UCCELLI NEL MITO- SIMURGH (seconda parte)

Anche nel folklore curdo, armeno, georgiano e di altre popolazioni  anatoliche e caucasiche ritroviamo la figura di un grande uccello che sembra essere l’equivalente di Simurgh. In una fiaba curda l’eroe che ne è protagonista, fermatosi a riposare sotto le fronde di un albero, vede un serpente che stava strisciando verso un nido tra i rami dell’albero per divorare i pulcini che vi dimoravano.Simorgh-02 Egli non esita a  salvare i pulcini dell’uccello, -che qui è chiamato Sìmir-, dalle insidie del serpente, e poi torna a dormire Quando Simir torna al nido e vede l’eroe dormiente pensa che egli sia il feroce predatore che negli anni precedenti aveva strappato dal nido e divorato le sue creature, e sta per avventarsi su di lui, ma i pulcini dicono che il giovane addormentato li ha invece salvati e ha impedito che fosse fatto loro alcun male. In premio della sua buona azione l’eroe riceve allora da Simir tre piume: egli bruciandole potrà chiamarlo in suo aiuto qualora si trovi in difficoltà. Egli richiede il soccorso dell’uccello per farsi trasportare in una terra lontana e una seconda volta onde con il suo aiuto uscire dal regno degli Inferi. Una storia analoga appare nella tradizione armena, dove il mitico volatile ha il nome di Sìnam: anche qui l’eroe viene da lui prelevato dagli Inferi; elimina poi il serpente Vishap che cerca di nutrirsi della prole dell’uccello, dopo di che si corica sotto l’albero che è dimora di lui, mentre Sinam lo protegge dagli ardenti raggi del Sole allargando le sue ali.

Come si può facilmente intuire Simir deriva, o comunque si riconnette a Simurgh, mentre Sinam sembra rifarsi al più antico nome Saena.

Tuttavia questi racconti della tradizione popolare curda e dei paesi anatolici e caucasici hanno un chiaro precedente e sono di certo derivati da analoghi miti che si riscontrano nell’antica Mesopotamia, ovvero quelli di Lugalbanda e di Etana. Questi due antichi eroi vengono aiutati nel compimento delle loro gesta rispettivamente da ZU, altrimenti detto AN-ZU-U, un enorme uccello con tratti umani, ovvero con testa di leone, -che ha molti punti di contatto con Simurgh, nonché con Anqa e Rukh, dei quali parleremo in seguito, (è anche possibile che il nome del primo sia in relazione con quello di An-zu)-, e da una grande aquila.

Per quanto riguarda, Lugalbanda, egli ci è noto attraverso due racconti dei quali sono pervenute, sia pure in forma frammentaria, alcune copie sia di provenienza sùmera, sia ritrovate nella biblioteca reale di Ninive. Nel primo racconto, il cui titolo originario è “Lugalbanda nella Grotta della Montagna”, ovvero “Lugalbanda nel Deserto”, si narra che Enmerkar, re sumero di Uruk, si accinse all’impresa di conquistare la favolosa città di Aratta (1), famosa per la sua potenza e ricchezza. Tra i generali che dovevano compiere la missione si trovava anche Lugalbanda, il quale però durante la marcia per raggiungere la città si ammala gravemente. Poiché i suoi sette fratelli che lo accompagnavano non riescono a guarirlo, o comunque a migliorare le sue condizioni, lo lasciano in una grotta con resine e incensi che leniscano il suo dolore. Egli invoca gli dei Shamash, Inanna e Nanna affinché lo guariscano dalla malattia che l’ha colpito e dopo due giorni la sua preghiera è esaudita. In seguito egli cattura un toro e due capre selvatiche, indi si addormenta e gli viene inviato un sogno nel quale è invitato a sacrificare gli animali da lui catturati. L’ultima parte del testo è assai frammentaria e di difficile decifrazione.

Nella seconda delle storie  che lo vedono protagonista, chiamata appunto “Lugalbanda e l’uccello Anzu”,- e che è il seguito della precedente-, l’eroe sta percorrendo gli altopiani delle regione abitata dai Lùlubi, quando si imbatte nel pulcino di Anzu caduto dal nido; egli sfama il piccolo volatile, guadagnandosi così la riconoscenza del genitore, una volta che questi è tornato al nido. Per dimostrargli la sua gratitudine, l’uccello trasporta a grande velocità Lugalbanda nei pressi della città di Aratta, dove i suoi compagni al comando del re Enmerkar stavano cingendo d’assedio la città.

Nella mitologia sumero-accadica, Anzu, figlio di Siris, signora delle nuvole e delle piogge, era l’uccello della tempesta, personificazione del vento del sud, apportatore di precipitazioni e delle nubi temporalesche

Statuetta rappresentante Anzu in oro e lapislazzulo risalente alla metà del III millennio a. C. ( Museo Nazionale di Damasco). Essa fu donata da un re della città sumerica di Ur ad un sovrano di Mari, città sull'alto corso dell'Eufrate.
Statuetta rappresentante Anzu in oro e lapislazzulo risalente alla metà del III millennio a. C. ( Museo Nazionale di Damasco). Essa fu donata da un re della città sumerica di Ur ad un sovrano di Mari, città sull’alto corso dell’Eufrate.

.Egli abitava insieme alla sua compagna ed ai suoi figli sul monte Sabu ed era un assistente del dio Enlil, una delle massime divinità del pantheon mesopotamico, figlio di Anu e dio dell’Aria e del Vento. In tale veste egli aveva avuto accesso alla “Daku” la Camera del Destino, ove si trovavano le sacre “Tavole del Destino”, in cui sono inscritte le vicende di tutti i viventi, che conferivano un enorme potere a chi ne fosse in possesso, e le aveva rubate, nascondendole poi sulla vetta delle montagna dove aveva il suo nido.

Giunta ad Anu, padre degli dei, la notizia del furto, egli chiese a suo figlio Ranman di recuperare le sacre tavole sottraendole ad Anzu. Ma poiché il diabolico pennuto, essendo in possesso delle “Tavole del Destino”, era divenuto pressoché invulnerabile, Ranman si rifiutò di compiere la missione temendo di essere sconfitto; e come lui declinarono l’invito, o il comando, di Anu altre divinità che non si sentivano in grado di affrontare l’essere semidivino che allora aveva acquisito un’inusitata potenza. Alla fine fu Ninurta che accettò di compiere la perigliosa incombenza e riuscì a portarla a termine sconfiggendo Anzu e riportando ad Anu le tavole, che da allora non furono più sottratte alla custodia degli dei. Secondo un’altra versione fu Marduk, con l’aiuto del saggio Ea, ad affrontare e a sottomettere Anzu e riportare le “Tavole del Destino” nel luogo ad esse assegnato.

Anzu appare anche nel “Poema di Gilgamesh” dove si dice che il mitico uccello aveva posto il nido nel quale albergava il suo pulcino tra le fronde dell’albero “Khuluppu” piantato sulle rive dell’Eufrate e poi trasportato dalla dea Inanna nella città di Uruk, allorché l’area ove esso cresceva fu sommersa dalle acque del fiume.

La figura di Anzu si confonde più tardi con quella di IMDUGUD, essere semidivino raffigurato come aquila leontocefala, e associato a Ningirsu, il dio delle tempeste, e talora pure a Tammuz (del quale abbiamo già parlato) -e che è il Signore di questa oasi ove vi trovate-.

Sono state avanzate diverse interpretazioni per spiegare il mito di Anzu: con tutta verosimiglianza, come ebbe a notare il Langdon, nella più antica versione sumerica esso adombrava il conflitto tra il Sole e il dèmone invernale della tempesta e delle tenebre; oppure la potenza del Sole in pieno possesso delle sue forze (Shamash) rispetto al Sole mattutino (Marduk), che si lascia derubare poiché non può risplendere in tutto il suo fulgore avviluppato com’è dalle nubi sull’orizzonte, per altri ancora sarebbe il simbolo della Luna piena obnubilata dalle foschie notturne. Infine alcuni studiosi paragonano Anzu a Prometeo: come il titano della mitologia greca rubò il fuoco agli dei per farne dono agli uomini, così il mitico volatile mesopotamico sottrasse ad Enlil le “Tavole del Destino”.

Segnaliamo infine che il nome dell’antico semidio mesopotamico è stato attribuito ad un dinosauro piumato le cui ossa fossilizzate sono state scoperte nel marzo di quest’anno (2014) nell’America settentrionale, e a cui è stato dato il nome scientifico di “Anzu Wylei”. Questo rettile, appartenente alla famiglia degli “Oviraptoridi”, dalle caratteristiche prossime a quelle degli Uccelli, benché non volatori, sarebbe vissuto circa 67 milioni di anni fa ed avrebbe avuto dimensioni abbastanza cospicue, con un’altezza di circa 3 metri.

Etana fu il tredicesimo leggendario re (“lugal” in sumerico) della città di Kish. In una iscrizione che contiene la lista dei sovrani che governarono la città è detto “il pastore che ascese al Cielo e conquistò le contrade straniere”. Fu uno dei primi sovrani che regnarono dopo il diluvio universale, succedendo sul trono di Kish ad Arwium, mentre Balih (o Balikhu) sarebbe stato il suo erede. Egli avrebbe regnato per ben 635 anni, ma secondo altre fonti addirittura 1500 anni.

Il mito del quale egli è il protagonista ci è noto in maniera incompleta dai testi letterari, poiché questi sono pervenuti in uno stato frammentario e in redazioni relativamente tarde; il più importante di essi è un poema di età amorrea, risalente a circa il 2000 a. C., dal quale, integrandolo con altre fonti, si è riusciti a ricostruire la sua storia.

Nei tempi più remoti non esistevano sulla Terra né templi né re; gli uomini vivevano senza aver un “pastore” e pertanto il disordine e l’anarchia tormentavano le loro esistenza e i conflitti e le discordie minavano la civile convivenza. Ma due fra gli dei, Inanna ed Enlil, decisero che la regalità sarebbe discesa dal cielo e a tal fine per giorni e giorni cercarono qualcuno che fosse degno di rappresentarli sulla Terra, fino a che la loro scelta cadde su Etana, che era un umile pastore di greggi. “Etana è un fedele e buon pastore: sarà lui che custodirà il popolo” dichiarò Inanna.

Così Etana fu condotto al palazzo reale e furono celebrate le cerimonie dell’incoronazione. I sacerdoti offrirono agli dei cibi prelibati e deliziose bevande, affinché cessasse la loro collera verso gli umani e concedessero salda protezione al regno (2). Etana si unì poi in matrimonio con una eletta sposa affinchè da tale connubio nascesse un erede che consolidasse il regno e contribuisse a dargli pace e prosperità.

Ma ad onta di quanto era stato compiuto per assicurarsi la benevolenza degli  dei, essa fu invano attesa e giunsero pure altri castighi e una terribile pestilenza, A queste disgrazie si aggiungeva il fatto che la regina, sposa di Etana, con suo grande dolore non riusciva a concepire un figlio. Alla fine Etana, avendo constatato che la sposa rimaneva sterile e che di giorno in giorno il popolo diveniva sempre più esiguo, implorò Shamash, il dio del Sole con le seguenti parole: “O Signore, gli dei ho onorato, gli spiriti ho riverito, i miei agnelli hanno soddisfatto gli dei. Signore mio, un comando esca dalla tua bocca e con esso donami la pianta della generazione, fai uscire dal ventre della mia sposa la mia discendenza e stabilisci per me un nome sulla Terra!”.

Shamash allora rispose alla preghiera di Etana e gli disse: “Vai per la tua strada e varca la montagna: là troverai una fossa entro la quale vedrai giacere un’aquila: ella ti mostrerà l’erba della generazione.”.

L’Aquila si trovava ferita in quella fossa a causa di una punizione di Shamash. Infatti ella aveva stabilito un patto di collaborazione con un Serpente che viveva ai piedi dell’albero ove l’Aquila aveva posto il suo nido; secondo tale accordo le prede catturate da ciascuno di essi sarebbero servite a sfamare i figli di entrambi. Ma in seguito l’aquila trasgredì il patto e osò divorare i figli del serpente. Quest’ultimo disperato rivolse la sua accorata preghiera a Shamash, il quale gli disse che con un tranello avrebbe potuto vendicarsi del torto subito dal volatile: egli si nascose nelle viscere di un toro catturato da Shamash e allorché l’aquila gli si avvicinò la avvolse nelle sue spire e la gettò ferita nella fossa dove Etana l’aveva rinvenuta.

Shamash aveva però aggiunto che sarebbe stata perdonata se avesse aiutato un uomo da lui mandato. “Che egli mi faccia uscire dalla fossa!”- disse l’aquila- “Gli darò quanto desidera e farò qualunque coda mi ordinerà!”

Aquila di bronzo proveniente dalla zona archeologica di Jiroft in Iran, dove forse si trovava la città di Aratta.
Aquila proveniente dalla zona archeologica di Jiroft in Iran, dove forse si trovava la città di Aratta.

. E così fu: quando Etana le espresse il suo desiderio e le chiese il suo aiuto, l’Aquila promise di procurargli l’erba miracolosa che avrebbe dovuto consentire alla regina di procreare il tanto sospirato pargolo. Tuttavia, soggiunse, egli avrebbe dovuto aspettare che ella potesse riacquistare le forze; e così per otto mesi il re di Kish portò cibo all’aquila onde ella potesse ristabilirsi e recuperare le forze. Quando ella fu finalmente guarita, spiegò ad Etana come cavalcarla tenendosi ben saldo sul suo dorso e afferrandole le ali con le mani. Dopo di che, ella spiccò il volo nello spazio infinito per dirigersi verso il cielo di Anum, ove nel giardno di Inanna avrebbe potuto trovare la pianta che andava cercando.

Ma mentre salivano sempre più in alto Etana fu preso dalla vertigine, le sue mani si intorpidirono e non riuscirono più a tenerlo aggrappato all’Aquila; cominciò a precipitare verso terra, lanciando un grido. A questo punto il testo si interrompe e non si sa quindi se la narrazione terminasse con una fine tragica dell’eroe, ovvero se egli in qualche modo riuscisse a salvarsi e a portare a compimento la sua missione. Da indizi esistenti in altri testi, e dal fatto che secondo le fonti avrebbe avuto un figlio, Balikhu, che fu poi il suo successore, sembra che esistessero versioni del mito nelle quali la ricerca dell’erba della fertilità avrebbe avuto felice esito.

Il tema dell’eroe che sale verso il Cielo cavalcando una creatura alata, sia essa un uccello, o un altro animale più meno fantastico, è quanto mai diffuso nei miti e nella narrativa (basti pensare ad esempi noti come Bellerofonte che cavalcava il cavallo alato Pegaso, o Astolfo che vola sulla Luna  in groppa all’ippogrifo a cercare il senno di Orlando -“Orlando Furioso”, canto XXXIV-).

Nel mito di Etana assume notevole rilevanza anche il conflitto tra l’Aquila e il Serpente: ambedue questi animali hanno forti valenze simboliche, tanto che li si potrebbe considerare degli archetipi: l’Aquila rappresenta il mondo celeste e solare, della luce  e delle altezze uraniche; il Serpente, -come pure il Drago-  incarna lo spirito delle acque, il mondo terrestre e ipoctonio, legato al regno dei morti, ma pure alla fertilità. Per questo si può ipotizzare che l’albero che offre ad essi riparo e dimora, -l’Aquila ha il nido sulla sua sommità, mentre il Serpente ha la tana tra le radici- rappresenti l'”albero cosmico”, l'”Axis Mundi”, il polo fisico e metafisico intorno al quale ruota la vita della Natura; ed infatti in altre tradizioni mitiche all’albero cosmico sono legati volatili e serpi: ad esempio, nella mitologia germanica il grande frassino “Yggdrasil” è abitato, oltre che da vari altri animali, da una grande aquila detentrice della saggezza sulla cima e da un lungo serpente arrotolato ai suoi piedi.

Ma l'”Albero Cosmico” ricorda anche, o addirittura si identifica con l”Albero della Vita”, i cui frutti donano l’immortalità, e con l”Albero della Conoscenza” o della “Saggezza”. Abbiamo già visto come nella mitologia greca l’albero della saggezza cresceva nel giardino delle Esperidi ed i suoi frutti dorati erano custoditi dal serpente Ladone. Ma senza dubbio il più famoso dei serpenti sacri mitologici è quello biblico che consigliò ad Eva di gustare del frutto dell'”Albero della Conoscenza”, intorno al quale dimorava, – e dunque incarnazione egli stesso della “conoscenza superiore”, atto di superbia e di ribellione alla maestà divina secondo le interpretazioni ortodosse e dogmatiche, -e peraltro di necessità previsto, e quindi voluto, dall’onnipotenza d Dio-; progresso ed evoluzione spirituale secondo una visione più interiorizzata della divinità. Pure se questo, come l’apertura del vaso di Pandora seguito all’acquisizione del “Fuoco” degli dei da parte di Prometeo, comportò la consapevolezza tragica della limitatezza della condizione umana, ma anche l’incoercibile anelito a superarla, talora cercando di percorrere strade sbagliate ed illusorie, prima di imboccare la via della conoscenza di sé, che sola può condurre alla “redenzione”.

E’ degno di nota anche il particolare, assi significativo, che l'”erba del parto” o “della fertilità” cresca nel giardini di Inanna, chiamata poi Ishtar da Accadi, Assiri e Babilonesi, la dea della fertilità, della natura rigogliosa e della maternità; questo giardino paradisiaco è ovviamente da identificarsi nell’Eden della “Genesi”, e nel Giardino delle Esperidi” della tradizione ellenica. Potrà apparire strano che esso si trovi in Cielo, ma Inanna-Ishtar è anche la dea del pianeta Venere e della stella Sirio. Inoltre il volo del re di Kish sulla groppa dell’aquila è chiaro simbolo di ascesa spirituale, di conquista di una condizione divina a cui l’uomo aspira con tutte le forze  e tutto il cuore, ma per la quale spesso non è pronto: per questo Etana viene preso dalla vertigine e precipita miseramente al suolo, così come Bellerofonte quando tentò di dare la scalata all’Olimpo a cavallo di Pegaso, o come Fetonte che non riuscendo a guidare i cavalli del Sole cadde nell’Eridano. Ed in effetti la ricerca della pianta della fertilità di Etana è simile alla ricerca della pianta dell’immortalità intrapresa dal più famoso eroe della religione e dell’epopea mesopotamiche, Gilgamesh re di Uruk (il quale tra l’altro secondo alcune versioni era figlio di Lugalbanda).

Ricordiamo ancora che l’Aquila è anch’essa simbolo di rigenerazione e di resurrezione (un po’ come la Fenice): secondo un’antica leggenda riportata nel “Physiologus”(3) allorché l’Aquila sente che le forze cominciano a scemarle, le si appesantiscono le ali e la vista le si offusca, si appressa quanto più può al Sole, sorgente di vitalità e di giovinezza, per farsi bruciare le vecchie ali e fare in modo che il fulgore dell’astro tolga la caligine dai suoi occhi. Indi cerca una fonte d’acqua pura e vi si immerge per tre volte e così si rinnova e riacquista la giovinezza. E d’altra parte, pure il Serpente è simbolo di rinascita, oltre che di saggezza: la muta annuale della sua pelle fu vista come segno di rinnovamento cosmico e individuale.

Tra i numerosi miti e leggende nei quali il Serpente appare strettamente legato alla rinascita e alla resurrezione vorrei riportarne uno assai suggestivo che viene dalla Lidia ed è noto soprattutto nella versione data da Nonno di Panòpoli (4),  nelle “Dionisiache”, il suo monumentale poema mitologico in 48 canti, uno degli ultimi dell’antichità classica (IV, versi 452 e seguenti). Il giovane eroe Tilo, mentre camminava sulle rive del fiume Hermo, urtò inavvertitamente un grosso serpente maculato accovacciato e nascosto tra i cespugli; allora il rettile, irritato e spaventato, lo morse: a causa del veleno inoculatogli Tilo morì.M28_6Drakon Sua sorella Moira (il “Destino”), addolorata e disperata per la disgrazia, pregò il gigante Damasen (il “Sopprimitore”), figlio di Gaia, la Terra, di vendicare la morte del fratello. Questi riuscì ad uccidere il serpente; ma accadde che un’altra serpe, che era la compagna di quella uccisa da Tilo, uscì allora dal bosco recando seco il “fiore di Zeus”, lo depose sulla bocca del rettile esanime ed egli resuscitò. Moira, che aveva assistito alla scena, cercò anch’ella un fiore simile a quello che aveva ridato la vita al serpente e con esso fece rivivere il fratello. Questo episodio è effigiato su alcune antiche monete sarde.

Anche nel mito di Glauco, figlio di Minosse di Creta e di Pasifae (e dunque fratellastro del Minotauro), e dell’indovino Poliido i serpenti sono protagonisti in qualità di datori di vita tramite un’erba dalle straordinarie virtù.

Glauco, essendo ancora un tenero fanciulletto, mentre rincorreva un topo, cadde in una giara di miele e vi annegò. Il genitore lo cercò ovunque nel suo immenso palazzo, ma non riuscendo a trovarlo decise di ricorrere all’oracolo di Delfi, -o in altre versioni ai Cureti, gli esseri semidivini che avevano assistito alla nascita di Zeus e ne avevano mascherato i vagiti con i loro strepiti-. Il consiglio dell’oracolo fu il seguente: nelle mandrie di Minosse si trovava una strana giovenca che aveva la particolarità di cambiare il colore del suo manto tre volte al giorno passando dal bianco al rosso e poi al nero: colui che fosse riuscito a paragonare nel modo più calzante il colore dell’animale a qualche altra cosa, sarebbe riuscito a riportare al padre il figlio ancora vivo.

Tutti gli indovini vennero convocati al palazzo reale e quando venne il suo turno Poliido, figlio di Cerano, disse che quella giovenca assomigliava assai per colore a una mora di rovo, che prima è bianca, poi diventa rossa e infine a piena maturazione si scurisce fino ad essere nera. Minosse trovò quanto mai appropriata la similitudine e subito ingiunse all’indovino di cercare il suo rampollo. Questi vi riuscì dopo aver visto una civetta appollaiata davanti alla dispensa che aveva messo in fuga uno sciame d’api. Lì nella giara di miele fu ritrovato il corpo esanime di Glauco; ma Minosse pretendeva che il figlio gli fosse riconsegnato vivo e così rinchiuse Poliido nella dispensa con il cadavere ed una spada, dicendo che non l’avrebbe liberato fino a che suo figlio non fosse risuscitato

L’indovino non sapeva come uscire da quella scomoda situazione, quando vide un serpente che si avvicinava al corpicino di Glauco; temendo di essere morso dal rettile, prese un sasso e lo uccise (o in altre versioni lo trafisse con la spada). Poco dopo apparve un altro serpente, il quale visto il suo simile defunto se ne andò via e tornò poco dopo con un erba nella bocca che depose sulla bocca del compagno (o forse compagna): non appena fu toccato dall’erba, l’animale riacquistò la vita. Poliido rimase meravigliato di quanto aveva visto e quando i due serpenti si dileguarono, prese l’erba miracolosa la mise sul cadavere di Glauco e il bambino tornò alla vita (si veda al riguardo “Biblioteca di Apollodoro”, III, 3; Igino, “Fabulae”, 136).

Una storia simile la ritroviamo in una fiaba dei fratelli Grimm, “Le tre foglie della serpe” (“Racconti per bambini e famiglie”, 16), nella quale si narra di un giovane povero, il quale combattendo valorosamente al servizio di un potente re, ne ottiene in sposa la figlia. Costei però al momento del matrimonio gli aveva strappato un bizzarro voto: se ella fosse morta prima di lui, anch’egli avrebbe dovuto scendere vivo nella tomba. E così accadde: il giovane fu rinchiuso nella cripta funeraria insieme alla consorte e lì avrebbe dovuto rimanere finchè non fosse giunta la morte a far cessare le sue pene. Ma mentre aspettava quel triste momento, vide apparire una serpe che si appressava al cadavere; pensando che volesse morderlo, trasse la spada e la tagliò in tre pezzi. Poco dopo strisciò fuori da un angolo un’altra serpe, la quale non appena ebbe visto quella ridotta in pezzi, si allontanò di nuovo e tornò poco dopo recando tre foglie verdi in bocca. Poi prese i tre pezzi della serpe, li riaccostò e su ogni ferita mise una foglia. Subito i pezzi si ricongiunsero e la serpe riacquistò la vita, andandosene con la compagna. Le foglie però erano rimaste per terra e il protagonista della fiaba  le raccolse sperando che il miracolo si potesse ripetere anche con la sua sposa. Ne pose una sulla bocca della defunta e le altre due sugli occhi, e così la donna risuscitò.

Aquila e Serpente si fondono poi nell’ottavo segno dello Zodiaco, lo Scorpione, il cui simbolismo è appunto incarnato ed espresso, oltre che dal mitico Scorpione inviato da Gaia o da Artemide che uccise il tracotante cacciatore Orione, dai due animali immagine di ciclico rinnovamento: segno di vita-morte-rinascita che ci mostra come l’Aquila non sia altro che l’aspetto solare, di potenza celeste, dello stesso Serpente, così come quest’ultimo è l’ipostasi ctonia e notturna dell’Aquila, simbolo di rigenerazione e immortalità.

Nelle fonti arabe l’equivalente di Simurgh è Anqa. Il nome di questo favoloso volatile significa letteralmente “il Gigante”, ed in effetti secondo Al-Qazwini (5) ed altri autori islamici egli è dotato di enormi dimensioni e di un’inaudita forza e potenza tanto da poter sollevare senza alcuna difficoltà animali grossi come gli elefanti. Sebbene sia un predatore, gli è attribuita una singolare nobiltà e magnanimità: egli infatti si nutre soltanto di quanto gli è strettamente necessario e lascia agli altri animali il rimanente delle prede da lui catturate: per tale ragione egli è definito “Re degli Uccelli”. Sembra che Anqa potesse giungere alla ragguardevole età di 1.700 anni, avrebbe deposto le uova per la prima volta a 300, mentre i pulcini uscivano dalle uova dopo 25 anni dal momento della deposizione. Il mitico pennuto è descritto talvolta con aspetto ibrido, in particolare come un uccello del volto umano.

Tutti i testi concordano nell’affermare che l’Anqa, -talvolta chiamato con il nome di “Mughrib”-, non esiste più, ma attribuiscono a cause diverse la sua scomparsa. Secondo una tradizione attestata negli “Hadith” (6) questo meraviglioso uccello era stato creato con tutte le perfezioni, ma in seguito divenne tanto aggressivo da molestare e arrecare danni anche agli umani, così che fu maledetto da un profeta il quale ne provocò così l’estinzione. In un’altra versione scomparve sempre in seguito alla maledizione di un profeta, il quale l’avrebbe però pronunciata perché egli aveva osato rapire una sposa novella: allora discese dal cielo un grande fuoco distruttore che consumò il volatile del quale non rimase che il nome tramandato nella memoria dei posteri. Secondo un’altra versione ancora, Anqa viveva nei pressi di Gerusalemme ove compiva continui eccidi di animali e uomini, così che, per esaudire le preghiere di un profeta, Dio lo mandò negli spazi oltremarini donde non tornò più, stabilendosi in un’isola remota, detta l'”Isola del Mare Verde”, nella quale nessun naviglio può approdare.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) città leggendaria di incerta identificazione, che però secondo le ipotesi formulate in seguito a recenti scavi sarebbe sorta nell’area sud-orientale dell’Iran.

2) in effetti questo racconto sembra essere in contraddizione con altre testimonianze, come l’elenco degli antichi re sùmeri, secondo il quale Etana non sarebbe stato il primo, bensì il 13° re di Kish.

3) il “Physiologus” è un trattato di zoologia in 48 capitoli nel quale però gli animali (oltre a quelli “reali”, anche molti leggendari come l’Unicorno e la Manticora) sono interpretati come simboli di verità morali e metafisiche. Esso fu scritto in ambiente cristiano tra il II e il III secolo probabilmente ad Alessandria. E’ considerato il prototipo dei “bestiari” medioevali.

4) poeta greco-egizio vissuto nel V secolo- La sua opera più famosa, le “Dionisiache” ha come argomento le travagliate vicende di Dioniso, dalla sua nascita all’assunzione sull’Olimpo, ma le trama è intessuta di innumerevoli storie minori, digressioni mitologiche e geografiche, descrizioni di edifici, oggetti, ecc. (“ecfraseis”, tipiche della poesia ellenistica).

5) Zakariya ibn-Muhammad al-Qazwini (1203-1283), scienziato e geografo arabo, autore di numerose opere di cosmografia e corografia, importanti anche per le testimonianze e le notizie storiche, etniche e mitologiche riportate.

6) gli “Hadith” sono i racconti riguardanti gli atti e i detti di Maometto non contenuti nel Corano e che costituiscono una delle fonti della religione (la “Sunna”, che in effetti è osservata non solo dai Musulmani “Sunniti”, ma pure da Sciiti e Kharigiti).

 

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