I CONTINENTI SCOMPARSI TRA SCIENZA E MITO (prima parte)

deriva dei continenti

Centinaia di milioni di anni fa il pianeta Terra era costituito da un ammasso di fuoco, magma e gas incandescenti; poi, lentamente, iniziò il raffreddamento della crosta terrestre che, scivolando sugli stati di magma non ancora solidificati, si riunì in un’unica massa: la “Megagea” (=”Grande Terra”).

Trascorsero ancora milioni di anni e con progressivo consolidamento della massa interna del pianeta cominciarono a delinearsi i primi continenti, destinati poi a scomparire o a cambiare aspetto per innumerevoli volte, andando alla deriva sopra le immense distese d’acqua non ancora stabilizzate.

Com’è noto, la teoria della “deriva dei continenti”, formulata nel 1913 dal geologo e metereologo tedesco Alfred Wegener (1880-1930), e tuttora ritenuta valida nelle sue linee generali, postula che nell’età paleozoica tutte le terre emerse fossero raggruppate in un unico, enorme continente, chiamato dallo scienziato tedesco “Pangea” (“Tutta la Terra”). Tale continente si sarebbe poi suddiviso in due grandi masse: una settentrionale, la “Laurasia”, -comprendente le attuali Europa, Asia (esclusa l’India) e America settentrionale; e una meridionale, il Gondwana, -comprendente l’Africa, il Madagascar, l’India, l’Australia con le isole minori e l’Antartide-. Le formazioni geologiche tipiche, nelle quali abbondano scisti ed arenarie, prevalenti in tutte le terre che dovevano costituire il continente meridionale, oltre le significative corrispondenze tra i contorni delle minori terre emerse nelle quali esso si articolò ulteriormente, sembrano aver confermato tale ipotesi. Si consideri che la porzione di terra emersa, trasformatasi in seguito nell’attuale sub-continente indiano, quando il Gondwana si frazionò divenne in una immensa isola, staccata dalle altre terre emerse e situata nel mezzo dell’attuale Oceano Indiano. A tale continente si diede lo stesso nome attribuito in precedenza a tutto il super-continente del quale aveva fatto parte, ovvero GONDWANA.

Questo continente si potrebbe quindi anche identificare con la Lemuria, soprattutto nell’ipotesi enunciata da Philip L. Slaters, il quale, come abbiamo visto, colloca questa terra proprio nel mezzo dell’oceano Indiano, tra Madagascar, India e penisola di Malacca. Il Gondwana poi nel corso dei millenni, per effetto delle forze geodetiche alle quali abbiamo accennato in precedenza, che continuavano, e continuano tuttora, ad operare, sarebbe gradualmente avanzato verso nord, fino a congiungersi con il continente eurasiatico, e dando luogo così alla pensola indica (e provocando altresì con la sua possente spinta il sollevamento della catena montuosa himalayana).

Il nome “Gondwana” (ma in origine “Gondwanaland”) fu ideato e proposto nel 1888 dal geologo austriaco Eduard Suess (1831-1914), che lo trasse da una regione dell’india centrale dove viveva, e vive tuttora, la popolazione dei Gond, di stirpe dravidica, che vi aveva fondato anche un regno, A questo dato geografico-storico si sovrappose la tradizione indù, che aveva identificato tale territorio con il cntro del  mitico continente “Jambu-Dvipa” (“Terra dei Datteri”), uno dei sette continenti collocati come cerchi concentrici intorno al Monte Meru, il centro del mondo nella concezione cosmologica indù.

Questa terra, ovvero la zona centrale dell’Indostan, presenta, come abbiamo detto, una conformazione geologica simile a quelle esistenti nei continenti dell’emisfero australe, e risalente alle medesime ere (Paleozoico e Mesozoico), così che già prima dell’enunciazione della teoria della deriva dei continenti era stata ipotizzata una loro origine comune.

Tuttavia, nel corso dei millenni le terre emerse hanno cambiato più volte la loro posizione non solo per la deriva dei continenti, ma pure a causa di altri fattori, forse più importanti.

E’ stato accertato da eminenti studiosi, come il tedesco Kreichgrauer, che nell’era Carbonifera il Polo Nord si sarebbe trovato non lontano dalle isole Haway, mentre dopo un altro sconvolgimento terrestre esso avrebbe coinciso con l’attuale lago Ciad in Africa. Alcuni geologi americani confermano questa ipotesi, facendo notare che il grande lago africano, non avendo nè immissari nè emissari, potrebbe essersi formato dalla fusione di immensi ghiacciai.

E’ evidente che gli sconvolgimenti terrestri che provocarono questi radicali cambiamenti furono enormi, terribili, tali da non potersi attribuire soltanto a cataclismi, inondazioni ed eruzioni vulcaniche: dobbiamo pensare ad un evento più immane e travolgente: ad esempio alla caduta sulla terra della Luna, o meglio del satellite che il nostro pianeta aveva allora. Di certo questa ipotesi susciterà meraviglia, e forse incredulità, ma i dati scientifici sui quali si fonda, sebbene non dimostrabili al 100%, sono tuttavia avvalorati da studiosi di indubbia serietà e autorevolezza, quali l’astronomo e matematico George Darwin (1845-1912), figlio del celebre naturalista Charles, l’astronomo francese Denis Saurat (1890-1958), il cosmologo austriaco Hans Schindler Bellamy (1901-1982). Le loro ricerche condussero ad un identico risultato: la Luna attuale non è il primo satellite della Terra; ce ne sarebbero stati almeno altri due prima di essa, i quali, restringendo progressivamente l’orbita che descrivevano intorno al nostro pianeta, vennero ad infrangersi sulla Terra, determinando le terrificanti catastrofi che segnarono bruscamente la fine di vari periodi geologici.

G. Darwin in particolare prevede che pure questa nostra Luna sarà destinata a subire lo stesso destino delle altre che l’hanno preceduta: in un futuro ancora molto lontano il satellite si avvicinerà sempre più alla Terra e giunto in prossimità di essa, ma prima di toccare il suolo, si disgregherà. Parte dei suoi frammenti insieme alle polveri scaturite dall’esplosione inizieranno a ruotare intorno al pianeta, formando un anello simile a quello di Saturno, mentre gli altri, i più grandi, si infrangeranno al suolo in un’apocalittica pioggia di meteore che sconvolgerà in modo irreparabile tutta la superficie terrestre. Forse qualche esiguo gruppo di umani si salverà dall’immane disastro, ma essi piomberanno nella più oscura barbarie e dovranno faticosamente ricominciare ex novo il luingo e difficile cammino verso la civiltà. Quanto e come ci sembrano dunque veridiche, e profetiche, le parole che, nel “Timeo” platonico, il saggio sacerdote egiziano di Sais disse a Solone descrivendogli la fine della civiltà di Atlantide: “Pochi si salvarono. Essi ed i loro discendenti, per molte generazioni, mancarono di quanto serve alla vita civile”!

Possiamo osservare, a titolo di curiosità, che questa inquietante prospettiva di involuzione dell’umanità è mostrata anche nel film “The Time Machine” del 2002, liberamente ispirato al romanzo di fantascienza “La macchina del tempo” di H. G. Wells (del quale tra l’altro il regista del film è pronipote), pubblicato nle 1895: anche in tale film la Luna si frantuma e cade a pezzi sulla Terra.-lasciando però un anello di polveri e detriti a muoversi nella sua precedente orbita-. arrecando immense distruzioni, con la conseguente regressione dell’umanità superstite, in particolare in una sua parte, che, rifugiatasi nel sottosuolo, si trasforma in esseri mostruosi e lucifughi, nonchè antropofagi, che si nutrono dei loro “cugini” rimasti umani. Nel film peraltro questa catastrofe non è causata dall’impatto del satellite sulla superficie terrestre, ma dalla sua esplosione, dovuta alle bombe atomiche con le quali gli uomini tentavano stoltamente di scavare tunnel entro la Luna per adattarla alle loro presunte esigenze.

Quindi probabilmente anche le popolazioni che abitavano il Gondwana furono in gran parte annientate da un simile evento traumatico. Tuttavia per dimostrare l’esistenza di questo misterioso popolo e di questa civiltà dobbiamo attingere alla fonte dei più antichi testi tibetani e indù; ed infatti, come si è detto sopra, al centro dell’India esiste tuttora una vasta regione denominata “Gondwana” (ovvero “terra dei Gond”), -dalla quale anzi il primordiale continente ricevette il nome dai primi studiosi che ne ipotizzarono l’esistenza-, la cui capitale è la città di Nagpur, mentre nella penisola del Kathiawar una località porta il nome di Gondal, ed infine Gonda si chiama una piccola città alle pendici del monte Dundwa.

Il Gondwana era dunque un grande regno quando ancora la Luna non splendeva nei nostri cieli, e il suo popolo costruiva maestose case di cristallo. Notevole importanza veniva data all’astronomia, così che ben presto gli osservatori  del cielo si resero conto che il satellite che illuminava le loro notti esercitava una forte attrazione sul loro mondo, tale da influire sul periodico movimento delle acque. Quasi sicuramente ad essi si deve la creazione del primo e più grande misuratore dele maree, il cosiddetto “Candelabro delle Ande”, un’incisione rupestre che si trova su una parete rocciosa a strapiombo sull’oceano a sud di Lima in Perù. Essa ricorda in maniera vaga un candeliere a tre braccia (da cui il nome con il quale è nota), ma in realtà questa figura dovrebbe rappresentare un tridente (peraltro è controverso quale sia davvero l’oggetto raffigurato)

Il "Candelabro delle Ande".
Il “Candelabro delle Ande”.

e la sua posizione avvalora l’ipotesi che servisse per misurare il livello raggiunto dalle acque nelle varie ore ore del giorno durante il flusso e riflusso delle onde marine.

A questi attenti studiosi del cielo non poteva quindi essere sfuggito che il percorso del satellite non consisteva in una ellissi chiusa, ma piuttosto in una larga spirale che, con il tracorrere dei secoli, avrebbe fatalmente condotto alla sua caduta sulla Terra. E di certo non è un caso che nelle più antiche costruzioni riportate alla luce in vari luoghi del mondo, così come nelle incisoni rupestri, troviamo spesso disseminato il misterioso segno della spirale (poi assurto a simbolo di molteplici significati spirituali di evoluzione e di introspezione), quasi a rappresentare un incubo, un monito, un inquietante messaggio.

Nel corso degli scavi effettuati a Creta, il 3 luglio 1908 fu rinvenuto da una spedizione archeologica italiana, guidata da Luig Pernier e Federico Halbherr, tra le rovine del palazzo di Festo, -la cui epoca di costruzione è così remota da risultare indefinita-, uno strano disco di argilla cotta dello spessore di 2 cm ed un diametro di 16 cm, che reca sulla due facce degli ideogrammi disposti a spirale, i quali non hanno nulla in comune con l’antica scrittura cretese, mentre sembrano assai simili ai simboli preistorici dell’area brasiliana. Nessuno finora è riuscito a decifrare in modo soddisfacente il messaggio in essi contenuto, ma si ritiene possa trattarsi della storia della caduta di un corpo celeste sul Gondwana.

Non potendo fermare il corso dell’astro che precipitava verso di loro, l’unica via di salvezza per quell’antico ed enigmatico popolo era quella di fuggire dalla superficie della Terra, divenuta ormai inbitabile, verso l’interno della Terra stessa. Iniziarono così enormi opere di scavo: gallerie sotteranee che formavano vere e proprie reti di comunicazione, ed in esse caverne e sale imponenti. Per molti studiosi quelle lunghe gallerie hanno rappresentato, e rappresentano tuttora, un affascinante mistero archeologico.

Disco di Festo.

Ne sono state trovate nell’America meridionale, in Anatolia, a Malta e in molte altre aree dell’Asia, dell’Africa e dell’Oceania; sembra addirittura che le isole Haway siano collegate tra di loro tramite tunnel sottomarini. Il disperato tentativo degli abitanti di Gondwana ci dimostra, oltre alla tenace lotta per la sorarvvivenza, anche il loro notevole livello di civiltà e di preparazione tecnica.

Nell’America meridionale una lunga e misteriosa galleria congiunge Lima a Cuzco, l’antica capitale degli Incas, e prosegue poi verso il confine con la Bolivia. Secondo alcuni documenti in essa si troverebbe una favolosa tomba reale, inviolabile grazie ai trabocchetti mortali che ne impedirebbero l’accesso agli intrusi .Per molto tempo se ne attribuì la costruzione agli Incas, ma gli studiosi che hanno tentato, a rischio della propria vita, di inioltrarsi nella galleria hanno potuto dimostrare che gli Incas non furono gli artefici di quello scavo, ma avevano semplicemente utilizzato e sfruttato un’opera della quale conoscevano l’esistenza.

All’archeologo Bernardo da Silva Ramos dobbiamo pure un’altra importantissima testimonianza: a Marajò, un’isoletta nel mezzo del Rio delle Amazzoni, egli rinvenne tra le monumentali rovine di quella che doveva essere stata una grande città, ampie sale sotterranee comunicanti tra di loro per mezzo di gallerie dalle mura di pietra. Tra i vari rfeperti, tutti attribuibili ad un’epoca sconosciuta, fa bella mostra di sè una preziosa serie di manufatti fittili, che a prima vista potrebbero sembrare ceramiche etrusche. Ed insieme ai vasi, grandi dischi di pietra divisi in sei settori; questi dischi avrebbero potuto dunque essere tavole per calcoli astronomici, oppure rudimentali mappe geografiche, con l’indicazione delle varie regioni nelle quali il regno di Gondwana era ripartito; o ancora la rappresentazione delle più importanti linee di comunicazione sotterranea, tutte covergenti al centro, ovvero alla capitale. Se quest’ultima ipotesi fosse quella esatta, si porrebbe un altro affascinante mistero: quale fu la capitale del Gondwana?

Tre sono le antiche città ad essere ricomosciute come la possibile capitale dello scomparso continente di Gondwana: Ugarit, Tiahauanaco e Agartha (o Agarthi).

Nel 1929 l’archeologo francese Claude F. Schaeffer (1898-1982), che stava compiendo ricerche sull’antico popolo dei Cananei, scoprì a Ras-Shamra, nella Siria nord-occidentale, non lontano dalle sponde del mare Mediterraneo, le rovine semisepolte di una misteriosa e sconosciuta città. Dopo aver effettuato i primi scavi, egli si rese conto che il campo di rovine era costituito da cinque strati sovrapposti corrispondenti ad altrettante civiltà. Considerando la posizione geografica del luogo, identificò ben presto le rovine come appartenti alla città di Ugarit, che si rivelò la culla della civiltà protofenicia, soprattutto grazie alle numerosissime tavolette di terracotta che vi furono scoperte, e che illustravano ampiamente la religione, i miti e le credenze dei Semiti occidentali, e che in buona  parte confermarono le notizie che su tali argomenti avevano fornito autori antichi di età molto più tarda -come ad esempio Filone di Biblos, autore di un’opera sulla religione fenicia-.

Ugarit_01
Rovine di Ugarit.

Di questa città, la quale, dopo essere stata sottoposta alternativamente all’influenza egiziana ed ittita, si ritiene sia stata distrutta in via definitiva dall’invasione dei cosiddetti “Popoli del Mare”, intorno al 1190 a.C., già nel XIV sec. a.c. Abimilk, re di Tiro, aveva aveva scritto al faraone egiziano Amenòfi IV (noto anche con il nome di Akhenaton, o Ekhnaton, dopo che ebbe adottato il culto del dio solare Aton quale unico dio). “La città regale di Ugarit è stata distrutta dal fuoco”. Ed in effetti nel terzo strato di rovine, a circa 4 metri di profondità, sui ruderi dissepolti sono evidenti le tracce di un incendio; ma negli strati inferiori ad esso, risalenti ad epoche assai più remote, si osservano segni evidenti di sconvolgimenti tali che non si possono attribuire nè al fuoco nè ad un terremoto.

Ivan Lissner, archeologo tedesco, tentò, utilizzando calchi di gesso, di ricostruire parzialmente la topografia di Ugarit, e nel suo libro “Così essi vissero” scrive: “Estesi rioni erano intersecati da strade diritte che si incrociavano ad angolo retto. Nei cortili si trovavano fontane circondate da muretti e coperte da lastroni di pietra rotondi, con un’apertura nel mezzo, protetta a sua volta da una piccola tettoia. Le case avevano molte stanze ed erano dotate di bagni e perfette installazioni igieniche”. Tra gli oggetti dissepolti sono stati trovati braccialetti e collane simili o identici a quelli venuti alla luce a Creta, nel Caucaso ed in Asia Minore. Diverse tavolette incise con caratteri cuneiformi rivelano che in seguito all’immane sciagura la popolazione non fu più certa che “dopo l’inverno potesse tornare davvero la primavera”. In un papiro egiziano, redatto al tempo del faraone Ramses IV -intorno al 1150 a.c.-, conosciuto con il nome convenzionale di “Papiro Harris”, si legge testualmente. “Il Sud divenne Nord e la Terra si rigirò”, affermazione che sembra alludere ad una grande catastrofe cosmica, messa talora in relazione anche con la fine di Atlantide.

Collocazione della città protofenicia di Ugarit.

Un’antica leggenda inca, tramandata per millenni , descrive una spaventosa catastrofe la quale “distrusse il mondo nel tempo dell’oscurità, quando si adorava Ka-Ata-Killa, la Luna Calante. Allora il nostro paese era il cuore del mondo; poi l’oceano si ritirò e noi non vedemmo più il mare, noi che ai tempi della nostra grandezza dominavamo le acque di tutta la Terra”. Questa leggenda, riferita dall’etnologo statunitense L. Taylor Hansen, avrebbe indotto a compiere numerose ricerche scientifiche nelle città morte che si trovano disseminate sulla cordigliera delle Ande, quasi tutte ad oltre 3000 metri di altitudine e che rappresentavano per gli studiosi enigmi inspiegabili, ed in seguito alle quali si ebbero sconcertanti scoperte. La più famosa di queste città, Tiahuanaco, considerata una delle più antiche città el mondo, certamente la più antica dell’America, sorge a quota 3800 m. sul livello del mare e domina dall’alto il grande lago Titicaca, noto per l’elevato tasso di salinità delle sue acque. Per molto tempo apparve incomprensibile come si fosse potuto costruire tra quelle vette maestose grandi palazzi le cui porte si aprivano al di sopra di strapiombi impressionanti e fortezze aggrappate a costoni rocciosi sui quali sarebbe stato impossibile arrivare e trasportare i materiali occorrenti; d’altro canto i geologi insistevano nel cercare una spiegazione plausibile al.la presenza di sedimenti salini che si rinvengono a circa 2500 m. di altezza, estendendosi in un giacimento obliquo rispetto all’attuale superficie del lago. Finalmente dopo lunghi e approfonditi studi e attente osservazioni giunse la risposta a molti interrogativi: Tiahanaco non era una città alpestre, bensì una città di mare e le sue costruzioni in apparenza assurde, e non spiegabili sulla base della loro attuale collocazione , erano attrezzature portuali, moli, bacini, e quant’altro possa servire a una città marinara. La linea biancastra di depositi salini era stata lasciata dalle acque dell’oceano, ed il fatto che tali sedimenti non siano paralleli alla sponda del lago Titicaca sta a significare che il terrificante sconvolgimento che provocò la fine della città non soltanto aveva sbalzato la terra a 3500 metri sul livello del mare, ma ne aveva cambiato persino la perpendicolarità rispetto al piano delle acque del lago.

Rovine di Tiahuanaco.
Rovine di Tiahuanaco.

E’ legittimo pensare quindi che le città nelle quali erano fiorite le civiltà pre-incaiche sulla cordigliera delle Ande fossero un tempo ridenti località in prossimità del mare, e che i loro abitanti fossero stati costretti, nell’imminenza di un immane disastro naturale, ad abbandonarle per tentare di salvarsi la vita attraverso una fitta rete di gallerie sotterranee.  Questo reticolo di gallerie ci ricorda che, seconda una leggenda avvalorata dallo stesso Dalai-Lama, esisterebbe un tunnel segreto che dai sotterranei del “Potala” -l’imponente palazzo costruito a strapiombo di una vallata che fu sede del governo del Tibet quando vi comandavano i Lama- a Lhasa,la capitale di quel paese, condurrebbe addirittura in Colombia.

Ed è proprio nel Tibet, alle pendici della catena dell’Himalaya, la più elevata e maestosa di tutto il globo terracqueo, che dovrebbe trovarsi la favolosa città di Agartha, l’ultima delle probabili capitali del regno, e continente, di  Gondwana. Là vivrebbero tuttora gli eredi dei “Signori del Mondo” e nella grande città ipogea sarebbero custoditi tutti i più importanti segreti dell’umanità, passati, presenti e futuri, dalla sua comparsa sulla Terra  alla sua ultima ora. Questo sacro territorio comprenderebbe una popolazione ammontante a circa 20 milioni di individui, abitanti in quartieri divisi in modo simmetrico con costruzioni quasi esclusivamente sotterranee.

Nel “Kala-chakra”, un testo mistico del buddismo tibetano, viene descritto un regno simile, al quale vieme attribuito però il nome di “Shambhala” ( o “Shambhalla”). Questo misterioso e mistico regno appare circondato da una cinta di alte montagne e suddiviso in otto parti, che a loro volta includono 76 altri regni minori. Esso sarebbe situato in India e coinciderebbe con il monte Meru, la montagna sacra dell’induismo, il centro del mondo nella cosmologia indù, il quale a sua volta sarebbe da identificare nel polo Nord prima dello spostamento dell’asse terrestre. Kalapa è il nome della capitale dello stato, nella quale ha sede il re-sacerdote; il suo primo capo fu Suchandra, il sovrano attuale è Anirudda e il prossimo sarà Rudra Chakrin, “il corrucciato con la ruota” (il nome in tibetano è Drag-po Chor-lo-chan).

La conoscenza e l’interesse per questo strano mondo, leggenda o realtà che lo si consideri, nella moderna cultura europea nacqua ad opera di alcuni scrittori vissuti tra l’800 e il 900, in particolare il medico ed occultista francese J. A. Saint-Yves d’Alveydre (1842-1909), con il suo libro “Missione in India”, e il polacco Ferdinand Ossendowsky (1878-1945), che visitò ed esplorò a lungo le terre dell’Asia Centrale, della Siberia e del Tibet, autore di “Bestie, uomini e dei”, nonchè, in misura minore, di Louis Jacolliot, con “I figli di Dio”. Tutti questi scritti furono poi ripresi dal celebre filosofo ed esoterista Renè Guenon (1886-1951) nel suo libro “Il Re del Mondo”, ed è soprattutto per il credito che egli accordò alla leggenda, onde sostenere la sua tesi di una sorta di grande sovrano occulto, il quale terrebbe nelle sue mani il destino dell’umanità intera e della Terra, che l’affascinante idea di questo arcano regno si diffuse e prese consistenza.

In effetti questi autori, pur avendo trattato di aree geografiche diverse -ma comunque sempre nel continente asiatico, e specificamente in un’area che spazia tra il Nord dell’India, l’Asia Centrale, il Tibet e la Mongolia-, fanno riferimento ad un  regno ipogeo abitato da una stirpe di iniziati e governato da un monarca con straordinari poteri. In un passo di “Bestie, uomini e dei” così Ossendowsky descrive l’effetto della potentissima concentrazione psichica del sommo capo di Agartha: “La Terra e il Cielo cessavano di respirare. Il vento non soffiava più; il Sole si era fermato. In un momento come quello il lupo che si appropinqua furtivo alla pecora trattenuto da un’arcana forza si ferma dove si trova; il branco di antilopi spaventate si arresta di colpo…Tutti gli esseri viventi impauriti sono tratti involontariamente alla preghiera e attendono il Fato. Così è accaduto un istante fa.  Così succede sempre ogni qual volta il Re del Mondo nel suo palazzo sotterraneo prega e scruta le sorti di tutti i popoli e di tutte le razze”.

Lo scrittore asserisce di aver raccolto numerose prove dell’esistenza di questo meraviglioso impero ipogeo. Ad esempio, lungo le rive del fiume Amyl alcuni anziani gli narrarono di un’antica tribù che, sfuggita alle armate di Gengis Khan, si ricoverò entro immense caverne; e in seguito presso il lago Nogan Kul un indigeno gli mostrò un antro fumante, assicurandogli che era l’ingresso di Agartha. Desideroso di accrescere le sue informazioni al riguardo, l’avventuroso polacco condusse altre ricerche ed apprese che migliaia di anni or sono un santo uomo scomparve con la propria gente in una sconosciuta regione ipoctonia. Soltanto pochi ardimentosi l’avrebbero visitata in tempi successivi, ma nessuno sarebbe mai stato in grado di determinare dove quel luogo si trovasse, così che alcuni lo pongono in India, altri in Afghanistan, altri ancora nell’Asia Centrale. Sembra certo comuque che Agartha sia un regno felice, abitato da milioni di anime che coltivano scienza e saggezza, e al cui sovrano, sebbene occulto, siano demandati i destini dell’umanità intera.

Quali siano le origini e la storia di questa chimerica contrada rimane un mistero, sebbene Ossendowsky nella sua singolare opera sembri riferirsi ad Atlantide: “Voi sapete che i due oceani più grandi, ad est e ad ovest, furono già due continenti. Disparvero sepolti dalle acque, ma i loro popoli trasmigrarono in un regno sotterraneo”; l’autore aggiunge poi che il regno nascosto si estenderebbe sotto la crosta dell’intero pianeta. E’ interessante notare come nell’America del sud ritroviamo nella saga della “Terra senza male”, propria degli indios di stirpe Tupì-Guaranì, una concezione analoga di luogo appartato e recondito, privo di dolore e di morte; la pace e la letizia vi regnano sovrane e chi fosse in grado di giungervi potrebbe godervi di una eterna beatitudine. Anche Agartha è una regione priva di malanni e di sofferenza, dove brilla una benefica luce, tale da far germogliare le piante con irrefrenabile rigoglio e di assicurare salute e longevità a tutti gli abitanti.

Questa descrizione ricorda alquanto la misteriosa civiltà di cui parla lo scrittore inglese E. Bulwer-Lytton nel suo romanzo “La razza ventura” del 1871: anch’essa avrebbe sede all’interno della “Terra cava” ed i suoi membri sarebbero vivificati da un potente fluido energetico -chiamato “vril” dall’autore-, che conferirebbe ad essi magici poteri, tali da renderli simili a dei questa idea fu poi ripresa e fatta propria da diversi teosofi ed occultisti, quali H. Petrovna Blavatsky e W. Scott-Elliot.

Ma in realtà anche illustri scienziati avevano in passato avanzato l’ipotesi che la Terra fosse cava al suo interno e tale da consentire in esso delle forme di vita. Il primo scienziato ad affermare la probabile esitenza di un “vuoto” all’interno del pianeta fu Edmond Halley (1656-1742), il noto scopritore della cometa che da lui prese nome: secondo i suoi studi sull’elettromagnetismo terrestre il nostro pianeta dovrebbe essere cavo e al centro di tale cavità dovrebbe trovarsi un globo incandescente, un nucleo enrgetico in grado di illuminare come un altro Sole le regioni poste all’interno dell Terra. Questa teoria fu in seguito sviluppata e perfezionati da altri scienziati, quali il famoso matenatico Eulero e dal filosofo e scienziato P. L. Moreau de Maupertuis, diffusore e continuatore delle teorie newtoniane in Francia.

La Terra Cava
La Terra Cava

Ma oltre che a livello scientifico l’ipotesi della “Terra cava” fu ampiamente ripresa nella letteratura. L’esempio più celebre è certamente il celeberrimo “Viaggi al centro della Terra” di Jules Verne, pubblicato nel 1864, sette anni prima del romanzo di Bulwer-Lytton; nel caso di Verne tuttavia l’interno della Terra non è sede di una civiltà complessa ed evoluta.

Un testo assai interessante, quasi del tutto ignorato ai nostri giorni è “Icosameron” (“Dieci giornate”), un romanzo fiume di Giacomo Casanova, pubblicato a Praga in cinque volumi nel 1788. Occorre premettere che il Casanova, oltre che avventuriero ed amatore da strapazzo, fu anche letterato e scrittore non mediocre, al riconoscimento dei cui meriti nocquero indubbiamente sia la fama di seduttore e di intrallazzatore, -attività con le quali cercava di introdursi nel mondo falsamente dorato della cosiddetta aristocrazia-, sia (e forse soprattutto) il fatto che abbia scritto le sue opere più importanti in francese. A questa scelta linguistica fu indotto dal desiderio di avere un pubblico più vasto e cosmopolita di quello che avrebbe potuto avere scrivendo in italiano; ma così egli non potè avere un posto onorevole nella letteratura italiana, senza peraltro riuscire a conquistarsene uno di rilievo nella letteratura francese -cosa peraltro impossibile dato lo sciovinismo dei “cugini” francesi- o europea in generale.

Tornando al romanzo al quale abbiamo accennato, in esso si narrano le avventure di due fratelli, maschio e femmina, Edouard ed Elisabeth, i quali all’inizio della storia, nel 1615, dopo 81 anni dal naufragio nel quale si riteneva fossero periti, si presentano al castello dove risiedono i loro genitori , Jacques Alfrède, di 109 anni, e Guillermine, di 106. La cosa strana è che essi dimostrano poco più dell’età che avevano all’epoca del naufragio. Dopo lo stupore e lo sconcerto dei genitori e delle altre persone che li accolgono, tra le quali un ex amica d’infanzia di Elisabeth, -che non riescono a capacitarsi di un evento tanto incredibile e che i due giovani siano davvero coloro che sostengono di essere-, Eduard inizia a narrare le avventure da lui vissute insieme con la sorella durante il tempo della loro assenza -che ovviamente per essi aveva avuto una durata assai minore (e pure questo sembra anticipare uno dei temi che saranno ampiamente presenti e sfruttati nella fantascienza moderna: la relatività del tempo e dello spazio)-. Il racconto dei due prosegue per 20 giorni, -da cui il titolo del romanzo-: il mondo nel quale si sono trattenuti così a lungo è situato sotto la crosta terrestre; essi si erano salvati dal naufragio nascondendosi dentro una bara di piombo, assai massiccia e resistente, che un marinaio teneva sul ponte della nave, e nella quale si trovavano anche provviste d’acqua che permisero loro di sopravvivere. Rinchiusi e protetti in questa specie di sottomarino, percorrono prima gli abissi subacquaei, per poi andare ad infilarsi in un varco che li conduce nelle viscere della Terra, in un mondo “convesso” da loro definito “Protocosmo”, abitato da piccoli esseri straordinari, i “Megamicri” (“Grandi-piccoli”), grandi di animo e piccoli di statura, alti più o meno come un neonato, ai quali una prominenza cartilaginea forma una specie di visiera sulla fronte (si osservi come questo particolare, del “rotolo” sopra la fronte ricorda stranamente l’analoga caratteristica dei Lemuriani, secondo le descrizioni fatte dagli esoteristi di fine 800, e che ovviamente Casanova non poteva conoscere). Questi strani esseri sono di tutti i colori, talora anche a macchie, ma i più importanti tra loro sono rossi. Nel mondo che abitano l’atmosfera è del tutto diversa da quella della superficie terrestre e vi è un’unica stagione; il Sole all’interno della Terra elargisce un costante tepore, senza eccessi o carenze di calore; la notte non esiste; i Megamicri non hanno la necessità di dormire, il loro modo di vivere non varia mai per alcuna ragione e durante la loro esistenza rimangono sempre giovani, anche se non sono immortali. La loro civiltà è alquanto avanzata sul piano scientifico e tecnologico e lo scrittore descrive diverse macchine, in particolare mezzi di trasporto semoventi, che sembrano anch’essi prefigurare invenzioni che sarebbero venute molto tempo dopo -sebbene se ne possa vedere un precedente puree nelle macchine ideate da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero (1710-1771) enigmatica figura di scienziato, alchimista e filosofo vissuto nel XVIII secolo, a metà tra genio e ciarlataneria-. E’ assai significativo che un ammiraglio, presente al racconto, dimostrando tutta l’ottusità e l’avidità irresponsabile propria del genere umano, -ma soprattutto di politici ed affaristi-, chieda subito come si potrebbe conquistare il mondo sotterraneo. Ma Eduard assicura che tale impresa non sarebbe realizzabile, aggiungendo di non capire perchè si dovrebbe andare ad assoggettare i Megamicri una volta conosciuta la loro esistenza e come potrebbe essere cosa lodevole rendere altri miserabili per fare grandi sè stessi: affermazione, di chiaro sapore illuministico, che sembra una denuncia ante-litteram del colonialismo rapace messo in atto dalle potenze europee dall’epoca delle grandi esplorazioni geografiche.

Indubbiamente molteplici sono le opere letterarie e filosofiche nelle quali si potrebbero ravvisare le probabili fonti di questa strano testo, dai romanzi d’avventura ellenistici e barocchi, alla opere ricche di grottesca inventiva di Luciano di Samòsata (125-192 circa), -in specie la “Storia vera”, considerata la più antica storia conosciuta di fantascienza- all’Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto; ma senza dubbio i precedenti più immediati, -oltre che vicini nel tempo-, sono i “Viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift e alcune opere di Voltaire, soprattutto “Candido” e “Micromega” (dal titolo di quest’ultima è con ogni probabilità drivato anche il nome degli abitatori della “terra cava” nell'”Icosameron”).

La descrizione della reggia del “Re del Mondo” ricorda invece il “Potala”, la residenza del Dalai-Lama a Lhasa: il palazzo infatti si erge sulla sommità di un’altura e domina santuari e monasteri abbarbicati alle sue pendici. Le liturgie agarthiane descritte da Ossendowsky sono una miscellane di vari culti e credenze asiatiche, in particolare sciamaniche e buddistiche tibetane, e contemplano esseri disincarnati, viaggi extracorporei, facoltà taumaturgiche e colloqui con i defunti. Al vertice di questo paese segreto vi è la figura ieratica e mistica del “Re del Mondo”; egli prega, governa, giudica e conosce tutti i progetti e le intenzioni formulate dai potenti di questa terra: se li ritiene buoni e degni di essere attuati, ne propizia l’esecuzione; altrimenti fa in modo che essi falliscano. Lui solo inoltre ha la facoltà di entrare nel Grande Tempio, ove tra lingue di fuoco ascolta la voce di Dio.Agartha12740_3_2_2009_2_56_38_AM_-_598px-KalachakraSera

Ma alcune volte, sebbene per brevi periodi, il signore di Agartha ha lasciato il suo regno. Apparve nel Siam e in India, trasportato da un carro trainato da elefanti bianchi, rivestito di una candida clàmide e di una tiara rossa, vesti ed arredi erano impreziositi da metalli e pietre di immenso valore. Egli durante il suo percorso bendiceva il popolo con una verga d’oro, simile a un caduceo, con la quale sanava ogni male.

L’ultima apparizione di questo misterioso personaggio risalirebbe al 1890, quando si mostrò nel monastero di Narabanchi in Mongolia. In quell’occasione profetizzò che la prima metà del nuovo secolo, che sarebbe iniziato da lì a un decennio, sarebbe stata caratterizzata da gravissimi e inauditi peccati e da corruzione senza limiti, sarebbero cadute le corone di grandi e piccoli sovrani, la mezzaluna dell’Islam si sarebbe offfuscata e come conseguenza di tali eventi questa situazione avrebbe causato indicibile avvilimento e povertà. Sarebbero scoppiati terribili conflitti con milioni di morti, le catene della schiavitù si sarebbero spezzate, ma solo per essere sostituite da quelle non meno pesanti e dolorose della fame. Poi per altri 71 anni avrebbero dominato sulla Terra tre grandi nazioni; a questo periodo sarebbero seguiti 18 anni di guerra e distruzione, al termine dei quali le porte di Agartha si sarebbero aperte.

Secondo altri però (vedi S. Hutin, “Governi occulti e società segrete”) sarebbero avvenute altre due apparizioni del “Re del Mondo” nel corso del XX secolo: nel 1923 in Siam (ora chiamato Thailandia), e nel 1937 in India -quest’ultima durante la cerimonia di incoronazione a imperatore dell’India di re Giorgio VI di Gran Bretagna-. (Non mi è stato possibile finora appurare se e quali profezie o annunzi egli abbia divulgato in queste ultime occasioni, ma se avrò notizie in merito, non mancherò di darne ragguaglio).

Le informazioni riportate da Saint-Yves d’Alveydre non si discostano di molto da quelle date da Ossendowsky. L’autore suddetto riferisce numerose testimoniamze, tra cui quella del principe afgano Hadji Sharif, dalle quali avrebbe appreso dell’esistenza di quello strano mondo sotterraneo fatto di di grotte e cunicoli. Qui vivrebbe una comunità di “giusti”, governata da un “Supremo Maestro”; in tale luogo sarebbero conservate le memorie e le reliquie di tutte le civltà esistenti ed esistite sulla Terra. I poteri degli Agarthiani sarebbero cosi immensi che con essi potrebbero distruggere il globo qualora qualcuno tentasse di combatterli; ipotesi comunque remota, poichè essi dispongono di notevoli “mezzi psichici”, quali ad esempio “il produrre al momento opportuno una specie di nuvole che impedisce alla coscienza, non ancora pervenuta al grado di percettività necessario, di vedere quanto l’occhio si limita a captare”, per cui non hanno alcun bisogno di ricorrere ad azioni distruttive o di forza.

La "Terra Cava": il regno sotterraneo.
La “Terra Cava”: il regno sotterraneo.

Secondo quanto sostiene Saint-Yves d’Alveydre, oltre al Sommo Pontefice di Agartha, 5000 “pundit” (sapienti), 365 “bagwanda” (ministri del culto) e 12 membri supremi sovrintendono alla vita pubblica (1). Le biblioteche, che si trovano nelle gallerie più profonde, sono inaccessibili ai profani e custodiscono tutti i segreti delle arti e delle scienze elaborate dall’umanità nel corso dei secoli; solo al Sovrano Pontefice e ai suoi fidati collaboratori è consentito avere libero accesso a questi santuari della conoscenza e consultare il catalogo dei preziosi libri ivi raccolti. Un altro studioso, Trarieux d’Egmont, aggiunge che nei sotterranei di Agartha sono conservate anche eccezionali scoperte relative alle energie della natura, alla matematica e alla chimica, studi ai quali già si erano dedicati gli antichi abitatori del Gondwana.

Il d’Alveydre affermò pure di avere tratto dal regno di Agartha l’idea della “sinarchia”, un sistema sociale di tipo ierocratico che dovrebbe riflettere il divino ordine cosmico. Questa utopia politica, che ebbe un certo seguito negli ambienti della destra tradizionalista, prefigurava una società fortemente gerarchizzata, al cui vertice avrebbe dovuto dominare la “Suprema Camera Metafisica”, una sorta di consiglio segreto, strettamente iniziatico. Ma il vero ideatore della “sinarchia” era stato in realtà il controverso intellettuale francese  Antoine Fabre d’Olivet (1767-1825), autore, oltre che di versi, di varie opere influenzate da un nebuloso misticismo e fondate su un’interpretazione alquanto personale della Bibbia, il quale si era ispirato al mito ermetico dei “Superiori Incogniti”, caro a molte sette massoniche fiorite tra il 700 e l’800. Nonostane le aspre ciritiche suscitate dalle sue tesi, il d’Alveydre fu di esempio per diversi altri autori, tra i quali Jean Marquès Rivière, che nel 1929 pubblicò il racconto di un immaginario viaggio in Tibet, ove un monaco gli avrebbe rivelato che il regno di Agartha è celato ai comuni mortali e che “noi abitanti della Terra delle Nevi siamo il suo popolo. Esso è per noi la terra promessa e portiamo nel cuore la nostalgia di questa contrada inondata di pace e di luce”.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) è evidente che i numeri 365 (come i giorni che costituiscono l’anno tropico) e 12 (come i mesi) attribuiti ai reggitori dell’enigmatico regno esprimono un simbolismo astronomico.

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *