti asciugare, si raschiavano poi con pomice per renderli di nuovo lisci e per far scomparire tutte le tracce di inchiostro, rifilarli secondo la grandezza del codice che si intendeva confezionare e rigarli per la nuovo scrittura. I manoscritti così preparati si chiamavano “codices rescripti” o “palimpsesti” (dal greco “palin”=”di nuovo” e “psestos”=”raschiato”).

La pratica di riutilizzare pergamena usata si ebbe specialmente nei secoli VII e VIII a causa della scarsità e del caro prezzo della pergamena nuova, e non certo, come fu detto talvolta erroneamente, per disprezzo verso i libri “pagani”: infatti si cancellarono in egual misura testi sacri e profani; questo trattamento era in genere riservato a testi divenuti inutili perché incompleti o perché obsoleti: così il sacramentario Gelasiano fu sostituito da quello Atanasiano, più recente; il testo biblico dell’Itala da quello della Vulgata; il “Codex Theodosianus” dal “Codex Iustinianus”.

Il primo scopritore dell’insostituibile importanza dei palinsesti fu Angelo Mai (1782-1854), prefetto prima della Biblioteca Ambrosiana e poi di quella Vaticana, che in codici riscritti trovò testi di fondamentale interesse per la conoscenza della civiltà classica, quali il “De re publica” di Cicerone e i “Fragmenta iuris anteiustiniana” (3). Egli faceva rivivere le antiche scritture con soluzioni chimiche a base di noce di galla, che in seguito hanno arrecato gravi danni ai fogli. Ai nostri giorni però, con il progresso delle scienze, si riesce a leggere la scrittura primitiva e a fotografarla sottoponendola ai raggi ultravioletti che agiscono sui residui metallici dell’inchiostro rimasti incorporati nella pergamena, rendendola visibile anche ad occhio nudo, senza dunque dover ricorrere a manipolazioni e procedimenti nocivi alla pergamena. Un altro metodo per fotografare i testi primitivamente vergati nei palinsesti si avvale invece del fenomeno della fluorescenza; tuttavia, perchè tale fenomeno si manifesti è necessario che la pergamena non abbia subito in precedenza alcun trattamento chimico.

In origine la pergamena erano impiegata nello stesso modo del papiro: come per quest’ultimo, i fogli venivano arrotolati a costituire un “volumen”, che si svolgeva per la lettura e si riavvolgeva una volta che fosse terminata: aprire un rotolo si diceva in latino “ex-plicare”, da cui sorse l’espressione “liber explicit” posta alla fine del testo. Se usato per un testo breve o un documento il “volumen membranaceum” era costituito da un solo pezzo di conveniente dimensione; altrimenti, per testi più lunghi, si univano di seguito più fogli mediante cuciture, che quindi erano simili agli “scapi” (cioè ai rotoli di papiro).

A partire dal I secolo cominciò ad essere piegata per formare per formare fogli doppi e quadrupli (“quaterniones”). Questi quaderni, cuciti insiemi e rilegati con un copertina (“codices membranacei”) avevano un aspetto simile a quello dei nostri libri. Questo formato risultò essere comodo e pratico e pertanto fu adottato prima per piccoli libri da regalo o da portare in viaggio, per agende, manuali scolastici e per la prima stesura di opere letterarie. Nei secoli II e III gli esempi di codici letterari in pergamena (ma talvolta anche in papiro) sono ancora rari di fronte alla molto maggior quantità dei rotoli papiracei, ma dal IV secolo in poi, col prevalere della pergamena sul papiro, il “codex” si sostituisce al “volumen” e da allora ha costituito la forma normale del libro.

Tuttavia l’uso di ripiegare i fogli di pergamena per costituire un libro derivò dall’analoga consuetudine che si era già affermata in precedenza con le tavolette cerate (“tabulae” o “cerae”, poi, con termine entrato in uso più tardi, “pugillares”; in greco “deltoi” o “ptyches”) che, sia in Grecia sia a Roma, servivano come materiale scrittorio specie per gli esercizi scolastici, appunti, minute, conti, brevi lettere, ecc. Esse erano costituite da tavolette rettangolari, solitamente di legno, ma talora anche di avorio, con breve margine rialzato lungo i quattro lati, come una cornice.

Tavoletta cerata antica.
Dittico di tavolette cerate antiche.

L’area centrale, lievemente incavata rispetto ai margini, era spalmata di cera e su di essa si scriveva incidendola con uno strumento a punta dura, detto “stilus” o “graphium” , che poteva essere di metallo, di avorio o di osso: l’operazione della scrittura su tavolette cerate  veniva designata con il verbo “arare” o “exararae”, propriamente “tracciare un solco”, Di norma la cera era colorata con colori scuri, -tra i più frequenti il verde muschio e il rosso cupo-, per mettere in risalto le lettere incise -da cui l’appellativo di “tristes” che Marziale (Epigrammata,, XIV, 5) attribuisce loro, e il “sanguinulentus color” a cui allude Ovidio (Amores, I, 12, 12). All’altra estremità lo stilus aveva un raschietto o una piccola spatola con la quale si poteva facilmente cancellare, in tutto o in parte , la scrittura e restituire alla superficie dalla cera la sua uniformità originaria. per questo l’espressione “stilum vertere” significava correggere o modificare. Poiché in esse, come afferma Quintiliano (Institutiones oratoriae, X, 3, 31), “facillima est ratio delendi” le tavolette cerate venivano usate comunemente nella scuola per i compiti., negli affari quotidiani per lettere e conti, ed anche per la prima stesura di opere letterarie.

Come è attestato da Seneca (4), con il nome di “caudex”, e poi “codex”, si indicava l’insieme di due o più “tabulae” tenute unite per mezzo di fermagli metallici in modo da formare una specie di libro; talvolta le tavolette si congiungevano con un cordoncino inserito attraverso i fori praticati nell’orlo, e pertanto le “tabulae” venivano dette “duplices”, “triplices”, “quadruplices”, ecc., o anche, in lingua greca, “diptycum”, “triptycum”, “poliptycum”.

In effetti in origine “caudex” significava “tronco d’albero”, da cui si dipartono i rami, “ceppo”; in seguito, indicò l’insieme di più tavolette in legno, e poi di fogli di papiro o di pergamena. Poiché nel Basso Impero le costituzioni imperiali erano diffuse trascritte in codici di pergamena, si affermò la consuetudine di chiamare con il nome di “codex” una raccolta di disposizioni normative, sia private (Codex Hermogenianus, Codex Gregorianus), sia pubbliche (Codex Theodosianus, Codex Iustinianus) e in seguito assunse tale nome qualsiasi raccolta organica di norme legislative (Codice Civile, C. Penale, ecc.).

Le tavolette di legno dell’età antica  che conosciamo provengono tutte da scavi archeologici e contengono documenti privati o scritti di carattere giuridico (contratti, attestati, ecc.): questi documenti sono di regola dittici o trittici con testo in  duplice redazione: una più completa scritta nelle facciate interne, che restavano chiuse da una legatura e assicurate da sette sigilli; l’altra, più breve e sintetica, scritta sulle facciate esterne, di solito con inchiostro poiché le facciate esterne non erano cerate.

Il gruppo più numeroso di tavolette rimasto è quello scoperto a Pompei nel 1875 nella casa del banchiere Lucio Cecilio Giocondo ed ora conservate nel Museo archeologico Nazionale di Napoli: esso consta di ben 132 esemplari che sono datati tra il 15 e il 62. Altre tavolette furono trovate tra il 1788 e il 1855 nelle miniere di “Alburnus Maior Vicus Pirustarum” in Transilvania: ne restano 25, dei quali 22 trittici, con la facciata esterna senza scrittura, che vanno dal 131 al 167.

Alcune tavolette scoperte a Pompei nella casa di L. Cecilio Giocondo.
Alcune tavolette scoperte a Pompei nella casa di L. Cecilio Giocondo.

Frammenti di “tabulae” e di “codices”, risalenti al II, III e IV sec., provengono dall’Egitto. Nessuna tavoletta si è conservata per tutto il periodo che va dal sec. V al sec. XII: il loro uso dovette essere alquanto ridotto, ma attendibili testimonianze di scrittori dell’epoca ci assicurano che esso fu ininterrotto nel corso dell’Alto M.E. per lettere, conti, appunti, ecc. Se hanno poi sporadici esempi dal XII al XIV secolo, oltre il quale non si ha più traccia dell’impiego di tavolette cerate.

Per dar vita al codice i fogli venivano piegati e riuniti a fascicolo senza una regola fissa; la consuetudine più comune era di formare i fascicoli con 4 fogli doppi (“quaternio”) che corrispondono a 16 pagine dell’uso moderno, ma si trovano anche semplici “bifolia” e fascicoli di due fogli (“binio”), di tre (“ternio”), di cinque (“quinio”) e pure di 8 o 10 fogli. Per evitare che l’ineguaglianza di colore della pergamena ra la parte più bianca e liscia e quella più scura, talvolta ruvida, conferisse un aspetto poco elegante al manoscritto, si aveva cura di formare il quinterno in modo che le due facciate di fronte fossero sempre del medesimo colore.

Prima di iniziare la sua opera, lo scrittore o il copista procedeva alla preparazione dei fogli per delimitare lo spazio assegnato alla scrittura e per segnare le righe, a pagina piena o a colonne; per ottenere una scrittura con aspetto uniforme tracciava prima con uno strumento a punta una serie di forellini che servissero da guida. Due o quattro forellini erano incisi in alto e in basso per segnare le righe verticali che limitavano il testo ed eventualmente lo spazio destinato alle iniziali sporgenti; altri erano incisi in verticale secondo il numero delle righe che si volevano scrivere,  tanti quanti erano le righe orizzontali sulle quali erano stese le lettere. La rigatura veniva di norma tracciata a secco così che bastava rigare il foglio solo da un parte perché le righe apparissero anche dall’altra.

La numerazione dei singoli fogli entrò nell’uso assai tardi: il sistema più antico consisteva nel numerare solo i quinterni, annotandone il numero progressivo nel “verso” dell’ultimo foglio.

Terminata la scrittura e la correzione del testo, i quinterni venivano cuciti insieme e il libro così formato poteva essere ricoperto in vario modo secondo la sua importanza: si potevano avere semplici copertine in cuoio, oppure legature di lusso con tavole di legno dipinte e decorate con borchie, smalti e gemme più o meno preziose. Il formato dei codici varia attraverso i secoli: nelle età più antiche, fino al secolo VI, domina la forma quadrata con ampi margini nei fogli, poi i codici divennero più alti che larghi, assumendo l’aspetto che rimarrà quello tipico del libro fino ai giorni nostri.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

1) in effetti poi con la collaborazione e la guida del filosofo e filologo Cratete di Mallo, Eumene riuscì a fondare a Pergamo una grande biblioteca, che contese a quella più famosa di Alessandria il primato tra i centri culturali del mondo ellenistico e che, al dire di Plutarco, raggiunse i 200.000 volumi.

2) esempio assai noto di questo tipo di codice è l'”Evangeliario purpureo” conservato a Rossano in Calabria, che data probabilmente alla fine del VI sec. e proviene dalla Siria.

3) il nome di Angelo Mai più che per le sue notevoli scoperte in campo filologico è noto per la canzone che nel 1820 gli dedicò Giacomo Leopardi, pochi mesi dopo che egli in un palinsesto del X secolo aveva scoperto, sotto un commentario di S. Agostino ai Salmi numerosi frammenti dei libri “De re publica” di Cicerone, risalenti forse al II secolo,  Leopardi volle vedere in quella scoperta la promessa e l’augurio del Risorgimento culturale e civile della nazione italiana . “Quel magnifico dialogo -scriverà poi il Carducci (in “Manzoni e Leopardi”)- levato al cielo con tante lodi dai contemporanei dall’autore, poi disparito e con sì dolorosa brama ricercato invano…rifiorì finalmente alla luce del sole romano… quando le gloriose dottrine  già affermate nei gloriosi cinque libri, invano combattute dalla reazione dei despoti alleati, affidavano di prossima vittoria l’Europa insanguinata e dolente”. Tuttavia è alquanto improbabile che il Mai, -il quale poi nel 1837 fu nominato cardinale dal reazionario papa Gregorio XVI-, desse un qualche significato di riscatto nazionale o di impegno civile alla sua pur lodevole opera di filologo e paleografo

4) “Plurium tabularum contextus caudex apud antiquos vocabatur” (“l’insieme di più tavolette era chiamato codice presso gli antichi”) -De brevitate vitae, XVIII, 4-.

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