GARIBALDI SCRITTORE (E LETTORE) (seconda parte)

Dobbiamo osservare che la seconda parte del romanzo assume sempre più la forma di una narrazione storica o di una cronaca dei tentativi che vennero compiuti di liberare Roma sul finire del 1867, in particolare della sfortunata impresa dei fratelli Giovanni ed Enrico Cairoli, nel corso della quale il secondo dei due fratelli, Enrico, cadde eroicamente sotto i colpi degli zuavi pontifici durante i combattimenti che ebbero luogo nei pressi di Villa Glori il 22 e 23 ottobre 1867 dei quali Garibaldi ci offre una commossa rievocazione.

Per illustrare le qualità della prosa garibaldina e dare un’idea del romanzo, mi sembra opportuno riportare qualche breve passo, in particolare alcune descrizioni, di persone e di ambienti, che sono a mio parere le parti e gli aspetti più vivi ed efficaci della narrazione.

Ecco la descrizione di Clelia, con la quale inizia il primo capitolo del romanzo.

“Come era bella la Perla del Trastevere! Le trecce brune, foltissime; e gli occhi! il loro lampo colpiva come folgore chi ardiva affissarla. A sedici anni il suo portamento era maestoso come quello di una matrona antica. Oh! Raffaello in Clelia avrebbe trovato tutte le grazie dell’ideale sua fanciulla colla virile robustezza dell’omonima eroina che si precipita nel Tevere per fuggire dal campo di Porsenna (1)”.

Ad essa poco oltre fa seguito la descrizione di Attilio.

“…su Clelia vegliava Attilio, suo compagno d’infanzia, ventenne, robusto artista, il coraggioso rappresentante della gioventù romana, non della gioventù effeminata, data alle dissipazioni, piegata al servaggio, ma di quella da cui usciva un giorno il nerbo di quelle legioni, davanti alle quali la falange macedone indietreggiava.

Attilio, chiamato da’ compagni di studio l’Antinoo Romano (2), per la bellezza delle sue forme, amava Clelia di quell’amore per cui i rischi della vita sono giuochi, il pericolo della morte, una ventura.”

Parlando di Giulia, la giovane britannica che condivide gli ideali di Clelia e Attilio, Garibaldi proclama, -come in diversi altre parti dell’opera-, la sua ammirazione per Roma, per le sue bellezze naturali e artistiche e per la sua antica grandezza, mortificata per molti secoli dal “governo dei preti”:

“Noi già dicemmo che Roma è la terra classica delle belle arti. Là sono ammonticchiate le ruine del mondo antico coi loro templi, colonne, obelischi, statue, avanzi dell’arte Greca e Romana, capolavori dei Prassiteli, dei Fidia (3), dei Raffaelli, dei Michelangeli! Là sorgono ad ogni passo fontane, ove nuotano colossi marini, ruine le cui macerie vedute da lontano sembrano montagne all’attonito viaggiatore, colonne di venti secoli lanciate sulle nubi, ove sul bronzo sono scolpite le mille battaglie del popolo gigante; infine meraviglie d’ogni specie che il ricco straniero visita con ammirazione e copia per portare nelle sue terre, ai suoi amici un simulacro della maggiore delle grandezze umane…

Giulia, la bellissima figlia d’Albione, abitava Roma da più anni: Progenie di popolo libero, disprezzava quanto apparteneva alla famiglia die chiercuti. Ma Roma! La Roma del genio e delle leggende la patria dei Fabi e dei Cincinnati, l’emporio delle meraviglie umane, era per Giulia un incantesimo. Conosceva ogni cosa bella di Roma. Aveva impiegato ogni giorno, ogni minuto a visitarla: Esimia cultrice delle belle arti sapeva apprezzare i capolavori e il suo compito quotidiano era copiarli”.

Il racconto dell’impresa dei fratelli Cairoli, alla quale si sarebbe dovuta  accompagnare una insurrezione del popolo romano, viene introdotto con queste parole.

Gerolamo Induno: "Morte di Enrico Cairoli".
Gerolamo Induno: “Morte di Enrico Cairoli”.

“Era una notte d’Ottobre, umida, scura, ventosa. La pioggia aveva cessato di grandinare sulla superficie increspata e rilucente del Tevere. Le sponde del fiume fangose e solcate degli scoli dei campi dove ogni fosso s’era fatto torrente non presentavano approdo, o ben difficile.

Erano settanta in varie barche armati di revolver e pugnale con alcuni cattivi fucili. Il loro abbigliamento era più semplice assai che non lo comportava la notte fredda e piovosa, ma i settanta sentivano il calore dell’eroismo!”.

Nel capitolo XLII troviamo le descrizione dell’isola solitaria dove Clelia, Attilio e i loro amici si ricoverano, e che, sebbene non venga fatto il suo nome, senza alcun dubbio si può identificare con Caprera.

“Nell’arcipelago italiano, che comincia al mezzogiorno con la Sicilia, e termina a tramontana con la Corsica, trovasi un’isola quasi deserta. Composta di puro granito, le sue sorgenti d’acqua dolce sono stupende benché non siano in estate abbondanti. L’isola è ricca di vegetazione, non d’alto fusto, non concedendolo le buffere [sic], che la spazzan via senza misericordia. Il guaio dei venti continui e troppo forti vi produce il beneficio della salubrità dell’aria. I cespugli surti [sic] nell’interstizio de’ massi, sono tutti aromatici: e se ospite in questa terra deserta tu accendi il fuoco senti la fragranza dei rami bruciati imbalsamare l’aria”.

Particolarmente interessante è la descrizione del “Solitario”, colui che abita questo luogo deserto, ma che si può considerare un’isola felice nel mezzo delle turpitudini, delle ingiustizie e delle lacerazioni che travagliano il mondo, e che, come abbiamo detto, altri non è che Garibaldi stesso, di modo che da queste parole possiamo comprendere come egli vedesse sé stesso:

“Il capo della famiglia, che primeggia in quell’isola, è un uomo come gli altri, colle sue fortune e i suoi malanni. Ebbe la sorte di servire qualche volta la causa dei popoli servi.come qualunque mortale ha la sua dose di difetti. Cosmopolita, egli ama però svisceratamente il suo paese, l’Italia e Roma, con idolatria…

Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti, non li accetta…Egli ha passato la sua vita con la speranza di veder nobilitata la plebe e ne ha propugnato dovunque i diritti e sempre. Ma con rammarico confessa pure che egli è rimasto in parte deluso poiché il plebeo innalzato dalla fortuna a più alto stato, ha patteggiato col dispotismo ed è diventato peggiore forse del patrizio.”

Come si può osservare anche da questi brevi brani, Garibaldi nel romanzo, e in generale in tutte le sue opere, contrappone in modo polemico le virtù civiche e morali della Roma antica alla corruzione della Roma pontificia, sottolineandone l’arretratezza culturale, morale e materiale, che tanto più risalta dal confronto con la nobiltà e l’austerità degli eroi Romani frequentemente ricordati. Per questo non solo i nomi dei protagonisti sono tratti dalla storia dell’antica Roma repubblicana (Clelia, Manlio, Silvia, Attilio, Camilla, Muzio, ecc.), ma i loro comportamenti, le gesta, i discorsi che essi pronunciano con tono appassionato, sebbene piuttosto retorico, intendono richiamarsi a quelli delle grandi figure che diedero gloria agli antichi Romani (il che denota nell’autore una sicura conoscenza degli storici romani, in particolare di Sallustio e di Livio).

E anche nel suo secondo romanzo, -“Cantoni, il volontario”-, che si apre con una commossa descrizione del protagonista, – Achille Cantoni combattente garibaldino e amico del Generale, al quale anzi salvò la vita a Velletri nel 1849,-  per esaltare le doti interiori ed esterne del protagonista l’autore ricorre alla memoria e al confronto con il mondo antico, in questo caso ellenico, visto come serbatoio e fonte di valori e di virtù umane e patriottiche (ai quali oltretutto si prestava il nome stesso -Achille- del volontario):

“Bello come l’Apollo di Fidia, come Milone di Crotone robusto, Cantoni, il coraggioso volontario di Forlì, destava l’ammirazione universale degli uomini quando alla testa de’ suoi militi assaltava il nemico d’Italia, e quella delle donne -e le donne sì che sanno apprezzare il bello e valoroso uomo!-.”

Il costante richiamo alle idealità non solo civili e patriottiche, ma pure estetiche dell’antichità greco-romana mostrano l’esplicito riallacciarsi del Risorgimento italiano alla gloria della “Res Publica” romana (4), dopo i lunghi secoli di decadenza durante i quali l’Italia subì la dominazione di potenze straniere da un lato e dall’altro la soffocante signoria di una Chiesa cattolica assai più sollecita dei propri interessi temporali che delle sue finalità spirituali, -e che anzi tendeva a subordinare le seconde ai primi-; una terra dunque già splendida la quale, come cantò Dante per bocca di Sordello da Goito, con potente slancio lirico ed icastica efficacia, si era ridotta ad essere “non donna di province, ma bordello” (Purg, VI, 78).

Ma in realtà anche la frammentazione politica dell’Italia, e le conseguenti egemonie straniere susseguitesi nel corso dei secoli, fu causata proprio dal fatto che la Chiesa per salvaguardare il suo dominio temporale, oltretutto fraudolentamente acquisito (5), impedì sempre la formazione di uno stato unitario, senza peraltro avere né la forza, né la capacità, né l’interesse a realizzarla in proprio (perché il fatto di coincidere con uno stato nazionale avrebbe menomato e infirmato il suo preteso carattere universale di guida di tutte le nazioni).

Da qui l’anticlericalismo che trasuda da tutte le opere letterarie di Garibaldi, -oltre che dalla sua azione politico-militare-, che può apparire eccessivamente polemico, e perfino ingeneroso, ma non ingiustificato. Ricordiamo tra l’altro che nel 1848, -nell’anno delle grandi rivoluzioni europee-,  Antonio Rosmini Serbati, sacerdote e filosofo, uno dei più autorevoli rappresentanti dello spiritualismo italiano, aveva pubblicato due opere “La costituzione secondo la giustizia sociale” e “Delle cinque piaghe della Santa Chiesa” nelle quali, specie nella seconda, criticava aspramente il temporalismo del papato e delle gerarchie ecclesiastiche e la mediocrità morale e intellettuale del clero; opere che, sebbene non contenessero alcunché di eterodosso sul piano dottrinale, furono messe all’Indice.

E dunque anche le voci più aperte e sensibili presenti nel cattolicesimo avvertivano ed avevano profonda consapevolezza non solo della clamorosa contraddizione insita nell’esistenza di uno stato il cui capo si proclamava il successore di colui che aveva affermato non essere il suo regno di questo mondo, ma pure del carattere ormai del tutto anacronistico della sovranità terrena del papa, che mai avrebbe potuto conciliarsi e coesistere con la nuova situazione storica e ancor meno con i mutamenti sociali e culturali che si andavano profilando.

Nel secondo romanzo di Garibaldi la trama si inserisce nella breve storia di quella che fu forse la pagina più nobile e gloriosa del nostro Risorgimento, ovvero la “Repubblica Romana” e attraverso le vicende di Achille Cantoni narra ed esalta le eroiche gesta dei volontari garibaldini che combatterono in difesa della repubblica e dei suoi ideali.

Ritratto di Achille Cantoni.
Ritratto di Achille Cantoni.

Agli eventi storici si intreccia la romantica storia d’amore, peraltro in gran parte inventata, tra il protagonista e un’intrepida eroina che non può non richiamare alla memoria, la figura di Anita, che condivise con Garibaldi la vicenda epica della repubblica Romana.

La prestanza e la fierezza ardimentosa del protagonista fanno innamorare a prima vista la giovanissima Ida, una fanciulla altrettanto impavida, la quale, pur essendo solo quattordicenne, -come lo era pure Achille Cantoni, essendo questi nato a Forlì nel 1835-, si arruolerà tra i volontari travestita da ragazzo per seguire il suo amato .Nella narrazione di questa storia romantica, l’autore si avvale di elementi propri del “romanzo d’appendice”: la scoperta che il giovane volontario è in realtà una avvenente fanciulla fatta da Cantoni durante un tumulto a Ravenna, l’intervento del malvagio e dissoluto prete Gaudenzio che rapisce Ida; la cattività di quest’ultima nella rocca di S. Leo, la sua avventurosa liberazione ad opera di Cantoni. Ma agli ingredienti caratteristici del romanzo popolare si deve aggiungere la fondamentale importanza, e pregnanza, della causa patriottica che anima queste pagine.

Peraltro si deve osservare che in questo romanzo, più ancora che in “Clelia”, la storia principale è per così dire diluita e frammischiata con numerose osservazioni, riflessioni e commenti che espongono le concezioni dell’autore sulla situazione politica italiane ed europea, le ingiustizie sociali, le forme di governo, l’oppressione dei regnanti, lo stato  della popolazione italiana, e che quindi sono una preziosa testimonianza delle idee e delle aspirazioni dell'”Eroe dei Due Mondi”.

Non mancano neppure delle descrizioni e osservazioni di carattere scientifico, oltre che paesaggistico, talora frammiste a considerazioni etiche sulla condizione umana, che illuminano sugli interessi culturali di Garibaldi e confermano quanto abbiamo osservato a proposito dei libri presenti nella sua biblioteca. Efficace e suggestiva è la descrizione del monte, -ritenuto erroneamente un vulcano spento-. sul quale sorge la rocca di San Leo, sita tra le Romagne e le Marche, con cui l’autore inizia il capitolo XVII e che gli offre lo spunto per un lungo excursus sui vulcani:

“A poche miglia da San Marino verso libeccio (6) si scorge uno di quei monti, che per poche nozioni geografiche che si abbia di questo nostro pianeta, altri non può a meno di figurarvi un antico e spento fumajolo della terra. Spento, non più fumante, perché il tempo lo smorzò colle sue fredd’ali, lasciando intatta tra i cataclismi e gli sconvolgimenti la sua conica forma, caratteristica del Vulcano.

La rocca di San Leo.
La rocca di San Leo.

La terra si spegne, dicono gli scienziati. Corpo interamente igneo una volta, essa va riconcentrando le sue voragini di fuoco ognor più lontano dalla superficie, più circoscritte quindi, e quindi con minor bisogno di fumajoli o di crateri di Vulcani indispensabili alle esalazioni del grandissimo focolare.

Di tali fumajoli spenti è coperta superficie del globo, e tali sono le maestose cime delle Alpi, delle Ande, e mi figuro dell’Imalaja [sic], figlia primogenita forse delle spaventose convulsioni del terribile elemento, che rode senza posa le viscere di questo minore ruotatore dello spazio.

La terra si raffredda, si spegne, e chi ne dubita? Essa fra alcuni secoli sarà una ghiacciaja, dico fra alcuni secoli, perché cosa sono i milioni di secoli paragonati all’eternità?

I corpi morti vi si conserveranno di più, ma morti! dall’issòpo al cedro, dalla formica all’elefante, dallo schiavo al tiranno, ma morti! perché nulla potrà vivere su questa superficie cristallizzata. E poi… “L’uomo e le sue tombe/ E l’estreme sembianze e le reliquie/ della terra e del ciel travolge il tempo” (7)

La terra si raffredda, si spegne! Il ghiaccio su tutta la sua superficie seppellirà le reliquie di ogni animazione. Piante d’ogni specie: dall’abete maestoso, che corona le falde dei monti, all’umile gramigna che tappezza le valli, dalle ossa dello schiavo a quelle del padrone, tutto frammisto, tutto sconvolto, tutto coperto, forse eternamente, da una crosta di cristallo forse eterno!

E la terra continuerà a ruotare nello spazio, non più abitata da formiche e da genti, ma da individui ancora della famiglia di mondi, con cui l’Onnipotente popolò l’Infinito.

E l’uomo si affatica, si travaglia, si tortura, come sa la vita sua d’un secondo dovesse durare eternamente”.

Chi sono gli “individui… della famiglia dei mondi” che dovrebbero succedere agli attuali abitatori della Terra? Forse alieni che verranno sul pianeta allorché le condizioni su di esso non saranno più favorevoli alle forme di vita che ora vi si trovano? Notiamo comunque che in questo passo l’autore evoca un quadro potente e drammatico delle sorti future del globo terracqueo. E continua poi con una lunga digressione sui vulcani nella quale dà prova delle su cognizioni geografiche e geologiche, in parte acquisite per diretta esperienza, specie in America Latina:

“Che siano attivi od estinti, i vulcani conservano generalmente la forma conica-tronca, e se curiosi a vedersi sono quelli che  s’innalzano dal seno dei laghi, come i due bellissimi che adornano il lago di Nicaragua nell’America centrale, non sono meno i tanti che sporgendo le altissime loro cime sugli Oceani, incantano il navigante rallegrato ed attonito, colla loro forma graziosa, la loro eterna verdura, se sotto la zona torrida. Tali sono gli altissimi coni del gruppo di Lipari, delle Marianne nell’Indiano arcipelago, e tanti altri…

Il vulcano spento di San Leo conta tra i minori dei giganti della terra, non manca però di celebrità nella storia dei delitti umani: esso ha servito, come tant’altre eminenze [nel senso di alture, colline], al ricovero di prepotenti, che dall’altro dei loro nidi d’aquile piombavano sulle sostanze, o rubavano le donne, maltrattando gli uomini od uccidendoli, in quelle epoche remote ebbero origine molte feodali [sic] famiglie, quelle, cioè, i cui titoli non nacquero da compra con denaro accumulato dall’usura o dal servilismo prodigato ai potenti (8)”

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

1) Clelia, eroine romana, data in ostaggio a Porsenna, lucumone di Chiusi, il quale assediava Roma per riportarvi sul trono Tarquinio il Superbo che ne era stato cacciato, evase dall’accampamento etrusco. I suoi concittadini però, per tenere fede agli accordi stipulati con gli Etruschi, la restituirono agli assedianti, Tuttavia Porsenna, ammirato per la lealtà dei Romani e l’intrepidezza della fanciulla, la liberò.

2) Antinoo era il giovane favorito di Adriano, imperatore dal 117 al 138, raffigurato in innumerevoli statue e rilievi.

3) in realtà attualmente, e pure nell’800, in Roma si trovano solo copie di età romana delle opere di questi due sommi scultori (nell’antichità si trovavano anche degli originali, come ad esempio l’Eros di Tespie di Prassitele, esposto nel Portico di Ottavia). L’accostamento far i due artisti greci è forse dovuto al fatto che fino all’800, e oltre, si riteneva che delle statue dei Dioscuri della fontana del Quirinale una fosse opera di Fidia e l’altra di Prassitele.

4) non si dimentichi che l’esplicito richiamo all’eredità di Roma è espresso quale elemento caratterizzante anche nel “Canto degli Italiani”, scritto nel 1847 da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro: l’Italia “dell’elmo di Scipio si è cinta la testa” e la Vittoria dovrebbe porgerle la chioma poichè “schiava di Roma Iddio la creò”.

5) com’è noto per molti secoli il dominio temporale del papato si fondò sulla cosiddetta “donazione di Costantino” (“Constitutum Constantini”)  con la quale l’imperatore nel 314 avrebbe conferito a papa Silvestro I la sovranità su Roma, sull’Italia e su tutta la parte occidentale dell’Impero Romano. Tale documento fu riconosciuto falso già nel 1440 ad opera dell’umanista Lorenzo Valla, il quale con ineccepibili argomentazioni storiche e filologico-linguistiche dimostrò che esso risaliva ad un’epoca assai posteriore, presumibilmente all’VIII secolo. La sua opera (“De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio”), com’era prevedibile, venne inclusa nell’indice dei libri proibiti, allorché questo triste elenco venne costituito nel 1559. La falsa donazione quasi certamente fu redatta negli anni intorno al 750 per indurre Pipino il Breve, re dei Franchi, a conferire al papa la pena sovranità dei territori dell’Italia centro-settentrionale da questi sottratti ai Bizantini, convincendolo che in tal modo egli non faceva che restituire al pontefice una parte delle terre che gli sarebbero spettate. Ed in effetti Pipino nel 754 -anno dal quale si fa iniziare lo “Stato della Chiesa”- avrebbe donato i territori ex-bizantini; senonchè non mancano dubbi e perplessità nemmeno su questa ambigua donazione e sulle reali intenzioni del re franco. Sull’argomento si veda anche la sesta parte della “Storia minima dell’idea di Dio, ecc.” del 23 settembre 2017, dedicata alla formazione dello Stato Pontificio.

6) cioè verso sud-ovest, poiché libeccio è il vento che soffia da tale direzione.

7) Ugo Foscolo, “Dei Sepolcri”, 20-22; evidentemente la citazione fu fatta a memoria, poiché in effetti la forma esatta del verso 22 è “Della terra e del ciel TRAVESTE [e non travolge] il tempo”.

8) la rocca di San Leo, le cui lontane origini risalgono all’età romana, e che fu riedificata nelle forme attuali alla metà del XV secolo dall’architetto e ingegnere Francesco di Giorgio Martini, fu teatro fino al 500 di varie imprese belliche. Divenuta poi carcere, fu luogo di detenzione di prigionieri politici dello Stato Pontificio; tra di essi si ricorda soprattutto Giuseppe Balsamo, detto Cagliostro, che vi fu rinchiuso nel 1791 e vi rimase fino alla morte nel 1795.

 

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