GARIBALDI SCRITTORE (terza parte)

Nel romanzo “Cantoni il volontario” di particolare interesse è un racconto che occupa il capitolo XXX e l’inizio del XXXI e che è considerato dai critici, – i quali in genere hanno emesso giudizi piuttosto severi sull’attività letteraria di Garibaldi-, una delle sue migliori prove in veste di narratore (si veda al riguardo il saggio di F. Tempesti “Garibaldi scrittore”).

Questo racconto viene narrato da uno dei volontari giunti dall’Uruguay nel 1848 per portare il loro contributo alla prima guerra d’indipendenza e ai tentativi insurrezionali che la accompagnarono e la seguirono (purtroppo con esito infausto sul piano degli effetti immediati, ma che diedero comunque nuovo slancio e impulso per le imprese che un decennio dopo avrebbero condotto con successo alla liberazione della patria e alla costituzione dello stato unitario dopo secoli di divisioni e di dominazioni straniere).canton1 Il nome di questo volontario era Giacomo Minuto, soprannominato “Brusco”, nell’imminenza della vittoriosa battaglia del 30 aprile nella quale gli eroici difensori della Repubblica Romana riuscirono a respingere il tentativo delle truppe francesi del generale Oudinot di espugnare Roma.

Di Brusco, -il quale “era veramente brusco col nemico”-, si dice che “marciando al nemico in fronte d’una colonna di militi, ispirava loro fiducia ed era ammirabile di valore e di sangue freddo”. Lo scrittore aggiunge inoltre che “il vaiuolo aveva segnato il marziale suo volto, ma non alterato il suo contegno guerriero. Alto di statura, ampio di petto e nerboruto, questo prode figlio della Liguria era del resto un perfetto atleta”.

Anche la storia narrata da Brusco, ambientata nell’America Latina, e precisamente a Montevideo, -città donde egli come abbiano detto proveniva e che come è noto anche Garibaldi ben conosceva, avendovi trascorso alcuni anni della propria vita- appare intrisa di acceso anticlericalismo; il protagonista è un religioso rappresentato come un classico esempio di finto ascetismo, di falsa virtù e di simulata pietà che ammantano avidità e lussuria e viene così descritto: “Nella cattedrale di Montevideo […] v’era un frate, che si diceva venuto da Terra Santa, e portatore di preziose reliquie. Egli era un uomo sui quaranta, corpulento e sull’ipocrita sua fisionomia si notavano, da un occhio esperto, le tracce della lussuria. I suoi devoti li dicevano effetti d’astinenze e mortificazioni”.

Per abbindolare gli ingenui fedeli disposti a credere alle sue menzogne si serviva, oltre che dei modi insinuanti e dell’eloquio suadente, di una quantità di reliquie fasulle che asseriva di aver portato seco dalla Terra Santa: “Egli avea dei mosaici del Santo Sepolcro, delle olive che avea lasciato Cristo nel giardino egli Olivi, ove egli si cibò, dopo l’orazione, di quelle frutta, e che miracolosamente si conservano ancora intatte ai giorni nostri. Un occhio di Santa Tecla, uno stinco di San Tommaso […] e credo anche un osso del dito di Giosuè con cui quel generale ebreo fermava il Sole. Ma ciò che più millantava il mascalzone e che spacciava come infallibilmente miracoloso era un crocifisso di legno della vera croce, e questo potea chiamarsi il suo cavallo di battaglia, giacchè altro non era che un magnifico pugnale a cui la parte inferiore del crocifisso serviva di astuccio e la superiore d’impugnatura”.

A Montevideo Brusco, -che si trovava in Uruguay per combattere contro l’esercito del dittatore argentino Rosas dopo che questi aveva occupato una buona parte del paese- aveva una fidanzata, Dolores, la quale è descritta come “un perfetto rampollo di quella razza [cioè della razza iberica, “con accrescimento di disinvoltura e fierezza” indotte dalla vita avventurosa in America], facile a discernersi dal grazioso portamento della persona, dalla capigliatura d’ebano e dall’occhio nero arcato”. Dolores, orfana di entrambi i genitori, viveva con una zia, donna Rita, che si era lasciata irretire dall’aura ingannevole di santità di fra’ Zebedeo, -chè così chiamavasi il “chercuto” (come Garibaldi definisce spesso i religiosi)- e ne magnificava le presunte virtù. Donna Rita convinse la nipote ad accompagnarla nella cattedrale ad ascoltare la predica del frate, ma non appena lo sguardo di costui si posò sulla leggiadra fanciulla, immediatamente se ne invaghi e non pensò ad altro che a farla sua.

Le cupide occhiate di fra Zebedeo non sfuggirono a Brusco, il quale per stare appresso alla sua amata, l’aveva seguita nel tempio, suscitando in lui una violenta agitazione di ira e di gelosia. Il prete, approfittando dell’ascendente che esercitava sulla zia di Dolores, era riuscito ad essere accolto come ospite abituale nella dimora delle due donne, ma evitava di recarvisi quando avrebbe potuto incontrarvi Brusco in visita alla sua fidanzata e sceglieva dunque i momenti in cui sapeva ch’egli doveva assolvere ai suoi doveri di legionario.

Ora accadde che una sera, a seguito di un falso allarme, che l’aveva condotto nei pressi della casa di Dolores, Brusco spinto dal desiderio di rivedere la sua bella, vi si recò. Entrato a forza nella camera di lei, trova una scena alla quale mai avrebbe voluto assistere: Dolores distesa a terra priva di sensi mentre il frate si era acquattato dietro il letto. Vistosi scoperto, egli minaccia di colpire al cuore la donna con il crocifisso-pugnale che brandiva. Il tentativo del milite di disarmare fra Zebedeo non ha buon esito: egli non riesce a immobilizzare il perfido religioso, cosi’ che questi, dando seguito alla minaccia da lui profferita, lo immerge nel petto della fanciulla. Quasi impazzito per dolore ed ira, Fusco a sua volta uccide il malandrino e dopo aver tenuto tra le sue mani il volto della fanciulla, in una sorta di stato confusionale, si dilegua.

Questa tragica storia riflette con tutta evidenza l’analoga situazione in cui era venuto a trovarsi il protagonista del romanzo, Achille Cantoni, il quale aveva dovuto vedere la sua amata Ida oggetto delle brame immonde del prete Gaudenzio.

La rocca di San Leo.
La rocca di San Leo.

Quest’ultimo poi, con la complicità di un confratello l’aveva rapita e condotta nella fortezza di S. Leo, -della quale abbiamo detto nella parte precedente-; ella fu alla fine liberata dall’intervento di Zambianchi, uno dei compagni di Cantoni, proprio allorchè, nonostante il suo disperato sforzo di sfuggire alla stretta del lussurioso sacerdote, stava per soccombere alla sua turpe libidine.

Il grande patriota ebbe l’acuta percezione (si veda ad esempio il XIV capitolo di “Cantoni il volontario”) dell’incongruenza e dell’intimo contrasto insito nel cristianesimo, massime nella forma datagli dalla chiesa cattolica romana,  tra la proclamata estraneità e rifiuto del potere terreno e la pretesa di esercitare il più profondo e completo potere che possa esistere, quello sulle coscienze,- il quale, inevitabilmente, comporta un’influenza, diretta o  indiretta sul dominio terreno, sulla politica e sull’economia-. A questo si aggiunga la convinzione di essere, -o dover essere- una società distaccata dalle vanità mondane, -sia pure in grazia di una redenzione divina-, povera e santa mal si concilia con l’aspirazione ad estendere il suo insegnamento, la sua influenza e la sua guida alla moltitudine, se possibile all’umanità intera, costituita di regola di individui assai limitati e imperfetti, e per sua stessa definizione “peccatori”; di conseguenza l’accettazione di compromessi e il coinvolgimento sempre più pesante, favorito anche da circostanze storiche, nel potere temporale. Di qui la nefasta commistione che ha caratterizzato il cristianesimo occidentale e la chiesa cattolica in particolare tra politica e relgione.

Se di certo Garibaldi dimostra attraverso le esplicite affermazioni contenute nelle sue opere di non avere una fede e una religiosità inquadrabile nelle religioni teistiche, in modo altrettanto esplicito egli proclama la sua idea di un Universo spirituale e di un Infinito non riducibile alla mera esperienza materiale; idea, e ideale, che risalta in molte delle riflessioni che appaiono sovente inserite nei suoi romanzi:

“E’ consolante però ed onorevole per l’umanità l’innalzamento di uomini coraggiosi che sui rottami delle botteghe pretine e delle loro rivelazioni e menzogne edificano il tempio della Ragione e del Vero. Tempio che posa le sue fondamenta sull’Infinito, tocca colla cupola l’Infinito, ha per luminari i fati e l’Intelligenza Universale ed infine per regolatore l’Infinito” (cap. XXV).

“Sì vive, anche sotterra Daverio (1), vivono i valorosi suoi compagni caduti sulla terra romana e vivranno e saran ricordati dalle genti sino alle più remote generazioni, quando il fiume della ragione signoreggiando l’Italia, ne lavi le brutture […] quella fascia azzurra che circonda i monti e l’Infinito! E chi oserebbe trovarvi un limite? Colui che di mondi seminò l’Infinito, ne segnò l’orbite e le leggi regolatrici, ne è la mente, lo spirto, l’intelligenza, l’anima, -è l’Infinito.

E l’anima mia che penetra nelle latebre dell’Infinito, non lo può definire, ma lo concepisce, ne regge una particella materiale, infinitamente minima, è essa stessa mente, spirito, intelligenza, parte dell’Infinito? Sì! io credo nell’immortalità dell’anima, e mi compiaccio nell’idea che mia madre al mio capezzale, mio padre ed i miei cari, martiri d’una causa santa, corrispondano ancora all’affetto mio”.

E ancora nel primo canto, -nel quale celebra l’isola di Caprera, luogo in mezzo alla cui natura aspra e incontaminata poteva ritemprare il suo spirito,- del “Poema autobiografico” possiamo leggere questi versi dove lo slancio lirico si trasfonde in una sorta di volo mistico, pur se intonazione nettamente pantestica:

“Io l’Infinito qui contemplo, scevro / Dalla menzogna, ed allor quando l’occhio / Mi si profonda nello spazio, a Lui / Che seminò di Mondi, un santuario / Erger sento nell’anima: scintilla / Vicinissima al nulla, ma pur parte / Di quel tutto supremo. Oh! sì di Dio! / Sì! particella dell’Eterno sei, / Anima del proscritto!”. In una nota esplicativa l’autore precisa: “Per Infinito intendo anche Dio, l’Universo, il Creato”.

Veduta di Caprera.
Veduta di Caprera.

Dunque la filosofia e la visione cosmologica ed antropologica del Nostro, come può vedersi, non sono affatto materialistiche ed atee, -come spesso a torto affermano i suoi nemici, di allora e di oggi, volgari e arroganti sostenitori di “trono e altare”, di papa, Asburgo e Borbone-; al contrario sono ispirate ad un potente afflato verso l’Infinito, da uno slancio verso lo Spirito, non disgiunto dalla fede in una evoluzione dell’uomo che si fondi sull’interiorità e da essa si sviluppi. Tale visione si colloca nei principi della Massoneria alla quale come è noto Garibaldi aderiva e nella quale aveva raggiunto il 33° grado nel Rito Scozzese Antico ed Accettato. Tra l’altro dobbiamo ricordare che l’eroe ebbe tra le sue numerose ammiratrici anche la celebre teosofa Helena P. Blavatsky, -della quale abbiamo diverse volte parlato nei nostri articoli-, che l’aveva conosciuto durante la sua permanenza in Italia. Ella non aveva esitato ad accorrere in suo aiuto nella battaglia di Mentana, svoltasi il 3 novembre 1867, -sfortunato tentativo per strappare Roma alla tirannia papale, come al solito difesa dalle armi di Napoleone III-. In quella circostanza la Blavatsky fu anche colpita da due pallottole francesi; creduta morta, fu gettata in una fossa comune, donde fu poi salvata, secondo la leggenda, dai misteriosi maestri della “Grande Fratellanza Bianca”.

E’ certo però che la fondatrice della “Società Teosofica”, divenuta anche la più autorevole propagatrice del pensiero filosofico e religioso orientale in Europa e in America, volle indossare in pubblico la camicia rossa garibaldina e mostrare le sue ferite al braccio, che testimoniavano la sua partecipazione alla sfortunata impresa del 1867. E alla Blavatsky si deve anche  la diffusione del mito di Garibaldi in India, dove contribuì a ispirare la lotta per l’indipendenza dell’Indostan e dove nelle epiche gesta dell’eroe nizzardo si videro analogie con quelle dei protagonisti del “Mahabharata”, il poema epico nazionale indiano, tanto da indurre diversi pensatori indiani a ritenere il condottiero italiano un illuminato. Infatti Lala Lajpat Rai (2) nel 1896 pubblicò una biografia in  lingua hurdu di Garibaldi, indicandolo insieme a Mazzini e a Shivaji Bhonsle (3) (1627-1680), il grande eroe indù, come un “avatar”, l’incarnazione di una divinità che si assume il compito di far progredire l’umanità.

Per la figura più fulgida ed eroica del Risorgimento Italiano, “è ormai provato che Cristo giammai non si chiamò Dio; anzi, agli adulatori che non mancavano nella famiglia degli usuraj come nel resto della famiglia umana, e che volevano deificarlo, egli rispondeva: -Io sono figlio dell’uomo-“. Ma “gl’impostori delle Nazioni”, che nella loro funzione hanno preso a “mercanteggiare Dio, e prostituirlo nella loro bottega che chiamano chiesa”, ne hanno fatto un idolo sul quale costruire una dottrina e una religione che secondo Garibaldi ostacolano il progresso non solo civile e morale, ma pure spirituale della parte dell’umanità a loro soggetta.

Tuttavia l’eroe dei due Mondi riconosce che vi furono anche rappresentanti del clero che mostrarono drittura morale ed elevatezza spirituale verso i quali manifesta convinta ammirazione.

La battaglia della Gancia in una stampa dell'800.
La battaglia della Gancia in una stampa dell’800.

Nel suo terzo romanzo, “I Mille”, egli espone la gloriosa vicenda del manipolo di arditi che, vieppiù ingrossati da una miriade di altri volontari, portarono a compimento la librazione dell’Italia meridionale-; narrando della battaglia avvenuta nei pressi del convento palermitano della “Gancia”, -dove il 4 aprile 1860 era scoppiata l’insurrezione che preparò l’arrivo dei garibaldini-, così si esprime:

“Il convento della Gancia servì di ricettacolo ai cospiratori, e fu in quel memorabile giorno  il campo di battaglia ove gli stessi sostennero una disugualissima pugna  contro gli oppressori della patria.

Il convento della Gancia, sì, in cui i frati, benché frati, ricordavano d’esser uomini e Italiani […] Essi non pugnarono, non macchiaronsi di sangue, ma identificaronsi colle aspirazioni di un popolo generoso ed oppresso, le favorirono e ne divisero i pericoli e le miserie” (cap. XIII).

Ne invero si può dimenticare la presenza tra gli infaticabili animatori della Repubblica Romana di un religioso, l’eroico barnabita Ugo Bassi (1801-1849) (4), il quale dopo la caduta della gloriosa repubblica, seguì Garibaldi verso Venezia, fu catturato dagli Austriaci e Comacchio e finì fucilato l’8 agosto 1849 a Bologna.

Così come sacerdoti furono tre (5) dei “Martiri di Belfiore”, il gruppo di patrioti, i quali, colpevoli di aver organizzato una raccolta di fondi per finanziare le iniziative di Mazzini, furono condannati a morte e giustiziati il 7 dicembre 1852 mediante impiccagione nella località sita nei pressi di Mantova da cui trassero la denominazione con la quale sono conosciuti. A proposito di costoro, si noti che papa Pio IX esercitò un’intensa pressione sul vescovo della diocesi,- il quale per parte sua era contrario-, affinché essi, come voleva il governo austriaco, fossero sconsacrati prima dell’esecuzione.

Vi sarebbero poi da ricordare i pensatori che espressero e professarono idee nelle quali si volevano conciliare cattolicesimo e liberalismo, -tra i quali da segnalare soprattutto V. Gioberti e Antonio Rosmini Serbati- (6); ma nel complesso si può affermare che la chiesa cattolica romana  e la grande maggioranza del clero, furono fieri e irriducibili nemici non solo della causa nazionale e di qualunque anelito di libertà nel campo politico e civile, ma anche dei più elementari diritti personali e di coscienza, e che i loro principali sforzi furono profusi, oltre che per conservare e, se possibile, aumentare il loro potere politico ed economico (tra l’altro si tenga presente che nello stato pontificio e nell’Italia meridionale la proprietà fondiaria era in larghissima parte detenuta dagli enti ecclesiastici; in misura minore, ma comunque cospicua, nelle rimanenti regioni d’Italia), per mantenere le masse popolari nell’ignoranza e nell’asservimento ai “legittimi sovrani”, dei quali erano complici (naturalmente salvo che anche questi ultimi non si facessero assertori di perniciosi “errori”, nel qual caso sarebbe stato legittimo e doveroso ribellarsi!)(7).

E tra il clero cattolico i più accaniti nel combattere sul piano culturale e intellettuale le idee liberali, e qualunque proposta, se non di rinuncia, di ridimensionamento del potere politico della chiesa e della sua ingerenza in tutte la manifestazione della vita civile e sociale, furono gli appartenenti alla Compagnia di Gesù, verso i quali Garibaldi esprime sempre giudizi assai severi (8).

Aprendo ora una parentesi, potrà apparire strano a prima vista che negli anni ’60 e ’70 del XX secolo, durante e dopo il concilio Vaticano II (1962-1965), i gesuiti, fino ad allora rigidi custodi dell’ortodossia cattolica e dell’illimitata autorità della chiesa, siano divenuti i più convinti e accesi propugnatori del “dialogo” con il marxismo materialista e ateo. Ma in effetti la contraddizione è solo apparente: infatti mentre il liberalismo e le correnti spirituali e teologiche di ispirazione anti-dogmatica, -quali il modernismo di Murri e Bonaiuti,- nonché i gruppi e i movimenti esoterici, o la stessa massoneria, incarnavano ideali elitari, che non si erano propagati, né potevano diffondersi -se non in misura minima- nella massa del popolo, alla quale erano rimasti in sostanza estranei (9), il comunismo marxista, con la sua illusoria promessa di risolvere i problemi materiali, economici e sociali dell’uomo e di attuare un “paradiso”, ove regnassero la giustizia e il benessere per tutti (cosa evidentemente impossibile sia perché non è certo per legge o con una rivoluzione che si possono eliminare i vizi che l’uomo ha nel suo interno e da cui derivano i mali sociali, sia perché la “felicità” non è certo solo una questione economica, ma comprende molti altri fattori che non si possono certo risolvere nella dimensione politico-sociale) aveva conquistato vasti strati sociali, soprattutto quella che veniva chiamata “classe operaia”. Già alla fine dell’800 il socialismo si era ampiamente affermato in Europa e in Italia, -dove, dietro la conclamata inimicizia tra il nuovo stato unitario e la chiesa, si era di fatto concretata tra questi due soggetti un alleanza di fatto in funzione anti-socialista; ma in quegli anni, dopo la fine, -o la crisi- dei regimi totalitari di destra in Europa, l’espansione del comunismo sovietico ad est, e la sempre più profonda affermazione di partiti marxisti nel cosiddetto “terzo mondo”, l’ideologia comunista sembrava ormai proiettata ad informare di sé il futuro del mondo e a segnare una nuova e durevole fase della storia umana.

Per questo la chiesa cattolica, come già aveva fatto in altri periodi della storia (ad esempio nell’età dell’assolutismo monarchico tra XVII e XVIII secolo), per non perdere del tutto la sua influenza, e non rischiare di vedere pericolosamente limitate le sue prerogative e il suo potere, reputò necessario addivenire ad un “compromesso storico”, -di ben più vasta portata di quello che si stava instaurando in Italia tra la DC e il PCI!-, e si cercò di elaborare, -soprattutto ad opera dei gesuiti, come si è detto-, un’ardita sintesi dottrinale tra cristianesimo e marxismo, o per meglio dire un “monstrum” teologico, che le consentisse di mantenere una funzione, e, quando possibile, continuare a condizionare anche gli stati ove fossero al governo partiti di ispirazione comunista (10). Quanto questo calcolo fosse sbagliato apparve chiaramente fin dalla metà degli anni ’70, allorché il marxismo, nelle sue varianti più o meno “ortodosse”, in conseguenza dei mutamenti sociali ed economici, cominciò a declinare inesorabilmente sia come dottrina filosofica, sia come sistema economico-sociale, ed in generale il “mondo moderno” si avviò rapidamente a divenire “post-moderno”; di conseguenza l'”idillio” tra chiesa cattolica e ideologia marxista si sbiadì e poi finì, -pur con qualche sopravvivenza marginale-.

Nonostante la sua fede nella libertà e in un progresso morale e spirituale che rendesse l’umanità meno incivile  e feroce, Garibaldi ebbe sempre, ed anzi essa col tempo si accentò, un’amara consapevolezza dei limiti e dei vizi degli uomini, sia come singoli, sia, soprattutto, come società, e del carattere spesso illusorio e fittizio anche dei regimi liberali, poiché se manca un’alta coscienza interiore, anche la libertà diventa o licenza per alcuni, o mascherata tirannia di minoranze o maggioranze più o meno egoiste:

“I governanti sono generalmente cattivi, poiché d’origine pessima e per di più ladra. Essi, con poche eccezioni, hanno le radici del loro albero genealogico nel letamaio della violenza e del delitto. […] Ai tempi nostri, non meno feudali di quelli, più potenti i signori, più numerosi i birri, e più servili e prostituti i satelliti, -benché i “bravi”, si chiamino Pubbliche Sicurezze, e i “signori” Re o Imperatore-, credo si stia in peggiori condizioni, essendo gli ultimi più potenti dei primi, e con una sequela di legali cortigiani, sempre pronti a sancire colla maggioranza dei loro voti ogni più turpe mercato delle genti o delle loro sostanze. […]

Ciò non succede solo nelle monarchie dispotiche, più o meno mascherate da liberali, ma spesso anche nelle repubbliche, ove gli intriganti si innalzano sovente ai primi posti dello Stato, ingannando tutto il mondo con ipocrisie e dissimulazioni; mentre uomini virtuosi e capaci, perché modesti, rimangono confusi nella folla a detrimento del bene pubblico; e sovente pure nelle immense società popolane succede lo stesso inconveniente […]: i popoli son così facili ad essere ingannati!”.

E così prosegue: “Parlate di Repubblica […] e propagatela con successo: vi sortono subito i socialisti, i comunisti, gli agraristi, ecc., che spaventano il mondo e ritardano il risultato del vostro lavoro. Parlate del vero e della ragione […] e compariscono gli atei, i materialisti, a menomare le vittorie del buon senso”: secondo  Garibaldi il prevalere, o il timore del prevalere di ideologie estremiste, che allarmano la parte più ragionevole e consapevole del popolo -a cui si aggiungono talora le smodate ambizioni di “certi individui che vogliono essere chiamati grandi a qualunque costo”-, rendono possibile o comunque sono di aiuto al mantenersi e al permanere dei governi reazionari e oscurantisti, -come quelli asburgici e borbonici-, e soprattutto della “peste pretina”. Discorso che, se si pensa alla marea montante dei populismi che caratterizza i nostri giorni, alle imposture di ambiziosi demagoghi che manovrano in modo spregiudicato la stolidità e le paure di tanta gente, risulta di sconcertante attualità!

CONTINUA NELLA QUARTA PARTE

Note

1) il patriota Francesco Daverio (1815-1849), il quale, dopo aver partecipato alle 5 giornate di Milano, accorse alla difesa della Repubblica Romana, dove cadde il 3 giugno sul Gianicolo colpito dai francesi.

2) Lala Lajpat Rai (1865-1928), detto il “Leone del Punjab”, riformatore religioso indù e promotore dell’indipendenza e del rinnovamento morale e civile dell’India.

3) maharajà marattho che aveva combattuto contro i Moghul musulmani che ai suoi tempi dominavano l’India e conquistato buona parte del Deccan. Nell’800 e nel 900 fu visto come un precursore del risveglio indù.

4) il nome di battesimo del patriota era Giuseppe, ma egli lo cambiò in Ugo per ammirazione verso Ugo Foscolo, che era il suo poeta preferito. Anche Ugo Bassi fu peraltro poeta, oltre che predicatore non privo di efficacia e di dori oratorie.

5) Bartolomeo Grazioli, Giovanni Grioli  ed Enrico Tazzoli.

6) in effetti lo spiritualismo italiano della prima metà dell’800, -il quale, pur nelle notevoli e significative differenze dei suoi esponenti ( tra i quali, oltre che Gioberti e Rosmini, ricordiamo Pasquale Galluppi, Gian Domenico Romagnosi e lo stesso Mazzini, nonché i pedagogisti Lambruschini e Capponi), contemplava la superiorità dello Spirito considerato però come una realtà non meramente soggettiva,- si può considerare la filosofia del Risorgimento, prima che nella seconda metà dell’800 si affermasse l’idealismo tedesco (oltre che il positivismo).

7) tra le poche iniziative sorte in ambito ecclesiastico che miravano a superare il temporalismo del papato e a fare ad esso accettare la nuova realtà dell’Italia unita, dobbiamo segnalare anche quella del sacerdote ex-gesuita Carlo Passaglia (1812-1887), il quale nel 1862 si fece promotore presso il clero cattolico di una petizione rivolta al papa affinchè rinunciasse di sua volontà al potere temporale. Tale iniziativa, alla quale aderirono poco meno di 10.000 religiosi, fu aspramente avversata dalle gerarchie cattoliche, che punirono con severità coloro che vi avevano aderito; lo stesso Passaglia fu sospeso “a divinis”.

8) e in generale tutti gli esponenti e le correnti del Risorgimento italiano, sia sul piano politico, sia su quello filosofico-teologico, furono tutti aspramente critici verso i seguaci di S. Ignazio; il Gioberti poi scrisse un’opera assai polemica contro di essi , “Il Gesuita moderno” pubblicata nel 1846-1847, nella quale li accusava di aver fatto della religione un supporto della politica più retrograda e della cultura un mero strumento di dominio e vuota retorica esteriore, senza più alcun vero contenuto e anelito spirituale.

9) peraltro il movimento risorgimentale nelle sue componenti mazziniane e garibaldine ebbe un certo seguito anche presso le classi popolari, specie quelle urbane (come si può osservare ad esempio anche nell’elenco ufficiale dei partecipanti alla spedizione dei “Mille”, dove accanto ai nomi e ai dati anagrafici viene riportata anche la professione o condizione di ciascuno).

10) naturalmente questo non significa che la chiesa non abbia tenuto aperte altre opzioni meno “innovative”, ma senza dubbio quello che poi fu chiamato “cattocomunismo” fu una componente importante della realtà ecclesiale di quegli anni; senza contare il fatto che in seguito alle riforme conciliari nella liturgia e nella catechesi si diede spazio soprattutto  all’elemento comunitario e associativo a discapito di quello spirituale e mistico, il che provocò un preoccupante impoverimento e scadimento della liturgia cattolica, -ridotta talora ad un assemblearismo squallido, privo di raccoglimento interiore e di slancio mistico-, a cui si è cercato, con esiti peraltro incerti, di porre rimedio negli ultimi anni. In effetti l’errore del concilio Vaticano II consistette nel fatto che si volle “rinnovare” la chiesa non attraverso la preminenza della spiritualità individuale sul dogmatismo soffocante ed esteriore, ma facendo prevalere l’elemento comunitario e l'”impegno sociale” (di per sé estraneo alla categoria della religione), con la conseguenza che l’aspetto politico, sia pure di segno diverso, ha continuato ad essere predominante, e caratterizzante, su quello spirituale.

 

 

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