BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -quinta parte-

Un’altro aneddoto riferito da Cicerone nel “De divinatione” (I, 35) ci offre una significativo esempio dell’importanza attribuita alla divinazione con i polli e delle conseguenze negative in cui si rischiava di incorrere tascurando di tenerne il debito conto: durante la seconda guerra punica il console C. Flaminio, il quale si apprestava a condurre le sue legioni contro Annibale, non si curò dei cattivi presagi che lo sconsigliavano di attaccare battaglia: prima stramazzò a terra lui e il suo cavallo davanti alla statua di Giove Statore e poi “Idem, cum tripudio auspicaretur, pullarius diem proelii committendi differebat. Tum Flaminus ex eo quesivit, si ne postea quidem pulli pascerentur, quid faciendum censeret. Cum ille quiescendum respondisset, Flaminius: -Praeclara vero auspicia, si esurientibus pullis res geri poterit, saturis nihil geretur!-. Itaque signa convelli et se sequi iussit. Quo tempore cum signifer primi hastati signum non posse movere loco, nec quicquam proficeretur plures cum accederent, Flaminius re nuntiata suo more neglexit. Itaque tribus iis horis concisus excercitus atque ipse interfectus est. Magnum illud etiam, quod addidit Caelius, eo tempore ipso, cum hoc calamitosum proelium fieret, tantos terrae motus in Liguribus, Gallia compluribusque insulis totaque in Italia factos esse ut multa oppida conruerint, multis locis labes factae sint terraeque desiderint fluminaque in contrarias partes fluxerint atque in amnes mare influxerit” (“Una volta tratti gli auspici, il pullarius gli consigliò di rimandare l’inizio della battaglia. Allora Flaminio chiese che cosa si dovesse fare se nemmeno in un secondo tempo i polli avessero rifiutato il cibo. Avendo il pullario risposto che si sarebbe dovuto continuare a stare fermi, il console ribattè: -Begli auspici! Se i polli avranno fame si potrà dare battaglia, ma una volta sazi nulla potremo più fare!-. Comandò dunque di svellere dal suolo le insegne militari e che le truppe lo seguissero. Ma il vessillifero del primo manipolo di astati non riuscì a sconficcare l’insegna, nemmeno con l’aiuto di diversi altri soldati: anche questa volta però Flaminio non tenne conto del prodigio. E così in quelle tre ore l’esercito fu trucidato e lui stesso fu ucciso. Celio aggunge poi che proprio nel tempo in cui aveva luogo quella terrificante battaglia vi furono tra i Liguri, in Gallia, in parecchie isole e in tutta l’Italia così forti terremoti che molte città rovinarono, in molti luoghi avvennero frane e smottamenti, i fiumi invertirono il loro corso e il mare si insinuò nei corsi d’acqua”)(1).

Ma, oltre a queste forme di divinazione “istituzionale” attraverso gli uccelli praticate dai sacerdoti romani, dobbiamo ricordare un altro tipo di mantica di origine greca che aveva come protagonista e “profeta” il gallo, di carattere più personale, con cui l’individuo cercava di scoprire quanto il destino aveva in serbo per lui o di essere illuminato sull’opportunità o meno di intraprendere un certo cammino o di operare una scelta importante e che si eseguiva nel seguente modo: veniva tracciato un cerchio sul suolo diviso poi in 24 piccoli spazi entro ciascuno dei quali erano si inscrivevano le 24 lettere dell’alfabeto greco. Accanto o sopra ciascuna lettera si poneva un chicco di grano o di orzo, indi in mezzo al cerchio il consultante collocava un gallo. Secondo l’ordine in cui il gallo beccava i chicchi corrispondenti alle singole lettere, queste ultime davano luogo a una sequenza in cui si poteva riconoscere, in genere con una certa aprossimazione e spesso molta fantasia, una parola o una frase di senso compiuto, dalla quale si traeva il responso. Si tenga presente che i chicchi inghiottiti dal gallo venivano via via sostituiti fino a che il gallo non si fosse stancato di beccare, così che ogni lettera potesse comparire più volte e il numero complessvo delle lettere scelte fosse sufficiente per costruire una parola o una frase abbastanza lunga. Nel caso l’indovino non fosse riuscito a trovare un’interpretazione plausibile per la parola o la frase trovata, si rimandava l’operazione ad un altro momento in base a un principio generale della divinazione che vuole quando un oracolo si rifiuti di parlare, non si debba insistere ma porre il quesito in altro tempo e in altri termini.

Si tramanda che con questo metodo il retore e filosofo Libanio e un certo Giamblico, già favorito di Giuliano l’Apostata, -da non identificare con il più famoso filosofo Giamblico, il quale al tempo in cui avvenne il fatto in questione era già defunto da molti anni-, dopo la morte dell’imperatore Valente nel 378 cercarono di scoprire il nome del successore. Poichè i primi chicchi beccati dal gallo vaticinatore furono quelli in corrispondenza delle lettere theta (θ=th), eta (ε=e), omicron (ο=o) e delta (δ=d), ossia “theod-“, essi credettero che il futuro imperatore sarebbe stato Teodoro (“Theodoros”), mentre in realtà fu Teodosio (“Theodosios”), il quale salì la al trono il 19 gennaio 379.

Anche dal canto del gallo si traevano auspici, in particolare quando esso veniva udito ad un orario inconsueto: le fonti ricordano ad esempio che la vittoria dei Beoti sugli Spartani nella battaglia di Leuttra, combattuta il 5 ecatombeone (luglio 371) a. C., fu annunciata dai galli che cantorono ininterrottamente,  come è riferito da Cicerone (De divinatione, I, 34): “Cum eodem tempore apud Lebadiam Trophonio res divina fieret, gallos gallinaceos in eo loco sic adsidue canere coepisse, ut nihil intermitterent; tum augures dixisse Beotios Thebanorum esse victoriam, propterea quod avis illa victa siliere soleret, canere, si vicisset” (“In quel medesimo tempo mentre nei pressi di Levàdia si celebrava un rito sacro in onore di Trofonio, [si dice] i galli cominciarono a cantare in continuazione; allora gli indovini Beoti dissero che la vittoria nell’imminente battaglia sarebbe andata ai Tebani, poichè quell’uccello è solito starsene in silenzio quando sia stato vinto, ma cantare senza sosta qualora sia uscito vincitore da un combattimento”)(2)(3).

In Grecia le pratiche divinatorie che si incentravano sull’interpretazione dei comportamenti del gallo si fondavano soprattutto sul fatto che il nostro pennuto era sacro ad Asclepio, il dio, o semidio, della medicina, figlio di Apollo; già nella prima parte della presente ricerca abbiamo ricordato come fosse usanza sacrificare un gallo ad Asclepio per la guarigione da una malattia e come Socrate poco prima della morte avesse pregato i discepoli di offrire un gallo al dio della medicina per significare come la dipartita dalle miserie terrene sia la guarigione definitva dal male di vivere (Fedone, 118a).

Un altro metodo divinatorio che aveva a che fare con i Gallinacei ed ebbe un certo seguito presso i Romani antichi, è il seguente: quando una donna in stato interessante voleva sapere se il suo futuro pargolo sarebbe stato un maschietto o una femminuccia sottraeva un uovo ad una chioccia che stava covando e cercava di portare a termine la cova nel suo grembo. Se l’operazione riusciva, il sesso del pulcino uscito dall’uovo avrebbe svelato alla donna se sarebbe divenuta madre di un bambino o di una bambina. Un celebre esempio di questa pratica, -che abbiamo già citato nella seconda parte della presente ricerca-, è riferito da Plinio il Vecchio (Nat. Hist., X, 76) e da Svetonio (i quali affermano che Livia Drusilla, la futura consorte di Ottavano Augusto, essendo gravida del primo marito, Tiberio Cesare, volendo conoscere il sesso del nascituro, ricorse a tale espediente, alternandosi peraltro nella cova con le sue ancelle: “Praegnans eo Livia cum an marem editura esset, variis captaret ominibus, ovum incubanti gallinae subducto nunc sua, nunc ministrarum manu fovit quoad pullus insigniter cristatus exclusus est” (“Livia essendo gravida di lui [Tiberio imperatore] e volendo sapere se avrebbe partorito un maschio, tra diversi altri presagi, riscaldò un uovo tolto a una gallina che covava con le sue mani e con le mani delle ancelle fino a quando non ne uscì un pulcino che mostrava già una notevole crestina”).

L’imperatore Onorio con i suoi volatili prediletti in un dipinto di J. W. Waterhouse (1849-1917).

E poichè anche i sogni possono essere forieri di anticipazioni del futuro, -e dunque presagi-, non possiamo fare a meno di ricordare che Artemidoro di Daldi, -celebre interprete di sogni dell’antichità-, nella sua “Onirocritica” afferma che un gallo visto in sogno significa il padre di famiglia per un povero e il fattore (o il “capo del personale”) per un ricco signore (II, 47) mentre sognare due galli che combattono presagisce che si sarà coinvolti in discordie e contese (III, 5).

Acuni imperatori romani ebbero particolarmente cari gli uccelli domestici: Elio Lampridio, uno degli autori delle biografie che costituiscono l’Historia Augusta, afferma (Hist. Augusta, Severus Alexander, XLI) che lo svago principale di Alessandro Severo, regnante dal 222 al 235, era quello di allevare pavoni, fagiani, galli e galline, anatre e pernici, e soprattutto colombi, il cui numero sarebbe giunto addirittura ai 20.000 individui (non è chiaro se tale cifra si riferisca solo ai colombi o a tutti i volatili dell’imperatore). Un altro sovrano amante dei pennuti fu Onorio, figlio di Teodosio e primo imperatore dell’Impero Romano d’Occidente, del quale si tramanda, -sebbene probabilmente falso-, un aneddoto riportato dallo storico bizantino Procopio di Cesarea (490-560 circa) (Storia delle Guerre, l. III -“Guerra vandalica”-, 2) secondo il quale, essendogli stata riferita la caduta di Roma in mano ai Visigoti  di Alarico nel 410, avrebbe esclamato: “Ma come? ha preso il cibo poco fa dalle mie stesse mani!”. Egli aveva infatti una gallina alla quale aveva dato il nome di Roma e che era la sua preferita; dopo aver saputo che la Roma in questione era la città e non la gallina, tirò un sospiro di sollievo.

Si noti che spesso i Latini per indicare il gallo inteso come volatile maschio della gallina precisavano il sostantivo “gallus” con l’aggettivo “gallinaceus”, onde chiaramente distinguere questo da altri significati che il termine “gallus” poteva avere nella lingua latina, ossia di persona appartenente alle stirpi galliche (o celtiche che dir si voglia)  o di sacerdote evirato della dea Cibele; e Quintiliano così osserva (Institutio Oratoria, VII, 9, 2): “Singula adferunt errorem cum pluribus rebus aut hominibus eadem appellatio est (“homonymia” dicitur), ut “gallus” avem an gentem an nomen an fortunam corporis significent incertum est” (4). In effetti l’etimologia di “gallus”, nel senso di pennuto, per quanto non del tutto certa, è per lo più dai linguisti riferita alla radice indo-europea “GAL”, -alternatesi a “GAR”-, avente il significato primario di “chiamare”, “gridare”, attraverso una ipotetica forma arcaica “garlus”, con posteriore assimilazione della -r- con la -l-, radice da cui derivano termini quali il sanscrito “garnati” = chiamare, e l’antico slavo “gla-gol-iti” = parlare, nonchè varie voci verbali latine e italiane che rendono il verso di alcuni animali (garrire, gracchiare, gracidare). Altri lo riferiscono invece ad un’altra radice indoeuropea, -peraltro simile alla prededente-, “KAR”, “KAL”, “risonare”, da cui il sanscrito “kalas” = sonoro, l’antico scandinavo “kalla” = chiamare (da cui l’inglese moderno “to call”) e i latini “cantus” e “canorus”. Un’altra ipotesi accosta “gallus” al verbo greco “a-gel-lo” = annunzio, e al sostantivo “ànghelos” = messaggero, con il suo omologo persiano “angar” (da cui il sostantivo “angarìa”)(5), i quali sarebbero dunque da ricondurre sempre alla radice “GAR” di cui abbiamo detto sopra, ma che dalla maggior parte dei linguisti sarebbero però da ricondurre alla radice “AG” = andare (6).

Molti sono gli aneddoti e i passi letterari riguardanti galli, galline e polli, o in cui hanno parte questi animali, nell’antichità greco-romana, dei quali alcuni già abbiamo citato ed altri andiamo ad aggiungere.

Narra Diogene Laerzio (“Vite dei filosofi”, I, 2, 51) che a Solone (630-560 a. C. circa), trovandosi in Lidia alla corte di re Creso, famoso per le sue leggendarie ricchezze, fu chiesto dal sovrano sedente su un trono sfavillante di preziosi ornamenti se avesse mai veduto alcuna cosa più splendida. Il filosofo rispose che Galli, Fagiani e Pavoni sono assai più belli per lo splendore dei colori che ad essi concede la natura.

Una strana credenza che aveva seguito in Grecia, e in particolare nel Peloponneso, -e che purtroppo non era affatto indolore per i poveri pennuti!-, è la seguente: quando soffiava forte il vento “αργεστης”, ovvero “λìψ”, -il libeccio o africo-, per placare il vento, che poteva arrecare grave danno alle coltivazioni, veniva preso un gallo sacro completamente bianco, veniva sacrificato e il suo corpo diviso in due parti, ciascuna delle quali era consegnata a due corrieri che si slanciavano in opposte direzioni (7).

Il canto del gallo in particolare è stato spesso addotto in testi poetici e filosofici come un richiamo della natura e indirettamente di Dio rivolto all’uomo affinchè questi, lasciate le molli coltri dei giacigli ove ha trascorso nel sonno le ore notturne riprenda le quotidiane occupazioni. Nella letteratura cristiana della tarda classicità, esempi famosi di citazioni del gallo quale annunciatore del giorno che celebra il ritorno e il trionfo della luce dopo l’oscurità notturna e che col suo canto esorta gli umani a compiere i loro doveri e li riconforta nelle loro oneste aspirazioni li troviamo negli “Hymni” di Aurelius Ambrosius (S. Ambrogio) e nel Cathemerinòn di Aurelio Prudenzio Clemente (8). Nella quinta e sesta strofa dell’inno “Aeterne rerum conditor” così si esprime il primo: “Surgamus ergo strenue:/ gallus iacentes excitat/ et somnolentos increpat;/ gallus negantes arguit.// Gallo canente spes redit,/ aegris salus refunditur;/ mucro latronis conditur,/ lapsis fides revertitur.” (“Alziamoci dunque senza indugio:/ il gallo ridesta i dormienti,/ sollecita coloro che ancora indulgono al sonno/ e redarguisce chi finge di non udire il suo canto. // Il canto del gallo fa tornare la speranza,/ restituisce la salute agli ammalati;/ rinfodera l’arma del brigante,/ riconforta la fede di coloro che si sono persi d’animo”). E a S. Ambrogio fa eco Prudenzio (348-dopo il 405), il quale (Cathemerinòn, I -“Hymnus ad gallicinium”-, 1-8) fa del gallo un messaggero, per non dire un “alter ego”, di Cristo che attraverso il linguaggio del fiero pennuto si rivolge agli umani: “Ales diei nuntius/ lucem propinquam praecinit,/ nos excitator mentium/ iam Christus ad vitam vocat./ -Auferte- clamat -lectulos/ aegros soporos desides,/ castique recti ac sobrii/ vigilate: iam sum proximus!/…/ Tectos tenebris horridis/ stratisque opertos segnibus/ suadet quietem linquere. Iam iamque venturo die,/ ut, com coruscis flatibus/ auroram caelum sparserit,/ omnes labore exercitos/ confirmet ad spem luminis./…/ Ferunt vagates daemones,/ laetos tenebris noctium,/ gallo canente exterritos,/ sparsim timere et cedere./…/ Quae vis sit huius alitis/ salvator ostendit Petro/ ter antequam gallus canat/ sese negandum praedicans./…/ Nec tale quidquam postea/ linguae locutus lubrico est/ cantuque galli cognito/ peccare iustus destitit./ Inde est quod omnes credimus/ illo quietis tempore/ quo gallus exultans canit/ Christum redisse ex inferis”)(“L’alato messaggero del giorno/ annuncia l’arrivo della luce/ già colui che rinfranca gli spiriti, il Cristo,/ ci chiama alla vita./ -Allontanatevi dai lettucci -grida-/ culla di inerte e peccaminoso ozio,/ e casti, onesti e morigerati/ attendete alle vostre occupazioni:/ io vi sto accanto!/…/Il sonno placido a lasciare invita/ tutti coloro ancor avvolti/ di tenebra dalle indolenti coltri:/ ormai il dì veniente appressasi/ a corroborar con onesta speme/ quando l’Aurora con i suoi scintillanti bagliori/ ha ormai screziato il Cielo,/ chi ad opra alacre con diligenza apprestasi./…/ Dicesi gli errabondi demoni,/ che godon delle notturne tenebre,/ dal canto del gallo tèrriti,/ per ogni dove fuggano./…/ Qual grande in tal volatile virtù sia/ a Pietro indicò il Salvatore/ annnuciando come tre volte rinnegato fosse/ pria del suo usato canto./ In nulla di fallace la lingua incorre/ dopo che il gallo ha proferito il suo verso/ si astiene il giusto dal peccato./ E a tale cagion crediamo/ che nel tempo della requie/ in cui il gallo lieto canta/ dall’Ade oscuro il Cristo riede.”)(9). L’immagine della notte infestata dagli spiriti maligni che la voce squillante è chiamata ad allontanare e disperdere si direbbe di ascendenza iranica e avestica: il sonno e la notte vengono qui associati al peccato e alla morte, soprattutto spirituale, mentre il ritorno della luce si identifica con il ritorno della fede, della saldezza morale, e con la guarigione fisica e spirituale. L’invito ad ascoltare ed ubbidire al richiamo del gallo, che è la voce della divinità, sembra echeggiare analoghi appelli contenuti nel Videvdat mazadaico sebbene sia da escludere che sia il vescovo milanese sia il letterato ispanico lo conoscessero direttamente; è possibile però che ne sia giunto loro qualche eco attraverso testi mazdaici, gnostici e manichei contro i quali avevano polemizzato, ma da cui, pur considerandoli “errori”, senza dubbio avevano tratto degli spunti. Ed in effetti nei versi di Prudenzio al generoso pennuto sembra siano attribuiti poteri quasi taumaturgici e carismatici, e che la sua voce, oltre che suscitare il terrore nei demoni maligni, distolga dal peccato e ridesti la virtù.

Il simbolismo attribuito al gallo e al suo canto nell’innografia cristiana si riallaccia senza dubbio al significato di araldo del Sole e di fugatore delle tenebre, attibuito al gallo nel mazdeismo persiano, che abbiamo esposto nella prima parte della presente ricerca: come in Persia l’ardimentoso pennuto era uno degli animali di Ahura Mazda, per gli autori cristiani diviene un simbolo di Cristo che risveglia le coscienze dal loro torpore; e secondo alcuni studiosi infatti il significato positivo e spirituale del gallo deriverebbe dall’ambito orientale, per il tramite da un lato del mitraismo, dall’altro di alcune scuole gnostiche, le quali a loro volta sarebbero state influenzate dal mazdesimo e dal mitraismo. In effetti tra i simboli e le rappresentazioni delle scuole gnostiche questo uccello riveste un posto particolare, soprattutto perchè in aspetto totale o parziale di gallo è raffigurato Abraxas (o Abrasax), nome attribuito al Grande Arconte dell’Ogdoade nel sistema di Basilide, uno dei principali maestri gnostici, ma che ha una notevole importanza pure in altri sistemi, dove viene ad essere annoverato tra gli Angeli o tra gli Eoni, addirittura ad essere identificato con l’Eone supremo. Come abbiamo già rilevato nell’articolo su “ABRACADABRA, EPHESIA GRAMMATA E ALTRE PAROLE DI POTENZA” del 27 gennaio 2017, il nome e i tratti fondamentali di questa figura divina sono quasi certamente di origine egiziana, ma il suo legame con il gallo è senza dubbio derivato da un’influenza iranica, probabilmente mediata dalla religione mitraica: infatti nelle raffigurazioni gnostiche Abraxas, oltre ad essere in parte umanizzato, poichè ha solo la testa, e talora il busto, di gallo, appare con un aspetto decisamente guerriero, poichè è di solito rivestito di una corazza da centurione romano e brandisce una frusta o un flagello con la mano destra tenendo uno scudo nella sinistra, e sappiamo bene come la simbologia legata al mondo militare abbia grande rilievo nella religione mitraica; la figura di Abraxas mostra inoltre due serpenti al posto delle gambe, attributo che denota l’elemento ctonio legato alla terra e al mondo ipogeo: in tal modo la testa di gallo esprime il Cielo e il mondo spirituale, il corpo di uomo il mondo umano intermedio e i serpenti il mondo terreno, così da esprimere una realtà cosmica (10). Per i seguaci del culto di Mitra il gallo era associato al grado di “heliodromos”, “corriere del Sole” che precede il dio Sole (o Mitra) nel suo corso diurno sulla volta celeste, ed è quindi da identificare con Lucifero, la stella del mattino, ovvero il pianeta Venere quando precede il Sole; e nell’iconografia mitraica è quasi sempre raffigurato al fianco o sulla mano di Cautes, il dadoforo che incarna il Sole nascente (mentre Cautòpates rappresenta il Sole al tramonto)(sulla religione mitraica si veda le parti XI, XII e XIII di “L’ANIMA E LA SUA SOPRAVVIVENZA”, pubblicate rispettivamente il 31 luglio, il 26 settembre e l’8 ottobre 2018).

Ma non sempre il monito del gallo è stato visto nella luce positiva in cui appare nei componimenti che abbiamo testè esaminato. A volte infatti, specie in alcune liriche di età ellnistica, il maestoso volatile appare come un guastafeste il cui richiamo mattutino viene a interrompere sogni gradevoli, riprovevoli sollazzi di amanti o semplicemente la quiete del riposo nelle ore che precedono l’alba, di certo più gratificante delle fatiche e degli impegni diurni. Ad esempio in un componimento di Antìpatro di Tessalonica, poeta vissuto al tempo di Augusto, riportato nell'”Antologia Palatina”(11) leggiamo i seguenti versi: “L’alba è giunta, Cresilla, e da un pezzo il gallo/ quale araldo del mattino, conduce l’invidiosa Erigenia./ Ti maledico, o più invidioso tra gli uccelli,/ per colpa del quale devo allontanarmi da casa per tornare alla scuola!/ Diventi vcchio, o Titone: perchè la tua compagna Aurora/ così presto dal letto licenziasti?” (Ant. Pal., V, 3); e del medesimo poeta: “Trattenete la mano dalla pesante mola, o donne che alla macina travagliate,/ indugiate nel sonno, pur se la voce dei galli annuncia l’aurora!/ Deò [appellativo di Demetra derivato dal nome di un’antica divinità cretese con cui fu identificata] ha imposto alle ninfe la fatica delle mani:/ esse, salite sopra la ruota/ fanno girare il perno/ che con i raggi roteanti,/ volge i concavi pesi delle mole di Nisiro [isola greca delle Sporadi]./ E allora torniamo in letizia alla vita primitiva/ e impariamo a nutririci di nuovo del smplice cibo fornito da Deò!”(Ant. Pal. IX, 418). Quest’ultimo epigramma fa riferimento ad una delle prime versioni del mulino ad acqua, inventato presumibilmente nel III o II secolo a.C., in cui era necessario aggiungere l’azione umana alla forza motrice dell’acqua.

In un altro epigramma compreso nell’Antologia Palatina Meleagro di Gàdara (I secolo d.C.) è spinto invece da un motivo assai meno nobile a prendersela col gallo (Ant. Pal., XII, 137): “O Gallo, nemico dell’amore, funesto messaggero, che tu sia tre volte maledetto!/ Col tuo canto molesto vieni a squarciare la quiete della notte,/ quando ormai poco tempo mi è rimasto per amare i giovinetti, ridendo beffardo dei miei dolori!/ Questo è il bel modo di ringraziare chi ti nutre?/ Te lo prometto: canterai i tuoi amari versi per l’ultima volta!”: per il dissoluto poeta il povero pennuto è colpevole di disturbare la frenesia omoerotica dell’autore di codesto discutibile componimento poetico! Anche nel componimento precedente della raccolta l’anonimo autore si scaglia contro non precisati uccelli che con i loro schiamazzi ostacolano le sue smanie libidinose, uccelli che senza dubbio da identificare nei galli che cantano prima dell’alba.

Pur se sul piano cronologico non appartiene all’antichità classica, giova a mio parere ricordare in questa rassegna sulla presenza del gallo nella letteratura anche la parte iniziale del “Fanum Vacunae”(12)(13) del Pascoli, che porta il significativo titolo di “Gallicinium”. Qui sono i galli stessi a parlare rivolgendosi a Orazio, il protagonista del poemetto pascoliano; ma a differenza che nei carmi dei poeti cristiani, qui i pennuti sembrano scusarsi di svegliare il poeta e di strapparlo ai suoi sogni. Ed in effetti l’invito contenuto nel loro canto squillante suona piuttosto ironico, poichè seguendo lo spirito epicureo del poeta di Venosa, Pascoli mette in bocca, o per meglio dire nel becco, dei pennuti le seguenti parole: “Hic hic, heri qui vesperi greges quoque/ nostros stupebas inscius,/ hic non, Horati, te tuis de somnis/ ad vaniora trudimus,/ nec nuntiamus seduli lucem novam/ a mane perdendam tibi./ Hic nosmetipsos excitamus invicem,/ postquam ter alis plaudimus,/ solemque clausis pollicemur feminis/ vagumque per sulcos iter./ Tu cui domi est far, hordeum, magnum penus,/ hic, here, quiesce quamlibet” (“Qui, qui, tu che ieri sera ammiravi i nostri branchi, prima a te ignoti,/ ora noi ti togliamo dai tuoi sogni spingendoti controvoglia alle occupazioni del mondo, più vane dei sogni,/ ma non per te,/ che fin dal mattino dovrai sciupare [perchè intento ad attività che ti sono estranee]/ annunziamo con zelo la nuova luce:/ noi ridestiamo noi stessi gli uni gli altri/ dopo che per tre volta abbiamo sbattuto le ali,/ promettendo così alle rinchiuse galline il chiarore del Sole/ e il vagare tra i solchi nella campagna./ Nella tua casa invece abbondano farro, orzo e provviste di ogni genere,/ e quindi riposa quanto vuoi”). In codesti versi notiamo l’onomatopea “hic, hic, heri…hic, here…” con la quale il poeta intende imitare il canto del gallo; ma soprattutto il significato del tutto diverso attribuito a quest’ultimo, almeno nei confronti di Orazio: anzichè invitarlo ad alzarsi per dedicarsi ad un lavoro per lui privo di vero valore, i galli gli dicono di continuare a poltrire nel giaciglio notturno. Invito che il poeta latino accoglie, immergendosi in un sogno che lo trasporta nelle atmosfere della sua infanzia.

Pur se ispirato a una visione dell’esistenza e del mondo assai diverse, l’interpretazione “alla rovescia” del canto del gallo, non quale invito a ridestarsi dai fantasmi notturni, a ricominciare le “usate” opre con rinnovata lena, e soprattutto a dedicarsi al progresso spirituale, ma come ammonimento a come le attività umane siano solo un inutile fardello, un affannarsi precipitoso con cui gli uomini si illudono di contare qualcosa si ritrova nel celebre “Cantico del Gallo Silvestre” di Giacomo Leopardi, di cui già abbiamo trattato nella terza parte della presente ricerca: anche per il poeta recanatese il gallo, -cioè il “gallo cosmico” da lui introdotto-, anzichè spronare l’uomo ai suoi doveri e all’impegno mondano (pur se, nelle concezioni religiose e spiritualistiche essi sono destinati a trovare senso e ad essere coronati in una prospettiva ultraterrena), ricorda come in fondo il sonno sia migliore dello stato di veglia, poichè almeno in quello l’animo non è assillato ed afflitto dalle molte sofferenze delusioni e frustrazioni che rendono inesorabilmente infelice l’esistenza di tutti gli esseri viventi. “Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi per tutti se ne producono e formano di presente: perocchè gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione, destadosi, accetta nuovamente nell’animo la speranza, quantunque ella in niun modo gli si convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai che non parvero la sera innanzi. Spesso, ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori, e d’immaginazioni vane”: codeste considerazioni psicologiche del poeta recanatese sembrano richiamare quanto avevano cantato i poeti latini cristiani, che il mattino annunciato dal canto del gallo induce le anime rinfrancate dal sonno ristoratore a vedere le cose con maggiore ottimismo: torna la speranza, la voglia di fare e quelli che la sera precedente sembravano problemi insormontabili appaiono ora assai meno minacciosi. Ma poi, nota il Leopardi, con il progredire della giornata, la fatica del vivere torna a farsi vieppiù sentire e infine prende il sopravvento; così come con l’avanzare dell’età, dalla giovinezza all’età matura e poi alla vecchiaia, tramontano le sicurezze e le illusioni e la vita sempre più si tinge di inestinguibile amarezza. Ora non ci soffermiamo ad analizzare quanto le osservazioni del nostro siano valide a livello psicologico, poichè è ovvio che le differenze tra individui e le esperienze esistenziali sono ben più articolate di quanto sembri credere il poeta, e per alcuni, anzi per molti, quello del risveglio può essere un momento di affanno, se non di angoscia, al pensiero delle incombenze e delle fatiche che li aspettano durante il giorno appena iniziato.

Tuttavia senza dubbio il Leopardi ha saputo cogliere il carattere intrinsecamente doloroso dell’esistenza, che per nessun essere e in nessun caso, può condurre ad una realizzazione totale e definitiva, quello che di solito viene definito “felicità”; tuttavia, -e questo è l’appunto principale che gli si può muovere-, egli non sembra minimamente sfiorato dal sospetto che la “ricerca della felicità” sia un falso problema, un inganno e che l’uomo non sia fatto per la “felicità” e che più la cerca, la sogna, la insegue, più si rammarica e si affligge di non possederla, più essacome vano miraggio si allontana e tanto più soffre. In effetti che cosa davvero sia la “felicità”, intesa non come fugace momento di esaltazione o di giubilo, ma come piena e stabile realizzazione del proprio essere, della propria “substantia” individuale, oltre che dell'”essentia” di specie, mai alcun filosofo, mistico o poeta è riuscito a stabilirlo, poichè non essendo possibile sulla terra, non è nemmeno concepibile dalla mente. Ammesso che una persona potesse soddisfare tutti i suoi desideri, realizzare le proprie aspirazioni, evitare tutti i dispiaceri, le sofferenze e le pene di cui è di norma intessuta la vita dei mortali, sarebbe forse felice, stabilmente beata? Certo che no, perchè l’uomo non si accontenta mai non solo di quello che ha, ma neppure di quello che è; a meno che, come additano le filosofie mistiche, specie quelle “orientali”, non riesca a superare, a trascendere tutte le sensazioni e le emozioni, in uno stato di annullamento nell’infinito. Non saprei se questo sia realmente possibile, ma non credo che sia questa la “felicità” inseguita dai più e forse neppure da Leopardi.

Per il poeta recanatese dunque il sonno, in quanto stato in cui il fluire della vita, fonte di dolore e di infelicità, rimane sospesa, è la parte migliore dell’esistenza, poichè in esso vengono a cessare gli stimoli e le sollecitazioni negative, e l’animo rimane sospeso in una sorta di limbo, di “mare”, in cui è dolce naufragare; e in questo senso senza dubbio il sentimento della vita del Pascoli è consentaneo con quello leopardiano, poichè anch’egli cerca di trovare scampo dalle tempeste perigliose dell’esitenza rifugiandosi e abbandonandosi al proprio mondo interiore, vissuto più come regno della fantasia che come agone del ragionamento.

CONTINUA NELLA SESTA PARTE

Note

1) il fatto che il vessillifero non fosse riuscito ad estrarre l’insegna dal terreno nonostante gli aiuti e i molteplici sforzi è citato anche da Valerio Massimo (“Factorum et dictorum libri IX, I, 6, 6).

2) nel capitolo citato del “De Divinatione” di Cicerone si fa menzione di diversi altri prodigi che precedettero la battaglia di Leuttra: a Tebe nel tempio di Eracle le armi risuonarono e la statua dell’eroe apparve madida di sudore, i battenti delle porte si aprirono da sè all’improvviso e le armi appese alle pareti caddero sul pavimento. A Sparta invece il capo della statua di Lisandro (generale che aveva guidato gli Spartani durante l’ultima fase della “guerra del Pleoponneso” e aveva conquistato Atene) si ricoprì con un serto di erbe spinose, mentre le stelle d’oro che erano state collocate dagli Spartani nel santuario di Delfi come ex-voto per la vittoria sugli Ateniesi si staccarono dal loro sostegno. Ma il prodigio più grave e funesto fu il seguente: quando gli Spartani chiesero un responso all’oracolo di Dodona, una scimmia del re dei Molossi (nel cui territorio si trovava l’oracolo) rovesciò il canestro che conteneva le sorti fatidiche spargendole tutte a terra, così che la sacerdotessa sentenziò che gli Spartani avrebbero dovuto pensare alla salvezza e non alla vittoria.

3) dell’oracolo di Trofonio abbiamo trattato nella quinta parte di “L’anima e la sua sopravvivenza”, pubblicata il 9 dicembre 2016, a cui si rimanda.

4) Aristotele (“Categorie”, I, 1) precisa che si dicono “omonime” quelle cose “per le quali soltanto il nome è comune, mentre è diversa la definizione dell’essenza corrispondente a quel nome”; le cose “sinonime” hanno tanto il medesimo nome quanto la definizione corrispondente a esso nome; mentre le cose paronime hanno in comune la radice del nome e diversa la desinenza (ad esempio “Roma” e “Romano”; “pazienza” e “paziente”; “lyo” -sciolgo- e “lysis” -dissolvimento-). Nella logica moderna la classificazione viene spostata dalle cose ai termini, così che alle precedenti classi corrispondo rispettivamente i termini “equivoci” (o “polivoci”), “univoci” e “denominativi”. Non si deve peraltro confondere la “sinonimia” secondo la logica aristotelica con la “sinonimia” in senso linguistico e grammaticale: infatti per Aristotele essa sta alla base della divisione del genere nelle specie e sono sinonimi gli individui compresi entro una specie quando siano chiamati col nome della specie stessa (es. : Socrate è uomo; Platone è uomo; Porfirio è uomo): la sinonimia è dunque l’espressione verbale di un’essenza comune a più individui; il complesso delle cose o degli individui sinonimi costituisce l’estensione di un termine, la quale si contrappone alla comprensione. Nella logica moderna le due categorie logiche sono state chiamate, – ad opera di Stuart Mill-, rispettivamente “denotazione” e “connotazione”. Sul piano grammaticale, com’è noto, i sinonimi sono termini che pur appartenendo al medesimo ambito semantico ed esprimendo un analogo significato, differiscono, oltre che per la diversa etimologia, per una sfumatura nel significato e spesso per un’accezione di giudizio, per cui tra i sinonimi di distinguono voci con accezione positiva, negativa e neutra, secondo il giudizio, la valutazione e la percezione soggettiva (ad es. “costanza” -positivo-; “tenacia” -neutro-; “ostinazione”- negativo, termini che esprimono tutti il medesimo concetto, ma evidenziano il giudizio di merito che ne dà il soggetto circa il caso concreto a cui si applicano); ovvero i sinonimi hanno uguale o simile, estensione (denotazione) e diversa comprensione (connotazione).

5) com’ noto dal vocabolo persiano, tramite il greco “angarìa”, trasse origine il termine italiano “angherìa”, poichè i messaggeri reali potevano pretendere prestazioni forzose, sia personali sia di beni, ovunque si recassero, da cui il significato derivato di sopraffazione, sopruso.

6) per quanto riguarda l’etimologia dell’etnonimo di Galli attribuito a quella popolazione dai Romani e dei sacerdoti Galli, esse sono ancora più incerte, per cui non ne trattiamo.

7) questo rito di placazione è la testimonianza di un antico culto tributato ai venti personificati, che era ancora vivo al tempo di Erodoto, il quale ricorda (Storie, VII, 178-179) come gli abitanti di Delfi celebrassero riti in loro onore poichè avevano ostacolato e disperso la flotta del re persiano Serse. La più comune genealogia dei Venti li fa tutti figli di Eos (l’Aurora) e di Astreo, ma esistono molte varianti che attribuiscono talora a ciascuno di essi una diversa origine. Famosa è la “Torre dei Venti” ad Atene, di età romana, che esiste tuttora, sulla quale sono raffigurati gli otto venti principali. Nell’iconografia sono rappresentati come figura umane maschili (spesso solo la testa o il busto), delle quali solitamente: Apeliotes (est), Zèfiro (ovest) e Lips (sud-ovest) giovani; Bòrea (nord), Austro (sud) e Kaikias (nord-est) uomini maturi; Euro (sud-est) e Scirone (nord-ovest) vecchi.  A Roma i venti erano associati al culto di Nettuno, ed avevano una certa importanza anche nel culto di Mitra (dove talvolta sono rappresentati ai lati della “tauroctonìa”). Dei venti, delle loro caretteristiche, della loro provenienza e dei loro nomi trattano in particolare Aristotele nella “Meteorologia”, II, 6; Seneca il Giovane nel quinto libro delle “Naturales Quaestiones” (“De ventis”); Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia” (II, 119-130, e XVIII, 335-336); e nelle “Noctes Atticae” (II, 22), Aulo Gellio, il quale giunge a classificarne ben 32 a seconda dalla provenienza dai diversi punti dei quattro quadranti. Ai venti è dedicata inoltre una parte del “De Natura Rerum” (cap. XXVII), -opera che tratta specificamente di geografia e astronomia-, di Beda il Venerabile (672-735).

8) il “Cathemerinòn” (sott. “biblion”), -“Quotidiano”- è una raccolta di dodici inni in vari metri, dei quali i primi sei sono destinati alla preghiera in diversi momenti della giornata: al canto del gallo, al mattino, prima e dopo il pranzo, al vespro e prima di coricarsi: pertanto anticipano quella che sarà la liturgia delle ore canoniche.

9) come risulta evidente pure a chi non conosca il latino, i versi di Prudenzio e di S. Ambrogio mostrano già un andamento ritmico, poichè il senso della quantità vocalica, sul quale si fondava la metrica dell’antica poesia greca e romana, si era ormai alquanto affievolito se non perso del tutto: questi componimenti, pur adottando gli schemi metrici classici (in questo caso quartine di dimetri giambici acatalettici, che in pratica equivalgono agli ottonari dattilici italiani), li reintepretano su base accentuativa e non più quantitativa, e pertanto anticipano quelli delle letterature romanze.

10) su Abraxas si vedano anche la decima parte di “L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE” del 27 aprile 2016 e la nota n.7 dell’articolo su “MALAK TAUS – L’ANGELO PAVONE” del 29 settmbre 2014.

11) sull'”Antologia Palatina”, raccolta di testi poetici in lingua greca risalenti in massima parte all’età ellenistica e romana, compilata nella forma gunta ai giorni nostri in epoca bizantina, si veda quanto abbiamo detto nella prima parte di “ENIGMI, MISTERI E PARADOSSI” del 23 agosto 2014.

12) “Fanum Vacunae”, “Il santuario di Vacuna”, è uno dei due poemetti latini (l’altro è il “Catullocalvos”) che costituiscono la raccolta delle “Saturae”, la più pregevole delle opere latine del Pascoli. In esso il poeta si ispira al mondo poetico di Orazio (così come nel “Catullocalvos” si ispirava a Catullo) per intraprendere un percorso della memoria, un nostalgico cullarsi nei ricordi in uno stato di dormiveglia che certamente riflette più il temperamento e la poetica suoi che quelli oraziani, ma che tuttavia raggiunge un’alta validità e autenticità poetica (così come invero tutte le sue poesie latine). Le venti liriche che compongono il poemetto sono ciascuna in uno dei diversi metri delle odi del poeta venosino. Le opere latine del Pascoli, lungi dall’essere retorico esercizio d’erudizione, sono una componente non meno importante di quelle italiane per valutare e comprendere la grandezza del poeta romagnolo.

13) Vacuna era una antica divinità sabina, di cui ben poco si sa, il cui nome è messo in relazione con il verbo “vaco, -are”, in seguito variamente identificata con Cerere o la Vittoria (secondo gli scolii ad Orazio dello “pseudo-Acrone”), mentre a detta del grammatico Porfirione “alcuni la identificavano con Minerva, altri con Diana, altri ancora con Cerere o Bellona; ma Varrone nel suo trattato sulle cose divine assicura essere un nome della dea Vittoria, di cui si compiacciono soprattutto coloro che vincono nella saggezza”. Il suo culto era ormai desueto al tempo di Orazio, ma un antico tempietto dedicato alla dea, ormai rovina, sorgeva accanto alla villa in Sabina donata da Mecenate al poeta, il quale lo cita in una delle sue epistole (I, 10, 49): “Haec tibi dictabam post fanum putre Vacunae,/ excepto quod non simul esses, cetera laetus” (“Queste cose [le lodi della vita campestre] andavo dettando [ad uno schiavo scriba] dietro al santuario fatiscente di Vacuna,/ eccetto il fatto che non fossi meco, per tutto il resto lieto”).

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