ANTICHI SPLENDORI (seconda parte) -il colosso di Shravanabelagola-

Shravanabelagola è un ridente cittadina situata a 11 Km a sud-est del centro di Channarayapatna, nel distretto di Hassan, circoscrizione dello stato indiano del Karnataka nell’India sud-occidentale, conosciuta soprattutto per il santuario giainico che ospita una statua colossale di Gommateshwara Bahubali, uno dei santi (“Arham”) venerati dai Giainisti, figlio del leggendario fondatore di questa religione, Rishaba, primo di una serie di 24 maestri spirituali, i “Tirthankara”, che avrebbero trasmesso la dottrina salvifica nei tempi antichi, fino a che con l’ultimo di tali maestri, Mahavira, si ebbe la definitiva sistemazione dottrinale e organizzativa del giainismo (1). Il nome “Shravanabelagola” in lingua canarese, o “kannada”, una delle lingue dravidiche parlate nell’India merdionale, significa “bianco acquitrino dello Shràvana”: infatti al centro della città trovasi, -o trovavasi-, uno stagno (“belagola”), mentre “Shravana” è il nome in sanscrito del XXIII, o XXII, “nakchatra”, una delle mansioni dello zodiaco lunare indiano, -ossia le sezioni dell’eclittica di circa 13° che corrispondono al passo medio giornaliero della Luna-. “Shravana”, -che significa “l’orecchio”-, ha un’ampiezza che va da 12°, 51′. 27″ a 25° ,42′ ,52” del segno del Capricorno (2). Alcune iscrizioni tuttavia citano il nome di questo luogo nella semplice forma di di “Belgola”, facendolo derivare dal frutto del Solanum ferox, altrimenti detto Solanum lasiocarpum, arbusto appartenente alla famiglia delle Solanacee, noto con il nome volgare di “pianta delle uova pelose”, a motivo dell’aspetto delle sue bacche: questa spiegazione sull’origine del toponimo è da attibuire a una leggenda che vuole un’anziana devota abbia un tempo onorato il sacro simulacro di Bahubali versandovi sopra una miscela di latte e del succo del frutto di tale pianta, che ella aveva ivi recato trasportandovela nel guscio di uno di tali frutti; ed in effetti pure ai giorni nostri si usa fare una consimile offerta, sebbene con altri liquidi, irrorando il venerato simulacro nel corso della festività principale dedicata a codesta figura semidivina. Da alcune altre epigrafi apprendiamo invero che la cittadina era designata anche come “Devara Belgola” (“Bianco stagno del Dio”) e “Gommatapuram” (in sanscrito “città di Gommata”).

La venerata statua venne scolpita in un monolito di granito intorno al 983 ed è alta 17 metri; la figura del santo è rappresentata nella posizione yogica detta “kayotsarga”, -in pratica il rimanere eretti e fermi in un luogo per lungo tempo-, che Bahubali avrebbe mantenuto per un anno intero (tanto che intorno al suo corpo sarebbero cresciuti arbusti rampicanti, che sono anch’essi riprodotti nella scultura) ed i suoi piedi sono circondati da una sorta di formicai, scolpiti anch’essi nel granito, donde escono innumeri serpenti quando siano evocati dalle arti magiche dei santoni giainisti.

Un’antica leggenda narra che quando il colosso fu terminato, il suo committente, il potente ministro Chavundaraya (940-989), constatata l’ineguagliabile pefezione del manufatto, per non suscitare l’invidia degli spiriti maligni, comandò di mutilare l’indice della mano sinistra, asportandone l’ultima falange .

La figura di Bahubali, sebbene non sia compresa nella catena di maestri spirituali sul cui insegnamento si fonda la religione giainista, riveste una particolare importanza per i seguaci di detta religione. Secondo i testi sacri giainisti, tra i quali l'”Adi Purana”, -poema in sanscrito composto nel nono secolo dal monaco Jinasena che tratta della vita di Rishaba (o Rishabanatha) e dei suoi due figli-, Bahubali sarebbe il secondogenito del primo maestro del giainismo e della di lui consorte Sunanda, nato nella città di Ayodhya durante il regno della dinastia degli Ikshvaku. Egli nella sua giovinezza eccelse nello studio della medicina, dell’astrologia, della botanica, delle pietre preziose, del tiro con l’arco e in tutte le attività e le arti che si addicevano a un membro della sua casta ed ebbe anche un figlio nomato Somakirti (conosciuto anche come Mahabala). Quando Rishaba decise di farsi monaco, suddivise il regno tra i suoi cento figli: a Bharata fu assegnato il regno di Vinita, con capitale Ayodhya, mentre Bahubali ricevette quello di Asmaka, nell’India meridionale, la cui capitale era Podanapur. Ma i fratelli non seppero mantenere la concordia, e tra essi scoppiò una guerra feroce. Dopo aver sconfitto sei divisioni di fanteria, Bharata avanzò verso la la sua capitale Ayodhya con un grande esercito in capo al quale il condottiero teneva una sorta di misterioso disco rotante con i bordi seghettati dotato di magici poteri, il “chakra ratna” (“gioiello rotondo”). Ma al suo ingresso nella città l’arma preziosa smise di ruotare, segnalando così che i suoi fratelli intendevano sottomettersi alla sua autorità; questi ultimi gli consegnarono i loro regni e, seguendo le orme del padre, divennero anch’essi monaci giainisti. Ma nonostante questo Bahubali fu ancora infiammato dalla rivalità per il fratello maggiore ed essendogli stato concesso un corpo fisico superumano dotato di straordinario vigore, così come a Bharata, rifiutò di sottomettersi all’autorità di quest’ultimo e gli lanciò un’aperta sfida.

I ministri di entrambi i contendenti cercarono di prevenire un’altra guerra esortandoli a non combattere tra di essi, poichè erano ormai alla loro ultima incarnazione ed in possesso di corpi pressochè invulnerabili che nessuna arma avrebbe potuto mortalmente ferire: cercassero dunque di risolvere in altro modo le loro controversie. Per dirimere la questione fu allora deciso che i due fratelli si sarebbero sfidati in tre prove incruente: il combattimento “visivo” (consistente nel fissarsi intensamente l’un l’altro negli occhi fino a che uno non fosse stato vinto dalla potenza ipnotica dell’avversario); la lotta in acqua (“jala-juddha”) e la lotta libera (“malla-yuddha”). Bahubali risultò vincitore in tutte le prove, ma dopo aver vinto la sfida fu preso da profondo disgusto per le vanità del mondo, per cui dopo aver deposto il potere regale e lasciato tutti suoi averi, gli abiti e gli ornamenti preziosi si fece monaco e si diede alla meditazione per conseguire l’onniscenza (“kevala gyana”). Si tramanda che egli abbia meditato e digiunato per un  intero anno mantenendosi in posizione eretta, così immobile che le piante rampicanti gli crebbero intorno alle gambe e ai fianchi, le formiche camminavano sulle sue membra e gli uccelli si posavano sul suo capo. Secondo l'”Adi Purana” nell’ultimo giorno delle sua ascesi il fratello Bharata giunse da lui e gli si prostrò davanti. Pertanto il doloroso rimpianto per l’umiliazione da lui inflitta al fratello maggiore, che tanto lo  aveva tormentato e turbato durante la sua meditazione si dissolse e Bahubali potè annichilire i quattro tipi di “karma” avversi (“ghatiya karma”) e conseguire l’onniscenza e la liberazione dai legami terreni e carnali, divenendo un’anima pura ed eterea (“Siddha”).

A commissionare l’imponente monumento fu il ministro Chavundaraya (940-989) ragguardevole figura di uomo di stato e comandante militare al servizio della dinastia dei sovrani Ganga occidentali, Marashima II Satyavakya (963-975), Rachamalla IV (975-986) e Rachamalla V (986-999). Egli fu anche scrittore e poeta e a lui si devono importanti opere in prosa e in versi, in canarese e in sanscrito, tra le quali ricordiamo il “Chavundaraya Purana”, noto anche come “Trishasthi Lakshana Purana”, in prosa e in lingua canarese, nel quale narra le mitiche vicende dei 24 maestri principali dei giainisti, dei dodici “Chakravartin”, dei nove “Balabhrada”, dei nove Narayana” e dei nove “Pratinarayana”, ossia di tutti i santi e le guide spirituali del Giainismo, che nell’insieme costituiscono i “Salakapurusha” (le “persone illustri”, ma si potrebbero anche definire “superumani”, gli “eroi” nel senso di “semidei”) che, in numero di 63, compaiono sulla terra in ciascun ciclo cosmico per aiutare gli uomini a conseguire la salvezza con il loro esempio e i loro insegnamenti (3); nonchè protettore dei famosi grammatici Gunavarma e Nagavarma e del poeta Ramna, il cui poema “Purusharama Charite” contiene un panegirico in onore del suo mecenate. Ma le lodi di Chavundaraya si leggono anche in una epigrafe incisa sul basamento della colonna “Tyagada Brahmadeva” a Shravanabelagola, coeva alla statua di Bahubali, e anch’essa eretta per volere del poente ministro, accanto a rilievi che raffigurano il condottiero e poeta insieme al suo maestro spirituale Nemichandra. Come generale agli ordini dei “Ganga occidentali”, Chavundaraya combattè molte battaglie per i sovrani Rashtrakuta, dei quali i Ganga erano vassalli, e si distinse poi nella repressione di una rivolta capeggiata da un usurpatore, Panchaldeva Mahasamanta, che fu da lui sconfitto nel 975, consentendo così al legittimo sovrano Rachamalla IV di ascendere al trono.

Note

1) il Giainismo è la terza delle grandi religioni indiane. Così come il buddismo, nacque come una “eresia” dell’Induismo, -o per meglio dire del bramanesimo, poichè di induismo si può parlare in senso stretto solo dai primi secoli dell’era volgare, quando gli sviluppi dottrinali e rituali della scuole bramaniche assunsero nelle grandi lineee gli attuali connotati-, e come quest’ultimo derivò dalla predicazione di maestro Mahavira (letteralmente “Grande Uomo” = “Magnus Vir” in latino), il quale peraltro si proclamava l’ultimo di una catena di 24 maestri, chiamati “Tirthakara”, -nome interpretato di solito come “Battistrada” o come “Costruttori di ponti” (verso l’infinito, e quindi equivalente al latino “pontifices”)-, che risaliva ad epoche remotissime, anche perchè i primi di essi, -come i patriarchi biblici-, avrebbero avuto esistenze terrene eccezionalmente lunghe (ma invero nelle epoche più remote per i Giainisti, come per gli Indù e per i seguaci di molte altre tradizioni religiose, compreso l’ebraismo e le altre religioni monoteistiche, e le religioni del mondo antico classico, tutti gli umani avrebbero beneficiato di vite assai longeve che nell’attuale). Pur avendo in comune molti aspetti con il buddismo, -concezione ateistica dell’universo (poichè sia per l’uno sia l’altro non solo non v’è un dio personale creatore e governatore del mondo, ma neppure un principio universale impersonale e indeterminato, per quanto esistano una moltitudine di dei, i quali però, sebbene siano superiori all’uomo sono anch’essi limitati e soggetti al divenire cosmico); eternità del mondo e della materia, che sono sempre e comunque fonte di sofferenza, e dal cui giogo occorre liberarsi con le vie salvifiche che comportano il distacco da qualunque passione e sentimento egoistico; morale ascetica; vegetarianesimo-, il giainismo si differenzia da esso su alcuni punti importanti:

a) la metafisica buddistica sostiene l'”impermanenza”, ossia la transitorietà e caducità dell’essere in tutte le sue forme, negando quindi la realtà di un Essere eterno, assoluto e immutabile come è il “Bhraman” degli Indù; al contrario il giainismo ammette un Essere assoluto che pervade l’Universo, benchè esso, a differenza degli induisti, non sia stabile e  immutabile, ma indeterminato e mutevole,

b) in conformità a quanto detto nel punto precedente, nel buddismo non esiste una vera e propria nozione di “anima”, che sia paragonabile non solo a quella “occidentale”, ossia propria delle religioni e delle tradizioni filosofiche elaborate in Europa e nel Vicino Oriente, in tutte le sue numerose varianti, ma anche a quella bramanica di “Atman”, ossia a quella frazione del “Bhraman”, lo spirito e la coscienza universale secondo la maggior parte delle scuole induiste che si rifanno alle dottrine esposte nelle “Upanisad”, destinata a ricongiungersi con quest’ultimo dopo aver peregrinato sulla terra in una serie più o meno lunga di incarnazioni; per cui in pratica esiterebbero solo i “corpi superiori” -mentale, eterico, ecc.- inesorabilmente attratti dalla materia, e dunque destinati a reincarnarsi in un corpo fisico, fino a che la mente non riesca a sottrarsi all’attaccamento alle cose terrene. Per il giainismo l’anima invece è la condizione essenziale dell’essere e di essa partecipano non soltanto tutti gli esseri viventi, animali e piante, ma pure gli esseri inanimati, e in particolare i quattro elementi, che sono considerati veri e propri esseri viventi, e pertanto debbono essere impiegati con grande rispetto: tutti gli esseri sono disposti in una scala a seconda del grado con cui l’anima si lega a alla materia e alle facoltà fisiologiche, sensoriali e intellettive di cui dispongano (l’affollarsi di anime nell’Universo ricorda l’analoga concezione orfico-pitagorica);

c) da quanto detto in precedenza discende che mentre nel buddismo la condizione di un “ego”, -intendendo con tale termine una somma di sensazioni, emozioni, sentimenti, desideri e pensieri in cui si qualifica e si esprime un individuo e quindi qualcosa di instabile e transeunte-, dopo la morte fisica in attesa di un’altra incarnazione rimane piuttosto incerta e variabile a seconda delle scuole; si potrebbe dire che a sopravvivere siano soltanto quelli che per sono i “corpi sottili”, -in particolare quello astrale e quello mentale-, nelle tradizioni occidentali (i quali però in queste ultime sono destinati a dissolversi prima di una eventuale nuova incarnazione, e ad incarnarsi è quindi lo “spirito” o l'”Ego”). Il “nirvana” nel buddismo è un’idea vaga e variamente interpretata (da un totale annichilimento a una sorta di coscienza universale nella quale colui o colei che fu un individuo trova la sua pace), -ed in effetti il “paradiso” prospettato come “eterna felicità ” per coloro che siano liberati e sottratti alla servitù della “carne” e del “peccato” non è altro che una proiezione dei rari momenti di illusoria “felicità” che si possono vivere sulla terra, mentre il “nirvana” buddistico è per sua natura inconcepibile e inimmagibabile e non riferibile neppure per analogia all’esperienza umana, dato che la trascende completamente-; per i giainisti, che pure la condividono con i buddisti, la nozione di “nirvana”, come stato che segue alla “liberazione”, è invece assai precisa: l’anima che è riuscita a svincolarsi completamente dai vincoli karmici raggiunge una condizione di beatitudine perfetta in una dimora alla sommità dell’Universo;

d) i Giainisti osservano il principio dell'”ahimsa” (della non-violenza verso qualunque essere vivente) in modo assai più stretto dei buddisti, tanto che cercano di evitare di arrecare il minimo danno a qualunque essere vivente (quando insorga un conflitto, per cui non sia possibile salvare un essere senza sacrificarne un altro -ad esempio se si tratti di liberare un animale superiore da un parassita-, non so quale sia la regola a cui si attengano, se facciano prevalere il diritto dell’animale superiore -come sarebbe giusto a mio vedere-, o se preferiscano evitare di intervenire) ed hanno un regime dietetico in pratica vegano, -per cui sotto questo aspetto sono simili agli antichi Manichei-;

e) i Giainisti non si sono mai diffusi fuori dall’India, dove peraltro sono sempre stati in numero assai inferiore agli Induisti, anche perchè di norma non si dedicano al proselitismo.

Come i buddisti, i manichei, gli esseni e diversi altri gruppi religiosi solo coloro che sappiano assoggettarsi ad una rigida disciplina monastica saranno liberati dal doloroso ciclo delle esistenze, e quindi i laici, ai quali si richiede una morale assai meno severa, possono sperare soltanto, se avranno condotto una vita onesta e virtuosa, di rinascere con le disposizioni adeguate per poter divenire monaci.

2) il sistema lunare indù comprendeva in origine 28 mansioni lunari così come le 28 dimore dello zodiaco lunare occidentale, quali si ritrovano nei trattati astrologici medioevali, -ad esempio quello di Picatrix-; in seguito il loro numero fu ridotto a 27 onde fare in modo che ciascuno dei nove dominatori planetari (tra i quali l’astrologia indiana annovera anche i due nodi lunari, ascendente e discendente -“Testa del Drago” e “Coda del Dago”-, chiamati rispettivamente Rahu e Kethu) governasse tre mansioni. Non si confondano le dimore o mansioni lunari con le case lunari, ossia le 28 suddivisioni del cammino lunare da una Luna Nuova all’altra, tra le quali sono contemplate, oltre alle fasi lunari più importanti (L.N,; primo quarto; L.P.; ultimo quarto), anche le fasi minori.

3) i “Chakravartin” sono i monarchi universali, i “re del mondo”; i “Baladhabra” gli “eroi gentili”, quelli cioè che compiono imprese pacifiche arrecanti benefici all’umanità; i “Narayana”, gli “eroi guerrieri”, che combattono il male, i malvagi e i demoni; i “Prati-Narayana” sono superuomini guerrieri, che però hanno anche un lato negativo e si lasciano talora trascinare da passioni distruttive (e sono quindi al gradino inferiore della gerarchia dei “Salakapurusha”). Dunque mentre i “Tirthankara” sono i maestri spirituali in senso stretto, gli altri “Salakapurusha” sono soprattutto uomini d’azione, che corrispondono agli “eroi” e ai semidei della mitologia greca. Si noti che alcuni di codesti personaggi, quali il “Chakravartin” Bharata (il fratello di Bahubali), il “Balabhadra” Rama, i “Narayana” Lakshmana e Krishna, i “Prati-Narayana” Ravana e Jarasandha, si ritrovano, con caratteri poco diversi, pure nella mitologia e nell’epica Indù, -come ad esempio nei famosi poemi “Mahabharata” e “Ramayana”-. Dei “Chakravartin” e in generale dell’idea del “Re del Mondo”, che si ritrova in alcuni mitologie e dottrine esoteriche, abbiamo parlato negli articoli dedicati a “I Continenti scomparsi tra scienza e mito”, pubblicati tra marzo e aprile 2013.

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