ANIMALI NELLA STORIA E NELLA LETTERATURA (prima parte)

LA GALLINA DALLE UOVA D’ORO

Di galline dalle uova d’oro se ne contano almeno due, nonchè un’oca e un’anatra, dotate della medesima virtù di produrre uova auree.

La più nota è quella protagonista di una celebre favola di Esopo, -“Ορνις χρυσοτοκος” (n. 343 nell’edizione delle favole esopiche di Lipsia del 1863)-: un contadino possedeva una gallina che aveva l’eccezionale virtù di deporre uova d’oro, in numero di uno al giorno, com’è costume delle galline. Il contadino però, spinto da un’insaziabile cupidigia, pensando che nelle viscere del volatile si celasse una ben più cospicua quantità del prezioso metallo, decise di tirare il collo allo sfortunato pennuto. La-gallina-dalle-uova-doroMa all’interno della gallina non trovò l’oro che sperava, e così il suo crudele egoismo e la sua avidità furono puniti.

Nella versione di questa storia data dal favolista latino Aviano, -vissuto nel IV secolo-, “De ansere ova aurea pariente” (n. 33), anziché una gallina è un’oca che ha la virtù, peraltro per lei foriera di disgrazia, di deporre le uova auree.

In uno “jàtaka” buddista (1), il “Suvannahamsa-Jàtaka”, -n.136 della raccolta-, si parla invece di un germano reale dalle piume d’oro. Questo uccello era un bramino che si era reincarnato in tale forma per aiutare la moglie e le tre figlie, –chiamate rispettivamente Nandi, Nandavati e Sundrinanda-: egli offriva loro ogni giorno una delle preziose piume vendendo la quale esse sbarcavano il lunario. Ma la madre, sopraffatta dalla solita esecrabile avidità, decise di spennare del tutto il povero animale. Questi, che era stato messo in gabbia, riacquistò poi il suo aureo piumaggio, ma non appena fu di nuovo libero, se ne volò lontano e non tornò più presso la sua ex-famiglia, che gli si era dimostrata ingrata.

Di una gallina dalle uova d’oro si fa menzione in alcune leggende persiane sulla vita di Alessandro Magno, -poi accolte dagli storici islamici-, secondo le quali il grande condottiero macedone sarebbe stato figlio di Darab, nonchè fratellastro di Dara, l’ultimo dei re persiani Achemenidi (che nella realtà storica corrisponde a Dario III Codomano). Filippo, -qui chiamato Filaqùs-, re di Macedonia era stato sconfitto in battaglia da Darab e costretto a versare a quest’ultimo un gravoso tributo annuale di uova d’oro. Per suggellare la pace, Darab aveva pure preso in sposa Halai, la figlia di Filaqùs; ella però fu ripudiata poco tempo dopo a causa del fastidioso odore che emanava dalla sua persona e rimandata presso il padre. I medici tentarono di rimediare allo sgradevole inconveniente con un farmaco chiamato “sandarus”, ma invano; tuttavia, quando ella si sgravò del pargolo che portava in grembo, questi fu chiamato “Alexandros”, nome ricavato da quello della madre, Halai, con l’aggiunta del termine che indicava la medicina da lei usata, “sandarus”.

Il fanciullo, allevato alla corte del nonno Filaqùs ed educato dal filosofo Aristotele, succedette poi all’avo sul trono di Macedonia. Egli rifiutò di continuare a versare il tributo che spettava al re dei Persiani ed inviò un messaggero al fratellastro Dara, -divenuto nel frattempo nuovo sovrano di Persia- per annunziargli che la gallina che deponeva le preziose uova era stata uccisa. In seguito a questo evento scoppiò la guerra tra i due figli di Darab, Alessandro e Dara.

Questa storia si trova nel “Tarikh al-rasul wa’l-mulùk” (“Storia dei profeti e dei re”) dello storico e teologo di origine persiana Abu Giafar Muhammad ibn Giarir al-Tabari (839-923), il quale riprende però tradizioni leggendarie già consolidate nel tempo in cui scrisse (2).

Nella versione della storia di Iskender (il nome arabo e persiano di Alessandro Magno) (3) narrata da Firdusi, -il poeta nazionale persiano- nel suo monumentale poema, che canta tutta la storia dell’Iran dalle origini mitiche ai suoi tempi (4), il particolare della gallina dalle uova d’oro non è presente. Nello “Shahnameh” il breve regno di Darab comincia con una spedizione contro il sovrano arabo Shuaib, il quale si preparava ad invadere l’Iran. dopo avere sconfitto Shuaib, dall’Arabia Darab si volse alla penisola ellenica, dove regnava Faylakùs (Filippo di Macedonia).

Secondo una leggenda illustrata in questa miniatura persiana Alessandro Magno era disceso negli abissi marini entro una campana di vetro.
Secondo una leggenda illustrata in questa miniatura persiana Alessandro Magno era disceso negli abissi marini entro una campana di vetro.

Egli vince il monarca macedone e ne ottiene in matrimonio la figlia di nome Nahid. Ritornato in Iran, Darab rimanda la sua sposa, la quale già era in attesa di un bimbo, in Macedonia affinché potesse curarvi una malattia che la angustiava con un erba che là cresceva, detta “ishender”. Ivi ella dà alla luce un fanciullo al quale, in ricordo dell’erba che era servita a guarire la madre, viene posto il nome di Iskender.

In Iran a Darab era succeduto sul trono il figlio minore Dara, che aveva avuto da un’altra donna. Morto anche Faylakùs, -dal quale il nipote eredita il regno di Macedonia-, Iskender allestì una grande spedizione militare per conquistare l’impero che egli credeva gli spettasse di diritto in qualità di figlio primogenito del defunto sovrano Darab. Egli invia un messaggero al suo fratellastro per intimare a suo nome a Dara di consegnargli il regno, ma questi rifiuta. Ha così inizio la guerra tra i due durante la quale vengono combattute tre battaglie che vedono Dara soccombere alle forze di Iskender. Il re fugge nel Kirmàn donde fa pervenire al rivale proposte di pace, ma nel contempo chiede l’aiuto di Fur, principe indiano (il Poro della tradizione classica). Risaputa codesta richiesta di alleanza da Iskender, egli decide di ripigliare le armi per sconfiggere definitivamente Dara. Quest’ultimo fugge ancora, ma viene gravemente ferito da due suoi perfidi ministri. Iskender  accorre tosto al capezzale dell’ex-nemico e udite le ultime parole del morente, che gli raccomanda la sposa e la madre, dopo aver dato onorevole sepoltura al defunto re, fa appendere a un legno i ministri traditori.

LA GATTA SENZA STIVALI

A tutti è ben nota la fiaba del “Gatto con gli stivali”, resa celebre da Charles Perrault nei suoi “Racconti di mia Madre l’Oca”; ma pochi sanno che il famoso gatto immortalato dal narratore d’Oltralpe ha un precedente nella novellistica italiana e per l’esattezza nella prima favola dell’undicesima notte delle “Piacevoli Notti” di Giovanni Francesco Straparola (1480-1557)

Questa raccolta di novelle, pubblicata per la prima volta nel 1550, comprende 75 novelle distribuite in tredici notti (5 in ciascuna delle prime 12; 15 nella tredicesima), che si fingono narrate da una compagnia di cavalieri e dame riunitisi nella residenza di Ottaviano Maria Sforza, vescovo di Lodi, in periodo di Carnevale. Codesta opera è importante soprattutto perché attinge largamente alla tradizione popolare ed in essa sono predominati, sebbene non esclusivi, gli elementi fantastici e fiabeschi che caratterizzeranno poi le opere di Gian Battista Basile in Italia e del Perrault in Francia.

La fiaba di Costantino Fortunato -tale è il nome del protagonista- è ambientata in Boemia; vi si parla all’inizio di una povera vedova, -il cui nome è Soriana-, la quale morendo lascia in eredità ai tre figli le uniche cose da lei possedute: una madia per impastare la farina; un tagliere sul quale stendere l’impasto per fare il pane e una gatta. La madia tocca al primogenito, il tagliere al secondo, mentre la gatta rimane al terzo, Costantino Fortunato (egli è così chiamato fin dall’inizio della storia, benché la sua fortuna venga palesata nel prosieguo della narrazione).

I due fratelli maggiori vivevano dando in prestito gli arnesi ereditati alle vicine di casa e ricevendone in cambio quel poco che serviva loro per sostentarsi, ma -così come i figli del mugnaio nella ben più conosciuta versione della fiaba pubblicata dal Perrault-, non ne mettevano a parte il loro fratello minore, il quale insieme con la sua gatta, era costretto a patire la fame.

Un giorno però la gatta cominciò a parlare e disse a Costantino: “Padrone, smettete di preoccuparvi: penserò io a far vivere bene sia voi che me!”:la-gatta-bianca E così iniziò a dare la caccia a lepri e ad altra selvaggina, che poi portava in dono al re, a nome del suo signore, il quale, a suo dire, era un ricco e nobile cavaliere, ricevendone in cambio generose elargizioni di denaro ed altri beni, con i quali lei e il suo padrone potevano vivere in decente agiatezza.

Infine propone a Costantino un piano per risolvere in via definitiva i loro problemi e addirittura farlo diventare erede al trono attraverso il matrimonio con la figlia del sovrano di Boemia. Il piano è il medesimo architettato dal “Gatto con gli stivali”: dopo aver consigliato a Costantino di immergersi in un fiume che scorreva nei pressi di una strada che avrebbe dovuto essere percorsa dalla carrozza del sovrano, fa in modo che quest’ultimo lo soccorra, dicendogli che il suo signore era rimasto vittima di briganti che gli avevano rubato cavallo e vestiti. Poi costringe i contadini e i pastori del luogo a rispondere al re, se li avesse interrogati in proposito, che le terre circostanti appartenevano a Costantino; infine si reca in un castello semiabbandonato, dove si trovavano pochi famigli e ad essi impone similmente di dire che il maniero era di proprietà del suo padrone. Nella fiaba di Straparola il castello non appartiene a un orco, -com’è in quella di Perrault, nella quale il gatto ricorre allo stratagemma di indurre il padrone di casa a trasformarsi in topo che egli quindi divora-, ma a un cavaliere di nome Valentino, il quale poco prima che la gatta si rechi nella sua dimora muore per un subitaneo accidente mentre andava a incontrare la sua nuova consorte.

In tal modo, grazie agli astuti artifici della sua amica gatta, il giovane Costantino si ritrovò marito della bella principessa Elisetta e quando venne il tempo successe sul trono di Boemia al re Morando.

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La Gatta bianca torna alle sembianze umane.

Un’altra celebre gatta della letteratura fiabistica è la protagonista di una fiaba di Marie Catherine d’Aulnoy (1650-1707) autrice di notevoli raccolte di “Racconti di Fate” (5) di ispirazione analoga a quelli del Parrault, ma nei quali si manifesta una più accesa fantasia, una maggior ricchezza di particolari e uno stile più prezioso. In questo racconto, che si intitola appunto, “La gatta bianca”, un principe incontra il grazioso animale in uno magnifico castello abitato solo da gatti che vi rivestivano tutte le dignità o vi espletavo i servizi di una corte regale, sulla quale regnava la gattina. Questa in realtà era una principessa che era stata tramutata in gatta da una fata sdegnata con lei per averle disubbidito. L’incantesimo avrebbe potuto essere spezzato solo da un principe somigliantissimo a quello per amore del quale la principessa era stata punita, il quale però per farle riprendere il suo aspetto avrebbe dovuto decapitarla. Vincendo la sua enorme riluttanza a compiere un atto tanto crudele, il principe esaudisce la preghiera della gattina e in tal modo ella torna alle pristine sembianze umane. Come si può facilmente immaginare, la storia si conclude con il felice matrimonio tra il principe e la ex-gatta.

IL CANE CHE DIVENNE RE

Eystein, re di Oppland in Norvegia, governò il paese dal 1001 al 1023, allorché fu detronizzato, per cui dovette recarsi in esilio in Danimarca, Qui dedicò tutti i suoi sforzi per riorganizzare e preparare la parte dell’esercito che glie era rimasta fedele per riconquistare il trono perduto. Ed in effetti riuscì nell’impresa, ma, a causa del sordo rancore che nutriva per l’umiliazione subita in precedenza, non volle tornare a regnare direttamente ed insediò quale nuovo sovrano suo figlio Onund. Tuttavia il popolo si ribellò anche al nuovo re, per cui Eystein tornò ad occupare il paese e questa volta offrì ai suoi sudditi la possibilità di scegliere che sarebbe stato il futuro regnante, indicendo una sorta di “referendum”, nel quale l’alternativa era tra uno schiavo e un cane. Il popolo non voleva come re uno schiavo ed elesse quindi il cane.

E così un enorme molosso, il cui nome era Suening-Saur, fu insediato nel palazzo reale e posto sul trono; egli ebbe la sua corte come qualunque sovrano ed intorno a lui si moveva uno stuolo di dignitari, consiglieri, ufficiali, guardie, valletti, pronti a prestargli i loro devoti servigi.re

Si dice che quando era in collera non soltanto digrignasse i denti, ma articolasse pure alcune parole. Suening-Saur firmava gli editti e i decreti che gli venivano sottoposti apponendovi l’impronta della sua zampa anteriore destra.

Il suo regno durò tre anni ed ebbe fine in modo tragico. Un giorno il cane-re si avventurò in una lunga escursione, seguito come sempre da tutta la corte. Sul limitare di una selva si imbattè in un lupo che stava per sbranare un agnello. Suening-Saur balzò all’istante in difesa del debole ed iniziò con la belva una furibonda lotta. Gli scudieri e i valletti assistevano allibiti all’aspro combattimento, ma non osavano intervenire; così alla fine il cane-re soccombette e fu ucciso dal lupo.

Le esequie del molosso furono imponenti e videro l’unanime e commossa partecipazione dei sudditi. Nella località in cui era perito venne poi eretto un monumento funebre per eternare la sua memoria ed essa prese da allora il nome di “Collina del Dolore”, tanto lo rimpiansero.

IL BUE CHE CAMBIAVA COLORE

Nell’antico Egitto, oltre al famoso Api, -l’epifania terrena di Ptah, il dio supremo della teologia menfita-, si veneravano altri tori sacri, considerati incarnazione di qualche divinità.buchis

Ad Hermonthis, -città dell’Alto Egitto, sita non lungi da Tebe-, veniva onorato quale immagine vivente del dio Month (dal quale la città stessa era denominata), un toro bianco con la testa nera, il cui nome era Buchis. La più straordinaria caratteristica di questo animale era quella di mutare colore ad ogni ora del giorno.

Lo scrittore romano Macrobio nella sua opera enciclopedica “Saturnalia” (“I Saturnali”),-I, 21, 20-21-, ci fa sapere inoltre che codesto toro, -da lui chiamato Bachis-, aveva i peli disposti in senso inverso a quello degli altri mammiferi, per cui lo si riteneva un’immagine del Sole che rispende nell’emisfero opposto. Come gli altri tori sacri suoi colleghi, anche Buchis dispensava oracoli, accettando o rifiutando il cibo che gli veniva offerto, per dare in tal modo un responso positivo o negativo, oppure dirigendosi verso una direzione o una stanza del tempio in cui viveva piuttosto che un’altra.

Note

1) gli “jataka” sono racconti edificanti che narrano le vite di Siddharta Gautama, – il Buddha “storico”-, precedenti la sua incarnazione come Sakyamuni, l'”Illuminato”, il fondatore della religione che da lui prese il nome. Questi racconti, in numero di 547, -nei quali il Buddha (non ancora tale, ma per l’esattezza Bodhisattva, essere che ha rinunciato a raggiungere immediatamente il Nirvana, per aiutare le altre creature a progredire nel sentiero della vita spirituale) appare sia in spoglie umane che animali-, sono una sorta di apologhi o parabole; nella forma ora conosciuta risalgono al VI secolo.

2) com’è noto, fin dai primi secoli dopo la sua morte, la vita e le imprese di Alessandro Magno furono argomento di narrazioni romanzesche che allontanandosi sempre più dai reali eventi storici accentuavano da un lato gli elementi e  gli aspetti avventurosi e meravigliosi, dall’altro sottolineavano l’ansia di conoscenza del condottiero, che andava assumendo via via connotazioni mistico-sapienziali, divenendo metafora dell’uomo che cerca Dio, l’immortalità e sé stesso. Questa trasfigurazione della figura del grande re è attestata in varie opere della tarda antichità quali le “Storie di Alessandro Magno”, in dieci libri, del romano Curzio Rufo, risalenti al II secolo, e la “Vita di Alessandro Magno” di uno scrittore alessandrino vissuto nel III secolo conosciuto con il nome di “Pseudo-Callistene” (Callistene di Olinto era uno storico greco, cronista ufficiale delle gesta del sovrano macedone, delle cui opere autentiche rimangono però solo alcuni frammenti). In particolare in quest’ultima opera Alessandro è fatto figlio di Nectanebo, l’ultimo faraone d’Egitto, il quale per sfuggire all’invasione persiane si sarebbe rifugiato in Macedonia. Attraverso traduzioni e rielaborazioni in varie lingue orientali (siriaco, pahalavico, armeno, ecc) di questo multiforme materiale si è formata quella tradizione leggendaria che continuò poi nelle opere arabe e persiane.

Per questa via, egli viene citato anche nel Corano: “Dhu’l-Qarnayn”,”Quello delle Corna”, protagonista della sura XVIII, è identificato dalla maggior parte dei commentatori, (tra i quali al-Tabari, al quale abbiamo accennato, autore anche di un autorevole commento al testo sacro islamico) con il fondatore dell’impero macedone.

Ma anche nell’Europa medioevale il mito di Alessandro Magno alimentò un ricco filone narrativo, testimoniato soprattutto da quell’insieme di opere fiorite in particolare nella Francia  dell’XI-XIII secolo note come “Romanzo di Alessandro”.

3) la città di Alessandria d’Egitto infatti in arabo si chiama “Ishkandaryya”.

4) di Firdusi e del suo poema, lo “Shanameh”, “Il Libro dei Re” abbiamo già parlato nell’articolo su Simurgh, il grande uccello fatato che ha una parte notevole nelle vicende degli eroi iranici.

5) queste raccolte di fiabe, i “Contes des feés” furono tradotte in italiano anche dal Collodi nel 1875.

 

 

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