BREVE STORIA DELLA GALLINA E DEL GALLO DOMESTICI -quarta parte-

In origine l’allevamento del pollo non aveva finalità di sfruttamento alimentare. Gli Arii invasero l’India nel 1500 a. C. e subito adottarono l’allevamento dei gallinacei che come abbiamo visto era già praticato nella “civiltà di Harappa”; essi però non utilizzano i volatili appartenenti all’ordine dei Galliformi quale cibo; anzi intorno al 1000 a. C. il Gallo e la Gallina assursero a simbolo mistico-religioso, il che rende ragione del divieto di ucciderli e di cibarsi delle loro carni.

In Italia le prime attestazioni della presenza del Gallo risalgono al VIII sec. a. C. , e appaiono in particolare sotto specie di offerte funerarie di carni e uova, ma si può affermare che fino al III sec. a. C. esse sono nel complesso abbastanza sporadiche, e solo dal periodo della tarda repubblica romana, dal II sec. a. C. in poi, si hanno indizi sia archeologici sia letterari di una più ampia diffusione del pollame, per quanto non avesse una forte incidenza nell’alimentazione.

Si ritiene che l’allevamento dei polli sia giunto a Roma dalle colonie greche dell’Italia meridionale, ma è probabile che l’introduzione di questi animali in territorio italico sia avvenuta anche attraverso una via proveniente da nord, ovvero dalla Gallia. Infatti su monete del Sannio e del Lazio risalenti al III secolo a. C. sono raffigurati galli aventi caratteristiche fisiche (dimensioni minori, corporatura più minuta e slanciata) simili a quelle dei loro congeneri presenti in area celtica. Si ipotizza che questi ultimi siano stati importati a loro volta dalle colonie fenice sulle coste occidentali del mar Mediterraneo e dagli scali commerciali impiantati dai Fenici anche sull’Atlantico; ovvero giunti attraverso una via nordica che dall’Asia e dall’Europa orientale arrivò anche nell’Europa centro-occidentale; o forse in entrambi i modi.

Sono state scoperte ossa di volatili in alcuni insediamenti preistorici dell’Italia centro-settentrionale, ma si è posto in dubbio che siano ad essi coeve, a causa della colorazione chiara che contrasta con quella bruna tipica delle ossa sicuramente attribuibili all’epoca preistorica o protostorica, per cui si è dedotto che esse risalgano ad età più recenti (romana o medioevale), provenendo da uccelli allevati in centri sovrappostisi a quelli più antichi. Nell’Italia centrale la prima testimonianza di polli è documentata in una tomba a incinerazione nella necropoli di Monte Cucco nei pressi di Castelgandolfo in Lazio della prima metà del IX sec. a. C. Nell’Italia settentrionale invece si hanno testimonianze a partire dall’ultimo quarto dell’VIII sec. a. C., consistenti sia in ossa sia in gusci di uova ritrovati nelle necropoli di Villanova e di Castenaso in provincia di Bologna.

Galla raffigurato in una tomba etrusca di Tarquinia.

Tuttavia è solo con il periodo etrusco che appaiono evidenti e significative attestazioni della presenza di questi animali: in Etruria sono state trovate raffigurazioni di Galli nelle pitture parietali di diversi sepolcri, come ad es. nella tomba detta del Triclinio o del Gallo di Tarquinia (V sec. a. C.), caratterizzata dalla presenza di due galli dipinti sul frontone della parete d’ingresso. Frammenti di ossa provengono dagli scavi sia degli insediamenti etruschi della pianura padana, sia dai centri posti nell’area più meridionale dell’espansione etrusca; mentre numerosi gusci d’uovo sbriciolati e inceneriti sono stati rinvenuti nei bracieri collocati negli ipogei di Cerveteri e Tarquinia, e un uovo intero nella tomba di un bambino nella necropoli di Fidene in Lazio.

Nel complesso però i resti ossei attribuibili a Gallinacei venuti alla luce in insediamenti precedenti il III secolo a. C. sono assai scarsi e costituiscono una parte minima delle reliquie animali ivi ritrovate. Ancora più rari i reperti ossei di polli affiorati nell’Italia meridionale, -nonostante il Gallo sia un soggetto non infrequentemente rappresentato sulle monete delle colonie greche, anche per lo stretto legame che questo animale aveva con diverse divinità-. Ma dal III sec. a. C. in poi i ritrovamenti si fanno più cospicui, evidenziando anche la netta prevalenza dei soggetti di sesso femminile (il che sembra essere indizio della maggiore importanza assunta dalle uova nelle abitudini dietetiche del tempo); mentre le caratteristiche morfologiche ed etologiche delle galline vengono ampiamente descritte da tutti i trattatisti latini di agricoltura e zootecnia (Catone, Varrone, Columella), oltre che dai naturalisti come Plinio il Vecchio.

Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C.), letterato ed erudito fecondo autore di numerose opere su svariati argomenti, quasi tutte perdute, si occupa specificamente dei volatili da cortile nel libro III del suo trattato “Rerum rusticarum de agri cultura” (l’unico dei suoi scritti pervenuto per intero), e nel nono capitolo di essa illustra le caratteristiche delle galline e dei polli, dando consigli sul loro allevamento. Egli opera una distinzione tra galline domestiche (“villaticae”), selvatiche e “africane”, -ossia le Faraone-, (“sunt gallinae quae vocantur generum trium: villaticae, rusticae et africanae”). Egli precisa peraltro poco oltre nella sua trattazione che per “gallinae”, nell’uso comune e in senso proprio si intendano solo le “gallinae villaticae”, cioè quelle domestiche, fornendo anche una descrizione accurata dell’aspetto che tra di esse hanno gli esemplari più portati alla deposizione delle uova e più inclini alla cova: piumaggio rossastro, con le penne remiganti della ali nere, dita delle zampe in numero impari, struttura robusta, cresta eretta; ed ugualmente per i galli richiede membra forti, cresta rosso brillante, becco corto ma arcuato, occhi grigi o neri, bargigli rossi tendente al biancastro, collo variopinto o dorato, femore piumato, zampe brevi, unghie lunghe, grandi code arcuate; che abbiano inoltre portamento eretto, voce potente e cantino spesso; a tali qualità Varrone aggiunge anche il carattere battagliero, che consenta loro di difendere le galline da tutti gli animali che potrebbero minacciarle [ovviamente escluso l’uomo! -n.d.a.-]. L’autore, dal quale apprendiamo che già a quel tempo era diffusa la pratica della castrazione dei galletti, i quali dopo tale trattamento erano chiamati “capi” (capponi), impartisce poi precise istruzioni circa la costruzione e la manutenzione del pollaio, -che egli chiama con termine greco “ornithoboskion”-: a tal fine , il nostro consiglia di scegliere un luogo adatto in cui si possano ricavare due ampi recinti comunicanti, volti da oriente, aventi l’uno e l’altro la lunghezza di dieci piedi (circa tre metri), larghi poco meno della metà e con altezza di poco inferiore; in entrambi i recinti verrà praticata un’apertura larga tre piedi, entro la quale dovrà essere posto un graticcio di fuscelli radi, in modo che offra al pollaio una adeguata luminosità e nel medesimo tempo impedisca l’accesso ad animali od oggetti che potrebbero arrecare nocumento alle galline. Tra le due finestre vi sarà la porta attraverso la quale il “gallinarius” potrà entrare nel pollaio. Nelle camerette che costituiscono il pollaio dovranno essere collocate numerose pertiche per offrire sostegno alle galline durante il riposo notturno, in corrispondenza delle quali si troveranno i giacigli (“cubilia”) che i volatili utilizzeranno per deporvi le uova. Essi saranno rivestiti di paglia e di pula; ma dopo la deposizione dell’uovo sarà bene sostituire lo strame, poiché in breve tempo vi si annidano pulci e altri insetti che non lasciano riposare in pace le galline e impediscono od ostacolano il loro compito. Davanti al pollaio vi sia uno spazio all’aperto, -però opportunamente recintato-, ove i pennuti durante il giorno possano razzolare e fare i bagni di polvere; ed accanto da esso sarà costruita una stanzetta destinata ad abitazione del “gallinarius”.

L’autore prosegue poi la sua dissertazione dispensando saggi consigli in merito alle uova e alle cure che devonsi riservare alle chiocce e ai pulcini: ad es. consiglia di far iniziare le cova in tempo di Luna nuova; di lasciare zampettare i piccoli su una superficie ricoperta di polvere e non sulla terra dura, per evitare il pericolo he possano ferirsi i minuscoli becchi, e di somministrare loro come nutrimento un pastone con semi di nasturzio fatto con poca acqua affinché un eccesso di liquidi non possa loro nuocere; di bruciare corna di cervo intorno ai loro recinti, per allontanare i serpenti poichè a detta di Varrone l’odore delle corna bruciate sarebbe esiziale per questi rettili.

Tornando poi a disquisire delle varie specie di galline, precisa che la “gallinae rusticae”, sono più simili a quelle Africane, -ovverosia alle Faraone-, che non alle “gallinae villaticae”, e che le loro abitudini sono quelle proprie dei volatili selvatici, per cui sono allevate come animali da ornamento e non da reddito.

Fattoria romana del I secolo.

Le indicazioni offerte da Varrone sono riprese e ampliate nel primo secolo da Lucio Giunio Moderato Columella (4-70 d. C.), originario di Cadice nella provincia Baetica in Spagna, autore del più importante e articolato testo di agronomia lasciatoci dall’antichità romana, il “De re rustica”, in dodici libri. Egli tratta degli animali da cortile, -tra i quali, così come per Varrone, erano compresi anche i pesci che nelle ville romane erano spesso allevati entro larghe peschiere-, nell’ottavo libro della sua opera che si intitola per l’appunto “De villaticis pastionibus, aviarus et piscator”; anche presso l’autore iberico ritroviamo la distinzione tra le tre specie di galline, domestiche (che chiama però “cohortales” anziché “villaticae”), -e che seguendo la tesi di Varrone considera anch’egli le galline vere e proprie, che potevano vedersi in quasi tutte le fattorie-, selvatiche (“rusticae”), -spesso vittime della caccia degli uccellatori (1)”, e “Africanae”, dette anche “Numidicae”.

Le qualità fisiche e caratteriali proprie dei volatili che Columella consiglia di preferire sono assai simili ed anzi ricalcano on gran parte quelle già indicate da Varrone: per le femmine colore bruno-rossastro con la punta delle penne remiganti nere, corporatura robusta, petto ampio, grandi teste, creste alte e scarlatte, orecchie bianche, numero di spari di dita nelle zampe, ma evitando che abbiano uno sperone troppo pronunciato e sporgente (qualità negativa sia perché la presenza di lunghi speroni sarebbe indice di inclinazioni maschili e scarsa attitudine alla cova, sia perché con gli artigli le galline potrebbero rompere inavvertitamente i gusci della uova); in ogni caso sarebbero da evitare le galline bianche le quali a detta dell’autore sono più delicate e scarsamente feconde, senza contare che a causa del loro candore che le rende ben visibili dal cielo possono essere più facilmente preda degli uccelli rapaci. I galli devono essere non dissimili dalle femmine ma di dimensioni superiori, creste erette di colore acceso, occhi gialli o neri, becchi corti e adunchi, orecchie candide, bargigli rosso vivo ma tendenti al biancastro, le piume sul collo e sulle spalle dorate o variopinte, atteggiamento imponente, ali muscolose, coda lunga ed arcuata; essi si mostrino inoltre vivaci, battaglieri e sempre pronti ad emettere il loro canto potente. L’autore peraltro sottolinea come tali qualità non siano da ricercarsi con il fine dei combattimenti di galli, ma affinchè i pennuti siano in gradi di proteggere adeguatamente  loro compagne e i pulcini ed allontanare le eventuali minacce.

Una differenza importante nella modalità e nelle finalità dell’allevamento avicolo presso i Greci e presso i Romani è che mentre i primi ricercavano e apprezzavano soprattutto le doti di combattente (anche in vista di quel discutibile passatempo che il combattimento dei galli, assai diffuso nell’età antica) e la mole corporea, gli eredi di Romolo avevano una concezione più utilitaria della pollicoltura, ed erano interessati soprattutto alle galline buone produttrici di uova, sia da consumare in quanto tali, sia da mettere a cova per avere galletti che venivano sacrificati sulle mense (sebbene come abbiamo precisato sopra fino all’epoca tardo antica, il pollo non avesse un posto d’onore nei banchetti dei Quiriti). Pertanto l’avicoltura romana, pur non essendo nemmeno lontanamente paragonabile a quella attuale, -poiché pur avendo carattere utilitaristico non giungeva certo agli orrori degli allevamenti in batteria-, aveva un carattere più sistematico ed era pianificata in modo più attento, anche per quanto i riguarda i costi e la possibilità di miglioramento delle razze, che quella greca (e degli altri paesi dell’area orientale e mediterranea).

Tuttavia è proprio ai sistemi di allevamento degli Ellenici che si ispirarono i figli di Roma, in particolare a quelli adottati nell’isola di Delo, i cui abitanti, a detta di Columella, furono i primi a dedicarsi a codesta attività con impegno facendone una vera e propria fonte di profitto economico. Gli allevatori dell’isola egea preferivano le razze di Tanagra e di Rodi, -delle quali abbiamo parlato nella seconda parte-, senza peraltro spregiare neppure quelle provenienti dalla Calcide e dalla Media, che erano di notevole taglia, ma le cui femmine si mostravano poco prolifiche e non molto inclini alla cova. Per cui l’autore latino proclamava di prediligere le galline autoctone (“Nobis nostrum vernaculum maxime placet”), prolifiche e ottime covatrici.

Osserviamo poi che nel “De re rustica” viene fatta menzione di razze nane (“pumileas aves”), le quali risultano quindi essere già presenti in quel tempo, e di cui si dice che non avevano alcun rilievo economico, ma venivano allevate a puro scopo ornamentale (“humilitas eorum delectat”).

Nell’indicare come predisporre un pollaio, -da Columella chiamato con schietto temine latino “gallinarium”-, che assicuri un proficuo allevamento delle galline (nonchè quello che in termini moderni si direbbe “benessere animale”), l’agronomo del I secolo si allontana dalle prescrizioni in materia date da Varrone: infatti a differenza di quest’ultimo, il locale adibito a ricovero dei volatili deve constare per lui di tre vani comunicanti, di cui in quello centrale si trova l’ingresso. A loro volta questi ambienti saranno suddivisi in senso trasversale da tavole poste a sette piedi dal pavimento e quattro dal tetto; i ripiani saranno illuminati da piccole aperture attraverso le quali le galline potranno uscire al mattino e rientrare la sera per mezzo di scalette, e che il “gallinarius” avrà cura di tenere chiuse durante la notte per far stare più sicuri i pennuti. Ma vi saranno anche aperture più grandi dalle quali il pollaio trarrà aria e luce, riparate però da un graticcio per impedire l’accesso di animali predatori o nocivi. Da queste finestre inoltre il “gallinarius” potrà osservare le galline mentre depongono o covano le uova, nonché la schiusa delle uova stesse dopo il periodo di cova.

Secondo Columella i muri del pollaio dovrebbero essere tanto spessi da consentire di ricavare in essi dei giacigli ove la galline possano deporre e covare le uova, che a suo parere sono più salubri ed esteticamente gradevoli dei cesti che molti utilizzano a tale scopo. Egli consiglia altresì di dotare gli spazi al di sopra dei ripiani di posatoi opportunamente spaziati  sui quali i volatili possano appollaiarsi durante la notte. Columella sottolinea inoltre la necessità che i polli abbiano sempre a loro disposizione acqua pulita e che sia l’acqua che il cibo siano contenuti in mangiatoie e abbeveratoi chiusi da un coperchio, in cui siano praticati dei fori che consentano di entrare alla testa degli animali, di modo vengano evitati l’eventuale insozzamento sia la dispersione di cibo e acqua; e come il sagace “gallinarius” non farà mai mancare alle sue galline un abbondante strato di polvere e/o di cenere ove esse possano razzolare e fare i bagni di polvere con i quali ripuliscono il loro piumaggio, dato che, come dice Eraclito di Efeso, i maiali si lavano col fango e gli uccelli di cortile con la polvere.

Quanto all’alimentazione, ritiene il cibo più adatto orzo, vecce, cicerchia, miglio e panico, mentre considera il frumento un cibo poco adatto per le galline; e consiglia di integrare la dieta delle galline con loglio cotto e semi di trifoglio ai polli assai gradito.

Combattimento di galli in un mosaico pompeiano.

Plinio il Vecchio tratta dei galli e delle galline nel decimo libro della “Naturalis Historia”, quello dedicato agli Uccelli, in particolare nei capitolo 24 e 25, -dove presenta una descrizione abbastanza sintetica del Gallo domestico-, e poi con sparse osservazioni nei capitoli 71-80, che hanno come specifico argomento la riproduzione dei volatili e le uova.

“Similmente ai Pavoni, [dei quali ha parlato nel capitolo precedente] avvertono lo stimolo della gloria queste nostre sentinelle notturne, che la Natura ha creato per riportare i mortali alle loro opere e interrompere il sonno. Essi conoscono le stelle e con il loro canto distinguono surante lo scorrere della giornata periodi lunghi tre ore ciascuno. Vanno a dormire quando ancora il sole splende nel cielo e al quarto turno di guardia ci richiamano alle quotidiane fatiche, non consentono che il sorgere del Sole ci trovi impreparati, annunziando il dì che si appressa col loro canto, accompagnato dallo sbattere delle ali (2)”: questa lode del gallo sembra riecheggiare la concezione che vedeva nel vigoroso volatile un  simbolo della vigilanza e un araldo della luce nella lotta contro le tenebre propria della cultura persiana e della religione mazdaica e che riappare sia nelle dottrine gnostiche sia nelle altre religioni di derivazione persiana (mitraismo, manicheismo, culti dei Mandei e degli Yezidi).

Peraltro in codesti due brevi capitoli, Plinio si limita a descrivere il comportamento bellicoso dei galli, ricordando che nella città di Pergamo in Asia Minore aveva luogo una sorta di campionato annuale dei combattimenti di galli, simile a quello dei gladiatori; mentre tralascia di dare una descrizione anatomo-fisiologica accurata dei volatili, in quanto presupponeva al riguardo le informazioni presenti sull’argomento nella “Historia Animalium” di Aristotele. L’autore afferma altresì che in quel di Rimini sotto il consolato di M. Lepido e Q. Càtulo (78 a. C.) un gallo avrebbe addirittura parlato.

Il celebre naturalista non manca poi di ricordare anch’egli le principali razze di origine greca (di Rodi, di Tanagra, di Calcide, e “Medica” o “Melica”); ma più oltre nella sua narrazione sembra riferirsi alla razza domestica italica, già citata da Columella (“nostrum vernaculum genus”), che per le sue caratteristiche doveva essere simile alla razza “Livornese” attuale, ed in effetti alle osservazioni sul comportamento e le abitudini dei galli maschi Plinio aggiunge nel capitolo 77 una descrizione delle galline, sostenendo che le caratteristiche denotanti la loro buona razza siano: cresta eretta, talora anche doppia, penne (cioè le remiganti e le penne caudali) nere, manto rossastro, dita di disuguale lunghezza, a volte pure la presenza di un quinto dito in posizione obliqua rispetto agli altri. Precisa poi che per i riti religiosi (cioè per i sacrifici, ma anche per le pratiche divinatorie di cui diremo oltre) non sono abbastanza pure quelle con becco e zampa gialli (intende con ogni probabilità di colore troppo chiaro e brillante, mente l'”optimum” dovrebbe essere una tinta che tende al grigiastro e al marron), mentre quelle nere sono ritenute appropriate per i riti misterici o rivolti alle divinità infere. L’autore conferma inoltre la notizia di Columella sull’esistenza di una varietà di galline nane non sterili, “che non si riscontra in altri generi di volatili” (in particolare intende quelli comunemente allevati dagli umani), nonché il giudizio che “le galline dotate di speroni sono di rado feconde e il loro covare non è benifico per le uova”.

Nel mondo greco-romano il Gallo, -in minor misura la Gallina-, era considerato sacro a diverse divinità: a Zeus-Giove; a Latona e a suo figlio Apollo (visto lo stretto legame del volatile con l’astro diurno che era identificato con Apollo-Elio); ad Hermes-Mercurio; ad Eracle (4); ma soprattutto ad Ares-Marte (si veda al riguardo quanto abbiamo scritto nella prima parte della presente trattazione pubblicata il 12 novembre 2017) e ad Asclepio (o Esculapio), il dio della medicina figlio di Apollo (e di Arsinoe secondo Esiodo e Coronide secondo Pindaro e la versione del suo mito divenuta più comune)(3). Da un verso di Giovenale (Satire, XIII, 233) apprendiamo inoltre che talora i galli erano offerti in sacrificio ai Lari, la coppia di divinità protettrici della casa e della famiglia (5).

Nella religione romana tradizionale acquisirono però una singolare importanza poiché ad essi, -o più precisamente a quelli allevati presso certi templi-, fu affidato il compito di dare responsi oracolari, specie su questioni di pubblico interesse, anche assai ponderose, quali l’opportunità di entrare in guerra e prevedere l’esito della stessa-. Il principale metodo per conoscere la volontà degli dei tramite i polli sacri consisteva nell’osservare il loro comportamento quando veniva loro offerto il cibo, ufficio al quale era preposto il “pullarius”, il custode dei polli sacri: quanto maggiore era la voracità che mostravano, tanto più il responso era propizio (in particolare se erano talmente avidi da lasciar cadere dal becco parte del becchime o del pastone, questo, -definito “auspicium solistimum”-, era ritenuto segno infallibile di grande successo); se al contrario i volatili rifiutavano il becchime, questo era considerato un pessimo segno.

Rilevo romano antico che rappresenta tre àuguri. Si noti la gallina accanto all’augure al centro.

Gli oracoli tratti dal comportamento dei polli domestici erano detti “auguria (o signa) ex tripudiis”, e rientravano nel vasto campo degli “auguria”, i segni che la divinità inviava agli uomini tramite eventi naturali spontanei, -e in tal caso erano detti “signa oblativa”)-, o indotti dai sacerdoti con la preghiera o ricorrendo a pratiche divinatorie, -“signa impetrativa”-. l’interpretazione di questi segni era il compito principale degli “Auguri”, e tra di essi alcuni dei più importanti erano proprio quelli offerti dagli Uccelli selvatici (“auguria ex avibus”), di cui si osservavano l’apparizione, il volo e il canto. le specie di volatili contemplate dall’osservazione augurale (“Aves augurales”) erano suddivise in “Alites”, ai quali era attribuito un significato propizio, rappresentati soprattutto dai rapaci diurni, come Aquile, Avvoltoi, Falchi e Poiane, e “Oscines”, tra i quali si annoveravano i rapaci notturni, come Gufi e Civette, nonché Corvi e Cornacchie (ossia gli uccelli che fino ai giorni nostri hanno mantenuto una ingiusta fama di arrecare disgrazie e cattivi presagi), e che in genere davano un auspicio poco favorevole. Ma l’interpretazione dell'”augurium” dipendeva soprattutto dal punto in cui volatili apparivano o da cui provenivano in volo: a tal fine l’augure delimitava con un bastone detto “lituus” uno spazio terreno, che era chiamato “templum” (ed è questo il significato originario del vocabolo che solo in seguito assunse quello di edificio di culto), in quattro settori, -corrispondenti alle regioni celesti-: “pars àntica”, “p. postica”, “p. dextera (o “familiaris”)”, “p. sinistra (o “laeva” o “hostilis”)”; tuttavia la qualità del responso era diversa a seconda dei volatili: per alcuni l’assenso divino era manifestato dalla provenienza da destra, per altri da sinistra (si veda Cicerone, “De divinatione”, I, 85: “Impetratum inaguratum est, quovis sdmittunt aves: picus et cornix ab laeva, corvus et parra ab dextera consuadent” = “Si è proceduto a compiere un augurio, dove si dirigono gli uccelli: il Picchio e la Cornacchia sono benigni da sinistra, il Corvo e la Cincia da destra”).

Per quanto riguarda la divinazione con i polli, essa era praticata soprattutto negli accampamenti militari nell’imminenza delle battaglie: in questa circostanza fungeva da augure il comandante stesso o un suo delegato. I Gallinacei, prima tenuti nelle stie, venivano lasciati liberi davanti alla tenda dell’auspicante, il “tabernaculum”, dopo che egli aveva tracciato il “templum”: l’osservazione dei volatili riguardava sia il modo in cui camminavano e si muovevano, la direzione che prendevano, ma soprattutto come abbiamo detto sopra, l’appetito che mostravano. Secondo alcuni autori, quali Cicerone (De natura deorum, II, 9) e Arnobio (Adversus Nationes, II, 67), l’interpretazione del comportamento dei polli domestici, -il cui nome era “tripudium”-, sostituiva una più antica forma di “auspicium” per mezzo delle punte delle lance, per cui si può facilmente dedurre che cominciò ad essere praticata solo dopo che l’allevamento dei gallinacei ebbe raggiunto un certa diffusione nell’antica Roma. In età imperiale però il “tripudium” iniziò a declinare, forse anche per la difficoltà di portare in polli in accampamenti militari sempre più distanti dai capoluoghi delle province, e si ricorse di preferenza all'”extispicium”, l’osservazione delle viscere degli animali sacrificati, più sanguinaria, ma meno impegnativa (poiché il povero animale sacrificato non doveva più essere trasportato vivo dalle truppe in movimento).

Talora poteva accadere che quando i polli davano un responso contrario ai disegni del comandante quest’ultimo si adirasse con i poveri animali, facendo loro scontare il prezzo della sua impazienza, come avvenne in celebre episodio narrato sia dallo storico Svetonio (De vita Caesarum, III, 2 -Tiberio-) sia dallo scrittore Valerio Flacco nella sua celebre opera “Factorum et dictorum libri IX” (I, 4, 3), e a cui aveva accennato anche Cicerone (De natura deorum, II, 7). Il console Publio Claudio Pulcro nel 249 a. C., nel corso della prima guerra punica, era stato inviato in Sicilia per combattere contro i Cartaginesi; nell’imminenza dell’attacco, egli come d’abitudine volle conoscere la volontà divina attraverso gli auspici, ma poichè i polli sacri si rifiutavano ostinatamente di mangiare, manifestando dunque un responso sfavorevole e contrario alle sue intenzioni, il sacrilego osò farli gettare in mare, dicendo che se non avevano fame bevessero. Indi diede inizio ad una battaglia navale nelle acque di Drèpanum (Trapani) nella quale fu sonoramente sconfitto (6).

Benchè omografo dell’omonimo sostantivo “tripudium” con il quale si designava una danza sacra eseguita dai sacerdoti Salii (7), codesto termine riferito all’appetito dei polli ha un’etimologia tutt’affatto diversa: deriva infatti da “terripavium”, -costituito da “terra” + il verbo “pavio, -ire”, equivalente al greco “παíω”, = battere, percuotere con qualche oggetto-, trasformatosi poi in “terripudium” e poi in “tripudium” con ben spiega Cicerone nel secondo libro del “De divinatione” (XXXIV, 72): “Nihil ad auspicia; sed quia, cum pascuntur, necesse est aliquid ex ore cadere et terram pavire, “terripavium” primo, post “terripudium” dictum est; hoc quidem iam “tripudium” dicitur” (“Nulla da dire riguardo agli auspici; ma poichè quando [i pollli] si nutrono è inevitabile che una parte del cibo cada dai loro becchi e vada a finire per terra, [questa forma di divinazione] fu chiamata prima “terripavium” e poi “terripudium”, ed ora si indica come “tripudium”).

CONTINUA NELLA QUINTA PARTE

Note

1) sia Varrone (“Rerum rusticarum, ecc.”, III, 9), sia Columella (“De re rustica”, VIII, 2) non mancano di segnalare che dalla presenza e abbondanza della galline selvatiche trasse il nome l’isola Gallinaria posta nel mar Ligure in prossimità della cittadina di Album Ingaunum (l’odierna Ventimiglia; gli Ingauni erano una tribù ligure). Queste “galline selvatiche” di cui parlano gli autori latini potrebbero essere discendenti di esemplari domestici, o comunque importati, rinselvatichiti, poiché non sono mai esistite in Europa e in Asia occidentale forme selvatiche del genere “Gallus”, che, come abbiamo visto nelle parti precedenti, è tipico del sud-est asiatico.

2) questa osservazione sullo sbattimento delle ali che accompagna il canto richiama quanto avevano espresso nei loro versi alcuni poeti latini antecedenti, ad es. Ennio, “Scenica”: “Favent faucibus russis missis cantu plausuque premunt alas” (“Mostrano di approvare con il loro canto [il sorgere del Sole] e applaudono sbattendo le ali”); Lucrezio, “De Rerum Natura”, IV, 710-711: “Quin etiam gallum, noctem explaudentibus alis/ Auroram clara consuetum voce vocare” (“…il Gallo, applaudendo con le ali l’allontanarsi della notte, saluta l’aurora con voce squillante”).

3) un altro degli animali sacri ad Asclepio era il cane: pertanto da questo punto di vista la figura del dio guaritore ellenico sembra riconnettersi ad Ahura Mazda della religione persiana (e ad altri dei della luce di area iranica, quali Mitra). L’animale più spesso accomunato ad Asclepio era il serpente e più di frequente rappresentato accanto a lui era il serpente, per il suo simbolismo di morte e rinascita (il letargo invernale e il cambio della pelle), che invece, come tutti i Rettili; per gli Iranici aveva un significato negativo, legato alle tenebre. Era costume per i Greci sacrificare un gallo, preferibilmente bianco ad Asclepio, quale ringraziamento per la guarigione da una malattia.

4) secondo quanto riferisce Claudio Eliano (De natura animalium, XVII, 46), “Mnasea [di Pàtara], nel suo trattato sull’Europa, scrive di un tempio dedicato ad Eracle e alla sua sposa [in questo caso si intende Ebe, figlia di Zeus ed Era, che l’eroe impalmò dopo l’assunzione nell’Olimpo]… Egli afferma che nel recinto di questo tempio vengono allevati alquanto uccelli domestici, e segnatamente galli e galline. Essi sono tenuti e nutriti in gruppi separati a spese dello stato. Le galline vivono nel tempio di Ebe, i galli in quello di Eracle. Tra i due settori scorre un ruscello di limpide acque perenni, così che le galline non possono entrare nell’area del tempio di Eracle; ma i maschi, quando viene la stagione degli amori oltrepassano in volo il canale, e dopo essersi accoppiati con le galline, tornano alla loro abituale dimora dopo essersi purificati con l’acqua del ruscello. Dopo che le galline, seguendo il corso della natura, hanno deposto e covato le uova, e sono nati i pulcini, i galli prendono con sé i figli maschi, mentre le femmine rimangono con le madri”. In altre parole, questi volatili mostrano di tenere il comportamento che Strabone e altri antichi autori attribuiscono alle Amazzoni e ai Gargareni, -i quali dopo il loro connubio, si dividono la prole secondo il sesso- (si veda al riguardo quanto si è detto nella prima parte di “Le Amazzoni, guerriere della Luna” del 27 agosto 2015). L’autore però non spiega in quale modo i galli riescano a far attraversare ai pulcini il ruscello per portarli nel proprio settore.

5) “…Pecudem spondere sacello/ Balantem et Laribus cristam promittere galli/ Non audent…” (Non osano offrire nel tempio un gregge belante, né promettere ai Lari non cresta di gallo”). In questa satira l’autore prende di mira l’ipocrisia e la finta religiosità di coloro che fanno agli dei richieste puramente materiali o addirittura riprovevoli.

6) Svetonio, De vita Caesarum, III, 2: “Claudius Pulcher apud Siciliam non pascentibus in auspicando pullis ac per contemptum religionis mari demersis, quasi ut biberent quando esse nollent, proelium navale iniit” (Claudio Pulcro, poichè i polli durante l’auspicio non volevano nutrirsi, per disprezzo della religione li fece gettare in mare, affinchè bevessero se non volevano mangiare, e indi diede inizio alla battagli navale).

7) “tripudium” da “tri” + “pes, -dis”, danza a tre tempi poichè i sacerdoti Salii che officiavano i riti consacrati alla triade capitolina, Giove, Marte e Qurino, e soprattutto a Marte, le eseguivano battendo per tre volte la terra con i piedi, mentre con le mani battevano i sacri scudi Ancili.

1,5 / 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *