IL PESCE E LA COLOMBA: SIMBOLI DI RIGENERAZIONE E DI CARITA’ (prima parte) -Semiramide, regina di Assiria tra mito e storia-

In questa trattazione prenderemo in considerazione due animali assurti entrambi ad essere importanti simboli mitico-religiosi, e tra i quali, nonostante l’apparente lontananza sotto il profilo zoologico, morfologico e d etologico, nei miti e nelle credenze di diverse civiltà si riscontra non di rado uno stretto legame.

In uno degli articoli sulla “Profezia della Piramide di Cheope” avevamo accennato al mito della dea Derketo (chiamata anche Atharatteh, e, in forma ellenizzata, Atargatis), che ci è precipuamente noto nella versione narrata da Diodoro Siculo (Bibliotheca Historica, II, 1-21), il quale a sua volta riporta quanto aveva scritto Ctesia di Cnido, storico greco del V sec. a. C. (1). In questa storia la figlia della dea, che si era trasformata in pesce, o in donna-pesce, fu accudita e nutrita dalle colombe nel deserto. Il fatto che siano stati codesti delicati pennuti a prendersi cura della bimba non è certo casuale: infatti la Colomba, -o il Colombo o Piccione che dir si voglia-, era l’uccello sacro ad Ishtar nelle religioni mesopotamiche e delle sue varianti nel Vicino Oriente, il quale, nella sua figura fragile in apparenza, ma in realtà robusta, incarnava le qualità essenziali della dea.

Già documenti mesopotamici risalenti al 3.000 a. C. mostrano come i colombi fossero gli animali associati sia nel mito che nel culto alla dea In-nanna, la dea sùmera della fecondità e della potenza generatrice della natura, i cui caratteri furono ereditati da Ishtar, dopo l’invasione semitica della Mesopotamia, quando si affermò prima la civiltà accadica e poi quelle babilonese ed assira.  Ricordiamo inoltre che presso i Greci il nome della colomba era, ed è tuttora, “Περιστερα'”, termine che deriva dal fenicio “Perasch-Istarah” = uccello di Ishtar; ed in effetti anche tra di essi la colomba fu per eccellenza l’animale sacro ad Afrodite, così come quest’ultima non era altro che la dea Ishtar-Astarte inserita nel pantheon ellenico, e che si era portata seco alcuni dei miti propri di quest’ultima, in primis quello che la vede protagonista insieme ad Adone di una vicenda di morte e resurrezione, di rinnovamento e rinascita, prima solo nella terra e nella natura e poi nello spirito (e di cui abbiamo parlato in uno specifico articolo).

Ma torniamo alla storia di Semiramide che merita di essere conosciuta un po’ più a fondo. Come abbiamo detto anche in un articolo precedente (LE AMAZZONI, GUEDRRIERE DELLA LUNA, settima parte, del 26 novembre 2015), ella fu allevata dalle colombe fino a che non fu trovata da alcuni pastori che la portarono a Simmas, ministro del re di Assiria, il quale la adottò come propria figlia (e come ormai ben sappiamo, quello dell’infante abbandonato che talora viene allevato da uno o più animali e infine trovato da un pastore che lo tiene come proprio figlio o lo conduce al proprio sovrano è un “topos” tra i più diffusi nei miti e nelle leggende fiorite anche su famosi personaggi storici: da Edipo a Mosè, da Sargon di Accad a Romolo e Remo, a Ciro il Grande di Persia, ecc.).

La piccola Semiramide nutrita dalle colombe viene trovata da un pastore.

Quand’ella era divenuta una splendida fanciulla che univa alle doti di bellezza esteriore singolari virtù dell’intelletto, accadde che il re inviò una dei suoi generali, di nome Onnes (che in altre lezioni porta il nome grecizzato di Menone) a ispezionare le tenute amministrate da Simmas. Questi non appena la vide se ne invaghì  e la volle sposare. Dal marito Semiramide ebbe due figli chiamati Hyapate e Hydaspe. Non possiamo fare a meno di osservare che il nome “Onnes” è molto simile a “Oannes”, con il quale a Babilonia veniva chiamato un eroe, considerato colui che aveva condotto gli uomini dalla barbarie alla civiltà, venerato soprattutto nella Mesopotamia meridonale, sulle rive del golfo Persico e rappresentato con l’aspetto di un uomo-pesce, in particolare come una figura umana in piedi coperta nella parte superiore da un corpo di pesce, dal quale fuoriescono le gambe e le braccia. Quanto a Nino, -il cui nome si riconnette evidentemente a quello di Nìnive-, egli sarebbe stato figlio di Bel, o Belus, nel quale è da ravvisare il dio mesopotamico Bel, corrispondente al Baal cananeo.

La figura di questo leggendario re assiro fu talvolta identificata con quella di Nimrud, figlio di Kush, e nipote di Cam, secondogenito di Noè, mitico fondatore di Ninive secondo la Bibbia (Genesi, 10). Quanto a Ninive, l’etimologia dell’ultima e più grande delle capitali dell’Impero Assiro non è affatto certa: alcuni (vedasi voce “Ninive” nell'”Enciclopedia Ebraica”) ipotizzano che possa significare “Casa del Pesce” (poiché in ebraico e in aramaico “nun” -o “nyn” significa “pesce”; in arabo indica un animale marino di eccezionali dimensioni, come la Balena, mentre un pesce di media o piccola lunghezza è detto “samak”). Dobbiamo peraltro osservare che NUN è anche il nome della 14° lettera dell’alfabeto fenicio, che esprime il suono “n”; essa fa seguito alla lettera MEM, che significa “acqua”, ed è seguita dalla SAMEK, che vuol dire “palo”, ma può significare anch’essa “(piccolo) pesce”, così come in arabo: nella disposizione dell’alfabeto fenicio abbiamo dunque una terna di lettere -dalla 13° alla 15°- legate all’elemento acquatico (2).

Ma il Nun è pure il nome attribuito in alcune cosmogonia egizie e segnatamente nella “teologia eliopolitana” alle “acque primordiali”, dalle quale tutte le cose ebbero origine e dalle quali emerse e si innalzò la collina primordiale alla cui sommità sorse la pietra BENBEN, sulla quale si posò il dio creatore  ATUM per creare il mondo. Pertanto si può dedurre che il Nun corrisponde all'”Apsu” (o “Abzu”) mesopotamico, alle acque primigenie sulle quali secondo la Genesi aleggiava lo spirito di Dio prima dell’inizio del tempo (si veda al riguardo anche LE PIETRE SACRE, seconda parte, del 15 dicembre 2013).

Ma qual è il pesce a cui alluderebbe il nome di Ninive? Esso dovrebbe essere una incarnazione o una rappresentazione di Ishtar, che sembra avesse anche l’appellativo di “Nina”, “pesciolina”: il che riporta al simbolismo acquatico del pesce, simbolo di fecondità e di rigenerazione, che ben si addice ad una dea come Ishtar.

Il re Nino, secondo quanto affermano Ctesia e Diodoro Siculo, in 17 anni conquistò tutta l’Asia occidentale con l’aiuto di Arieo, re dell’Arabia e si volle poi allargare l’estensione del suo vasto regno volgendosi alle regioni dell’Asia centrale, dove però dovette affrontare l’imprevista resistenza del regno di Battriana. Allorchè Onnes seguì Nino nella campagna militare contro i Battriani, Semiramide lo raggiunse e, vestitasi da guerriero, comandò con ammirevole energia un manipolo di soldati che riuscì ad espugnare Battra, la capitale assediata. Nino, colpito dalla bellezza e dall’ardimento della donna, chiese ad Onnes (o Menone) di rinunciare a lei, onde potesse sposarlo, e per convincerlo gli offrì in sposa la propria figlia Sosana, in sostituzione di Semiramide; questi, legato negli affetti alla moglie, ma atterrito dalla potenza del re preferì suicidarsi così che la vedova potè unirsi in matrimonio con Nino e divenne regina degli Assiri concependo dal nuovo marito un figlio chiamato Ninyas.

Quando, dopo non lungo tempo, Nino venne a morte a causa delle ferita provocatagli da una freccia, Semiramide assunse il trono di Assiria a nome del figlio ancora bambino. Secondo alcuni autori, tra i quali lo storico romano Marco Giustiniano Giustino, vissuto tra il II e il III secolo e autore di un compendio delle “Historiae Philippicae” di Pompeo Trogo, scrittore dell’età augustea, Semiramide si sarebbe travestita da uomo e si sarebbe fatta passare per un figlio di Nino, continuando le conquiste belliche del defunto marito e giungendo a conquistare l’Etiopia. Per Nino ella fece edificare un grandioso monumento funebre a Ninive, sormontato da un imponente podio che, al dire di Ctesia, misurava nove stadi di altezza e dieci di larghezza (all’incirca 1600 m x 1780 m); quindi, bramosa di sopravanzare la gloria del marito, decise di fondare la città di Babilonia (che in realtà fu fondata prima di Ninive). Diodoro descrive le meraviglie di tale città con dovizia di particolari; descrivendo però i famosi “Giardini pensili”, -una delle “sette meraviglie del mondo”-, precisa che non furono opera di Semiramide, ma di un altro sovrano che li avrebbe concepiti e fati realizzare per donarli ad una sua concubina persiana; in effetti però essi furono compiuti sotto il regno di Nabucodonosor II per le propria consorte.

Completata la costruzione di Babilonia e di altre città, Semiramide condusse altre campagne militari e percorse incessantemente i suoi domini compiendo ovunque opere degne di memoria. Diodoro accenna anche ai costumi irrequieti della regina, la quale, evitando sempre di risposarsi onde non correre il rischio di vedersi sottrarre il regno dal nuovo marito, usava intrecciare relazioni amorose più o meno effimere con i membri più avvenenti del suo esercito; tali amori si concludevano però immancabilmente con la misteriosa sparizione del malcapitato, quando non fosse più stato nelle grazie della volubile regina. Alle narrazioni degli storici greci, poi ripetute da quelli latini (3), devesi la cattiva fama di Semiramide, tramandatasi poi nel ME europeo e di cui si ha un’eco anche nella “Commedia” dantesca (dove della regina assira posta nel girone dei lussuriosi il sommo poeta dice “che libito fè lecito in sua legge/ per torre il biasmo in che era condotta” -Inf. V, 56-57-).

Statua ottocentesca raffigurante Semiramide.

Animata da sconfinata ambizione, la regina volle tentare la conquista dell’India, che Nino non era riuscito a portare a termine. A tal fine, organizzò l’allestimento di una flotta fluviale di navi smontabili, che all’occorrenza avrebbero potuto essere trasportate via terra a dorso di cammello. Non solo, ma per contrastare quella che era l’arma più potente dell’esercito indiano, gli Elefanti (che erano per così dire i carri armati dell’epoca) la regina fece fabbricare migliaia di finti pachidermi, ciascuno trasportato da un cammello nella speranza di incutere in tal modo il terrore nelle schiere nemiche.

Ma il re degli Indiani, Stabròbate, mise in atto preparativi ancora più grandiosi, moltiplicando il numero delle sue navi fluviali, reclutando nuove truppe e caturando altri elefanti da mettere in campo nei combattimenti.

Gli Assiri tuttavia riuscirono a vincere la prima battaglia navale sul fiume Indo e Semiramide, fatto costruire un ponte, oltrepassò il fiume guidando le sue forze all’interno del paese; ma qui, soprattutto grazie agli elefanti veri dei quali disponeva, Stabrobate riuscì a prevalere sull’esercito invasore, tanto più che l’inganno dei finti elefanti era stato rivelato agli Indiani da alcuni disertori assiri e quindi aveva perso il suo effetto. La stessa Semiramide rimase ferita in battaglia ed evitò di essere presa prigioniera ordinando di recidere le corde che tenevano sospeso il ponte sull’Indo prima che gli inseguitori potessero attraversarlo. Costretti ad una precipitosa ritirata gli Assiri dovettero tornare in patria, dove l’intrepida regina scoprì una cospirazione contro di lei ordita dal figlio Ninya. Ma poiché tale evento era stato predetto dal celebre e reputato oracolo egiziano di Ammone, ed era quindi stato preordinato dalla divinità, ella non punì il figlio ribelle, ma anzi gli consegnò il regnò e disparve in modo misterioso; Semiramide aveva allora sessantadue anni e aveva regnato per quarantadue. Diodoro ricorda che alcuni mitografi, -da lui non precisati-, sostenevano che alla fine della sua vita la regina si trasformò in colomba e volò via insieme ad uno stuolo di altri uccelli di tale specie che si erano posati sul tetto del suo palazzo: in tal modo veniva confermata l’origine divina di Semiramide e la sua identificazione con Ishtar, la più importante e venerata dea della Mesopotamia (e con altre dee del Vicino Oriente): le colombe che l’avevano nutrita da infante e che avevano accompagnato i suoi primi passi nella vita, le erano accanto anche nella sua assunzione in Cielo.

Stando a quanto scrive Polieno, retore e storico greco del II secolo (“Stratagemmi di guerra”, VIII, 26) nell’iscrizione posta su una stele da lei fatta erigere Semiramide avrebbe descritto sé stessa con le seguenti parole: “Nel vero la natura mi fece donna, ma io per prodezze fatte non cedo a persona che sia fortissima come si possa. Io ho fatto il regno di Nino, il quale dall’oriente ha per termine il fiume Inamane [l’Indo], dal mezzogiorno quel paese che abbonda d’incenso e di mirra [l’Arabia] e dal settentrione i Saccesi [i Saci, popolazione scitica dell’Asia] ed i Sogdiani. E non essendo alcuno dell’Assiria che abbia veduto il mare, al quale per la lontananza del paese nessuno si può appressare, io ne ho visti quattro, dei quali chi mai potrebbe fare il giro? Io ho costretto i fiumi a correre dove io voleva, e voltili dove tornava meglio; ho fatto fertili i paesi sterili temperandoli co’ miei fiumi. Appresso io ho fabbricato fortezze inespugnabili, ed ho domato col ferro le vie che non si potevano camminare [sic], le quali ho eziandio lastricate co’ miei denari, per le quali non pure le fiere selvagge appena prima andavano. Ed il tempo che mi avanzò dall’amministrazione delle cose, l’ho compartito a me ed agli amici” (traduzione di Lelio Carani, letterato del XVI secolo).

Semiramide è anche la protagonista di una suggestiva leggenda armena insieme al re Ara il Bello -o il Gentile (in armeno Ara Geghetsik)-. Ella aveva sentito parlare della incomparabile bellezza di questo sovrano e mandò quindi dei messaggeri in Armenia per chiedergli di recarsi a Ninive e unirsi a lei in matrimonio. Ma poiché Ara respinse la pur lusinghiera proposta, la regina offesa dal rifiuto gli dichiarò guerra. Gli eserciti delle due nazioni si scontrarono nella zona circostante il monte Ararat; Semiramide, -chiamata in armeno Shamiram-, aveva ordinato di catturare Ara vivo, ma egli dopo essere stato sconfitto fu ucciso da uno dei figli di lei ed il suo corpo fu ritrovato nel campo di battaglia in mezzo a quello degli altri soldati armeni caduti.

Per placare la furia degli Armeni che volevano continuare la lotta per vendicare il loro re, Semiramide dichiarò che in seguito alle sue preghiere agli dei Ara sarebbe resuscitato. La regina assira era una maga e credeva davvero che avrebbe potuto far rivivere il sovrano armeno; ma quando il cadavere di Ara apparve irrimediabilmente decomposto, impazzita di dolore comandò che venisse seppellito. Poi vestì uno degli ufficiali del suo seguito come il defunto e disse che gli dei avevano esaudito le sue preghiere e Ara per riconoscenza sarebbe rimasto con lei alla sua corte. Dopo di che nominò Karthos, il figlio che Ara aveva avuto da sua moglie Nuvard, allora in età di dodici anni, nuovo re di Armenia e ripartì per Ninive.

Sulla via del ritorno, passando sulle rive del lago di Van, ella rimase colpita dalla bellezza e dall’amenità di quella regione e condotti in quel luogo alquanto architetti e migliaia di operai, vi fece costruire un magnifico palazzo. Quando il palazzo fu terminato, vi si trasferì, lasciando come suo vicario a Ninive Zoroastro, il profeta e guida spirituale del popolo dei Medi, il quale governò con saggezza il paese per lungo tempo (4).

Quanto al re Nino, secondo questa narrazione non sarebbe morto a Ninive e ivi sepolto nel maestoso mausoleo fatto costruire da Semiramide, ma sarebbe fuggito a Creta. Allorché i suoi figli furono cresciuti, vollero salire al trono e impadronirsi del tesoro reale e pertanto accusarono la madre di atti disdicevoli. Davanti alla loro ribellione, ella si adirò tanto da farli uccidere tutti, ad eccezione del più piccolo, -ovvero Ninyas-, chiamato nella leggenda armena con il nome di Zamassias.

Alcuni anni dopo Zoroastro tentò di usurpare il trono di Assiria e cominciò una lunga guerra contro Semiramide, che fu sconfitta e costretta a cercare rifugio in Armenia presso il re Karthos, il figlio di Ara. Zamassias divenuto re mosse a sua volta guerra contro la madre e contro Karthos, -il quale dopo l’ascesa al trono avrebbe assunto il medesimo nome del padre, Ara-. Quest’ultimo però cadde anch’egli in combattimento e lasciò come erede il figlio Anushavan.

Il monte Arai Lehr in Armenia.

In un’altra versione della storia riveste una parte importante il monte Ara (l’odierno Arai Lehr): infatti il re Ara sarebbe stato gettato sopra la vetta di questa montagna dopo che ebbe rifiutato le profferte amorose di Semiramide e il suo corpo, cadendo sulla sommità della montagna, le avrebbe conferito il caratteristico profilo attuale che ricorda la figura di un uomo disteso. In un’altra variante ancora quando Ara morì fu sepolto da Semiramide alle pendici della montagna, ma il suo spirito si sollevò da terra modellando la vetta con la sua immagine (5)

La storia di Semiramide e di Ara costituisce la vicenda principale del romanzo “Semiramide, racconto babilonese” dello scrittore e patriota italiano Anton Giulio Barrili (1836-1908), pubblicato nel 1895; ed ispirò al poeta armeno del 900 Nairi Zarian (1900-1969) la tragedia “Ara Geghetsik e Shamiram”, considerata un capolavoro della moderna letteratura armena.

Nella figura di Semiramide, quale è stata tramandata dagli autori greci e latini si è operata un fusione tra il personaggio storico della regina assira SHAMMURAMAT, consorte di Shamsi-Adad V, che fu re dall’824 all’811 a. C., e madre di Adad-nirari III (810-783 a.C.), nonché reggente del regno assiro durante la minorità di quest’ultimo dall’809 all’806, e le dee orientali della Terra, della Natura e della fecondità, in particolare Atarath, detta Atargatis o Derketo nell’età ellenistica, la paredra di Adad e dea suprema degli Aramei, e Ishtar, la dea celeste rappresentata dal pianeta Venere, adorata in Mesopotamia, nonché in Fenicia e in Palestina (con il nome di Astarte), che poi nel sincretismo dominate negli ultimi secoli del primo millennio a. C. si sovrapposero e si fusero (conglobando talora anche altre consimili divinità, quali Ashera, Cibele, Anahita, Nanaia, ecc.). Tuttavia mentre Ishtar (come la sua versione greca Afrodite) presiedeva sia all’impulso primordiale che induce gli esseri viventi a perpetuare la loro specie, sia i legami emotivi ed affettivi di qualunque genere, da quelli passionali a quelli familiari, Atargatis incarna la “grande madre”, la Terra, dalla quale tutti gli esseri corporei derivano (come Rea, Cibele, Myrinna, ecc.), ed è quindi di tutti la genitrice, il principio femminile cosmico di aggregazione, che esprime e si espande nei sentimenti costruttivi e socializzanti.

E’ chiaro peraltro che i due archetipi, -che si potrebbero definire della “sposa” e della “madre”-, data l’interpenetrabilità dei loro ambiti  e la complementarietà delle funzioni da esse rappresentate, potevano variamente incontrarsi e sovrapporsi nei miti e nel culto dando luogo a figure che partecipano dell’uno e dell’altro.

Il legame se non l’identità della regina assira con la dea mesopotamica è confermato anche dalla relazione linguistica e semantica tra le due: infatti il nome “Shammuramat” è simile a quello della colomba, -l’uccello sacro a Ishtar- nella lingua assira, “summatay”: secondo altri autori invece “Semiramide” deriverebbe dall’aramaico “sera = montagna” e “hama = colomba”. dunque “colomba della montagna”, forse per indicarne la provenienza dall’alto, dal cielo.

Abbiamo già osservato negli articoli dedicati alle Amazzoni che la “Grande Madre” richiedeva spesso la dedizione totale dei suoi devoti, che poteva giungere all’evirazione, simbolica o reale: questo facevano i sacerdoti della dea frigia Cibele per rimembrare, ma soprattutto partecipare del sacrificio di Attis, che si era evirato per conservare la sua verginità, e dunque rimanerle fedele; e così pure quelli di Atargatis, la “Dea Syria” come veniva chiamata dai Romani. Infatti il culto di tale dea nelle aree siriache ai confini con l’Anatolia si era venuto confondendo con quello di Cibele, come è testimoniato dall’opera di Luciano di Samosata (vissuto nel II secolo) “Sulla Dea Syria”, -del quale abbiamo trattato nell’articolo pubblicato il 26 novembre 2015-, dove viene descritto il celebre tempio dedicato alla dea nella città di Hierapolis Bambyke, -in aramaico Mambug, o Mabog, nome che si continua in quello attuale di Mambij-, situata in Cirrestica, regione dell’alta Siria, ed i riti che vi venivano celebrati; lo stesso autore altresì dichiara che il venerato santuario sarebbe stato fondato proprio da Semiramide, -sebbene poi ricostruito in epoche successive (6). Tra l’altro ricordiamo che, secondo una notizia di Ammiano Marcellino, storico romano del IV secolo di origine antiochena -e dunque proveniente dall’area siriaca- (Rerum Gestarum Libri, XIV), Semiramide sarebbe stata la prima sovrana che introdusse e praticò l’usanza di castrare i fanciulli destinati a diventare funzionari di corte, poiché, non avendo discendenza e non essendo sviati da passioni amorose, si reputava che si sarebbero dimostrati più fedeli e affidabili, -pratica questa poi ampiamente in auge presso le corti orientali, fino all’Impero Bizantino-.

In una delle sue “Fabulae” (n. 197) C. Giulio Igino, mitografo romano di età incerta (probabilmente del I o II secolo)(7), narra che un uovo cadde dal cielo nell’Eufrate, fu portato sulla riva da un pesce e covato dalla colombe. Dall’uovo dischiuso nacque Venere (e di certo qui si intende Ishtar assimilata alla dea latina omologa) che l’autore espressamente identifica nella dea Syria (ovvero Atargatis-Derketo). E dunque per il loro stretto legame con la divinità, i Siriani a detta di Igino non si nutrivano né di Pesci né di Colombe.

Per chi fosse interessato riporto il testo della “fabula”: “In Eufratem flumen de caelo ovum mira magnitudine cecidisse dicitur, quod pisces ad ripam evolverunt, super quod columbae consederunt et excalfactum exclusisse Venerem, quam postea Dea Syria est appellata; ea iusititia et probitate cum ceteros exsuperasset, ab Iove optione data, pisces in astrorum numerum relati sunt, et ob id Syri pisces et columbas ex deorum numeros habentes non edunt” (“Si dice che un uovo di insolita grandezza cadde dal cielo nel fiume Eufrate, che i pesci trasportarono sulla riva. Dopo che le colombe l’ebbero covato, ne uscì Venere che fu poi chiamata Dea Siria; avendo sopravanzato tutti per giustizia e rettitudine, per concessione di Giove i Pesci furono collocati tra le costellazioni e per tale regione i Siri, ritenendoli di natura divina, non si nutrono né dei pesci né delle colombe”).

Fino ad ora non è stato possibile stabilire donde questa narrazione- che certo non è stata inventata da Igino- derivi: nella mitologia babilonese Ishtar era figlia secondo la tradizione prevalente, quella attestata nella famosa “Epopea di Gilgamesh” (tavoletta III) di Anu, dio del Cielo (o del firmamento) e della sua sposa Antum -nome che è il femminile di Anu-; in altre versioni era invece stata generata a Sin, dio della Luna, da sua moglie Ningal, che l’aveva partorita insieme a Shamash, dio del Sole.

Mosaico romano del II sec. con i Pesci proveniente da Thysdrus (El Djem in Tunisia).

Nel mito greco la nascita di Afrodite è descritta da Esiodo nella “Teogonia” (vv. 188-205), per il quale la dea nacque dal sangue di Urano schizzato in mare dopo che era stato evirato dal figlio Cronos; ma in altre fonti, tra le quali i versi dell'”Iliade” (V, 370 e seguenti) e poi la “biblioteca di Apollodoro” (1, 3), Afrodite sarebbe nata dal connubio tra Zeus e la titanide Dione.

Ma in effetti la storia che più assomiglia a quella narrata da Igino è contenuta nel II libro dei “Fasti” di Ovidio: il poeta giunto al mese di febbraio e alla costellazione, o meglio al segno dei Pesci (8), espone la seguente versione sull’origine di tale segno: allorché Tifone, il terribile mostro della cento teste di serpente, -oltre a quella umana-, figlio di Gea e del Tartaro (9), portò il suo attacco agli dei dell’Olimpo, Dione, -antica divinità primordiale in alcune varianti del mito considerata la vera madre di Afrodite (come abbiamo rilevato poc’anzi), ma che qui tende ad identificarsi con la stessa dea-, insieme a suo figlio Cupido, si rifugiò sulle sponde dell’Eufrate (che secondo Ovidio sarebbe in Palestina: ignoranza, o -cosa assai più probabile- licenza poetica per esigenze metriche?) dove la fitta vegetazione di pioppi, salici e canne sembrava offrirle un valido riparo. Mentre se ne stava acquattata nei canneti con il pargolo il soffio minaccioso del vento la fece impallidire ed alla credette che il mostro li avesse scovati. Pertanto invocò  le ninfe del luogo onde averne soccorso e indi si gettò nel fiume col fanciullo. Allora le si appressarono due graziosi e gentili pesci gemelli che li salvarono, e furono poi come premio pel loro aiuto assunti in cielo nella costellazione dei Pesci. Per tale ragione i Siriani, -così conclude Ovidio-, stimano un sacrilegio imbandire pesci nelle mense.

In un’altra opera del summenzionato Igino, il poema didascalico “Astronomica” ( o “De Astronomia”) -II, 30-, che tratta delle costellazioni e altri fenomeni celesti, viene riferita una storia poco diversa da quella narrata da Ovidio, che viene dall’autore attribuita a Diogneto Eritreo, -ma che evidentemente riprendeva un mito già piuttosto diffuso-: anche questi afferma che Venere e Cupido si ricoverarono sulle rive dell’Eufrate per sfuggire all’ira di Tifone. Ma il mostro riuscì a scovarli: pertanto alla sua vista la dea e il pargolo si gettarono nel fiume e si mutarono in pesci (per la qual cosa, -ovvero per la venerazione verso le due divinità-, i Siriani si astengono dal pescare e dal consumare pesci). L’autore aggiunge che, secondo Eratostene, -di Cirene, il famoso astronomo ed erudito alessandrino-, questi due pesci sarebbero stati discendenti del pesce che dà il nome ad un’altra costellazione, il Pesce Australe, sita sotto l’Acquario che sembra deliziarsi del getto d’acqua da questi versato -e che sarebbe quello che aiutò Iside nella sua affannosa ricerca della quattordici parti del corpo di Osiride gettate da Seth (il quale, peraltro, come sappiamo, fu dai Greci identificato proprio con Tifone) nel Nilo per ricomporre il cadavere del suo sposo-.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1)le sue opera storico-geografiche “Persikà” e “Indikà” sono andate in gran parte perdute, ma sono note, oltre che da alcuni frammenti, per i riassunti che di esse si trovano nella “Bibliotheca” di Fozio, patriarca di Costantinopoli del IX sec. -che abbiamo altre volte citato nelle nostre ricerche-, che in questa sorta di monumentale enciclopedia letteraria espone il contenuto di molte opere greche antiche che sarebbero altrimenti ignote; per tale ragione essa è di fondamentale importanza per la conoscenza della letteratura e della filosofia antiche.

2) abbiamo già avuto modo di notare -nell’articolo sull’uccello Rukh del 27 giugno 2014,- che nell’alfabeto fenicio le lettere sono spesso accostate in relazione ad un medesimo ambito semantico: ad es. “hè” = finestra segue “daleth” = porta, “schin” = dente è posta dopo “resh” = testa, e così via).

3) oltre a Erodoto e Diodoro Siculo, Nicola di Damasco, Strabone (Geografia, XVI, 1-2), Valerio Massimo (Factorum et dictorum memorabilium libri novem, IX, 3, ext.4), Eusebio di Cesarea (Chronicon, XX, 13-17, 19-26), Paolo Orosio (Historia adversus paganos, I, 4; II, 7-9) quest’ultimo particolarmente caustico con la regina assira, ecc.

4) peraltro si noti che la figura di Zoroastro (ovvero Zarathustra, il fondatore o riformatore della religione mazdaica) appare in altre tradizioni, come quella attestata dallo storico Giustino, che abbiamo in precedenza citato, quale re della Battriana assediato da Nino, re di Assiria, oltre che inventore della magia (in Diodoro Siculo invece il re di Battriana combattuto da Nino ha il nome di Oxyartes).

5) l’origine della nazione armena va ricercata nell’antico regno costituitosi nel IX sec. a. C. nella regione anatolica a sud del Caucaso, intorno ai laghi di Van e di Urmia. Questo regno, -che aveva come capitale la città di Tushpa (o Turushpa in assiro), sulle rive del lago di Van-, conosciuto con il nome mesopotamico di Urartu e quello ebraico e aramaico di Ararat (come l’omonimo monte) fu fondato probabilmente, -come sembrano dimostrare affinità linguistiche e culturali-, da discendenti del popolo dei Churriti. Questi ultimi nel millennio precedente avevano dato vita a loro volta, tra l’alta Siria e l’Anatolia meridionale, a uno stato, noto con il nome di regno di Mitanni (o anche di Hanigalbat, nell’ultima fase della sua esistenza), il quale dopo un periodo di splendore, divenne sempre più sottomesso e poi pure ridotto in estensione ad opera prima degli Ittiti, e poi degli Assiri. Nel VII secolo subì anche l’invasione dei Cimmeri e degli Sciti, finchè nel 612 a. C. non fu conquistato da Ciàssare, re dei Medi (i quali insieme ai Caldei Babilonesi avevano abbattuto l’Impero Assiro) entrando così a far parte del loro regno, del quale seguì le sorti. Dopo essere stato una satrapia dell’Impero Persiano e poi di quello Seleucide (fondato da Seleuco Nicatore, uno dei “diadochi” di Alessandro Magno), il territorio, -che proprio in quel periodo assunse il nome di “Armenia”-,  divenne un regno semi-indipendente sotto le dinastie prima degli Orontidi e poi degli Artassidi. Il regno di Armenia acquisì grande potenza e splendore sotto il re Tigrane II -detto il Grande-, che riuscì a estendere il suo dominio su tutta l’Anatolia orientale e la Siria, ma alla fine fu sconfitto dai Romani guidati da Pompeo nel 63 a. C. così che il suo regno dovette subire il protettorato romano. Ma il predominio di Roma sulla regione fu aspramente contrastato dal rivale impero dei Parti Arsacidi (che erano subentrati ai Seleucidi in Persia e in Mesopotamia), così che l’Armenia fu alternativamente sottoposta al protettorato degli uni o degli altri, -salvo un breve periodo dal 114 al 117 in cui l’imperatore Traiano riusci a farne un’effimera provincia romana-; fino a quando nel 384 non fu definitivamente divisa tra l’imperatore romano Teodosio e quello sassanide Sapore III (i Sassanidi erano succeduti agli Arsacidi nel 226). Il fondatore del regno dell’Urartu fu Aram  (sovrano dall’858 all’844 a. C.), dal quale dovrebbe derivare il nome Armenia (questo Aram non è da confondere con l’Aram figlio di Sem citato nella Bibbia quale capostipite degli Aramei) e che sarebbe stato il padre di Ara il Bello. Secondo la tradizione accreditata dagli Armeni però il fondatore della loro nazione sarebbe stato il leggendario eroe Haik, che alcuni ritengono una “umanizzazione” del dio supremo degli Urartei, Khaldi e che potrebbe essere anche in relazione con l’Orione della mitologia ellenica. Nell’epoca successiva alla diffusione del cristianesimo fu ritenuto dagli storici armeni, -come Mosè di Khorene (410-490 circa) nella sua “Storia dell’Armenia”-, un discendente di Jafet, -il terzogenito di Noè-, attraverso Gomer, Thiras e Togarmah, nonchè avo di Aram. Egli avrebbe vinto nei pressi del lago di Van l’esercito di Nimrud di Ninive e avrebbe iniziato la fusione dei due popoli. Dal nome di Haik deriva quello che gli Armeni danno alla loro patria, ossia Hayastan (= “Terra di Haik”). Il periodo di maggiore potenza del regno urarteo fu sotto il dominio di Sardur II (764-734), a partire dal quale però si fece sempre più forte anche l’influenza degli Assiri di Tiglatpileser III (744-727). Dal V secolo a. C. l’Armenia assorbì la preponderante influenza culturale persiana e in seguito anche ellenica; la religione ivi praticata prima dell’affermazione del cristianesimo era quella persiana con forti influenze greche e mesopotamiche: le divinità più venerate, insieme con Aramazd (Ahura Mazda), dio supremo, erano Mihr (Mitra), Anahita (Artemide), Nanaia (Atena), Vahagn (Eracle) e Barshamin (Baal-Shamin, il dio del Cielo siriaco-cananeo), divinità importata da Tigrane il Grande nel I sec. a. C. I due laghi di Van (ora in Turchia) e di Urmia (attualmente in Iran), entrambi assai salati, in età romana ebbero il nome rispettivamente di “Arsissa Palus”, o “Thospites Lacus”, e di “Marcianus Lacus”, o “Spauta Palus”.

6) secondo altre tradizioni il tempio nella forma originaria sarebbe risalito niente di meno che a Deucalione, il Noè ellenico, che l’avrebbe fondato dopo il diluvio universale. La ricostruzione di esso avvenne invece per opera di Statonice, moglie di Seleuco Nicatore, uno dei diadochi di Alessandro Magno e primo dei sovrani seleucidi. Per la storia legata a tale evento si rimanda all’articolo suddetto.

7) questa raccolta comprende 277 favole, per lo più assi brevi, -per cui è probabile che fosse una sorta di compendio, di “bignamino” ad uso delle scuole-, che in passato furono attribuite a un più noto scrittore omonimo vissuto in età augustea e autore di diverse opere erudite andate quasi del tutto perdute.

8) si tenga presente che a causa della “precessione degli equinozi” i segni zodiacali che presiedono a ciascuna delle dodici sezioni di 30° dell’eclittica la fascia che il Sole sembra percorrere durante l’anno non corrispondono più alle omonime costellazioni ma sono sfasati rispetto a esse.

9) Tifone era di enorme altezza, con la testa che sfiorava le stelle e le gambe terminanti in code di serpente, era alato e con le braccia aperte poteva toccare da un parte il tramonto e dall’altra l’aurora, mentre eruttava fiamme dalla bocca; il suo assalto agli dei fu l’ultimo tentativo di Gea e delle divinità primordiali di abbattere il nuovo ordine cosmico instaurato da Zeus. Gli dei, colti di sorpresa, fuggirono poco onorevolmente in Egitto trasformandosi in animali (e a questa vicenda alcuni autori attribuirono l’aspetto ferino di molte delle divinità egizie): nella versione data da Ovidio -in “Metamorfosi” V, 326-331- Zeus in Ariete, Apollo in Corvo, Dioniso in Capra, Artemide in Gatto, Era in Mucca bianca, Venere in Pesce (qui il poeta non accenna a Cupido), Mercurio in Ibis; in altre varianti, -ad es. quella riportata da Antonino Liberale in “Metamorfosi” 28-, Apollo si trasforma in Falco, Efesto in Bue, Ares in Lepidoto (pesce del Nilo) -il cui nome in greco significa “squamoso”, o “squamato”- , Eracle in Cerbiatto, Latona -madre di Apollo ed Artemide- in Toporagno; ed in altre ancora troviamo Ares mutato in Cinghiale, Hermes in Cane e Pan in Capricorno, ovvero in un essere anfibio, che univa alla natura caprina propria del dio delle selve la forma acquatica (del mutamento degli altri dei non ho trovato menzione). Zeus però redarguito dalla figlia Atena, -l’unica che non si era trasformata-, e, pentitosi della propria codardia, tentò di combattere il suo potente nemico, ma fu temporaneamente sconfitto dal mostro che lo privò dei tendini; ma poi essi gli furono restituiti e reintegrati nel corpo da Hermes e Pan, così che il re degli dei ritrovò in pieno le sue forze e potè sconfiggere definitivamente Tifone, rinchiudendolo nelle viscere del vulcano Etna, donde continua ad emettere il suo respiro infuocato. Per Esiodo, invece che ne parla in Teogonia, 820-880, il mostro fu scagliato nel Tartaro; sempre secondo Esiodo, Tifone aveva cento mani, cento piedi e cento teste di serpenti, le cui lingue emettevano voci meravigliose e potevano parlare tutti gli idiomi: questi particolari ricordano il drago Ladone, il custode dei pomi delle Esperidi, il quale a sua volta è una probabile versione di Nin-Gizzida, il serpente avvinghiato all’albero della vita nella credenza mesopotamica ripreso nel racconto biblico della Genesi. E in effetti secondo alcune tradizioni mitografiche Ladone era figlio di Tifone e di Echidna, la famosa donna-serpente che fu madre di numerosi mostri (Idra di Lerna, Cerbero, Sfinge, Chimera, ecc.).

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *