ANIMALI FANTASTICI E MISTERIOSI (il Borametz, il Caradrio, la Crocotta e la Leucrota)

IL “BORAMETZ”, L'”AGNELLO VEGETALE”

Il missionario francescano Odorico da Pordenone (1286-1331 circa), il quale tra il 1316 e il 1328 percorse ed esplorò le contrade della Persia e dell’Asia centrale, nella sua relazione del viaggio da lui compiuto, dettata al confratello Guglielmo da Solagna, riferisce una curiosa notizia secondo la quale nella regione del Caucaso esisteva una strana pianta dalla quale nascevano “poponi grandissimi, i quali poponi, quando sono maturi, s’aprono per loro istessi, e truovavisi entro una bestiuola grande e fatta a modo d’uno agnello”. Il missionario afferma di aver visto con i propri occhi l’animale ricoperto di un vello bianco più che neve e dalla consistenza sericea.

La storia dell'”agnello vegetale” (1) fu poi ripresa nel 1355 in un libro di sir John Mandeville, il quale afferma che in Tartaria si poteva vedere uno strano frutto simile ad una zucca; una volta maturo, il frutto si apriva, rivelando al suo interno un esserino che appariva simile ad un agnello, ma privo di lana (2)AgnelloVegetale1. Da allora la storia di questa straordinaria pianta-animale cominciò a circolare in Europa, venendo ripetuta da una miriade di autori, tra i quali ricordiamo Giulio Cesare Scaligero (1484-1558), Guglielmo Postel (1510-1580 circa), Giovanni Battista della Porta (1535-1615), Adam Olearius, -geografo e orientalista tedesco- (1600-1671)  e molti altri.

Per il poeta franco-provenzale Guillaume Salluste de Bartas (1544-1590,) -nel suo poema “La semaine” una sorta di enciclopedia universale-, essa si sarebbe trovata già nel Paradiso Terrestre, ove suscitò la meraviglia di Adamo: “Sembrano arieti da poco nati, e lo sarebbero davvero se nel nobile petto della terra non immergessero una radice vivente che si allaccia al loro ombelico e perisce il dì in cui cessano di brucare il fieno che all’intorno cresce. O effetto mirabile della mano divina! La pianta di carne e di sangue, l’animale con la radice!”.

Fu però il barone Sigismondo von Herberstein (1486-1566), ambasciatore in Russia degli imperatori Massimiliano I e Carlo V fra il 1517 e il 1526, che nei suoi “Rerum Moscoviticarum commentarii”, pubblicati a Vienna nel 1549, inserì una descrizione assai più accurata dell’insolita creatura, che si distaccava da quelle di Odorico da Pordenone e del Mandeville, e della quale egli per primo riporta il nome “Boranetz” (che si trasformerà poi in “Borametz” o nelle altre varianti segnalate sopra, tutte derivate dal russo “baran” = ariete). Egli asserì di aver appreso dell’esistenza dell’agnello vegetale da diverse fonti di indubbia autorevolezza, secondo le quali esso viveva in una zona nei pressi del Mar Caspio, tra i fiumi Jaick e Volga; nel racconto del diplomatico, da un seme simile a quello del melone deposto nella terra nasceva una pianta composta da uno stelo, che poteva raggiungere un’altezza di 80 cm, ed un corpo simile ad un agnello, salvo per il fatto che nelle sue vene scorre un liquido più somigliante alla linfa delle piante che al sangue degli animali e che la sua carne aveva l’aspetto e la consistenza di quella di un gambero; inoltre, a differenza dei normali agnelli, i suoi zoccoli erano costituiti di folta peluria. Quando l’animale aveva raggiunto discrete dimensioni, il gambo della pianta si piegava verso terra, consentendo all’agnello di toccare il suolo e pascolare. L’animaletto, che era rivestito di una finissima lanugine, usata in Russia e nel Caucaso per confezionare copricapi di lusso, brucava l’erba che gli cresceva intorno fino a dove la lunghezza dello stelo al quale era attaccato gli consentiva di arrivare; una volta esaurito il pascolo, egli si disseccava e moriva.  Questa creaturina indifesa diventava spesso preda di lupi e di altri animali, compresi gli umani. In effetti la versione accreditata dall’Herberstein era ben diversa da quella precedente: in quest’ultima si trattava di un frutto, il cui contenuto aveva solo l’aspetto di agnello, ma nessuna caratteristica di vita animale indipendente; nella descrizione del barone austriaco invece la pianta mostra qualità che la rendono indistinguibile da un animale vero e proprio, se non fosse per lo stelo al quale l’agnello è indissolubilmente legato.

Verso la fine del XVII secolo sembrò si fosse giunti alla prova della reale esistenza del Borametz, in una forma più simile a quella descritta da Sigismondo di Herberstein che a quella di cui avevano parlato Odorico da Pordenone e sir John Mandeville: cominciarono infatti ad arrivare in Europa degli esemplari della radice di una pianta, che avevano l’aspetto di agnellini; inoltre si disse che le pellicce increspate tuttora denominate “persiano” non fossero altro che il delicato vello dell’agnello vegetale.

Un finto "agnello vegetale" tratto da una radice della felce "Cibotium barometz".
Un finto “agnello vegetale” tratto da una radice della felce “Cibotium barometz”.

Ma la smentita a queste azzardate affermazioni non tardò ad arrivare: nel 1698 il naturalista britannico Hans Sloane (1660-1753) dimostrò che i pretesi esemplari di Borametz giunti in Europa non erano altro che grossi rizomi setolosi di una felce arborescente orientale (che poi Linneo in ricordo di questa leggenda denominò “Cibotium Borametz”) intagliati ad arte in modo da accentuare l’aspetto vagamente animale che presentano in natura.

Quanto alla pellicce di persiano fu, nello stesso periodo, il medico e naturalista tedesco Engelbert Kaempfer (1651-1716) (3) a dimostrare che la loro presunta provenienza dal Borametz serviva solo a celare la loro vera e raccapricciante provenienza dai feti di agnello strappati con inaudita crudeltà al ventre dello loro disgraziate madri, tragico esempio di come la crudeltà degli umani non si astenga dall’esercitarsi neppure per soddisfare una riprovevole vanità!! Il Kaempfer infatti, che nel 1683 aveva guidato una missione scientifica in Persia, intraprese ricerche scrupolose per appurare se il misterioso agnello vegetale esistesse davvero, ma non avendo trovato prove attendibili della sua esistenza, concluse doversi trattare di una mera leggenda, e che le pellicce attribuite all’agnello vegetale erano invece di un agnello animale e derivavano da un atto di orribile crudeltà.

La credenza nel “Barometz” tuttavia compare ancora inaspettatamente nella prima edizione dell'”Enciclopedia” di Denis Diderot, sia pure come esempio dei pregiudizi degli antichi.

In un libro pubblicato nel 1887 il naturalista inglese Henry Lee trattò dell’argomento cercando di riassumere e di spiegare le varie narrazioni e descrizioni che erano state tramandate circa lo strano essere vegetale-animale, concludendo che a suo parere esso era da identificare con la pianta del cotone (Gossypium herbaceum), dalla quale deriva una “lana vegetale”.

Alle due diverse versioni della leggenda corrispondono due tipi iconografici: il primo rappresenta un albero normale, con fitto fogliame e grossi frutti dai quali fuoriescono dei piccoli animali; il secondo invece è costituito dall’immagine di una pecora in posizione sopraelevata e collegata alla terra da un tronco.

All’origine della prima versione dell'”agnello vegetale” è probabile che vi sia la pianta del cotone: Erodoto infatti (in “Storie”, III, 106) descrive questa fibra tessile come una sorta di lana che cresce come frutto su alcuni alberi dell’India, mentre Teofrasto dal canto suo aggiunge che essi alberi producono piccole zucche della grandezza di una mela, le quali, giunte a piena maturità, scoppiano lasciando uscire dei batuffoli di “lana”.

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filamenti di bisso.

I precedenti della seconda versione della leggenda si possono invece individuare in due antiche credenze. Una tradizione ebraica presente nel Talmud menziona infatti una creatura, chiamata Jedua’ah, simile ad un agnello, unita al terreno da una radice e da uno stelo; coloro che volevano cacciarlo -poiché le sue ossa venivano impiegate in pratiche divinatorie-, dovevano recidere il gambo con dardi e una volta staccato dalla radice che lo nutriva, il povero animale moriva in breve tempo (4).

L’altra fonte della storia del “Barometz” è probabilmente da ravvisare nello “Shui Yang Tshui”, -che significa “Pecora d’acqua”- cinese. Questo animale fittizio fu inventato per spiegare la provenienza del bisso, fibra tessile di elevatissimo valore importata dai paesi dell’occidente. In realtà il bisso è ottenuto dai filamenti che un Mollusco bivalve appartenente alla famiglia dei Pinnidi, la “Pinna nobilis”, -la cui conchiglia bivalve può raggiungere la dimensione di un metro si da renderlo il Lamellibranco più grande vivente nel Mar Mediterraneo-, secerne per attaccarsi ai fondali costieri (5). Questo tessuto, utilizzato per confezionare capi di abbigliamento di particolare pregio, era chiamato dagli Arabi, che l’avevano importato in Cina, con il nome di “Suf al-Bahar”, = “lana di mare”: da qui l’equivoco che fosse prodotto da un ovino acquatico.

Il naturalista e sinologo olandese Gustaaf Schlegel (1840-1903), che dedicò un libro all’argomento, aggiunge che la pretesa “pecora d’acqua” era immaginata in modo simile all’Agnello della Tartaria, -cioè con il corpo legato al terreno con uno stele vegetale, ma in uno specchio d’acqua-; tale credenza sarebbe nata in Persia, dove si diceva che l’animale fosse protetto dai predatori con una recinzione artificiale e pure con guardie armate che vigilavano onde spaventare i malintenzionati.

IL CARADRIO, L’UCCELLO CHE PREDICE LA GUARIGIONE (O LA MORTE)

Nell’antica Grecia il “Charadrios” (Χαραδριος < χαραδρα = torrente, precipizio, cascata) era un uccello, -in genere identificato nel Piviere- (6), che viveva presso i greti dei torrenti, nelle gole calcaree, nei canaloni scavati dalle acque, che avrebbe avuto la caratteristica di espellere i suoi escrementi ogni qualvolta si nutre. Per tale particolarità, ritenuta sordida e sconveniente, questo volatile è citato in uno dei dialoghi di Platone, il “Gorgia” (496): nel controbattere le tesi di Callicle, -uno dei suoi interlocutori-, Socrate afferma che l’uomo dissoluto, dedito alla incessante ricerca dei piaceri carnali, è simile al Caradrio.

Di questo uccello, -o comunque di un uccello, il cui nome fu poi tradotto in greco con “charadrios”-, si parla anche nella Bibbia, -nei libri del Levitico e del Deuteronomio-, dove viene definito “animale impuro”, del quale non è lecito cibarsi.

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Il Caradrio distoglie lo sguardo da un infermo in una miniatura medioevale: segno che il malato non sopravviverà.

Nei bestiari medioevali, al contrario, il Caradrio diviene simbolo di purezza: esso è descritto come un volatile rivestito di piume di niveo candore, che ha l’abitudine di dimorare nei giardini dei castelli ed in altri luoghi ameni e onesti. Ma la sua virtù più straordinaria è la seguente: se condotto al capezzale di persone sofferenti per malattia o accidente poteva predire il decorso del morbo dalla quale esse erano affette: se distoglieva lo sguardo dal malato, questi era immancabilmente destinato ad una prossima morte; sa al contrario lo fissava negli occhi il responso era di rapida guarigione.

L’eccezionale qualità dell’uccello dipenderebbe dall’essere dotato della capacità di assorbire le energie malefiche del morbo; e infatti dopo aver operato questa sorta di “prosciugamento” degli influssi negativi, -che erano nocivi anche per lui- volava verso il Sole, affinchè il luminoso astro li distruggesse in via definitiva. Nel caso di morbo letale invece, egli evita di guardare l’infermo, e quindi di assorbire l’influsso mortifero, poiché se troppo forte non sarebbe poi in grado di disperderlo. Inoltre i suoi escrementi erano un infallibile rimedio contro le affezioni oculari, in particolare contro la cataratta.

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Un Piviere tortolino (Charadrius morinellus).

Per le sue virtù, nel ME il Caradrio divenne un simbolo del sacrificio redentore del Cristo che aveva assunto su di sé i peccati dell’umanità.

E’ degno di nota peraltro rilevare che esisteva pure una variante della credenza sull’azione sanatrice dell’uccello, secondo la quale non era lo sguardo di quest’ultimo, bensì quello dell’infermo a dare il responso:

“Dell’uccello Caradrio (di questo uccello ne fa menzione in due luoghi la Sacra Scrittura nel Levitico e nel Deuteronomio) scrivono i Naturali [cioè i naturalisti] che abbia una tale proprietà […]: che portato in camera alla presenza di uno gravemente ammalato, è presagio, che pronostica la vita o la morte dell’ammalato: imperocchè se l’infermo mira a fissi sguardi con lieto ciglio e fronte serena il Caradrio, è segno che l’Infermo guarirà e si sarà sano ben presto. Se l’infermo mirerà il Caradrio con cera bieca, occhi languidi, con sguardi interrotti, non fissi, non costanti, non lieti, gli si pronostica infallibilmente la morte”: così nella sua opera “I religiosi presto santi e perfetti” (1725) Bernardino Manco SJ, di Lecce, descrive la virtù del Caradrio; il religioso aggiunge pure che il nome “Caradrio” si può interpretare come “caro a Dio”.

LA CROCOTTA E LA LEUCROTA

La prima di queste creature, la Crocotta, -o Corocotta, o Crocuta-, è con tutta probabilità da identificare con un animale esistente, la Iena (7) -o il Licaone-, sebbene le siano state attribuite anche alcune caratteristiche fantasiose, in primis quella di poter imitare la voce umana.

Il primo autore che ne parla è lo storico greco Ctesia di Cnido (V secolo a. C.), il quale nella sua opera Iνδικà (“Testimonianze sull’India”) (8) ne dà la seguente descrizione: “In Etiopia [termine che indicava nell’Africa subsahariana e talvolta pure altre regioni tropicali come l’India] vive un animale che i nativi del luogo chiamano “Crocotta”, che significa Cane-Lupo. Questo animale è dotato di smisurata forza e si dice che sappia imitare a perfezione la voce umana: sembra che durante la notte chiami gli uomini per nome e li divori”. La definizione di “Crocotta” (o “Corocotta” o “Crocuta”) come ibrido di lupo e di cane riappare nell’opera del geografo ed erudito Strabone (Geographica, XVI, 4, 16).

Si ritiene che il nome greco κρoκoττας derivi dal sanscrito “krotthàraka” che designa lo sciacallo dorato. Per la variante in latino “crocuta” si è supposto anche che sia la forma femminile sostantivata dell’aggettivo “crocutus” =”dal colore dello zafferano (“Crocus” o “Crocum”), ma l’ipotesi è poco probabile poiché l’aggettivo derivato da Crocus è “crocatus”, e non “crocutus”; peraltro esiste anche il termine “crocota” per indicare una veste di tale colore. E’ probabile peraltro che in latino le due etimologie si siano poi sovrapposte, dato che l’animale in questione è sempre descritto con una colorazione giallastra od ocra del pelame.

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La Crocotta in un mosaico romano del II sec. trovato a Palestrina che raffigura la fauna nilotica.

Plinio il Vecchio, -in Nat. Hist. VIII, 72-, afferma che le “Crocotas” sono frutto dell’unione tra Cane e Lupo (“Crocotas velut ex cane lupoque conceptos”), aggiungendo che vivono in Etiopia ed hanno denti con i quali riescono a frantumare qualunque cosa: ed in effetti le Iene, oltre a vivere sia in Africa sia in India, hanno una robusta dentatura con cui spezzano le ossa per estrarne il midollo del quale si nutrono. Tuttavia il fatto che questo animale sia immaginato come un ibrido tra cane e lupo farebbe pensare piuttosto al Licaone.

Il naturalista latino però poco più innanzi parla di un altro animale, la Leucrocota, dall’aspetto assai più fantasioso, della quale sostiene abbia le dimensioni di un asino selvatico; la parte posteriore lombare del corpo simile al cervo; il collo, il petto e la coda leonini, la testa simile a quella del tasso, zoccoli fessi di tipo bovino, bocca che si estende fino alle orecchie, una specie di dente unico che riveste tutta la mascella ; a questo animale, -e non alla Crocota-, egli attribuisce, -sebbene in forma dubitativa (“hanc feram humanas voce tradunt imitari”)-, la facoltà di imitare la voce umana.

Ritroviamo poi la “Crocotta” nell’opera di Claudio Eliano (165-235) Περì Ζωων Iδιoτητος (“Sulla natura degli Animali”) -VII, 22-; egli considera la Iena e la Crocotta animali simili, ma distinti, specialmente nel comportamento: mentre la prima la prima si limita a catturare i cani che si avvicinano ad esse ingannati dai loro richiami simili a quelli umani, la seconda sceglie come sue vittime gli uomini chiamandoli per nome, come già aveva sostenuto Ctesia. Infatti secondo Eliano la Crocotta, standosene acquattata nei cespugli, ascolta i discorsi e le voci dei taglialegna ed i nomi con i quali essi si interpellano l’un l’altro e li impara a memoria; ella riesce poi ad imitare tanto bene la loro voce che coloro che si sentono chiamati da lei si allontanano dai compagni; una volta isolati la Corocotta li assale e li divora.

Una Iena bruna (Parahyaena brunnea), probabilmente la Crocotta degli antichi.
Una Iena bruna (Parahyaena brunnea), probabilmente la Crocotta degli antichi.

Di questo animale, con il nome il Corocotta, parla anche Dione Cassio Cocceiano (155-235 circa), il quale nella sua opera principale “Storia Romana” (LXXVI, 1) così riferisce: “Questo è un animale indiano, e allora [al tempo del governo di Settimio Severo, imperatore dal 193 al 211] per la prima volta, che io sappia, fu portato a Roma. Il suo colore è quello di lionessa, mescolato con quello della tigre; la sua figura partecipa degli animali medesimi, ed anche di quelle del cane e della volpe per singolare radunamento” (trad. di Giovanni Viviani) (9). Il fatto che, come afferma lo storico greco, -per quanto con riserva (“che io sappia”)-, la Corocotta non si fosse vista nella capitale dell’Impero prima delle celebrazioni per il decennale dell’imperatore Settimio Severo nel 202,  sembra essere smentito però dall'”Historia Augusta” (10), dove si narra che l’imperatore Antonino Pio ne portò a Roma alcuni esemplari, insieme a molte altre fiere provenienti dalle regioni africane, da destinare ai feroci e sanguinari giochi del circo (11). E’ peraltro quasi certo che l’animale citato in questo passo sia la Iena maculata.

Secondo il poligrafo latino C. Giulio Solino (III secolo), autore di un’opera di contenuto geografico e naturalistico che fu molto in auge nel ME, i “Collectanea Rerum Memorabilium”, la Crocotta viveva in Etiopia (cioè non solo nell’Etiopia attuale, ma nell’Africa nera in genere) e nasceva dal connubio tra una femmina di Iena e un Leone. Lo scrittore asserisce che anch’essa ha la facoltà di imitare la voce umana; i suoi occhi sono privi di palpebre; le mascelle non hanno gengive e la dentatura è costituita da un unico osso, retrattile all’interno della mascella (C.R.M., XXVIII).

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Due Leocrote in una figurazione moderna.

Come già aveva fatto Plinio, egli distingue dalla Crocotta la Leucrocotta: quest’ultima si trova in India ed “è più veloce di qualunque animale; ha la grandezza di un asino selvatico, il treno posteriore di cervo, il petto e le zampe di leone, la testa di tasso, zoccoli fessi, bocca che si estende fino alle orecchie. Questo quanto all’aspetto; con  la sua voce può imitare l’umano eloquio” (C.R.M., LIII). Da questa descrizione si evince che essa corrisponde in sostanza a quella che ne aveva dato Plinio il Vecchio, salvo il particolare della dentatura fusa in un unico elemento, che il naturalista di Como aveva attribuito alla Leucrota, mentre per Solino tale peculiarità riguardava la Crocotta; inoltre per quest’ultimo la Crocotta era frutto di una unione tra Iena e leone, al contrario di Plinio che aveva affermato derivare invece da Cane e Lupo.

Negli autori medioevali questi due animali, Crocotta e Leucrocotta -o Leucrota- verrano fusi in uno solo, chiamato in genere Leucrota, il quale, come sostiene Brunetto Latini nella sua opera enciclopedica , il “Trèsor” (libro I, p. V, 194), ha l’India come dimora ed è dotato di velocità superiore a quella di tutte le creature terrestri. la sua dimensione è quella di un asino, la groppa da cervo, il petto e le zampe di leone, la testa di cavallo, gli zoccoli di bue, la bocca larga fino alle orecchie e la dentatura formata da un solo osso: il particolare che si distacca dalle precedenti descrizioni è la testa equina, e non da tasso, come era stato tramandato dagli autori latini, il che rende la figura della Leucrota di Brunetto Latini più composita delle altre. Tuttavia si deve tenere presente che questo modo di rendere l’aspetto di un animale esotico va inteso per similitudine e non alla lettera, e comunque la creatura descritta dal dotto medioevale ha un carattere assai più fantastico di quella degli autori classici.

In conclusione possiamo affermare che mentre la Corocotta si può senza dubbio identificare in un animale reale, – la Iena o il Licaone-, la Leucrota è un essere immaginario, il cui aspetto è dotato di caratteri simbolici e allegorici, com’è proprio dei bestiari della tarda antichità e medioevali.

Note

1) che fu chiamato con vari nomi -Barometz, Borametz, Borometz, Agnello della Scizia, Agnello della Tartaria, Agnus Scythicus-.

2) peraltro l’opera del Mandeville era costituita in gran parte da racconti e notizie tratti da altri autori ed esploratori tra i quali Marco Polo e lo stesso Odorico da Pordenone.

3) il Kaempfer è noto soprattutto per aver scoperto e descritto per primo il “Ginkgo biloba”.

4) in un’altra tradizione ebraica si narra del “Faduah”, una pianta di forma umana, anch’essa congiunta al suolo con uno stelo attaccato al suo ombelico. Essa però, a differenza del Jedua’ah, era ritenuta una pianta aggressiva, che poteva afferrare e divorare qualunque essere che le si avvicinava troppo.

5) attualmente la “Pinna nobilis”, a causa della pesca sconsiderata e dell’inquinamento, è divenuta oltremodo rara, ed è proibito catturarla: pertanto il bisso è pressoché scomparso dalla circolazione.

6) nella moderna tassonomia il nome di “Charadrius” è stato attribuito ad un genere di Uccelli, -al quale appartengono tra gli altri il Piviere Tortolino (Charadrius morinellus), il Piviere della Mongolia (C. mongolus), il Corriere asiatico (C. dubius), il Fratino (C. alexandrinus), ed altri-, da cui sono derivati i nomi della famiglia dei Caradridi e dell’ordine dei Caradriformi, che comprende  Pivieri, Pavoncelle, Avocette, Beccacce, e molte altre specie-.

7) infatti il nome scientifico della Iena maculata è “Crocuta crocuta”, nome attribuitole nel 1777 dal biologo tedesco J.C. P. Erxleben (1744-1777).

8) quest’opera di Ctesia, -al pari di un’altra, Περσικà, dove trattava della Persia- è andata perduta, ma ne è rimasto un riassunto nella “Biblioteca” di Fozio, patriarca di Costantinopoli vissuto nel IX secolo (che già abbiamo altrove citato).

9) come già detto altrove (a proposito della Lepre della regina Budicca), l’opera di Dione Cassio constava di ottanta libri, dei quali solo una parte sono salvati (i libri del 36 al 60, il 79 e l’80); il contenuto dei rimanenti è noto dal riassunto che ne fecero due eruditi bizantini, Giovanni Xifilino nell’XI secolo e Giovanni Zonara nel XII.

10) l'”Historia Augusta” è una raccolta di biografie degli imperatori romani da Traiano a Numeriano (quindi dal 117 al 284, con una lacuna per gli anni tra il 244 e il 259). Le biografie sarebbero state scritte da sei autori diversi, ma l’identità autentica degli autori e soprattutto l’epoca di composizione (che le opinioni di storici e studiosi della letteratura latina collocano variamente dagli inizi del III secolo al VI) sono alquanto incerte. Della vita di Antonino Pio si dichiara autore Giulio Capitolino.

11) l’esecrabile passione del popolo romano e di molti dei popoli che costituivano l’Impero Romano per i “ludi circenses”, in particolare quelli oltremodo crudeli dell’anfiteatro, sono senza alcun dubbio l’aspetto più nefando del mondo romano (che in questo caso dette prova non di civiltà, ma di inciviltà e barbarie); ed ancor più il fatto che gli imperatori e i magistrati, anche quelli considerati migliori, per assicurarsi il favore delle masse ignoranti assecondarono tale infame passione. Infatti nelle più importanti celebrazioni ufficiali venivano compiute delle immani stragi di animali selvatici (soprattutto esotici, ma anche locali) e domestici. L’impatto della caccia sconsiderata di fiere da destinare all’anfiteatro fu tale che provocò l’estinzione di molte specie, come il Leone, nell’Africa settentrionale -anche se ci fu una parziale ripresa, dopo la fine dei giochi e dell’impero, nell’età medioevale-. Peraltro si deve osservare che i “ludi circenses” godettero grande popolarità solo nella parte occidentale dell’Impero Romano, che più aveva assorbito i costumi di Roma, assai meno nelle province orientali; la Grecia, l’Egitto e la Palestina furono poi del tutto immuni da questo obbrobrio.

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