OSSERVAZIONI SULLA NASCITA DEL CRISTIANESIMO -prima parte-

Le osservazioni che verranno esposte nel presente e in alcuni prossimi articoli non intendono certo affrontare in modo ampio e sistematico un tema così complesso, sul quale nel corso dei secoli si sono sviluppate accese discussioni ed esiste una sterminata bibliografia (per la quale basterebbe citare i fondamentali studi del Renan, del von Harnack e del Loisy). Il nostro intento è solo di offrire alcuni spunti di riflessione, nati a margine della precedente trattazione -sull’Asino e il Bue nel presepe-, nella quale abbiamo cercato, attraverso diversi excursus storico-letterario-mitologici, di fare luce sui legami e gli intrecci dei simboli e delle tematiche cristiane con quelli cosiddetti “pagani”.

Per non prolungare e appesantire eccessivamente tale ricerca, ho pensato di aggiungere codeste osservazioni in un articolo a parte, che però prende le mosse da quello precedente.

Il controverso problema del carattere storico o meno della figura di Gesù Cristo, e in caso affermativo in quale senso e misura si possa intenderne la “storicità”, a mio avviso, in passato e ancor più nel presente è stato impostato in maniera inadeguata e scorretta. Infatti si può dire senza dubbio che il personaggio posto a fondamento della religione cristiana, in tutte le diverse chiese e confessioni nelle quali essa si è storicamente incarnata, è il risultato della stratificazione e della confluenza di almeno tre tradizioni:

a) un profetismo popolare ebraico in cui si esprimevano  rivendicazioni politiche che miravano a ricostituire nella sua integrità e a sottrarre all’influenza romana il regno giudaico, -pur se fondamenti ben diversi da quelli propri della monarchia degli Asmonei (che avevano regnato sulla Giudea dal 140 al 37 a. C.), e poi di Erode il Grande e dei suoi figli, accusati di essere troppo filo-elleni in campo culturale e troppo filo-romani in politica-, talora intinte di vaghe aspirazioni di rinnovamento sociale e di istanze egualitarie. Ricordiamo che nella concezione ebraica, -al di fuori delle correnti mistiche di cui parleremo in seguito- il “Messia” non era un salvatore dell’umanità, un restauratore dell’ordine cosmico, compromesso dalle tenebre del peccato, e tanto meno un redentore dell’essenza divina dell’individuo attraverso cui conseguire la vita eterna, ma un restauratore della libertà e della potenza del popolo ebraico. Ed infatti tra la fine del I secolo a. C. e la prima metà del I d. C. fino alla rivolta ebraica del 66 apparvero in Palestina numerosi pretesi “messia” che diedero molto filo da torcere sia ai tetrarchi erodiani, sia ai prefetti e procuratori romani.

veduta aerea del sito archeologico di Qumran, sede di una comunità essena e luogo del ritrovamento di alcuni dei più importanti manoscritti attribuiti alla setta.
veduta aerea del sito archeologico di Qumran, sede di una comunità essena e luogo del ritrovamento di alcuni dei più importanti manoscritti attribuiti alla setta.

Di questo strato si notano scarse tracce nei vangeli, canonici e apocrifi, e in genere presentate in forma negativa, ovvero come proposte e critiche respinte da Gesù: ad es. il fatto che S. Pietro possedesse ed abbia usato una spada nella circostanza dell’arresto di Gesù, suscitando il rimprovero del maestro (Matt.. XXVI, 51; Marco, XIV, 47; Luca XXII, 50; Giov. XVIII, 10) è sicuro indizio che l’apostolo doveva aver appartenuto a qualcuna delle sette politico-religiose presenti allora in Giudea, come quella degli Zeloti (1); la critica espressa da Giuda Iscariota a una donna che aveva versato su Gesù un’ampolla di preziosissimo nardo, obiettando con una argomentazione “populistica” che il denaro speso per esso avrebbe potuto essere donato ai poveri (2); su un piano mitologico, l’episodio delle tentazioni di Cristo, narrate nei vangeli sinottici (Matt., I, 11; Luca, IV, 1-11; accennato solo da Marco, I, 12-13), che attraverso l’enunciazione delle “tentazioni” respinte da Cristo vuole mostrare come la missione di costui sia solo spirituale, e non politico-sociale; un altro richiamo a questa componente del messianismo politico è la figura controversa, seppure solo accennata nei vangeli, di “Barabba”, -colui che Pilato liberò al posto di Cristo su richiesta del popolo di Gerusalemme, stando ai vangeli sinottici (Matteo, XVII; 15-26; Marco, 15, 6-15; Lica, XXII, 17-24)- probabilmente membro di una setta antiromana, sulla quale torneremo in seguito (3);

b) le correnti spirituali mistiche ed esoteriche del tardo giudaismo, in particolare quella degli Esseni, -nei cui testi sacri (4) sono state riscontrate analogie e talvolta precise corrispondenze testuali con proposizioni e aforismi presenti nei vangeli, sia canonici, sia apocrifi- (5); ma pure quelle più eclettiche di Simon Mago -presentato in luce negativa negli “Atti degli Apostoli” (VIII, 9-24)(6)- e di Dositeo (7), i quali a loro volta furono discepoli di Giovanni Battista; nella predicazione e nei riti di purificazione celebrati da quest’ultimo, dal quale discese una scuola o chiesa che per un certo tempo fu parallela e antagonista di quella propriamente cristiana, pur se le due chiese in qualche modo si intrecciarono (ed esempio di tale sincretismo è l’evangelo di Giovanni, che è assai diverso da quelli sinottici) (8): a questa componente si possono assegnare i detti e gli insegnamenti spirituali e morali di cui abbondano i vangeli sia canonici, sia apocrifi, nonché le ricorrenti critiche contro il legalismo e il formalismo dei Farisei, che erano la corrente più importante e ascoltata dal popolo del giudaismo ortodosso (9).

c) il terzo e più importante strato è quello mitologico, cioè quello del “dio salvatore”, che con il suo sacrificio salva l’umanità, e/o i singoli individui che credono e che si identificano in lui, e che ha molteplici analogie e paralleli con gli dei salvatori che soffrono, subendo umiliazioni e persecuzioni, vengono uccisi e infine risorgono alla vita su un piano superiore, sui quali ci siamo più volte soffermati nella presente e in altre trattazioni (si veda in particolare quella su “Il Dio che muore e rinasce” del 15 novembre 2013).

In questo “adattamento”, operato presumibilmente da S. Paolo, -o qualcun altro della sua cerchia rimasto nell’ombra- nella seconda metà del primo secolo, una figura più o meno storica viene a sostituire il dio mitologico la cui vicenda terrena nelle altre religioni salvifiche veniva posta in un passato remoto, – o in una dimensione astorica-, ma di cui condivide le caratteristiche essenziali: nascita miracolosa (talora partenogenetica, spesso in grotte, come Dioniso-Zagreo e Mitra), miracoli, persecuzioni, sofferenze ed infine la morte, -che avviene ad opera di entità superumane nei miti delle altre religioni (Seth per Osiride; Loki per Balder; il mostro androgino Agdistis per Attis; Ares trasformato in cinghiale per Adone; i Titani per Dioniso-Zagreo, ecc.), mentre in questo caso è inflitta per mano degli uomini-, seguita da un resurrezione o rinascita in una forma per così dire sublimata che prefigura la sorte ultraterrena dell’anima umana che attraverso le prove e l’annullamento della materialità giunge a riconquistare la sua condizione spirituale, anzi divina.

Ma, oltre allo schema generale di “passione-morte-resurrezione”, un elemento importante e specifico avvalora l’ipotesi di questo processo di assimilazione o di sovrapposizione della figura di Cristo a quella dei redentori delle religioni “gentili”(10): l’identificazione che egli stesso fa del proprio corpo e del proprio sangue con il pane il vino. Questo simbolismo mistico è presente in misura assai rilevante nei miti e nei culti di vaste aree europee e asiatiche (e ancor più se si mete in relazione con le bevande sacre inebrianti delle religioni indo-iraniche: “soma” e “haoma”), dove le divinità salvifiche vengono di frequente identificate con i frutti dell’agricoltura -il grano, il grappolo d’uva-, i quali “morendo”, ovvero venendo macinati o spremuti, e quindi sacrificandosi offrono all’uomo il nutrimento; tale nutrimento (pane, vino) da cibo materiale che, nutrendo il corpo, mantiene la vita fisica, con un processo mistico diviene cibo spirituale, che consente il conseguimento della vita eterna.

Agnello che benedice i pani. Immagine del IV sec. nelle catacombe di Commodilla.
Agnello che benedice i pani. Immagine del IV sec. nelle catacombe di Commodilla.

Queste analogie sono particolarmente evidenti con le figure di Adone-Tammuz (il grano) e di Dioniso (l’uva): Tammuz è la spiga di frumento che cade sotto la falce durante la mietitura. Il pane è fatto con la spiga di Cibele, -la Madre Terra- e il vino è il sangue di Dioniso.

Ma il simbolismo del frumento e della vita non è limitato solo all'”ultima cena” dove fu istituita l'”eucarestia”, ovvero il mistero e il rito redentivo del cristianesimo, dove viene sancita in modo solenne ed esplicito l’identificazione di Gesù Cristo con il pane (corpo) e il vino (sangue), ma percorre tutta la narrazione dei vangeli, in forma vuoi di miracoli, vuoi di metafore attraverso le quali il Cristo esprime il senso della propria missione e il cammino di morte mistica che l’anima deve percorrere per giungere alla redenzione.

Il “figlio di Dio” è anche il figlio della “Grande Madre”, -lo Spirito Santo, e la sua incarnazione terrena, Maria, che assurge a simbolo del divino femminile e compendio di tutte le “dee madri”-, il figlio che muore e poi risorge: simbolo esterno della vegetazione che scompare e rinasce ogni anno: simbolo interiore dell’anima che deve discendere nell’Ade (le profondità dell’inconscio) per comprendere sé stessa e il mondo; simbolo spirituale e cosmico dell’energia divina che penetra negli Inferi per illuminarli e redimerli e si ricongiunge poi al suo principio.

Tra i passi dei vangeli in cui ricorre il simbolismo del grano e della semina ricordiamo la parabola del seminatore, -del quale solo i semi che cadono nel terreno fertile germogliano redando poi messi abbondanti- (Matt. XIII, 3-9; Marco, IV. 1-20; Luca, VIII, 5-15; nonché il “loghion” n.9 del vangelo di Tommaso); quella del frumento seminato in un campo a cui viene aggiunta la zizzania (o il loglio) da un nemico del seminatore, nella quale a sua volta è inserita la similitudine della donna che impasta il pane con farina e lievito (Matt. XIII, 24-43); e soprattutto quanto viene proclamato nel vangelo di Giovanni (XII, 24-25): “Se il chicco di frumento, caduto in terra [cioè seminato] non muore [non si scompone per far sbocciare il germoglio che ha in sé], rimane solo; ma se muore produce molto frutto. Chi ama la propria vita la perderà, e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserva per la vita eterna”. In queste parole viene mirabilmente sintetizzato l’autentico significato dell’esistenza terrena e la meta a cui tendere: la “morte” alla vita profana e terrena, la rinuncia, -che in effetti non è un sacrificio, ma un’illuminazione- ai beni fallaci di questo mondo per conquistare la “vera vita” e scoprire la propria autentica essenza dentro di sé (che è simbolizzata anche attraverso il “regno dei cieli” del quale tanto spesso si parla nei vangeli).

Il pane è presente, insieme al pesce (altra immagine che, oltre ad essere uno dei simboli del cristianesimo primitivo, è assai diffusa e pregnante in molte religioni, -e della quale tratteremo in altra sede-), nel celeberrimo miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, narrato in tutti i vangeli canonici, con i quali sarebbero state sfamate ben 5.000 persone, ma che di certo sotto le spoglie di un evento miracoloso vuole rappresentare l’elargizione del “pane spirituale”; anche il numero dei pani (cinque) e dei pesci (due) per un totale di sette risponde ad un simbolismo mistico-esoterico (11).

Quanto alla vigna, alla vite e al vino, essi appaiono nella parabola del padre di famiglia che assume lavoratori per la sua vigna (Matt., XX, 1-16); in quella dei vignaioli assassini, che quando il padrone manda i suoi servi affinché gli rechino la parte dell’uva raccolta che gli spetta, li percuotono e li uccidono (questo è l’unico brano che si trova pressoché identico in tutti i vangeli canonici -Matt. XXI, 23-41; Marco XII, 1-12; Luca ; Giov. XX, 9–, nonché nell’apocrifo vangelo di Tommaso -“loghion” n.65); il passo di Giov. XV, 1-16, ove G. Ch. afferma di essere la vite e i discepoli i tralci, mentre Dio-padre è il vignaiolo; e finalmente, -sempre in Giov. II, 1-10-, la narrazione del miracolo delle nozze di Cana, ove l’acqua viene trasformata in vino a significare il processo di rigenerazione spirituale e di trasmutazione interiore.

Vendemmia in un mosaico del III secolo proveniente dall'Africa settentrionale.
Vendemmia in un mosaico del III secolo proveniente dall’Africa settentrionale.

Una fusione nel simbolismo del cibo solido (pane) e cibo liquido (vino) era presente nei Misteri Eleusini, che si celebravano fin da tempi remoti nel santuario di Eleusi nei pressi Atene, ed erano la più importante testimonianza di religiosità mistica nell’antica Grecia, prima che vi fossero importati e vi si affermassero i culti di origine orientale, nei quali celebravano le vicende mitiche di Demetra, di sua figlia Core (poi detta Persefone), rapita da Plutone, e di Iaccho -che era una variante o un’ipostasi di Dioniso- (12). In esso infatti gli adepti durante una cerimonia bevevano una sorta di bevanda sacra, il “kykeon”, che secondo l'”Inno omerico a Demetra”, risalente al VII-VI sec. a. C., era costituito di acqua, farina, d’orzo e succo di menta (v. 209), e pertanto in esso in un certo senso si fondevano la natura del pane e del vino.

Fu questa la pozione richiesta secondo il mito da Demetra allorché si trattenne ad Eleusi ospite di Celeo e Metanira, durante la sua peregrinazione alla ricerca della figlia Core. E’ incerto se tale bevanda avesse carattere inebriante, poiché non è del tutto chiaro se venisse fatta fermentare, -così da provocare la trasformazione in alcool degli amidi della farina ad opera dei Saccaromiceti (lieviti)-  o meno, -in quanto le testimonianze al riguardo sono contraddittorie (forse anche perché si riferiscono ad epoche e circostanze diverse)-; senza dubbio questa pozione, sia per gli ingredienti, sia per il significato simbolico, sia per l’effetto che doveva produrre, era strettamente imparentata con il “soma” e l'”haoma” di cui abbiamo fatto cenno sopra.

Essa veniva assunta dagli adepti dei misteri Eleusini di grado più elevato, -detti “epopti”, termine che significa propriamente “coloro che contemplano”-, dopo un periodo di astinenza e digiuno della durata di nove giorni; dalla testimonianza di Eraclito (fr. B125) apprendiamo che la bevanda veniva di frequente rimescolata e in particolare poco prima che gli “epopti” sorbissero ritualmente il sacro liquido, -dal che si deduce che esso non avrebbe avuto natura inebriante (tanto più che nel mito di Demetra la dea accettava il “kykeon” dopo aver rifiutato del vino offertole dai suoi ospiti)-.

Di recente è stata fatta l’ipotesi che il cereale la cui farina era impiegata per confezionare il “kykeon” fosse infettata, in modo casuale o con intenzione, dalla “segale cornuta”  (Claviceps purpurea e altre specie del genere Claviceps, appartenente alla divisione degli Ascomiceti), fungo contente sostanze allucinogene e psico-attive, tossico se assunto ad alte dosi. Questa contaminazione si sarebbe prodotta nei campi della pianura Riaria, a metà strada tra Atene ed Eleusi, dove i sacerdoti eleusini coltivavano le graminacee da destinare alla preparazione del “kykeon”.

Oltre a questo “convito eucaristico”, l’altro momento saliente del rito era l’ostensione della spiga di grano, o di orzo, matura che veniva innalzata e mostrata al popolo dal sacerdote (lo “ierofante”), un po’ come durante la messa cattolica avviene l’elevazione dell’ostia durante la liturgia eucaristica. Codesta elevazione avveniva dopo che i fedeli avevano attraversato bui corridoi (proprio come semi sepolti nella terra a germogliare) e venivano investiti da fasci di luce per significare la “nuova vita”.

Si sa che anche presso gli Esseni e i Terapeuti (13) era celebrato un convito sacro con la consumazione rituale e comunitaria del pane; tuttavia in tali celebrazioni non era contemplato l’uso del vino, -poiché gli Esseni, come i Pitagorici, erano astemi e vegetariani-, né tanto meno essi intendevano con quel rito inghiottire il “corpo di Dio”  (cosa che per essi sarebbe stata blasfema). Ugualmente celebravano un’ “agape” i devoti di Mitra, i quali si riunivano nei loro luoghi di culto, i mitrei, -quasi sempre situati in grotte o locali semisotterranei-, dove aveva luogo un parco convito sacro, simile all’eucarestia cristiana, dove si consumava pane, acqua e vino (che si presume abbia sostituito l’originaria bevanda sacra iranica, l'”haoma”, allorché il culto di Mitra si diffuse in occidente), e che rimembrava anch’esso l'”ultima cena” del dio, avanti di ascendere al Cielo sul carro del Sole. Ad esso però sembra fossero ammessi solo gli adepti dei gradi superiori della gerarchia mitraica, da “Leo” a “Pater” (14).

In effetti, anche limitandosi alla lettura dei vangeli canonici, se fatta con attenzione e con atteggiamento scevro da pregiudizi fideistici, non potrà sfuggire la cospicua quantità di punti oscuri ed enigmatici, di incongruenze e contraddizioni che costellano la narrazione (15), nonché di ripetizioni o viceversa di reticenze e di lacune, che danno l’impressione alcuni passi essere stati espunti, o malamente sintetizzati. Pertanto si può dire che nella figura di Gesù Cristo quale appare nei vangeli canonici ed in quelli apocrifi (sebbene questi ultimi nel complesso più coerenti al loro interno) siano confluiti in diversa misura più personaggi storici, tenendo anche conto del fatto che, come abbiamo segnalato sopra, nella Palestina del tempo esistevano diverse sette -sia mistico-religiose, sia politico-religiose-, e alquanti maestri, profeti e santoni (di cui alcuni citati nel NT, quali Giovanni Battista in positivo, e Simon Mago in negativo), le cui dottrine e le cui imprese si intrecciavano e si influenzavano reciprocamente.

Addirittura si potrebbe pensare che l'”illuminato”, il “grande iniziato”, rivelatore di un rivoluzionario insegnamento salvifico, che doveva unificare e completare tutte le tradizioni spirituali, e l’umile figlio del falegname di Nazareth fossero due persone distinte, le cui storie si sarebbero in qualche modo incontrate e sovrapposte; e dunque ad essere condannato a morte sarebbe stato il secondo forse davvero legato a gruppi di Zeloti, -la setta ebraica che mirava a combattere il dominio romano in Giudea- e che ovviamente non risorse, mentre il maestro spirituale non era morto affatto (16).

Questa ipotesi è avvalorata anche dal fatto che le genealogie di GC tramandate nel vangelo di Matteo (I, 1-17) e in quello di Luca (III, 23-28), a partire dal re Davide sono quasi completamente diverse, a parte Salatiel, Zorobabele e ovviamente Giuseppe, con il quale la versione data da Matteo si conclude, mentre quella di Luca, che risale a ritroso, ed è più breve -poiché comprende 63 generazioni, contro le 77 di Matteo-, comincia; peraltro Giuseppe, se si accetta la concezione per opera dello Spirito Santo, era soltanto il “padre putativo” e non avrebbe dunque titolo per entrare nella genealogia, mentre semmai vi dovrebbe essere inclusa Maria.

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Note

1)gli Zeloti erano un gruppo politico-religioso fondato che si opponeva anche con iniziative violente al dominio romano nella Palestina giudaica. Era stato fondato da un certo Giuda il Gaulanita, o Giuda il Galileo, figlio di Ezechia di Gamala, città della Gaulanitide (subregione palestinese corrispondente all’incirca alle odierne “alture del Golan” in Siria al confine con Israele), il quale asseriva di essere un discendente della famiglia degli Asmonei, che aveva regnato prima di Erode il Grande. Questi si era proclamato re e aveva organizzato delle sanguinose rivolte antiromane nel 6 e nel 7 d. C. in occasione del censimento indetto dal legato romano in Siria P. Sulpicio Quirinio, e che furono duramente represse. Non si sa tuttavia quale sia stata la sua fine. Altri però ritengono che questa setta politico-religiosa fosse stata fondata, o meglio, iniziata dal padre di costui, l’Ezechia prima citato il quale si era già ribellato ad Erode.

2) questo episodio si sarebbe verificato secondo Matteo (XXVI, 7-9) e Marco (XIV, 3-5) in casa di Simone; secondo Giovanni (XII, 1-11) a casa di Lazzaro. Il nome della donna che avrebbe compiuto il gesto non è specificato nei primi due, mentre per Giovanni sarebbe stata Maria di Betania, sorella di Lazzaro. Per ulteriori notizie sul nardo, si veda la nota n. 2 all’articolo sulla Fenice del 24 dicembre 2013.

3) un altro esempio, -oltre a quello citato nella nota 1-, di questo messianismo politico-religioso ci offerto da Teuda, che fu a capo di un tentativo di ribellione di stampo messianico contro i Romani, e che è citato anche negli “Atti degli Apostoli” (V, 36), Secondo quanto tramanda Flavio Giuseppe (Antichità giudaiche, XX, 97-98) egli sosteneva di essere un profeta e aveva convinto molte persone a cedergli i loro beni e a seguirlo sulle rive del Giordano, che, a suo dire, si sarebbe aperto davanti a lui. Ma Cuspio Fado, procuratore della Giudea dal 44 al 46, inviò contro l’assembramento illegale un contingente di cavalleria, che ne uccise o catturò gran parte. Lo stesso Teuda fu arrestato e gli fu mozzata la  testa.

4) soprattutto quelli scoperti a Qumran sulle rive del Mar Morto tra il 1947 e il 1956 e pertanto detti “Rotoli del Mar Morto”. Di essi alcuni contengono scritti compresi nel canone della Bibbia ebraica, altri sono testi apocrifi, altri ancora sono testi propri della setta (regole della comunità, inni di ringraziamento, precetti morali, ecc.). Questi testi non è del tutto certo che appartenessero agli Esseni, ma di certo mostrano un tipo di spiritualità a loro prossimo; è probabile che il termine “Esseni” usato da autori quali Filone di Alessandria, Flavio Giuseppe, Plinio il Vecchio, non indichi una vera propria scuola o setta unitaria organizzata, ma comprenda in realtà tutti i gruppi che propugnavano una visione “mistica” dell’ebraismo, pur essendovi tra di essi differenza sia dottrinali sia pratiche, come avremo modo di vedere oltre nella nostra ricerca.

5) si tenga presente però che gli Esseni non davano certo un’interpretazione universalistica dell’ebraismo: essi si consideravano anzi gli eletti degli eletti, tanto superiori ai comuni giudei, quanto tra di essi i maestri erano superiori ai neofiti, al punto che il contatto fisico di una persona di rango inferiore con un “iniziato” era ritenuto una contaminazione: sotto questo aspetto avevano un concezione simile a quella degli Indù. Inoltre anch’essi professavano la credenza nella reincarnazione (e che tale credenza fosse presente in Palestina vi sono chiari indizi in alcuni passi dei vangeli, -ad esempio in Giov. IX, 1-2 -episodio del “cieco nato”; Matt. XI, 14 e XVII, 12-13 -Giovanni Battista reincarnazione del profeta Elia-; nell’apocrifo “Vangelo di Maria Maddalena”, 235-236: “E’ così necessario morire di molte morti per conoscere la luce della nascita”). La dottrina della pre-esistenza delle anime, largamente attestata nel cristianesimo primitivo, fu condannata come eretica nel II concilio di Costantinopoli del 553 -come già avemmo modo di vedere a proposito di Orìgene-. Da quanto sappiamo dagli scritti di Flavio Giuseppe ( Guerre Giudaiche, II; Ant. Giud. XVIII, 11-24) oltre agli Esseni che vivevano in comunità, quelli dei gradi iniziatici più alti, ve n’erano altri che conducevano la loro vita nel “mondo” dedicandosi alle normali attività civili, pur cercando di attenersi ai principi morali e spirituali della scuola.

6) Simone di Gitta, detto Simon Mago, “il quale esercitava la magia e riempiva di stupore il popolo di Samaria” e veniva chiamato dai suoi seguaci la “potenza di Dio”, appare negli Atti degli Apostoli (VIII, 9-24), come una figura negativa: dopo essere stato battezzato dall’apostolo Filippo, avendo constatato che gli apostoli Pietro e Giacomo comunicavano lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani, avrebbe richiesto a S. Pietro il dono di poter infondere anch’egli lo Spirito Santo in cambio di denaro (da qui il termine “simonia” con il quale si indicò in epoca più tarda la compravendita di cose sacre). In realtà le questioni che si pongono intorno a questa figura sono più complessi: per alcuni adombrerebbero il contrasto nella nascente comunità cristiana tra coloro che intendevano la nuova dottrina solo come una riforma o un’innovazione dell’ebraismo e coloro che invece la sentivano come una via spirituale tutt’affatto diversa, destinata a chiunque volesse trovare (o ritrovare) il divino indipendentemente dalla sua origine e dalla sua cultura, tanto che vi è chi giunge a identificarlo con S. Paolo. Sembra che si proclamasse incarnazione della Suprema Potenza Divina. Gli eresiologi proto-ortodossi Ireneo ed Ippolito asseriscono che da lui sarebbe derivata una scuola teologica di orientamento gnostico; essi peraltro divergono nelle dottrine che gli attribuiscono, pur se sembra certo il tema dell’opposizione tra il vero Dio buono da cui sono uscite le anime e il Dio dell’AT, creatore della materia e delle tenebre, che ha usurpato la regalità del primo. Secondo Ippolito a una Potenza infinita, ingenerata e suprema, identificata con il Fuoco metafisico di Eraclito e degli Stoici, ma chiamata Silenzio, promanano altre sei potenze minori o radici a coppie (Spirito e Pensiero, Voce e Nome; Ragione e Riflessione), alle quali corrispondono nel mondo sensibile rispettivamente Cielo e Terra, Sole e Luna, Aria e Acqua. Ad esse si aggiunge una settima potenza, che avrebbe ispirato i profeti biblici e attraverso la quale si realizza la salvezza cosmica e individuale, come ritorno all’unità nel Fuoco-Silenzio primordiale. La sua scuola fu continuata ed illustrata soprattutto dal suo discepolo Menandro anch’egli samaritano.

7) di Dositeo si hanno notizie incerte e contrastanti in Clemente di Alessandria e Origene; sembra che abbia fondato comunità simili a quelle esseniche, e professato dottrine analoghe alle loro, ma che si differenziavano da esse per l’inserzione di elementi di origine ellenica e zoroastriana. Fu il probabile maestro di Simone di Gitta, ma è comunque ritenuto un esponente della gnosi precristiana.

8) la figura di Giovanni Battista è in effetti alquanto enigmatica; le notizie su di lui provenienti da fonti cristiane ne descrivono e interpretano l’opera e la dottrina solo in rapporto a quella di Cristo, di cui sarebbe stato il “precursore”. Tale rapporto appare decisamente ambiguo, poiché sembra che la stessa “divinità” di Gesù debba essere in qualche modo confermata se non infusa dal Battista; anche la qualifica di “precursore” senza dubbio sembrerebbe indicare se non la superiorità di Giovanni Battista, quanto meno che la missione di questi fosse una premessa necessaria all’opera redentrice di Cristo. Giovanni Battista è considerato il fondatore, o meglio l’ultimo profeta e riformatore della religione dei Mandei -detti anche, impropriamente “cristiani di S. Giovanni”-, dei quali rimangono ora poche migliaia nell’Iraq meridionale e che sono stati decimati nei secoli dalle persecuzioni, l’ultima delle quali perpetrata da Saddam Hussein. Essi, -che parlano una loro lingua, il mandaico, variante dell’aramaico orientale-, si ritengono i seguaci dell’autentico insegnamento del profeta palestinese, da loro chiamato Iuhana Masbana, e professano una dottrina dualistica, in cui si contrappongono Mondo della Luce e Mondo delle Tenebre, per certi aspetti affine a quella dei Manichei (da essi giudicati però seguaci di una falsa religione al pari di Ebrei, Cristiani e Musulmani). Per i Mandei il vero Cristo spirituale è il Grande Angelo Manda D-Haiyé (Gnosi di Vita), che è colui che invero fu battezzato da Giovanni Battista nel Giordano, mentre il Gesù Cristo adorato dai cristiani non sarebbe altro che un impostore, un falso profeta, un agente delle tenebre. Sui Mandei si veda la specifica trattazione esposta negli articoli del 15 luglio e 1 agosto 2019.

9) peraltro Flavio Giuseppe in “Guerre giudaiche”, II, 8, -dove espone in breve le dottrine delle diverse sette ebraiche e le differenze tra di esse-, attribuisce espressamente ai Farisei la credenza nella metensomatosi, poiché afferma che secondo essi dopo la morte l’anima di un giusto passa ad un altro corpo, mentre quella di un ingiusto deve subire una serie infinite di pene nell’Ade. Questo in parte conferma quanto si afferma nel vangelo di Giovanni, IX, 1-23, nell’episodio del cieco nato, dove si dice che alcuni discepoli chiesero a Gesù se avesse peccato lui o i suoi genitori perché fosse nato con la disgrazia della cecità; ma in parte se ne distacca poiché in questo caso la rinascita in condizioni esistenziali infelici sembra essere un castigo. E’ certo comunque che quella relativa alla metensomatosi o alla metempsicosi era una dottrina professata da molti giudei nella Palestina del I secolo.

10) il termine “gentiles” (ovviamente da “gens” = stirpe) è la traduzione latina del greco εθνικoι (da εθνoς -pl. εθνη-), con il quale nella “Bibbia dei LXX” venne reso l’ebraico “goy” (pl. “goyim), e con il quale erano indicate le “nazioni” non ebraiche e le loro religioni. L’idea che sottintende questa denominazione è che mentre la religione degli Ebrei era l’unica direttamente rivelata da Dio e l’unica che aveva mantenuto la purezza dell’originaria “rivelazione”, quelle degli altri popoli avevano “corrotto” questa rivelazione, di cui in tempi remoti erano anch’essi partecipi, con idee e concezioni che non venivano da Dio, ma erano creazioni umane -come si direbbe in termini moderni un “prodotto culturale”-, o addirittura suggestioni demoniache.

11) nei vangeli di Matteo (XV, 32-39) e di Marco (VIII, 1-10) viene narrata pure una seconda moltiplicazione, -di sette pani e pochi pesciolini-, che però anche la critica più ortodossa ritiene una ripetizione della prima.

12) Iacco, -nome simile a Bacco- era figlio di Zeus e di Demetra, o di Persèfone (nome assunto da Core dopo che scelta come sposa da Plutone divenne regina degli Inferi) ed era un altro nome di Zagreo, -la prima incarnazione di Dioniso, ovvero la seconda, per gli Orfici, i quali consideravano primo Dioniso Fanete, l’entità cosmica primigenia -. Stando a quanto narra il poeta greco-egiziano Nonno di Panopoli, -vissuto nel V secolo, ma che prese ispirazione da miti ben più antichi-, nel sesto canto del poema “Le Dionisiache” (che tratta delle vicende e peregrinazioni di Dioniso), Demetra preoccupata per il destino della figlia, che era stata chiesta in moglie da molti dei, aveva consultato Astreo, padre dei venti e divinità profetica; il responso che questi le diede comprendeva un evento triste (il rapimento di Persefone da parte di Zeus in aspetto ferino) ed uno lieto (il dono delle messi che il dio supremo avrebbe recato a Demetra). Allo scopo di stornare la parte negativa della predizione, ella nascose la figlia in una grotta della Sicilia, insieme alla sua nutrice Calligenia, mentre due serpenti avrebbero dovuto fare loro guardia. Ma l’astuto Zeus, assunte egli stesso le sembianze di serpente, si insinuò nella grotta e si unì a Persefone. Da questo connubio nacque Zagreo (Iacco), il quale aveva il capo adorno di due piccole corna (e quindi era simile a un capretto, così come Gesù è un agnello), che la madre partorì nella stessa grotta che era divenuta sua dimora. Era, la legittima consorte di Zeus, però, -come sempre gelosa delle sue rivali ed ostile ai figli che esse davano al re degli dei-, comandò a due Titani di uccidere il bambino; essi dopo essersi mascherati imbiancandosi il viso di gesso, sorpresero il piccolo Zagreo mentre stava giocando e ingannatolo con l’offerta di infantili balocchi, lo assassinarono e ne tagliarono il corpo in sette pezzi (in analogia a quanto fece Seth con Osiride). Prima di rendere lo spirito però il giovane dio cercò di salvarsi con una serie di metamorfosi, prima in forma umana (giovane, vecchio, bambino, adolescente) e poi animale (leone, cavallo, serpente, tigre, toro); in quest’ultima forma egli viene definitivamente abbattuto. Scoperta la morte di Zagreo, Zeus punisce i Titani precipitandoli nel Tartaro, mentre le membra di Zagreo-Iacco, ad eccezione del cuore, conservato da Atena, vengono cremate; dalle loro ceneri sepolte nella terra nacque poi la vite, per cui il frutto della vite è il sangue di Zagreo-Dioniso. Questo mito dunque è assai simile a quello orfico, in cui Zagreo è la figura centrale. Si veda al riguardo la seconda parte dell’articolo “Quel savio gentil che tutto seppe” del 12 aprile 2013. Presso i Romani tutte queste divinità furono accomunate e identificate col dio latino chiamato “Liber”, figlio di Cerere, quando iniziò il processo di ellenizzazione dei numi romani; ma lo stoico Lucilio Balbo, nel suo discorso sugli dei esposto nel II libro del “De natura deorum” di Cicerone (62), distingue il Liber figlio di Semele (ovvero il Dioniso greco, il “secondo Dioniso”), dal Liber “quem nostri maiores auguste sancteque cum Cerere et Libera consecraverunt”; nell’opera ciceroniana inoltre i nomi delle divinità “Liber ” e “Libera” sono interpretati nel senso di “figli” (in latino “liberi” in relazione ai genitori), ovviamente di Cerere (e per i Romani quindi Bacco-Iacco-Libero non era figlio di Persefone, ma suo fratello). Tuttavia gli studiosi moderni dubitano di questa interpretazione e sono propensi a considerare “Liber” come la traduzione di uno degli epiteti di Dioniso (Λυσιος, Eλευθεριoς). E’ comunque certo che fin dal 496 a. C. dopo una consultazione dei Libri Sibillini gli dei membri della triade romana Cerere-Libero-Libera furono identificati rispettivamente con Demetra, Dioniso (Bacco, Iacco) e Core-Persefone. Anche nella VII ode Istimica di Pindaro (“A Strepsiade di Tebe, vincitore nel pancrazio”, vv. 3-5), Dioniso appare intimamente legato a Demetra, poiché siede accanto alla dea, sebbene non venga detto suo figlio. Diodoro Siculo nella sua opera “Bibliotheca Historica” (III, 62-67) espone una rassegna delle idee che circolavano tra i mitografi circa la natura di Dioniso: alcuni non riconoscono che un solo Dioniso, altri ne ammettono tre; altri ancora affermano che non vi fu un dio in forma umana di tal nome, ma con esso si voleva indicare in allegoria il frutto della vite, e il vino. Costoro sostengono che egli ebbe due nascite poiché la prima corrisponde alla germinazione della pianta, mentre la seconda significa il momento in cui essa reca i grappoli sui suoi rami: dunque Dioniso avrebbe avuto due nascite: la prima quando uscì dal grembo della terra, l’altra producendo, o manifestandosi, nel frutto della vite. Altri mitografi gli attribuiscono pure una terza nascita, quando dopo essere stato smembrato dai Titani e messo a cuocere in un pentolone, fu poi restituito alla vita da sua madre Demetra che ne aveva riunito le membra.

Dioniso come grappolo d'uva in un dipinto pompeiano.
Dioniso come grappolo d’uva in un dipinto pompeiano.

Nell’interpretazione naturalistica Dioniso,  è detto figlio di Zeus e di Demetra perché la vite si sviluppa e il suo frutto (l’uva) matura grazie all’opera congiunta della terra (Demetra) e della pioggia,-che viene dal cielo- (Zeus). Lo smembramento e la bollitura del dio significano la spremitura dei grappoli per ottenerne il vino. Le membra dilaniate che vengono riportate al pristino stato dalla madre (e quindi la “resurrezione”) vogliono significare che la vigna, dopo essere stata spogliata dei frutti durante la vendemmia ed essere stata potata, si prepara a recare una nuova generazione di frutti. Coloro che invece credono in Dioniso persona lo ritengono scopritore della coltura della vite e della vinificazione, e su questa natura concordano sia coloro che parlano di un solo Dioniso, sia coloro che ne distinguono tre. Per questi ultimi il primo sarebbe originario dell’India, terra che produrrebbe spontaneamente le viti, e di cui egli avrebbe insegnato la coltivazione e l’uso del vino, nonché la coltura di altre piante da frutto, come il fico. Dall’India egli poi partì per diffondere in tutto il mondo l’arte di coltivare la vie e altre piante e di spremere i grappoli d’uva. In realtà è assai improbabile che la “Vitis vinifera” provenga dall’India; si ritiene che luogo d’origine di tale pianta sia l’Anatolia orientale e la regione caucasica ove sono state rinvenute le prime testimonianze di coltura della vite. Probabile invece che a fondamento del mito della provenienza indiana siano la pianta, il frutto e il succo da esso ricavato della “Cissus vitiginea”, anch’essa appartenente alla famiglia delle Vitacee, di cui parla Plinio il Vecchio in Nat. Hist., XII, 28 dandole il nome di “amomum” (si veda al riguardo quanto abbiamo detto nella ricerca sulla Fenice del 24 dicembre 2013). Il secondo e il terzo Dioniso sono rispettivamente il figlio di Zeus e Persefone e quello di Zeus e Semele, -dei quali abbiamo già trattato-. Da  notare che secondo Diodoro il nome “Dioniso” deriverebbe dal fatto che il figlio di Zeus e Semele, -la quale, come sappiamo, incenerita dal fulgore del dio, che incautamente aveva pregato di apparirle in tutta la sua maestà, non potè portare a termine la gravidanza, per cui il feto fu “trapiantato” in una coscia del sommo nume, donde uscì poi a tempo debito-, fu portato a Nisa, città dell’Arabia (ma in altre versioni della Siria o dell’India), dove fu allevato dalle ninfe: pertanto dal nome del padre (Dia, altro nome di Zeus) e quello della località ove trascorse l’infanzia (Nisa) avrebbe tratto il nome. In effetti è quasi certo che Iacco-Bacco, Zagreo e Dioniso fossero in origine divinità distinte, le quali furono in seguito messe in relazione, identificate o considerate diverse incarnazioni terrene di un medesimo principio, o “persona”, se ci vogliamo esprimere in termini di teologia cristiana.

13) i Terapeuti erano una comunità ascetica e paramonastica della quale parla Filone di Alessandria nella sua opera “De vita contemplativa”. Essi avevano la loro sede principale nei pressi del lago Maeotide nel Basso Egitto, non lontano da Alessandria. Delle loro dottrine e dei loro costumi si conosce ben poco, in pratica solo quanto è asserito dallo scrittore ebreo alessandrino; si suppone che fossero simili a quelle degli Esseni, con possibili influenze egizie. Erano noti soprattutto perché praticavano lunghi e austeri digiuni, tramite i quali speravano di avere visioni e sogni profetici.

14) questa gerarchia comprendeva sette gradi chiamati, con nome latino: Corax (Corvo); Cryphius o Nymphus (Crisalide o Fanciullo); Miles (Soldato); Leo (Leone); Perses (Persiano); Heliodromus (Corriere del Sole); Pater (Padre). I gradi di questa gerarchia erano associati ai sette pianeti, rispettivamente: Mercurio, Venere, Marte, Giove, Luna, Sole, Saturno. I “Patres”, gli appartenenti al grado più alto della gerarchia erano i sacerdoti del culto.

15) molti sono gli esempi che si potrebbero addurre, ma per rimanere nel tema che è stato l’ambito della nostra ricerca precedente, riguardante la natività, citiamo l'”adorazione dei pastori”, di cui parla Luca (II, 8-10). Nel brano evangelico si narra che un angelo apparve ad alcuni pastori che vigilavano il proprio gregge durante la notte (per inciso questo particolare, del pernottamento all’aperto contraddice l’ipotesi della nascita il 25 dicembre -che, come abbiamo detto altrove, è stata scelta solo nel IV sec.-, poiché in Palestina d’inverno di notte fa molto freddo e dunque non è possibile che gli ovini potessero trascorrere le ore notturne all’addiaccio) e annuncia loro la nascita del divino infante (“oggi nella città di David è nato il salvatore”), invitandoli a recarsi alla grotta ad adorarlo. I pastori obbediscono all’invito e vanno ad adorare il bambino avvolto in fasce nella mangiatoia; dopo di che si allontanano, magnificando con tutti coloro che incontravano la splendida novella. Da questo passo si dovrebbe evincere che già molte persone fin dalla venuta al mondo terreno di GC avrebbero dovuto essere a conoscenza dell’evento salvifico e nutrire la fede in Cristo salvatore, a cominciare dai pastori stessi, avvertiti in modo così miracoloso del fatto. Però, secondo quanto viene detto nei vangeli canonici -compreso quello di Luca-, questi non avrebbe manifestato la sua missione redentrice prima del battesimo (nei vangeli apocrifi dell’infanzia invece, come abbiamo visto nella trattazione precedente, il piccolo Gesù compie molto miracoli e mostra fin da tenera età la sua natura divina); né vi era alcuno in Palestina che fosse al corrente dell’incarnazione di Cristo prima che questi cominciasse la sua predicazione. E’ quindi evidente che questo fatto costituisce da un lato un elemento mitologico, poiché altre divinità furono poco dopo la nascita adorate da pastori: ad esempio, quando la “petra generatrix” partorisce il piccolo Mitra (bambino, ma già grandicello, con in testa il berretto frigio, e nelle mani un coltello e una fiaccola per dissipare le tenebre), sulle sponde di un fiume, all’ombra di un albero sacro, sono presenti alcuni pastori che gli offrono i loro modesti doni. Dall’altro esprime un significato anagogico-simbolico: i “pastori” sono i “puri di cuore” ai quali la “voce interiore” annuncia la nascita di Dio nella loro anima e ne prendono coscienza; allo stesso modo i Magi rappresentano la ricerca filosofica di Dio, attraverso lo studio e la meditazione.

16) sebbene possa sembrare poco pertinente, questa ipotesi di due persone assai diverse e lontane per carattere, cultura e ideali le cui esistenze si intrecciano per misteriose ragioni richiama il consimile parallelismo che circonda la vita di Cagliostro: nella figura del celebre avventuriero si sarebbero fuse quella di Giuseppe Balsamo, ciarlatano e falsario, e quella di Alessandro, conte di Cagliostro, profeta, alchimista e filosofo, depositario di arcani segreti. Questa ipotesi fu ripresa e accreditata anche in un film del 1975 del regista Daniele Pettinari.

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