LA MORFOLOGIA DELLA COSTA TERRESTRE (prima parte)

Già i filosofi e i ricercatori dell’antica Grecia e dell’antica Roma, -in primis Aristotele e Plinio il Vecchio, ma pure Senofonte ed Erodoto-, avevano constatato come fosse possibile trovare conchiglie e fossili di animali marini in luoghi assai lontani dal mare ed anche in aree montuose, per cui ne avevano giustamente dedotto che la crosta terrestre, sebbene nelle comuni e quotidiane osservazioni apparisse del tutto immobile, -tanto che la terra è considerata per eccellenza il prototipo di quanto è fermo, saldo e stabile-, nel lontano passato aveva dovuto subire dei profondi sommovimenti. Ed in effetti il fatto che quella della Terra fosse un’immobilità solo apparente era suffragato da molteplici fenomeni geofisici e geodinamici che interessano il globo terracqueo, quali terremoti, eruzioni vulcaniche, maree, inondazioni, ecc. e che non era difficile osservare.

Tuttavia con l’affermarsi del cristianesimo e dell’islamismo e della loro interpretazione rigida e dogmatica dei rispettivi testi sacri, prevalse una concezione che considerava la Terra e i tutti i fenomeni che la riguardano, così come tutte le forme di vita, un entità rimasta immutata e immutabile dal momento della creazione divina, e che quindi negava, oltre ai processi evolutivi riguardanti gli esseri viventi, la possibilità di cambiamenti e rivolgimenti sia nella distribuzione delle terre emerse, sia nella morfologia generale della crosta terrestre, -salvo le variazioni apportate dai fenomeni ricordati sopra, i quali, entro lo spazio limitato delle generazioni umane, non sono tali da determinare  stravolgimenti imponenti e durevoli dell’aspetto della Terra-. Lo stesso ritrovamento di fossili di Pesci, Molluschi ed altri animali marini sulle montagne, o comunque in luoghi lontani dal mare, veniva considerato una prova del “diluvio universale”, poiché sarebbe stato quest’ultimo a trasportare tali esseri viventi nelle aree ove essi riapparivano (1).

Fu soltanto dalla metà del XVIII secolo, dopo che le scoperte e le teorie di Copernico, di Keplero e di Galilei da un lato, e i principi fondamentali della fisica moderna, -e in particolare quello della “gravitazione universale”-, formulati da Newton dall’altro, avevano dato una valida spiegazione dei movimenti degli astri, dei moti di rotazione e di rivoluzione della Terra e dell’interdipendenza tra fenomeni cosmici e fenomeni terrestri, che gli scienziati cominciarono a comprendere che il nostro pianeta è un organismo in continuo divenire, tanto per le influenze che esso riceve dalle forze cosmiche, in specie quelle del Sole e della Luna, quanto per le fonti energia endogena che lo plasmano dall’interno.

Tavola delle ere geologiche.

Alcuni antesignani della moderna geologia già sul finire del XVIII secolo avevano imparato a riconoscere i diversi tipi di rocce ignee, quali i diabasi, i graniti e i basalti, che in tempi remotissimi si trovavano allo stato liquido o semiliquido e che poi dalle eruzioni vulcaniche erano state espulse dal grembo della Terra sulla crosta superficiale, dove si erano raffreddate e cristallizzate. Sulla genesi delle rocce si affermò la teoria cosiddetta “plutonista”, sostenuta da James Hutton (1726-1797), secondo la quale la maggior parte di esse ha origine eruttiva e solo in modesta misura sedimentaria. Questa teoria si contrapponeva a quella “nettunista”, formulata dal tedesco A. Gottlib Werner (1750-1817), che attribuiva la formazione della roccia soprattutto alla sedimentazione marina protrattasi durante lunghe ere geologiche. La teoria “plutonista” fu confermata dagli esperimenti del geologo e fisico scozzese James Hall (1761-1832), il quale raffreddando alcune rocce fuse constatò che non si otteneva vetro, ma un minerale a struttura cristallina, e in seguito ulteriormente corroborata quando agli inizi dell’800 si scoprirono antichi vulcani estinti in località dove non ne esistevano più, nè in età recenti si registrava alcuna traccia di attività geodinamiche, come in Francia, in Germania e in Gran Bretagna. Altri scienziati, come il tedesco Leopold von Buch (1774-1853), osservarono che se importanti fonti di calore provenienti dalle viscere della Terra si fossero spinte verso la superficie, si sarebbero avute delle pressioni di tale potenza da sollevare catene montuose; mentre il geologo francese Jean-Baptiste Elie de Beaumont (1798-1874) per parte sua affermava che se l’interno del nostro pianeta è caldo, anzi caldissimo, come si deduce dalle lave che fuoriescono nelle eruzioni vulcaniche, esso sarebbe in fase di progressivo raffreddamento: in tempi antichissimi anche la superficie doveva essere incandescente, ma gradualmente essa si raffreddò e si solidificò, consentendo così il nascere della vita. In conseguenza di tale raffreddamento il nucleo interno della Terra deve subire a sua volta un processo di riduzione del volume: come in una mela quando avvizzisce e si secca, mano a mano che l’interno si contrae, la buccia diviene più rugosa.

Alle importanti ricerche dei summenzionati studiosi fecero seguito quelle dello svizzero Hans C. Escher von der Linth (1767-1823), che dimostrarono come le rocce alpine, in origine disposte in strati piatti e di uniforme spessore come i sedimenti sul fondo degli oceani, si erano poi ripiegate e corrugate per effetto delle forze endogene della Terra: un esempio emblematico e illuminante di cotale processo potevasi osservare sulle sponde del lago di Lucerna, dove i piegamenti impresse dalle forze telluriche appaiono ben evidenti anche all’osservatore più distratto; e che le montagne, e in maniera analoga le fosse oceaniche, corrispondevano ad aree di frattura che si erano create a causa delle contrazioni degli strati inferiori della Terra rispettivamente nei punti in cui la crosta terrestre si era innalzata e in quelli in cui si era abbassata.

Venne formulata allora la teoria della contrazione con la quale insieme a quella parallela della permanenza dei continenti e degli oceani, secondo la quale, sebbene talora parti di continenti vengo sollevate a costituire catene montuose o sprofondino negli oceani, la forma e caratteristiche fondamentali dei continenti e degli oceani rimangono costanti.

Ma fu soprattutto la teoria della “deriva dei continenti” che diede una svolta fondamentali agli studi sulla morfologia terrestre. Fin dal 1620 il filosofo Francis Bacon aveva notato la singolare coincidenza tra le coste dell’America meridionale e quelle dell’Africa occidentale e molto più tardi, nel 1858, A. Snider aveva formulato l’ipotesi che i continenti attuali fossero derivati dalla frammentazione di un unico grande unico continente. Codesta geniale ipotesi che in un primo tempo non aveva avuto alcun seguito, fu ripresa e perfezionata agli inizi del 900 da Alfred Wegener: egli studiando in modo approfondito le caratteristiche fisiche, spaziale e geologiche delle coste dei paesi situati sui lati opposti dell’oceano Atlantico ebbe modo di constatare che le pieghe caledoniane della Groenlandia e della porzione nord-orientale di Terranova sembravano potersi incastrare esattamente con quelle della Norvegia, della Scozia e dell’Irlanda, mentre i tipi di roccia propri delle due sponde si rivelavano identici e pure i fossili rinvenuti in quelle terre appartenevano alla medesima era geologica, il Paleozoico. Pertanto le due diverse sponde dell’oceano appaiono speculari l’una con l’altra, ma mentre in Groenlandia le pieghe di corrugamento erano state spinte in alto verso l’interno del continente americano, verso occidente, in Scandinavia e nelle isole britanniche le pieghe risultano rivolte verso est.

Un sistema di piegamenti meno antico, risalente al tardo Paleozoico, la cosiddetta “fascia ercinica (o varisica)”, si distende attraverso l’Europa centrale, prolungandosi poi nella zona sud-occidentale delle isole britanniche. Nell’Irlanda occidentale le montagne si ripiegano dirigendosi verso il mare: esse non degradano in modo graduale, ma

Ancora più evidente è la corrispondenza che si può rilevare tra le sponde dell’America meridionale e dell’Africa e Wegener osservò inoltre che non soltanto i contorni dei continenti collimavano perfettamente, ma pure i caratteri geologici delle loro fasce marittime erano assai simili. Il substrato roccioso risaliva in entrambi i continenti al Precambriano, con rocce cristalline di diversi tipi. La successiva datazione eseguita per mezzo dei rodioisotopi ha evidenziato un sistema complesso con minerali di varie età, ma del tutto simili nella loro struttura, per non dire identici, sulle due sponde dell’Atlantico, quali fossero le due parti della pagina di un libro strappata a metà.

Anche per quanto riguarda le terre che si affacciano sull’oceano Indiano si può osservare una significativa corrispondenza tra i loro contorni, sebbene meno netta che quella tra le coste dell’Africa e dell’America meridionale: il profilo del Madagascar aderisce a quello dell’Africa orientale, mentre le coste dell’India collimano, ancorché in modo approssimativo, con lo stesso Madagascar e con il continente antartico, e il profilo dell’Antartide orientale si adatta perfettamente alla costa meridionale dell’Australia.

In un primo tempo la geniale teoria di Wegener fu accolta con molta freddezza e diffidenza negli ambienti accademici, poiché si riteneva impossibile che enormi blocchi continentali potessero scivolare sulla superficie semiliquida del globo terracqueo; ma in seguito essa ricevette numerose conferme sperimentali in particolare dalle ricerche del geofisico inglese Edward Bullard, il quale, cinquant’anni dopo la formulazione della “teoria della deriva dei continenti”, sottopose ad una approfondita analisi i minerali e i terreni che costituiscono i margini dei continenti riscontrando una completa perfetta concordanza tra di essi.

In parallelo a codeste teorie e ricerche che dimostravano la pristina unità, o unione tra le Americhe, l’Europa e l’Africa, altre osservazioni sembravano suggerire che l’India e l’Asia meridionale in genere non appartenessero dal punto di vista geologico, e in parte anche naturalistico, al continente euro-asiatico, e ne fossero in tempi antichissimi separate. Già Charles Darwin durante la sua famosa spedizione dalle cui ricerche scaturì la teoria dell’evoluzione (o per meglio dire la versione che gli ne diede, poiché come ben sappiamo già in precedenza erano state formulate ipotesi evoluzionistiche, tra le quali spicca quella del Lamarck) ebbe a constatare che nell’America e nell’Africa meridionali e in Australia era oltremodo diffuso un tipo di arenaria gialla formatosi nell’era Mesozoica, di cui non vi è traccia in Europa e nell’America settentrionale. Questo minerale non è di origine marina, ma era accumulato a seguito dell’azione ininterrotta di fiumi, laghi e paludi.

Fossile di “Glossopteris”.

L’arenaria gialla racchiudeva importanti depositi carboniferi che non si riscontravano nelle coeve formazioni geologiche dell’emisfero settentrionale, e in cui risaltava la presenza di fossili di felci del genere Glossopteris, pure essa mancante nelle terre settentrionali; più tardi furono scoperti anche resti fossili di Mesosauri, rettili vissuti nel Permiano, che finora risultano presenti solo nell’emisfero meridionale, e di rettili dei generi Lystrosaurus e Cynognathus (ritenuti antenati dei Mammiferi) del Triassico inferiore (e/o medio).

Successive osservazioni effettuate nella seconda metà del XIX secolo evidenziarono che quel medesimo tipo di arenaria gialla con i suoi caratteristici fossili dominava anche nell’Antartide e in India: pertanto si trasse la conclusione che parti della superficie terrestre oggi separate (America meridionale, Africa, India, Australia, Antartide) in ere geologiche antichissime fossero congiunte a formare un unico continente al quale nel 1895 il celebre geologo austriaco Eduard Suess (1831-1914) diede il suggestivo nome di “Gondwana”, derivato da quello di una popolazione dell’India centrale, i Gond (al riguardo si veda anche la prima parte di I CONTINENTI SCOMPARSI TRA SCIENZA E MITO del 27 marzo 2013).

Analoghe somiglianze furono scoperte nei terreni e nelle formazioni geologiche tipiche delle masse terrestri settentrionali, per cui si comprese che in tempi remoti i due emisferi, settentrionale e meridionale, erano contraddistinti da due grandi continenti uno a sud, il Gondwana, e uno a nord, al quale si attribuì il nome di “Laurasia”, derivato da quello del fiume San Lorenzo negli USA, -il quale a sua volta aveva dato il nome a “Laurentia”, il proto continente nord-americano-, con l’aggiunta di Eurasia. Codeste enormi masse continentali da un ramo oceanico ancestrale ad andamento est-ovest, chiamato “Tetide”, del quale l’attuale mare Mediterraneo è l’ultimo residuo.

Tuttavia secondo il Wegener in età ancora più antica le due masse erano congiunte in un unico immenso continente che egli denominò “Pangea” (“Tutta terra” o “Tutta la Terra”), circondato da un oceano che concentrava in sé la totalità dell’acqua salata (e che ricorda quindi il mitico Oceano della mitologia greca che abbracciava entro di sè l’insieme delle terre emerse), la “Panthalassa” (“Tutto il mare”). A partire dall’inizio del Mesozoico -era che durò da 251 a 65 milioni di anni fa-, il grande continente cominciò a fratturarsi e a poco a poco le due parti, settentrionale e meridionale, come abbiamo detto sopra, si separarono. Tuttavia mentre il Gondwana continuò a rimanere un’entità compatta per lunghe ere geologiche (salvo modeste variazioni nelle coste), la Laurasia cominciò ben presto a frantumarsi a sua volta in diversi blocchi, alcuni dei quali peraltro in epoche successive tornavano a riunirsi, urtandosi in diversi punti. In tal modo venne a crearsi quello che era l’oceano Atlantico primordiale (detto “Giapeto” dal nome dell’omonimo titano), che però a causa dei numerosi movimenti e mutamenti nella conformazione delle masse terrestri che lo circondavano, variava spesso per ampiezza e profondità, giungendo talora a chiudersi del tutto (e di conseguenza pure la Tetide si restringeva o si allargava. Questo processo di continua modifica nelle dimensioni del “Giapeto” e di altri mari minori intercontinentali fu denominato “ciclo di Wilson”, in onore del geografo canadese John Tuzo Wilson (1908-1993), che lo scoprì nel 1963 e che rappresenta anche uno dei punti qualificanti nella teoria della “Tettonica a zolle” (ossia dell’esistenza di grandi blocchi di magma -“zolle”- che si scontrano continuamente generando terremoti ed altri fenomeni geodinamici).

Avvicendamento presunto delle glaciazioni.

Tuttavia il dato scientifico che più meravigliò i ricercatori fu la scoperta delle tracce di antiche ere glaciali in tutte le aree che avevano fatto parte del proto-continente di Gondwana. Già nel corso del XIX secolo William T. Blanford (1832-1905), geologo e naturalista britannico alle prime armi, durante alcuni rilevamenti nei terreni dell’India centrale si imbattè in un certo numero di rocce striate tipiche delle morene glaciali site sopra un substrato massiccio contrassegnato da profonde scanalature, inequivocabile indizio che tali reperti avevano attraversato un’antica era glaciale. A codesti depositi morenici, al cui formazione, grazie ai fossili in essi rinvenuti al tardo Carbonifero e/o al Permiano (intorno ai 280-300 milioni di anni fa), fu attribuito il nome di “tilliti”. L’eccezionale importanze della scoperta di Blanford risiedeva soprattutto nella circostanza che essa era avvenuta in mezzo alle savane tropicali dell’India peninsulare.

Pochi anni dopo simili ritrovamenti di tilliti furono fatti anche in Australia, e in seguito pure in Africa e in America meridionale, ed infine in Antartide, e si ebbe così la conferma della primordiale unità di tali masse continentali, nonché della “deriva dei continenti”, da momento che nelle attuali condizioni meteorologiche e climatologiche formazioni geologiche di questo tipo non avrebbero potuto crearsi a latitudini equatoriali e tropicali.

In seguito furono scoperte altre testimonianze degli sconvolgimenti climatici che avevano interessato il globo in epoche remote: nella Tasmania occidentale si riscontrò che erano presenti strati di tre ere glaciali: l'”eocambriana” (600 milioni di anni fa), la “permocarbonifera” (circa 300 milioni anni fa) e la “quaternaria” (2 milioni di anni or sono); tracce di ere glaciali più antiche vennero scoperte in altri luoghi, come ad esempio nel mezzo del Sahara, ove ne fu identificata una risalente a 450 milioni di anni fa. Da tali scoperte si trasse la conclusione che sulla Terra si era abbattuta una serie discontinua di periodi con clima glaciale, e per spiegare la loro ricorrente comparsa furono formulate alcune ipotesi di cui quella ritenuta la più probabile, o comunque la più seguita, attribuisce le glaciazioni a cause astronomiche. Sappiamo infatti che la Via Lattea, -la nostra galassia-, compie un giro completo intorno al suo centro, -occupato secondo le più recenti teorie da un gigantesco “buco nero”-: di conseguenza tutti i corpi celesti che ne fanno parte, -e dunque anche la Terra-, devono attraversare a intervalli regolari un enorme campo gravitazionale denso di polveri interstellari noto con il nome di “Nube di Magellano”. Nel periodo in cui il nostro pianeta passa entro la “Nube di Magellano”, oppure si trova nel punto opposto, e dunque ogni 150 anni, si determinerebbero le ere glaciali per effetto analogo a quello prodotto dagli allineamenti della Terra con la Luna (le cosiddette “sizigie”) che causano le maree; a codesta causa principale si aggiungerebbe, allorché la Terra entra direttamente nella “Nube”, l’effetto delle polveri cosmiche che diminuirebbero l’irradiazione della luce solare, e in questo secondo caso la diminuzione di temperatura e la conseguente la glaciazione sarebbe pertanto più accentuata e più lunga.

Dai più si ritiene tuttavia che entrambe queste cause non siano di per sé sufficienti a determinare l’avvento di un’era glaciale e che un’azione fondamentale nella genesi di essa sia esercitata dagli oceani. Abbiamo visto sopra come le distese d’acqua marina che interpenetravano il complesso delle masse continentali, -ossia la “Tetide”, tra la Laurasia e il Gondwana, e il “Giapeto” tra la proto-America settentrionale e la proto-Eurasia-, fossero soggette ad alternative di espansione e di restringimento, fino al punto nel caso del proto-Atlantico, di rinchiudersi dal tutto: ebbene nei periodi durante i quali le distese d’acqua erano al massimo della loro ampiezza, o comunque in misura sufficiente a consentire una vasta circolazione di acque tra la “Panthalassa” e i mari interni alle masse continentali, l’oceano agiva alla maniera di un termostato mantenendo relativamente fresche le regioni equatoriali entro cui circolava e nel medesimo tempo, dirigendo le sue correnti verso i poli, permetteva alle regioni polari di rimanere a temperature abbastanza miti. Al contrario ciascuna volta le vie d’acqua si restringevano o si ostruivano, impedendo così la circolazione delle acque e l’effetto termoregolatore da esse esercitato, subentrava un periodo glaciale.

Nel 1924 Hans Stille avanzò l’ipotesi che pure l’innalzamento delle montagne fosse da ascrivere ai movimenti tellurici e che la crosta continentale terrestre si fosse formata e consolidata attraversando successive fasi di accrescimento e di sviluppo. Su ciascun continente lo scienziato berlinese distinse fasce che risalivano ad epoche più antiche ed altre più recenti e che, per quanto riguarda l’Europa, indicò coni nomi di Eo-, Paleo-, Meso- e Neo-Europa, suggerendo a, naloghe denominazioni per gli altri continenti; ma fu soltanto negli anni 60 e 70 si giunse a formulare una teoria della “tettonica a zolle” completa e coerente che potesse spiegare tutti i sommovimenti e i mutamenti del globo terracqueo.

Analogamente, per spiegare le variazioni nel livello degli oceani, dopo che nella prima metà dell’800 si ammise l’idea del ricorrente avvicendarsi sulla Terra di ere assai fredde o glaciali, fu elaborata la teoria dell'”eustatismo”: apparve infatti evidente che essendosi congelata una quantità di acqua pari a ben 70 milioni di km cubi, accumulatisi intorno e sopra le terre emerse, il livello degli oceani doveva essere alquanto diminuito; ed inversamente allorché il ghiaccio si scioglieva, il livello delle acque oceaniche tornava ad aumentare: questo fenomeno è stato detto “eustatismo glaciale” ed è il solo tipo di eustatismo che finora sia stato dimostrato con certezza.

Ma vi può essere un altro modo di cambiare il livello delle acque marine senza alterarne il volume, ovvero se si modifica la forma del contenitore. Il compiersi di tale processo può essere compreso tramite un semplicissimo esperimento: se si riempie fino all’orlo un bicchiere d’acqua e vi si immergono poi le dita l’acqua trabocca a causa dell’introduzione delle dita che ha ridotto il volume del contenitore e di conseguenza lo spazio per il liquido. Il medesimo avviene in natura: il sollevamento di una dorsale oceanica o di una catena montuosa continentale diminuisce in maniera anche notevole la capacità dei bacini oceanici, così che l’acqua invade terre prima emerse e si innalza il livello dei mari; inversamente quest’ultimo si abbassa a causa dello sprofondamento o dello spostamento di un porzione continentale che genera un nuovo specchio di mare: quest’ultimo tipo di modifica nella distribuzione delle terre de i mari è definito “eustatismo tettonico”.

Nella storia della Terra si può osservare una costante alternanza tra fasi di espansione delle acque, o di inondazione, o “trasgressive” (“cicli talassocratici”) e fasi di contrazione o ritiro delle stesse, o “regressive” (“cicli epirocratici”): sembra che tale processo di alternanza per cui il mare invade periodicamente la superficie continentale per poi lasciarla di nuovo scoperta si compia con andamento ciclico della durata di circa 80 milioni di anni: all’avanzamento delle terre emerse corrispondono le grandi glaciazioni poiché parte dell’acqua si è trasferita sulla terra in forma di ghiaccio.

Se, come abbiamo visto sopra, gli antichi continenti si sono suddivisi in parti minori che tendevano ad allontanarsi progressivamente le une dalle altre sembra plausibile supporre che esse prima  o poi, -entro i lunghissimi spazi delel ere geologiche, s’intende-, finiscano per incontrarsi ed entrare in collisione. La scoperta entro le grandi catene montuose di rocce ripiegate su stesse derivati da antichi strati sedimentari che in origine si estendevano sul fondo degli oceani, ha indotto a postulare l’intervento di un processo orogenetico tale da ver provocato il loro corrugamento. L’ipotesi della contrazione parve dare una spiegazione organica a tale fenomeno, sia nella variante della “teoria del risucchio” elaborata nel 1906 dall’austriaco Otto Ampferer dopo che ebbe osservato che lo strato roccioso delle Alpi meridionali si insinuava al di sotto delle Alpi centrali, mentre la fascia settentrionale delle medesima catena alpina scivolava verso nord nell’entroterra europeo; sia nel modello della “subduzione” proposto mezzo secolo più tardi dallo svizzero Amstutz, per il quale allorché due masse continentali collidono quella che si spinge o si applica verso l’altra, si insinua o scivola sotto di essa. Nel 1922 Emile Argand ipotizzò che il subcontinente indiano, -ossia una parte del Gondwana-,  si era incastrato in questo modo nel continente eurasiatico, determinando così la formazione della catena dell’Himalaya e il sollevamento dell’altopiano del Tibet.

Ma in seguito apparve evidente che la teoria della subduzione non era del tutto corretta e non bastava a spiegare l’orogenesi di tutti i sistemi montuosi del globo con unico tipo di causa efficiente e che le catene montuose non si erano formate sempre in seguito ad una collisione tra masse continentali, ma il più delle volte  nel quadro di un processo continuo avente la durata di molti milioni di anni. Per quanto riguarda l’evoluzione del sistema alpino ad esempio è certo che durante l’era Cenozoica, -durata da 65 a 2 milioni di anni or sono-, si sono succeduti numerosi cicli strettamente collegati all’alternarsi dell’allargamento e del restringimento del bacino della Tetide (e talvolta alla sua completa chiusura): non vi fu un’unica e semplice collisione frontale tra Africa, -che premeva, e preme tuttora in direzione nord-, ed Europa, ma si presume che blocchi di crosta terrestre di ampiezza relativamente modesta, separati da mari minori, abbiano subito una rotazione che li deformò e ne provocò la subduzione. Ad esempio, nel coso del Miocene superiore, circa 20 milioni di anni fa, la Tetide si era pressoché prosciugata, lasciando solo alcuni mari chiusi; nel Miocene medio si ebbe una graduale espansione delle acque lasciando però nella Tetide occidentale, tra la Paleo-Africa e la Paleo-Europa, vasti blocchi terrestri dei quali i principali furono la Tirrenide, che andò poi a costituire la penisola italiana, l’Egeide settentrionale (antenata della penisola balcanica) e l’Egeide meridionale (la futura Anatolia), oltre a diverse isole minori. Il Pliocene (tra 5 e 2 milioni di anni fa) vide un nuovo avanzamento delle terre emerse, ma in misura minore rispetto al periodo precedente, e soprattutto nella porzione orientale della Tetide; in quel periodo dell’attuale Italia erano emerse soltanto le aree corrispondenti grosso modo alle Alpi e agli Appennini attuali, mentre le rimanenti terre giacevano sotto le acque.

La fascia alpina che si snoda nell’Europa meridionale, prolungandosi ad altri sistemi montuosi, come il Caucaso, e si riconnette alla cintura himalayana in Asia e indi nella cintura circumpacifica, segna in pratica insieme alle altre elevate catene di montagne la fratturazione della crosta terrestre in blocchi di grande estensione, ma pure di considerevole complessità.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) il rinvenimento di reperti fossili fin dalle età più antiche suscitò la curiosità e l’interesse dei naturalisti che si chiedevano come si fossero formati e quale fosse la loro reale natura. Aristotele, -come già abbiamo visto nella prima parte della trattazione sulla tassonomia delle specie animali e vegetali del 20 marzo 2017-, riteneva che gli esseri viventi fossero il risultato dell’azione di una forza, la “vis formativa”, o “vis plastica”, che anima la natura e infondendosi nella materia e vivificandola crea gli esseri viventi: secondo l’illustre filosofo e naturalista i fossili sarebbero stati la testimonianza di tentativi falliti della “vis formativa” che talvolta non riusciva a dar vita ad un essere completamente formato.

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