L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA -quinta parte (anima e intelletto negli Animali)

Abbiamo visto nelle parti precedenti che diversi filosofi greci, -oltre a Platone, le cui dottrine escatologiche abbiamo esaminato in profondità, Pitagora, Empedocle, Apollonio di Tiana, Plotino, tra i più noti-, ammettevano la metempsicosi (o metensomatosi, o palingenesi che dir si voglia), la trasmigrazione delle anime non solo tra corpi umani, ma pure tra questi ultimi e corpi di animali, anzi per alcuni come Pitagora e Plotino anche le piante sono coinvolte in questo complesso trasmutare degli elementi spirituali e psichici in forme corporee sensibili; e molti altri, pur non pronunciandosi, -almeno per quanto è possibile sapere allo stato delle nostre conoscenze frammentarie delle loro opere-, sull’immortalità dell’anima e sulla sua sorte oltremondana, -come gli aristotelici Teofrasto e Stratone di Làmpsaco, l’accademico Carneade di Cirene (1), l’eclettico (ma che segue soprattutto Platone e Pitagora) Plutarco e lo scettico Sesto Empirico-, sostenevano che gli animali sono dotati, oltre che di sensibilità, di intelligenza, di coscienza e di ragione, sebbene in grado inferiore all’uomo e che dunque la differenza con quest’ultimo è solo di quantità e non di sostanza, che è la medesima nell’uno e negli altri; essi anzi partecipano in qualche misura del “lògos”, termine che, pur nelle diverse sfumature e connotazioni attribuitegli dalle diverse scuole di pensiero, designa sia il pensiero strutturato, sia il linguaggio attraverso il quale esso si esprime.

Anche alcuni seguaci dello stoicismo, i cui esponenti pure furono in genere avversari e negatori dei diritti degli animali, -poiché nella loro visione antropocentrica, simile a quella ebraico-cristiana, questi ultimi, così come tutti gli enti che compongono la natura, avrebbero valore solo in relazione alla loro utilità per l’uomo e sarebbero stati predisposti dalla provvidenza a suo esclusivo beneficio-, ammettevano una limitata partecipazione di alcuni animali al “logos”.

Occorre peraltro precisare che dagli stoici fu introdotta la distinzione tra “logos prophorikòs” (pensiero proferito, esterno) e “logos endiàthetos” (pensiero riposto, interiore): il primo indica l’aspetto espressivo-linguistico del logos; con il secondo si vuole significare quello propriamente cognitivo-razionale.a0000001vp57xu E’ solo il primo, il “l. prophorikòs”, che a giudizio degli stoici si manifesta in determinate circostanze anche in alcuni animali, come corvi, cornacchie, gazze, pappagalli, in pratica gli uccelli capaci di riprodurre il linguaggio umano, o al più dotati di sonorità espressive apprezzabili anche dall’orecchio umano, mentre il secondo sarebbe esclusivo dell’uomo. In altre parole sembrerebbe che siano proprio le qualità della voce, attraverso cui si attua il processo della comunicazione nelle sue forme più elevate, o più complesse, l’elemento discriminante sul quale si misura la maggiore o minore differenza tra uomo e animale non umano; e questo spiegherebbe anche per quale ragione sia Platone, sia Plotino considerino la reincarnazione in Uccelli, specie quelli parlanti o canori, la forma corporea più nobile dopo quella umana. Altri filosofi però sostennero che negli animali si trova non solo il “logos prophorikòs”, ma pure il “logos endiàthetos”, e tra di essi si segnalarono gli Accademici quali Carneade di Cirene che abbiamo citato in precedenza.

Nelle sue opere naturalistiche e in particolare nel quarto libro della “Historia Animalium”, Aristotele distingue tre tipi di comunicazione sonora: “ψoφoς” -suono in senso lato-; “φωνη'”,-suono emesso per via orale, voce-, “δiαλεκτoς”, -voce articolata, linguaggio-. Il suono può essere prodotto con qualunque parte del corpo; la voce è prodotta da un flusso d’aria proveniente dai polmoni che fa vibrare la laringe; il linguaggio articolato è peculiare dell’uomo e richiede la presenza di alcuni organi che sono lingua, labbra e denti. Il fatto che alcuni Uccelli riescano ad esprimere suoni articolati simili a quelli umani non implica peraltro per lo Stagirita che essi siano parimenti capaci di elaborare, per quanto in forma elementare, un pensiero strutturato, ovvero il “logos”.0603v25a

Tuttavia anche la sola “phonè”, la voce non articolata, come sono i versi degli animali, presuppone un certo grado di sviluppo psichico e una forma, almeno rudimentale, di attività cognitiva, così che anche la voce emessa dagli esseri animati non umani esprime un significato (un’emozione, un desiderio, un sentimento, un’intenzione) dal che si deduce che in essi sia presente una coscienza.

La tesi della somiglianza sostanziale tra uomo e animale è portata avanti con accenti originali e che denotano profonda compassione e comprensione per gli esseri viventi non umani, -i quali differiscono dall’uomo solo per grado, ma non per qualità- da alcuni dei discepoli di Aristotele, in specie Teofrasto di Ereso (371-287 a. C.), -noto soprattutto come figura di eminente naturalista, successore del maestro nella guida del “Liceo”-, e in Stratone di Làmpsaco, i quali affermavano che ciascun essere vivente dotato di percezione e sensibilità deve di necessità essere partecipe in qualche misura del “logos” universale. Il primo nel suo trattato “Sulla Pietà” (2) sostiene l’immoralità e l’ingiustizia dell’animalicidio, e stigmatizza l’alimentazione carnea e i sacrifici cruenti, sottolineando inoltre la stretta relazione tra la violenza contro gli animali e quella tra umani: “Gli uomini hanno iniziato a sgozzare le vittime e ad insanguinare gli altari dal momento in cui avendo fatto l’esperienza della fame e della guerra hanno immerso le loro mani nel sangue innocente”; “Tutte le specie sono intelligenti, ma esse differiscono per l’educazione e per la misura della quantità degli elementi primi che costituiscono. E dunque sotto ogni aspetto la razza degli altri animali è apparentata alla nostra ed è la medesima di quella umana: poiché i mezzi di sussistenza sono gli stessi per tutti, come l’aria che respiriamo, secondo quanto afferma Euripide, e sangue rosso scorre i tutti gli animali e tutti mostrano d’avere in comune per padre il Cielo e per madre la Terra”. E mentre il suo maestro Aristotele, precorrendo in questo gli Stoici, sosteneva che la natura ha predisposto tutti gli esseri viventi a beneficio dell’uomo, Teofrasto afferma che “sacrificando esseri viventi si commette ingiustizia contro di essi, poiché si fa rapine della loro vita”:

Orfeo che ammansisce le fiere con il canto in un'immagine moderna.
Orfeo che ammansisce le fiere con il canto in un’immagine moderna.

Alla posizione della scuola naturalistica aristotelica e a quella degli Accademici si richiama in modo esplicito Alessandro (3), nipote di Filone di Alessandria, -filosofo ebreo che abbiamo altre volte citato nelle nostre ricerche, il quale tentò una conciliazione e una sintesi tra l’ebraismo e il pensiero filosofico ellenico, dando in particolare un’interpretazione platonica della “Genesi” dell’AT-, introdotto come interlocutore nel dialogo “De Animalibus” dal celebre zio, il quale per parte sua su tale questione si attiene alla tesi degli Stoici, attribuendo agli animali il solo “logos prophorikòs”.

Negli scritti che dedica all’argomento Plutarco di Cheronea, che è una delle più note e significative voci “animaliste” dell’antichità classica, si oppone con forza alla concezione antropocentrica stoica, secondo la quale gli animali, così come tutti gli enti naturali, sarebbero stati creati solo per servire all’uomo che avrebbe così la piena facoltà di disporne a suo totale arbitrio (e dunque anche un trattamento benevolo avrebbe una valore meramente strumentale, in vista di un accorto sfruttamento dell’animale stesso), affermando che essi sono dotati non soltanto di emotività e sentimento, ma pure di ragione.

Non è dato sapere, -poiché l’autore non si esprime in modo esplicito sulla questione-, se Plutarco credesse nella trasmigrazione di anime tra animali e uomini e viceversa. Tuttavia il dialogo “Gli Animali usano la ragione” (“Perì tou ta àloga logoi chresthai” si noti che nel titolo in greco è contenuto un ossimoro poiché si afferma che gli esseri privi di ragione -“àloga”- usano invece la ragione -“logoi chresthai”-) potrebbe sottintendere o adombrare tale concezione: infatti lo scrittore immagina che Ulisse chieda a Circe di riconvertire in uomini coloro che ella in precedenza aveva mutato in animali (non però i suoi compagni che aveva già ritrasformato); la maga acconsente a condizione che essi accettino di tornare al pristino stato, e a tal fine restituisce l’uso della parola umana a uno di essi, un maiale che si chiama Grillo (4). Costui inaspettatamente rifiuta la possibilità di ridiventare umano e alle considerazioni di Ulisse che lo invita a riprendere la forma primitiva, magnificando la presunta superiorità di questa, di cui sarebbero esclusive le virtù morali e le doti intellettuali, obietta una serie di acute argomentazioni. L’eloquente suino smonta le ragioni addotte dall’Itacese e gli dimostra che non solo gli animali possiedono tutte le qualità di cui l’uomo si ritiene unico detentore, ma le possiedono anzi in misura superiore e senza piegarle a fini bassamente egoistici; esse inoltre per essi non sono frutto di insegnamento, ma spontanee espressioni della loro natura (5).

Tuttavia Plutarco così come il suo maestro Platone sembra credere che le anime non purificatesi durante l’esistenza terrena da ogni traccia di egoismo e di attaccamento alla materia mediante la virtù (aretè) e la pietà (eusebeia), sono destinate a tornare in  corpi umani.

Le idee dello scrittore sull’anima e sulla sua sorte ultraterrena sono espresse in alcuni brani contenuti principalmente nel “De genio Socratis” e nel “De facie quae in orbe Lunae apparet”, nei quali egli afferma che, dopo la morte del corpo, le anime dimorano per alcun tempo nello spazio tra la Terra e la Luna: quelle dei reprobi vi vengono punite secondo la gravità dei peccati commessi in vita, in attesa di reincarnarsi in terra, mentre quelle dei virtuosi si elevano fino alla Luna per ivi condurvi una vita beata.

Nella prima delle opere sopra menzionate, Simmia, uno dai partecipanti al dialogo, narra quanto seppe da Timarco. Questi, volendo venire a conoscenza, ed anzi possibilmente avere diretta esperienza, dei “demoni”, -che per Plutarco, il quale in  sostanza riprende su questo punto la tesi di Platone, più che entità intermedie tra uomini e dei, sono la parte immateriale dell’uomo, la psiche ed il “nous”-, decide di scendere nella “grotta di Trofonio”, che si trovava in quel di Lebadia, in Beozia, ed era sede di un famoso oracolo (6). Questi, dopo aver adempiuto ai doveri di rito, che contemplavano la permanenza sotto terra per due notti e un giorno, si ritrova in uno stato indefinibile tra la veglia e il sogno. Gli sembra allora di essere colpito con violenza sul capo, e la sua anima viene trasportata in un’atmosfera tersa e luminosa, mentre il fischio acuto che aveva udito dopo il colpo ricevuto si trasformava in una soave armonia. Allora riapre gli occhi e vede una sorta di isole scintillanti di diversa grandezza che fluttuavano intorno a lui. Apparve poi un mare, -o lago-, dalle acque iridescenti verso il quale si dirigevano alcune delle isole che con il loro movimento circolare creavano una spirale; il mare si inclinava verso la parte mediana dello spazio eterico, dove confluivano due fiumi di fuoco che scontrandosi ribollivano assumendo un colore biancastro. Allora il visitatore, estasiato fino a quel momento dallo spettacolo affascinante, volge lo sguardo verso il basso e vede un profondo abisso, dalla forma approssimativamente semisferica, pieno di spaventose tenebre da cui saliva un assordante stridore in cui si mescolavano pianti, muggiti di animali, vagiti di innumerevoli neonati, lamenti di uomini e di donne, rumori di ogni sorta.

Una voce misteriosa si rivolge a lui e gli chiede che cosa vorrebbe sapere. Alla risposta di Timarco che è desioso di conoscere il più possibile, la voce gli spiega che dei mondi superiori non può dirgli molto, ma potrà illustrargli il “regno di Persefone”, uno dei quattro domini circondati dallo Stige. La voce gli spiega che lo Stige è la via di Ade, il cui corso nel punto più alto delimita la regione della luce, l’estrema parte dell’Universo, che è governato da quattro principi: il primo è quello della vita, segue quello del movimento; il terzo è la generazione; e infine la corruzione, il disfacimento. La Monade, -cioè l’Uno-, collega il principio primo al secondo nella regione dell’invisibile; l’Intelletto la seconda alla terza in quella del Sole; e la Natura la terza alla quarta nella parte percorsa dalla Luna. Ciascuno di questi tre legami ha come custode una della Parche, le quali sono sorelle di Ananke, rispettivamente Atropo, Cloto e Làchesi. Le isole che ha visto fluttuare sono dimore degli dei, ma la Luna appartiene ai demoni terrestri. Di solito il corso dello Stige non incrocia l’orbita della Luna, che è un po’ più in alto; ma talvolta, benché assai di rado, l’incontro accade ed allora le anime gridano di terrore: alcune vengono catturate da Ade, mentre altre riescono a tornare sulla Luna: queste ultime sono quelle che, purificatesi, hanno terminato il loro ciclo di incarnazioni terrene. Ma l’astro argenteo nega il suo soccorso alle anime ancora impure e dominate dagli impulsi inferiori: se tentano di raggiungerla, ella lancia loro delle saette insieme con ringhi spaventosi e non acconsente che le si avvicinino! Allora, commiserando la loro triste sorte, esse sono precipitate verso il fondo e destinate ad un’altra nascita.

Le stelle che in gran numero si tuffano nel baratro o ne fuoriescono sono “demoni”, che come spiega poi la voce sono parti dell’anima: infatti ciascuna anima comprende in sé un elemento spirituale e razionale; ma esso, venendo a contatto con la carne e mescolandosi alle passioni, si contamina. La contaminazione avviene però in misura diversa secondo gli individui: in alcuni l’anima si compenetra interamente nel corpo così che durante tutta la vita essi sono in balia delle passioni terrene; in altri l’anima discende solo in parte nel corpo fisico, lasciandone fuori la frazione più pura che fluttua sul capo come la boa di una rete immersa nelle acque profonde e tiene la personalità sulla retta via, facendo in modo che non sia completamente soggiogata dalle passioni riprovevoli e dai vizi.

La parte immersa nel corpo è definita “anima”(psichè) in senso stretto; la parte esterna, incorruttibile i più la chiamano “intelletto”(nous), ma coloro che ne hanno vera conoscenza la conoscono come “dàimon”. Le stelle che si sprofondano nell’abisso senza riuscirne sono le anime radicate in profondità nel corpo; quelle che dopo essersi tuffate riappaiono alla superficie sono le anime di coloro i quali dopo la morte tornano in un corpo fisico per condurre una nuova esistenza; infine le stelle che orbitano sull’orlo del precipizio senza mai entrarvi sono i “demoni” di coloro che sono guidati dall’intelletto.

Timarco osserva poi che i moti delle stelle si mostrano alquanto difformi tra loro: alcuni sono disordinati ed ineguali e sembrano procedere a scatti o a zig-zag, senza riuscire a mantenere un percorso regolare; altre stelle invece percorrono la loro orbita in modo omogeneo e con velocità costante. La voce spiega ancora che le seconde sono anime docili che hanno ricevuto un’educazione accurata e le cui forze irrazionali sono state imbrigliate e controllate; le altre invece appartengono ai caratteri difficili e capricciosi, insofferenti di disciplina, prepotenti e incapaci di sopportare il minimo freno alle proprie passioni. Tanto più l’intelletto cerca di tenerle sul retto cammino, tanto più le passioni le aizzano a deviare; quando la parte pura dell’animo riesce a frenare gli elementi irrazionali, causa il pentimento degli errori, la vergogna di aver ceduto a piaceri disonesti. E questo processo di purificazione dura fino a che l’anima così castigata diviene docile e riflessiva, come un animale addomesticato: in tal modo attraverso una progressiva elevazione le anime divengano sempre più sensibili ai richiami dell’intelletto (o se vogliamo dello spirito), pronte a coglierne gli avvertimenti ed i segni.

Alla categoria delle anime che fin dalla nascita obbedirono all’ispirazione del loro demone, senza lasciarsi sviare dalle lusinghe terrene appartengono i profeti e gli asceti che riescono a udire la voce della divinità. E a tale riguardo viene citato il nome di Ermòtimo di Clazomene, la cui anima, secondo quanto si diceva, durante la notte lasciava il corpo mortale per errare in vari luoghi e tornarvi infine dopo aver assistito a molte cose fatte o dette ben lontano da esso; durante queste “assenze” [che in termini moderni si possono definire “viaggio astrale”], il suo corpo momentaneamente privo dell’anima, rimase in balia di alcuni suoi nemici che diedero alle fiamme la sua casa e ora scontano nel Tartaro il loro crimine (7). La voce aggiunge però che in verità non era l’anima a uscire dal corpo, ma era il “demone” che allentava il legame che lo univa al corpo e poteva così andare in giro per il mondo.

La voce misteriosa conclude il suo lungo discorso dicendo a Timarco che entro due mesi egli avrebbe approfondito la sua conoscenza sui mondi ultraterreni. A questo punto egli avverte ancora il lancinante dolore alla testa, perde la conoscenza e si ridesta nella grotta di Trofonio, nel medesima posizione che aveva quando ebbe inizio l’insolita esperienza che aveva vissuto. Simmia ricorda ancora che, come gli era stato predetto, dopo due mesi il giovane morì.

Nella prima parte del “Περì τoυ εμφαiνoμενoυ πρoσωπoυ τωi kυkλοι της Σεληνης” (“Il volto che appare nel cerchio della Luna”) Plutarco espone ed affronta alcuni temi di carattere prettamente scientifico riguardanti la natura e la consistenza del satellite terrestre, -se sia costituita di materia solida o di fluido etereo come le stelle; se abbia luce propria o rifletta la luce solare; la sua influenza sulle maree; da che cosa dipendano le eclissi; ecc.-, che vengono dibattuti nel corso di una dotta discussione da un gruppo di otto filosofi e scienziati (Lampria -probabile fratello di Plutarco-, Silla, Apollonide, Farnace e altri).

Nella seconda parte però l’esposizione prende una piega diversa e si sposta su un piano filosofico allorché viene posta la questione se la Luna sia abitata da esseri viventi. Silla, -uno dei protagonisti della disputa-, racconta di aver conosciuto un tempo a Cartagine uno straniero proveniente da un’isola misteriosa, anzi un continente, posta nel mezzo dell’Oceano (il grande fiume che nella concezione cosmologica antica circonda le terre emerse) alla distanza di circa 5.000 stadi (più di 1.000 km) dall’isola di Ogigia (quella ove Ulisse dimorò per sette anni tenuto prigioniero dalla ninfa Calipso prima di tornare a Itaca). Codesta isola, di incerta identificazione (ma che la maggior parte degli studiosi colloca nel mar Mediterraneo, o in prossimità di esso), secondo Silla, -e dunque presumibilmente anche per Plutarco-, si trova a cinque giorni di navigazione dalle coste della Britannia verso occidente. Per tale ragione è stata avanzata l’ipotesi che in realtà si tratti di una delle isole Far Oher, l’arcipelago situato a nord della Scozia circa a metà della distanza tra quest’ultima e l’Islanda, la quale a sua volta potrebbe essere lo sconosciuto continente da cui era giunto lo straniero incontrato da Silla (8).

Sebbene Plutarco non lo dica espressamente, è lecito pensare che la grande isola, o continente, altro non sia che la favolosa Thule, della quale trattarono o accennarono diversi autori antichi, e che è stata argomento di una delle nostre ricerche (pubblicata il 20 febbraio 2014), dove è citato anche il passo tratto da “il volto che appare nel cerchio della Luna”, e che invitiamo i lettori a riprendere. Aggiungiamo ora che nella descrizione fatta da Plutarco per bocca dell’ipotetico abitante di quella terra, in essa era stato esiliato Crono dopo essere stato spodestato dal dominio del mondo da suo figlio Zeus. L’antico sommo nume era stato confinato in una caverna scavata entro una grande roccia dall’aureo fulgore, ove egli dormiva quasi senza interruzione. Al di sopra della roccia si vedono volteggiare numerosi uccelli che recano al dio in essa rinchiuso l’ambrosia, il cibo degli dei, il cui aroma delizioso rende l’aria all’intorno soavemente profumata. Crono ha come ministri dei demoni (termine che in questo significa non la parte superiore dell’anima, ma delle entità spirituali); essi possiedono il dono della divinazione, ma le predizioni riguardanti gli argomenti più seri le fanno dopo essere usciti dall’antro del loro signore, di cui hanno ascoltato i sogni, nei quali egli ha potuto scorgere i disegni di Zeus.

CONTINUA NELLA QUINTA PARTE

Note

1) Carneade è considerato il fondatore della “seconda accademia” (o “media accademia”) platonica, alla quale impresse un indirizzo scettico. Peraltro la dottrina di Carneade è una forma di scetticismo temperato, e non assoluto: pur rimanendo impossibile stabilire un oggettivo criterio di verità e inconoscibile l’essenza del reale, egli introdusse il principio di “probabilità”, per giudicare in modo empirico il valore delle conoscenze umane, pur se in effetti più che di probabilità si tratta del potere di convincimento in una determinata situazione in base soprattutto alla coerenza interna e all’assenza di contraddizioni. In particolare è rimasta celebre la sua critica della giustizia terrena, della quale sottolineò il carattere relativo e contingente, il suo essere espressione di interessi particolari ed egoistici, che le istituzioni pubbliche possono soltanto contemperare e disporre in una “scala di valori”, peraltro mutevole a seconda dei tempi, dei luoghi e delle circostanze. E’ noto per aver partecipato insieme ad altri due filosofi, -Critolao, aristotelico, e Diogene di Babilonia, stoico- ad un’ambasciata a Roma nel 155 a. C. che contribuì a suscitare l’interesse dei Romani verso la filosofia; è rimasto altresì immortalato per la citazione che ne fece il Manzoni all’inizio dell’ottavo capitolo dei “Promessi Sposi” (ove Don Abbondio si chiede “chi era costui?”).

2) anche nel titolo sembra richiamarsi al pensiero di Teofrasto l’opera “Pietà per gli Animali” scritta da Piero Martinetti (1872-1943) nel 1920. In questo testo, uno dei pochi di contenuto “animalista” della cultura italiana recente, l’autore ispirandosi agli insegnamenti di vari filosofi antichi e moderni, ma soprattutto alla sua sensibilità ed esperienza personali esprime non solo il riconoscimento della capacità di provare la sofferenza e la letizia, delle doti di affetto, di gratitudine, di intelligenza degli animali, ma pure di moralità e di ragione; e proclama pertanto la fondamentale fratellanza tra tutte le specie animali.

3) Tiberio Giulio Alessandro figlio omonimo di un fratello di Filone, che era un personaggio assai ragguardevole della comunità ebraica di Alessandria d’Egitto, avendone rivestito la carica di “alabarca” (cioè di capo e rappresentante presso l’autorità romana). Egli divenne generale e politico romano, giunto alla dignità di prefetto d’Egitto, e si mantenne fedele ai Romani anche durante la prima guerra giudaica.

4) questo nome (“Γρυλλoς”) è stato scelto perché riproduce in modo onomatopeico il grugnito del maiale ed è pertanto un “nome parlante”.

5) nel suo discorso l’animale esalta sia i comportamenti dettati dall’intelligenza di specie (ovvero l’istinto), sia quelli dovuti all’apprendimento e all’adattamento, e sottolinea come degli umani siano piuttosto peculiari i vizi: ad esempio che nell’animale la ricerca del diletto è sempre congiunta e motivata dalle finalità biologiche e non mai dal desiderio di piaceri più o meno innaturali; che per gli animali carnivori il nutrirsi di carni è una necessità delle loro natura, mentre per gli umani è solo un deplorevole modo per soddisfare la gola.

6) secondo il mito, Trofonio era un celebre architetto della Beozia, il quale con la collaborazione del fratello gemello Agamede aveva costruito il tempio di Apollo a Delfi. Dopo aver compiuto l’opera, i fratelli chiesero al dio una ricompensa e la Pizia, -la profetessa di Apollo che divinava all’oracolo di Delfi-, disse loro di aspettare per otto giorni. Trascorso quel periodo, essi furono trovati morti (il che vorrebbe significare che il trapasso ad altra vita è la migliore ricompensa) o, in altre versioni, scomparvero inghiottiti nelle viscere della terra. Essendo poi sopravvenuta in Beozia una devastante siccità, al popolo fu consigliato da Apollo di cercare Trofonio celato in un antro di Lebadia il quale avrebbe dato il responso su come far cessare quella calamità. I Beoti lo trovarono seguendo uno sciame di api ed egli diede loro consigli sul modo di scongiurare la terribile sciagura. Da allora l’antro di Trofonio divenne uno dei più rinomati oracoli della Grecia, consultato fino ai primi secoli dell’era cristiana, soprattutto per questioni inerenti la salute e le malattie (e pertanto il culto di Trofonio era associato a quello di Asclepio, il dio della medicina, figlio di Apollo). Stando a quanto viene narrato da Pausania il Periegete (Periegesi della Grecia, IX, 39), chi desiderava consultare l’oracolo veniva condotto nottetempo al fiume Hercyna, sacro ad Asclepio ed Igea, numi tutelari della salute fisica e mentale. Ad essi era consacrato anche un tempio ove era collocata la statua di una fanciulla con un’oca in braccio. Giunto al fiume, il devoto veniva lavato ed unto con olio (come si faceva con i cadaveri prima della sepoltura) e indossava una tunica di lino bianco; indi veniva guidato dai sacerdoti prima alla fonte del Lete, di cui beveva le acque, per dimenticare e liberare la mente dai pensieri estranei e profani, e poi a quella di Mnemosine (ossia della Memoria), per ricordare quanto sarebbe venuto a sapere una volta disceso nella caverna. Questa si apriva entro un edificio in muratura che vi era stato costruito sopra, avente la forma di un forno, largo circa due metri e profondo quattro. Poiché non vi erano scalini, al consultante veniva consegnata una piccola scala portatile, mediante la quale egli scendeva nella grotta recando seco alcune focacce al miele da offrire ai serpenti o altre creature che avrebbe potuto ivi incontrare. Arrivato sul fondo del pozzo, trovava un’altra apertura assai più piccola nella quale si entrava con notevole difficoltà facendo passare prima le gambe; dopo di che, se tutto procedeva nel modo giusto, anche il resto del corpo veniva risucchiato entro la cavità “come se un fiume rapinoso lo trascinasse nel suo gorgo”. Da questo momento egli veniva istruito sul proprio futuro; ma non tutti nella medesima maniera: “alcuni odono, altri vedono” (e altri, come si deduce dal racconto di Timarco che stiamo prendendo in esame, vedevano e udivano). La risalita avveniva tramite la medesima apertura della discesa, ma al contrario, con i piedi che spuntavano per primi dalla cavità (e dunque si potrebbe paragonare l’uscita a una sorta di rinascita). Secondo la tradizione, questa esperienza era così tremenda che coloro che l’avevano vissuta non avevano più la capacità e la voglia di ridere per il rimanente della loro vita, tanto che di persona con l’aria abitualmente mesta era usuale dire che aveva consultato l’oracolo di Trofonio.

7) era costui un filosofo semileggendario all’incirca contemporaneo di Pitagora, il quale ebbe fama ed è citato da diversi autori antichi per questa sua dote straordinaria. A quanto riferisce Plinio il Vecchio (Nat. Historia, VII, 174) i nemici che gli incendiarono la casa provocandone la morte erano i Cantàridi.

8) la collocazione dell’isola di Calipso nel mare del Nord da parte di Plutarco ha suffragato l’ipotesi, formulata già nei secoli scorsi e ripresa nel 1995 con uno studio sistematico da Felice Vinci, secondo la quale il teatro delle gesta degli eroi omerici non sarebbero i paesi circum-mediterranei, bensì le coste e le isole della Scandinavia e di altre terre nordiche lambite dal mar Baltico e dal mare del Nord. A favore di tale ipotesi è la difficoltà di identificare in modo accettabile molti dei luoghi descritti nei poemi omerici nella loro ambientazione tradizionale mentre è apparsa più calzante la loro collocazione in località dell’Europa settentrionale. A questa identificazione inducono a pensare anche l’affinità tra alcuni toponimi scandinavi e quelli balcanici ed egeici ove vissero e compirono le loro imprese gli eroi di Omero; inoltre le affinità e le somiglianze osservate tra il mondo miceneo e quello nordico del III-II millennio a. C. Secondo questa teoria gli antenati dei Greci, come quelli di altre popolazioni indoeuropee, sarebbero stati spinti a scendere verso sud nell’Europa mediterranea, nell’Anatolia e in vaste aree dell’Iran e dell’India dall’incrudirsi del clima nelle regioni nordiche, che era prima relativamente mite, dagli inizi del II millennio a. C. -e di cui rimase memoria nelle condizioni climatiche gradevoli attribuite nell’età classica al paese degli Iperborei, a Thule e a diverse altre isole giacenti a quelle latitudini-.

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *