OSSERVAZIONI SULLA NASCITA DEL CRISTIANESIMO -appendice seconda (LA “SANTA SINDONE”)-prima parte

Nella parte precedente (appendice prima) abbiamo brevemente riassunto le teorie elaborate dalla filosofia  medioevale per giustificare il dogma cristiano. Ma per “dimostrare” agli increduli e soprattutto per “corroborare” la fede, spesso tiepida, dei credenti nelle sublimi verità della religione cristiana, ancora più che le argomentazioni filosofiche, furono considerate “prove” di indiscussa validità i miracoli compiuti dai santi, o addirittura da Gesù e Maria per mezzo dei loro simulacri, e le apparizioni, specie quelle mariane. Ora non ci addentreremo nel vasto campo dell’agiografia e della miracolistica, e volgeremo la nostra attenzione alle reliquie  -ossia a quei reperti (sia parti del corpo e residui anatomici, sia oggetti, in particolare vesti ed effetti personali)- che sono ritenute afferenti alle figure più significative della religione cristiana e in particolare del Cristo stesso.

A rigore il culto delle reliquie non rientra né nell’apologetica, né nella dogmatica, ma per lo stretto legame con il fondatore del cristianesimo e con altri santi e in ragione dei miracoli che sono stati loro attribuiti, appartengono in pieno all’armamentario ideologico della chiesa cattolica. Infatti, più che alle argomentazioni razionali, le chiese cristiane, e in particolare quella cattolica romana (in misura minore quelle orientali e quasi per nulla le congregazioni protestanti) hanno fatto ampio ricorso, specie per la massa del popolo, a fattori emotivi e psicologici che appagano il primordiale sentimento dell’uomo di ottenere la protezione delle entità animiche e spirituali la cui presenza egli percepisce nel mondo, nonché nella sua confusa esperienza personale.

Nel presente articolo prenderemo in esame una delle più conosciute e venerate reliquie: la cosiddetta “Santa Sindone”, il drappo di lino, lungo più di quattro metri e largo più di uno che, secondo una consolidata, -ma non antichissima-, tradizione avrebbe ricoperto il corpo di Cristo dopo la morte, durante la sepoltura e prima della presunta resurrezione dai morti.

Innanzitutto dobbiamo osservare che nella narrazione esposta negli evangeli canonici si riscontrano due diverse versioni sulla sepoltura e la resurrezione di Cristo: una tramandata dai tre vangeli sinottici, -sebbene con alcune lievi varianti e discordanze tra di essi (Matt., XXVII, 57-65; XXCIII, 1-15; Marco, XV, 42-47; XVI, 1-12; Luca, XXIII; 50-56; XXIV, 1-12)-, secondo la quale, dopo la morte di Gesù, Giuseppe di Arimatea, autorevole membro del sinedrio, ne chiese il corpo a Pilato, lo avvolse in un lenzuolo (sindone, σινδον in greco, che rimane “sindon” anche nella “Vulgata”, la traduzione della Bibbia compiuta da S. Gerolamo nel IV secolo, che è la traduzione ufficialmente accettata dalla chiesa cattolica come testo sacro) e lo depose nel sepolcro che egli aveva predisposto per sé stesso; l’altra è quella riportata nell’evangelo di Giovanni (XIX, 38-42; XX, 1-18), il quale afferma che insieme a Giuseppe di Arimatea collaborò alla sepoltura di Gesù anche Nicodemo -egli pure influente membro del sinedrio e segreto discepolo di Cristo-: esso avvolsero il cadavere in bende -“εδησαν αυτò εν οθονιοις μετα’ των αρωματων”- (οθονια, “othonia”, tradotto in latino con “linteamina” = pezze o strisce di tela) imbevute di balsami e aromi (ben cento libbre di mirra ed aloe), “secondo il modo di seppellire in uso presso i Giudei”, -come precisa l’evangelista-, prima di rinchiuderlo nel sepolcro.

Giovanni aggiunge inoltre (Giov., XX, 6-7) che Pietro allorché entrò nel sepolcro “vide le bende deposte in terra, e il sudario, nel quale era stato avvolto il capo di Gesù, non giacente tra di esse, ma ripiegato in un luogo a parte”: da questa precisazione si evince che mentre il tronco era stato fasciato, per il capo era stato impiegato un fazzoletto intero.

Si riscontra dunque una discordanza sostanziale tra i vangeli e pertanto si può ritenere autentica la sindone conservata nel Duomo di Torino solo se si accetta la versione dei sinottici; ma in tal caso ne dovremmo concludere che Giovanni, -o colui che ha scritto il testo a lui attribuito-, in buona o cattiva fede avrebbe mentito, e che quindi un testo sacro, considerato rivelato e ispirato da tutte le chiese cristiane, almeno su questo punto, sarebbe mendace.

Ma la questione si complica ulteriormente: infatti Luca, il quale in precedenza, come abbiamo detto, aveva parlato di “sindone” (cioè di un lenzuolo unico), in XXIV, 12, nomina delle “bende” (othonia) “Pietro […] corse al sepolcro e, sporgendo il capo, non vide che le bende”: dal che si deve dedurre che la discrepanza non è solo tra i diversi vangeli, ma addirittura all’interno di un medesimo testo, quello di Luca.

Anche nei vangeli apocrifi che trattano della morte e resurrezione di GC possiamo osservare oscillazioni e contraddizioni per quanto riguarda il seppellimento delle spoglie del defunto. Nel “Vangelo di Nicodemo” (recensione greca)(2) si parla prima di un “panno di lino” (XI, 3) e poi di una “sindone” (XV, 6); poco oltre  lo stesso Gesù risorto, rivolgendosi a Giuseppe di Arimatea, afferma: “mi hai avvolto in una sindone pura, hai posto un sudario sul mio viso”, il che lascia intendere che la sindone ricopriva solo il corpo, ma non il volto; e così pure in XV, 8: “là giacevano la sindone e il sudario che avevo posto sul suo viso”. E ancora più evidente è la discordanza interna sul trattamento ricevuto dal corpo di Gesù dopo la morte nel “Vangelo di Gamaliele” (recensione etiopica): infatti prima, descrivendone la sepoltura, si afferma che il cadavere fu avvolto in “un panno di lino nuovo intriso di spezie e mirra”  (III, 20); ma pochi passi più avanti si parla di “sudario” (III, 24), e infine di “panni di lino” al plurale (III, 40). Nel prosieguo della narrazione, quando Gesù appare a Pilato (VII, 8), lo invita a recarsi alla sua tomba, dove avrebbe trovato le fasce mortuarie deposte a terra, a testimonianza della resurrezione. E ugualmente fasce o bende vengono citate più volte in VII, 22-36, allorché Pilato, recatosi al sepolcro come gli era stato consigliato, ha modo di constatare la veridicità di quanto dettogli da Gesù; e in VIII, 1-3, ove tali bende operano un miracolo, quando, poste sopra l’occhio cieco di un centurione, -il quale aveva riportato l’invalidità a causa di una ferita di guerra- al seguito di Pilato, ridonano a costui la vista. E le bende vengono ancora menzionate in VIII, 19-20 e in IX, 3, dove si narra che il “buon ladrone”(quello tra i due che furono crocifissi insieme a Cristo che si pentì prima della morte e il cui nome sarebbe stato Disma, mentre quello cattivo si chiamava Gesta, a quanto viene riportato nel testo attribuito a Nicodemo -IX, 5 nella recensione greca; VI, 7 nella recensione copta del “papiro di Torino”, ove peraltro i nomi dei due ladroni sono un po’ diversi, e cioè Dema e Cista-), di cui era stato ritrovato il cadavere in un pozzo, dopo essere stato avvolto con le fasce funebri miracolose, risorge a sua volta. Secondo il “Vangelo di Gamaliele” infatti i sacerdoti intendevano far passare le spoglie del ladrone per quelle di Cristo trafugate dai discepoli (3).

In entrambi codesti vangeli (di Nicodemo e di Gamaliele) la figura di Ponzio Pilato è presentata in una luce alquanto benevola: egli, specialmente nel vangelo di Gamaliele, cerca in tutti i modi di evitare la condanna di Gesù, e alla fine si converte alla fede cristiana. Al contrario i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei sono descritti, oltre che quali ottusi difensori di una religione ormai superata, come persone senza scrupoli che agiscono in perfetta malafede e non solo si adoperano con ogni mezzo per ottenere la condanna a morte di Gesù, ma corrompono i soldati romani posti a guardia del sepolcro affinché dichiarino il falso, ovvero che il corpo ivi sepolto sarebbe stato trafugato dai discepoli mentre essi dormivano. Secondo questi scritti extra-canonici infatti anche le guardie avevano assistito al miracolo della resurrezione, vedendo “un angelo discendere dal Cielo, far rotolare la pietra posta a chiudere l’ingresso della tomba e sedere sopra di essa”. Il vangelo di Gamaliele (VII, 11-21) riferisce però che Pilato, sospettando l’inganno orchestrato dai sacerdoti, interroga separatamente le quattro guardie, le quali danno versioni discordanti dell’accaduto, per cui egli capisce che non dicono il vero.

La corruzione delle guardie ad opera dei capi dei sacerdoti è un particolare riportato anche nel racconto di Matteo (XXVIII, 11-15); così come il medesimo evangelista tramanda (Matt., XXVII, 19) l’intervento della moglie di Pilato, avvertita da un sogno profetico, in favore di Gesù, che si ritrova anche nei vangeli di Nicodemo (II, 1) e di Gamaliele (II, 31), per cui si può supporre che il vangelo canonico riprenda una fonte alla quale avrebbero attinto anche i due apocrifi, i quali peraltro narrano in forma estesa episodi ed eventi di cui nel testo di Matteo si trova solo un accenno (4).

Stando al vangelo di Nicodemo (VI, 1-2; VII, 1) durante il processo a Gesù davanti a Pilato, si presentano alcuni di coloro che furono beneficati dai miracoli da lui compiuti e che quindi testimoniano a sua discolpa: un ex-paralitico (presumibilmente quello di Cafarnao di cui si parla in Matt., IX, 1-8; Marco, II, 1-12; Luca, V, 12-16); un ex-cieco nato (la cui recuperata facoltà di vedere è narrata in Giov., IX, 1-14); un ex-gobbo che era stato raddrizzato (miracolo che non ha riscontro nei testi canonici); un ex-lebbroso, la cui guarigione è descritta in Matt., VIII, 1-4; Marco, I, 40-45;Luca, V, 12-16 (ma potrebbe trattarsi pure di uno dei dieci lebbrosi guariti nell’episodio narrato da Luca, XVII, 11-19); ed infine l'”emorroissa”, guarita dalle dolorose perdite di sangue di cui soffriva da dodici anni -come è detto in Matt., IX, 20-22; Marco, V, 25-34; Luca, VIII, 43-48-: ella si avvicina furtivamente a Gesù per toccarne le vesti spinta dalla speranza di essere risanata, ma viene scoperta, poiché il maestro avverte che una delle sue “virtù”, o “potenze” è uscita dal suo corpo.

Cristo e l’emorroissa in un dipinto nelle catacombe di Marcellino e Pietro a Roma.

Costei nelle recensioni copta e latina del vangelo di Nicodemo è detta chiamarsi Veronica (mentre in quella greca non viene menzionato il suo nome), il che potrebbe farla identificare con la donna che, secondo una leggenda posteriore, avrebbe asciugato con  un fazzoletto il volto di Cristo durante il cammino verso il Calvario, di modo che ne rimase impressa l’immagine; il fazzoletto, conservato come preziosa reliquia, riapparve in Europa in epoca medioevale e si contesero l’onore di possedere un’antica e miracolosa immagine di Cristo, facendo concorrenza alla santa sindone (5).

Ma queste testimonianze a favore di Gesù si rivelano vane, poiché i leviti e i farisei, ostinati nello sforzo di farlo condannare, dimostrando la meschinità e grettezza del loro fanatico legalismo religioso, obiettano che egli operò dei miracoli di sabato, così la legge mosaica che vieta in modo tassativo di compiere qualunque atto non necessario al di fuori dei riti religiosi.

Nel corso degli scavi archeologici eseguiti in Palestina sono stati reperiti oltre 5.000 sepolcri, databili tra il IV sec. a. C. e il II sec. d. C., che hanno consentito di ricostruire sia le pratiche di sepoltura, sia la tipologia dei materiali tessili impiegati nei panni funebri in cui erano avvolti i cadaveri. Sembra che presso gli Ebrei e gli Idumei nell’età ellenistico-romana le cerimonie funebri avessero luogo poco dopo il decesso, se possibile a distanza di poche ore (in modo simile alle esequie islamiche). Gli occhi del defunto erano chiusi, il corpo veniva lavato e spalmato con aromi ed unguenti, gli orifizi corporei venivano accuratamente occlusi e strisce di tela avvolte intorno al cadavere, fasciando le mascelle chiuse, tenendo le braccia e le mani distese lungo i fianchi e stringendo insieme i piedi, di modo che le spoglie mortali del trapassato assumevano un aspetto simile a quello delle mummie egiziane -dalle quali peraltro differiva alquanto poichè non veniva praticata né l’eviscerazione, né la disidratazione nel “natron”-.

Così preparato, il corpo veniva trasportato dai familiari su una lettiga o una sorta di bara o sarcofago al luogo della sepoltura, di solito una piccola grotta naturale o artificiale scavata nella roccia. Giunta la processione alla tomba, veniva pronunciato un encomio funebre e il defunto veniva  collocato all’interno, dove spesso trovavano posto altri cadaveri (poiché erano per lo più di tombe di famiglia), ciascuno in una nicchia, nella quale, seguendo un’usanza funebre comune nel forme di sepoltura a inumazione, erano messi anche gioielli o altri oggetti appartenuti al defunto; infine, l’ingresso del sepolcro veniva chiuso  con una grossa pietra -così come viene detto nei vangeli-.

Nel corso del 900 furono rinvenuti nella regione palestinese (a Gerico, a Qumran, a En-Gaddi e in altre località) numerosi frammenti, più o meno ampi di drappi funebri (circa una sessantina) e uno intero, confezionato in lana, ad Akeldama (6) nei pressi di Gerusalemme, che con il metodo della datazione col “carbonio 14” risultarono essere state confezionati nel I secolo, ma tali reperti sono completamente diversi dalla sindone conservata a Torino sia per tessuto, tessitura e torcitura del filo, sia per il modo con il quale il corpo che avevano ricoperto vi era stato collocato. La sindone di Akeldama era servita per coprire solo il tronco del defunto, mentre la testa era stata involta in un sudario separato; per quanto riguarda la posizione del corpo, le braccia erano distese ai lati (e non ripiegate all’interno verso il basso ventre come nella presunta reliquia), il collo, i polsi e le caviglie erano strette con apposite bende. Sia codesta sindone, sia i frammenti delle altre presentano una struttura trama-ordito di 1:1 (come quella di Akeldama) o di 2:2, e sono caratterizzati dalla torsione del filo a “S” (in senso anti-orario)-che era quella normale in Palestina a quei tempi-, mentre la sindone venerata a Torino -che come vedremo non è la sola, poiché di presunte lenzuola funebri di Cristo ne esistevano diverse altre- presenta una struttura a “spina di pesce” (3:1) e la torcitura è a “Z” (in senso orario): l’unico tessuto di lino pressoché identico a quello della sindone attualmente conosciuto risale al XIV secolo ed è conservato nella sezione medioevale del Victoria and Albert Museum di Londra; ed in effetti l’epoca in cui si hanno le prime notizie della sindone è proprio il XIV secolo.

Ma, oltre che per le motivazioni storiche e archeologiche sopra segnalate, che escludono l’autenticità della reliquia, l’immagine impressa sul drappo risulta incompatibile con l’aver esso accolto realmente un corpo umano crocifisso per molte ragioni anatomiche, mediche, geometrico-spaziali. In particolare l’immagine della sindone è priva della tipica deformazione che si creerebbe nel contatto con un corpo di discreta larghezza e profondità, -come quello umano-, per cui se l’impronta fosse autentica ne dovrebbe risultare un disegno assai dilatato (e non corrispondente alle dimensioni e ai lineamenti reali); tale deformazione dovrebbe essere assai accentuata nel viso, -meno nel resto del corpo-, conferendo ad esso un aspetto assai dilatato, definito “effetto maschera di Agamennone” (cosiddetto perché rimembra la famosa maschera d’oro micenea trovata da H. Schliemann nel 1876 e attribuita ad Agamennone): mancando la dilatazione, se ne deduce che l’impronta può essere stata lasciata solo da un oggetto di larghezza ridotta rispetto alla figura che appare sul lenzuolo (come una tavola, o qualcosa del genere), ovvero che si tratti di un’opera pittorica. La posizione del corpo nel suo complesso appare innaturale, soprattutto per quanto riguarda le mani: per mantenerle in tale collocazione al centro sul corpo disteso su un piano orizzontale, i muscoli devono essere necessariamente tesi, altrimenti esse scivolerebbero lungo i fianchi; ma d’altro canto tale posizione non potrebbe essere nemmeno giustificata dall’irrigidimento cadaverico, ma solo dall’essere state fissate le braccia con funi o altri legamenti, dei quali però non è rimasta alcuna traccia. Le braccia e la testa appaiono decisamente sproporzionate rispetto al corpo; inoltre nell’impronta lasciata dal capo su un telo in cui sia stato avvolto un vero cadavere la parte anteriore e quella posteriore dovrebbero apparire unite e non separate da uno spazio bianco (così che in pratica nella sindone l’impronte anteriore e quella posteriore si rivelano essere due impronte diverse createsi in modo indipendente l’una dall’altra); inoltre le macchie di sangue si mostrano troppo ben definite, mentre se fossero autentiche sarebbero del tutto irregolari; anche i segni della flagellazione sono caratterizzati da un’anomala simmetria.

A questo punto è senza dubbio opportuno fare un parentesi sulla pena della crocifissione: sebbene, -secondo le frequenti e concordi testimonianze di molti antichi autori (Erodoto, Polibio, Plauto, Cicerone, Livio, Petronio, Giuseppe Flavio, Seneca J., Tacito, Plutarco, Plinio J., Curzio Rufo,Tertulliano, Luciano di Samosata ed altri)- essa sia stata un mezzo di esecuzione delle condanne a morte largamente praticato nell’antichità, in particolar modo dai Romani, -presso i quali fu riservata agli schiavi e agli stranieri (mentre i cittadini romani ne erano immuni)(7)-, non è stato finora ritrovato alcun reperto sia di resti anatomici umani, sia di croci riferibile con sicurezza ad una esecuzione per crocifissione, con un’unica importante eccezione -quella di un condannato rinvenuto nel 1968 in uno scavo nei pressi di Gerusalemme- sulla quale torneremo in seguito.

Sappiamo tuttavia, per esplicita attestazione delle fonti storiche, che esistevano diversi tipi, o quanto meno varianti, di crocifissione (8). Il tipo più frequente è quello che prevedeva l’impiego di pali fissati sul terreno, di solito già predisposti in località apposite alla periferia delle città destinate alle esecuzioni capitali e spesso anche alla sepoltura dei condannati e che godevano pertanto di una triste fama (9); codesti pali erano detti con voce latina “stipites” (singolare “stipes”) e su di essi veniva issato e disposto trasversalmente un altro palo, chiamato “patibulum”, che il condannato stesso portava sulle spalle giungendo al luogo dell’esecuzione e al quale era legato per i polsi. Al momento di essere appeso,- ma non sempre-  quest’ultimo veniva inchiodato al “patibulum”, sempre ai polsi o agli avambracci (mai sulle palme delle mani, poiché in tal modo si sarebbero lacerate e non avrebbero potuto sorreggere il corpo)(10). A metà circa dello “stipes” era infisso un piolo, il “sedile”, che serviva a dare un sostegno al crocifisso, il quale altrimenti non avrebbe potuto resistere a lungo in quella oltremodo scomoda posizione senza scivolare verso il basso. Talora veniva aggiunto anche un “suppedaneum”, una sorta di piccolo blocco ligneo al quale venivano legati o inchiodati i piedi, ma sembra che l’impiego di esso fosse abbastanza eccezionale e probabilmente aveva una funzione di rinforzo quando le condizioni di debolezza del condannato (il quale prima di essere crocifisso subiva normalmente la “verberatio”, la fustigazione) ne mettevano in dubbio la stabilità sulla croce. Si noti che in quest’ultimo caso i piedi non erano posti uno sopra l’altro trafitti da un unico chiodo, ma ai lati del “suppedaneum” e ciascuno trafitto da un singolo chiodo in senso trasversale conficcato nel tallone dall’esterno verso l’interno. In tal modo le gambe risultavano flesse, con le ginocchia più o meno ripiegate e non completamente distese (come appare nelle raffigurazioni artistiche della crocifissione dal ME in poi).

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) non è chiaro se l’unità di misura in questione sia la libbra romana -equivalente a gr. 327,45-, oppure la libbra alessandrina -equivalente a gr. 349,3-. In ogni caso si tratterebbe di una quantità spropositata di aromi (più di trenta chili), che avrebbe dovuto avere anche un costo esorbitante; il che lascia pensare che l’affermazione dell’evangelista abbia un valore iperbolico più che reale.

2) il “Vangelo di Nicodemo”, come il “Vangelo di Gamaliele” poco oltre citato, sono due testi appartenenti al gruppo degli “apocrifi della Passione”, -cosiddetti poiché sono concentrati nella narrazione degli eventi che precedono immediatamente  e accompagnano la passione e la morte di Cristo-; esso sembra essere la riunione, o meglio giustapposizione, di due scritti in origine a sé stanti -gli “Atti di Pilato”, fino al cap. XVI -in cui si distinguono a loro volta due parti: la prima che è una narrazione della cattura, morte e resurrezione di Cristo e un’altra che contiene le riflessioni e i commenti edificanti di Nicodemo e di Giuseppe di Arimatea-, e la “Discesa di Cristo agli Inferi” (“Descensus Christi ad Inferos”), in undici capitoli, nella quale è riferita la testimonianza di Gesù ai discepoli sul suo viaggio nell’al di là. Codesti scritti, risalenti, almeno nel loro nucleo essenziale, al I o al II secolo, sarebbero stati stabilmente riuniti in un unico evangelo da un ignoto compilatore di età carolingia e in seguito tramandati con il nome di “Vangelo di Nicodemo”. Degli “Atti” esistono diverse recensioni: due greche (A e B), una siriaca, una copta, una latina, e molte altre. Nel proemio dell’opera dichiara di chiamarsi Anania, definendosi altresì “ufficiale pretoriano”, e di aver tradotto in greco dall’ebraico le memorie di Nicodemo nell’anno XVII del regno di Flavio Teodosio e V del regno di F. Valentiniano, nell’anno II dell’indizione IX. Si tenga presente che in questo caso la qualifica di “pretoriano” indica semplicemente che il supposto autore faceva parte di un corpo militare di scorta a un magistrato, dal momento che la “Guardia pretoria” degli imperatori romani era stata soppressa da Costantino I nel 312 dopo la battaglia di Ponte Milvio, durante la quale i pretoriani si schierati con il suo rivale Massenzio da lui sconfitto. Gamaliele era invece uno dei più reputati maestri ebrei del I secolo, appartenente alla scuola dei Farisei (sui quali si veda quanto abbiamo detto nella terza parte delle “Osservazioni sulla nascita del cristianesimo” del 9 ott. 2016); è citato due volte negli “Atti degli Apostoli”: in V, 38-39, dove egli, quale autorevole membro del sinedrio, si pronuncia a favore degli apostoli, sostenendo che se la loro setta fosse stata conforme ai disegni divini non avrebbe potuto essere estirpata, e citando a tale proposito l’esempio di Teuda, un sedicente profeta e messia che aveva animato e guidato una rivolta anti-romana in Palestina (si veda al riguardo la nota n. 3 della prima parte delle “Oss. sulla nascita de crist.” del 6 settembre 2016)-; e in XX, 3, in cui Paolo di Tarso ricorda con fierezza di essere stato suo discepolo.

3) “E rivolto agli Ebrei Pilato disse: -Dove si trova il morto che a vostro dire è Gesù?-. Gli Ebrei precedettero Pilato e il capitano delle guardie nel giardino, che era assai profondo, ed io, Gamaliele, li seguiì con il popolo. Guardarono in fondo al pozzo e videro un corpo avvolto in un lenzuolo mortuario; allora gli Ebrei gridarono: -Vedi, Pilato, lo stregone di Nazareth del quale ti rattristi e affermi che è risorto? Eccolo nel pozzo!-. Pilato comandò di trarlo fuori, fece chiamare Giuseppe [di Arimatea] e Nicodemo e chiese loro: -Sono queste le bende di lino con le quali avete avvolto il morto?-. Essi risposero: -Le bende di lino che tu tieni in mano sono quelle del N. S. Gesù, mentre il corpo è quello del ladrone che fu crocifisso con lui-.” (V. di Gamaliele, VIII, 15-20); “[Pilato] chiamò dunque i capi degli Ebrei e disse loro: -Noi crediamo che questo sia il Nazareno!-. Ma essi risposero: -Lo crediamo noi!-. Pilato ribattè: -Lasciamo il coro nella tomba come si usa per tutti i morti-. Poi fece venire Giuseppe e Nicodemo e disse loro: -Avvolgetelo con queste bende di lino come prima-. Gli Ebrei strepitavano proclamando: -Non ci fidiamo di Giuseppe e di Nicodemo, poiché essi sono seguaci di Gesù-” (V. di Gam. VIII, 24-25; IX, 1); “Essi presero allora le bende di lino che avevano fasciato il corpo di Gesù e con esse avvolsero il morto. Pilato e i suoi soldati intonarono il canto funebre e lo deposero nella tomba di Gesù; poi Pilato diede ordine di porre una pietra per chiudere l’ingresso della tomba” (V. di Gam., IX, 3-4); “Terminata che ebbe Pilato questa preghiera con le mani tese, dall’interno del sepolcro si udì una voce che diceva: -Signore, aprimi la pota affinché io esca, rotola la pietra, mio signore Pilato, così che possa venire fuori in virtù di nostro signore Gesù cristo risorto dai morti-. Con incontenibile giubilo nel suo cuore, Pilato innalzò un grido e le pietre gridarono con lui. Alla folla dei presenti il governatore comandò di far rotolare la pietra che occludeva l’entrata della tomba, dopo di che senza indugio il ladrone resuscitato uscì e si gettò ai piedi di Pilato”(V. di Gam., X, 1-3); “-Io sono il ladro che fu appeso alla destra del mio signore Gesù, mi rallegro di tutte le grazie e dei doni, e di quella parola che pronunciai quand’egli era crocifisso. Quando mi sono alzato dalla tomba di Gesù, tu, Pilato -mio signore-, mi hai aperto la porta del suo sepolcro, come egli mi aveva schiuso la porta del paradiso. Aspira questo amabile profumo che viene dall’albero del paradiso ove la mia anima si è ristorata-” (V. di Gam., XI, 4-5).

4) la moglie di Pilato, secondo una tradizione posteriore, si sarebbe chiamata Claudia Procula, e con tale nome  è venerata quale santa nelle chiese cristiane orientali, con menzione liturgica il 27 ottobre. Ella sarebbe divenuta seguace degli apostoli, e alcuni la identificano con una Claudia citata insieme ad altri fedeli nella seconda lettera a Timoteo (IV, 21). A motivo della sua conversione attestata nei vangeli apocrifi, anche lo stesso Ponzio Pilato è stato canonizzato dalla chiesa copta etiopica e in Etiopia la sua festa viene celebrata unitamente a quella della consorte il 25 giugno. Notiamo che nelle chiese orientali -tanto ortodosse, quanto monofisite e nestoriane-, i testi apocrifi del NT, pur non essendo generalmente considerati ispirati, hanno esercitato però una notevole influenza sia nella liturgia sia nella letteratura edificante, senza dubbio maggiore che nella chiesa cattolica dove furono visti con sospetto e ritenuti più o meno “contaminati” da dottrine eterodosse, pur esercitando talora una rilevante influenza anche nell’iconografia (come è accaduto con il Bue e l’Asino rappresentati nel presepio, di cui abbiamo ampiamente trattato negli articoli scorsi).

5) sembra che fin dall’VIII secolo fosse venerato a Roma un drappo recante l’impronta del volto di Cristo che è citato in una lettera di papa Sergio I (1009-1012) risalente al 1011. In effetti il nome “Veronica” è una trasposizione di “vera icon”, “espressione mista di latino e di greco, ossia “vera immagine”, sovrappostosi e confusosi con il vero nome dell’emorroissa, Berenike, ed è probabile che la leggenda della donna che asciugò il volto di Cristo sia stata creata proprio per giustificare l’immagine impressa sul telo, che fece concorrenza alla sindone, nonché al “Mandylion”, il fazzoletto con impressa la sua immagine che sarebbe stato inviato da Gesù a re Abgar di Edessa per guarirlo dalla lebbra (del quale abbiamo parlato nella nota n. 9 della quinta parte de “Le Amazzoni, guerriere della Luna”, pubblicato il 26 ottobre 2015), con il quale finì talvolta per confondersi.

6) è questo il famoso “campo del vasaio”, citato in Matt., XXVII, 3-10, ove si dice che fu comprato dai principi dei sacerdoti con le trenta moneta d’argento che Giuda aveva ricevuto per il suo tradimento e che aveva lanciato nel tempio prima di impiccarsi e che essi destinarono a luogo di sepoltura per i forestieri. Il nome deriva, attraverso il greco “Hakeldamah”, dall’aramaico “Haqal Demàh”, che significa “campo del sangue”; tale denominazione era stata data a questa località ben prima degli eventi riportati nei vangeli a cagione del colore rossastro del terreno, dovuto all’argilla in esso presente in abbondante quantità che gli conferiva un aspetto vagamente sanguigno. Per la ricchezza di argilla, i vasai ad esso traevano largamente la materia prima per il loro lavoro, donde l’altro nome con il quale era noto di “Campo del Vasaio”. Secondo il Loisy (“Gli Atti degli Apostoli”, pag. 178), il “Campo del Sangue” sarebbe stato il cimitero dei giustiziati, dove fu sepolto Gesù (o uno dei personaggi storici che avrebbero dato origine alla figura del Cristo come Dio incarnato). Quando sorse la leggenda della sepoltura nel sepolcro di Giuseppe d’Arimatea, l’infausto ricordo di codesto luogo fu attribuito a Giuda Iscariota. Qui fu rinvenuto un complesso tombale comprendente due camere sepolcrali disposte su due piani, in cui vennero identificati undici loculi e ventotto ossari in calcare entro i quali le ossa dei defunti erano deposte a circa un anno dalla sepoltura per lasciare spazio agli altri cadaveri.

7) a titolo di esempio basti pensare ai 6.000 superstiti dell’esercito di Spartaco crocifissi lungo la via Appia tra Capua e Roma per ordine di M. Licinio Crasso (Appiano di Alessandria, “Guerra Civile”, I, XIV, 120).

8) si veda ad esempio Seneca il Giovane, “Consolatio ad Marciam”, XX, 3: “Video istic cruces ne unius quidem generis, sed aliter ab aliis fabricatas: capite quidam conversos in terram suspendere, alii per obscena stipitem egereunt, alii brachia patibulo explicuerunt; video fidiculas, video verbera, et membris singulis articulis singula docuerunt machinamenta; sed video et mortem” (“Vedo colà delle croci non di un solo tipo, ma costruite in diversi modi: alcuni infatti sospesero i condannati con il capo rivolto verso terra, altri infilarono orrendamente il palo -lo “stipes”- attraverso il retto, altri ancora disetesero le braccia [dei condannati] sul patibolo. vedo i cavalletti, vedo le percosse e vedo orribili strumenti, ciascuno dei quali deputato a straziare un singolo membro; ma vedo anche la morte”).

9) a Roma ad es. il luogo delle esecuzioni capitale era presso la Porta Esquilina (si vedano Tacito, “Annales”, II, 32,4; Svetonio, “Vita di Claudio”, 25).

10) per tale ragione è evidente che le cosiddette “stimmate”, cioè le ferite in mezzo alle palme delle mani che dovrebbero riprodurre quelle analoghe del Cristo crocifisso, secondo la comune tradizione iconografica, di cui sono, -o sarebbero-, stati dotati diversi personaggi considerati santi dalla chiesa cattolica, non possono essere doni mistici (perché in tal caso dovrebbero apparire sul polso e non sulle palme). Esse, ove non si tratti di mere mistificazioni, devono essere causate da energie psichiche (o di suggestione, o di fenomeni “paranormali”), che ovviamente si manifestano secondo le convinzioni del soggetto.

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