UCCELLI DEL MITO – SIMURGH -educatore degli eroi e simbolo del “Sè” divino-

Nella mitologia persiana appare un grande volatile che riveste una notevole importanza ed incarna un profondo simbolismo cosmologico e mistico, e per alcuni aspetti ricorda la Fenice, soprattutto perché anch’egli viene indicato come re degli uccelli, nonchè immagine della santità e della purezza. Questo volatile misterioso è chiamato Simurgh; in effetti tale nome è proprio del persiano moderno, e ad esso, seguendo una pseudo etimologia, viene attribuito il significato di “trenta (grandi) uccelli”, pseudo-etimologia che fu ripresa e sfruttata dal poeta e mistico persiano Farid ad-Din Attar (1142-1220) nel suo poema mistico “Mantiq at-Tahir” (“La conversazione degli uccelli”), del quale avremo modo di riparlare.

Il nome Simurgh è però derivato con tutta probabilità dal pahalavico (ovvero il medio persiano, la lingua in uso nell’Impero Persiano sotto la dinastia dei Sassandi, dal III al VII secolo), Senmurv, attraverso un presunta forma intermedia Senmurugh; ma il mitico uccello che designa appare già in epoca molto più antica, e si trova citato nell’Avesta,- il libro sacro degli Zoroastriani, le cui prime redazioni scritte risalgono al periodo dei sovrani Achemenidi, nel VI secolo a. C., ma che si tramandava per via orale da epoche assai più remote-, con il nome di “Saena”, dal quale, attraverso la forma “Saeno merego” (uccello aquila), deriverebbero il nome pahalavico e poi quello moderno. Questa creatura appare comunque sempre come celeste e benefica, amica e protettrice degli uomini e di tutti gli esseri viventi.

Secondo l’Avesta, e i commenti sul sacro testo redatti in epoca sassanide, l’abituale dimora dell’uccello cosmico è un albero che si trova al centro del grande oceano “Vourukasha” (che si può considerare l’equivalente iranico dell’Oceano ellenico); questo albero, il cui nome è Gaokerena, “l’Albero della Vita”, è dotato di eccezionali virtù terapeutiche, tanto che viene chiamato il grande guaritore, colui che può sanare qualunque morbo o malanno; non solo, ma in lui sono riposti i semi di tutte le piante del mondo.سيمرغ Sui rami dell’albero cosmico, definito nel “Menog i Xrad” -uno dei testi esegetici dell’Avesta di cui si è detto poc’anzi- “l’Albero senza peccato e dai molti semi”, Simurgh ha costruito il suo nido. Quando l’enorme volatile spicca il volo, migliaia di nuovi rami germogliano dall’albero, mentre allorchè torna a posarsi alla sua sommità, altre migliaia di rami si spezzano, così che da essi sciamano e si diffondono all’intorno numerosissimi semi. Un altro mitico uccello chiamato Cenamrosh, che vive a piedi dell’albero, raccoglie i semi caduti nell’acqua e li consegna a sua volta a Tishtar (ovvero la stella Sirio personificata), la quale li farà piovere sulla terra, dove essi produrranno rigogliose fioriture. A questa narrazione mitica si potrebbe attribuire un significato astronomico: come Tishtar è senza dubbio da identificare nella stella Sirio (Alpha Canis Maioris), la più luminosa tra quelle visibili dalla Terra, così pure gli uccelli Semmurv e Cenamrosh potrebbero essere la personificazione di altre due stelle: il primo avrebbe la sua corrispondenza nella costellazione dell’Aquila, ovvero nella sua stella più splendente, Altair -Alpha Aquilae- (“Altair” è un nome derivante dall’arabo che in modo assai significativo significa “l’Uccello”), -ed in effetti la levata eliaca di Sirio avviene allorché l’Aquila tramonta-. In Cenamrosh invece è ravvisabile la costellazione del Cigno, che tramonta poco dopo l’Aquila.

La conoscenza dell’astronomia e dell’astrologia greche sono ben attestate in Iran al tempo degli Arsacidi e dei Sassànidi, ma è peraltro possibile che già nell’età in cui furono composte le parti più antiche dell’Avesta si siano manifestate influenze delle fonti astronomiche babilonesi indipendentemente da quelle ellenistiche successive. Tuttavia l’ipotesi che il sorgere di Sirio segni l’inizio della stagione delle piogge, così come in Egitto esso segnava l’inizio dell’inondazione del Nilo -e dunque del periodo di fertilità della terra-, non è compatibile con il clima presente nella maggior parte dell’Iran  Nell’apparizione di Tishtar (ovvero la levata eliaca di Sirio) sarà dunque più verosimilmente da ravvisare il principio del suo combattimento con Apaosha, il demone della siccità: nei torridi mesi estivi (che sono appunto quelli della “canicola”, come nell’area del Mediterraneo) Tishtar, ovvero Sirio, aumenta la sua forza  e con la sconfitta di Apaosha, nei mesi autunnali, le piogge potranno infine riversarsi copiose sulla terra riarsa.

Osserviamo ancora che secondo il “Bundahishn” -un importante testo in pahlavico dell’età sassanide-, Senmurv  risulta essere il primo dei volatili creato da Ohrmazd (l’avestico Ahura Mazda, il dio benefico), ma non il re degli uccelli, posizione che detiene un altro grande volatile, chiamato Karsipt, colui che riporta anche la retta religione nel regno sotterraneo di Yamishid (ovvero l’avestico Yama, che, come abbiamo visto nell’articolo su Thule, aveva creato questo regno ipogeo per sfuggire al raffreddamento del clima dovuto alla punizione divina da lui meritata a causa della sua superbia).

Senmurv ha il suo contrapposto negativo, una sorta di “umbra” malefica, nell’uccello Kamak, la cui presenza ed azione, da quanto appare nel “Saddar Bundahes” hanno degli effetti esattamente contrari a quelli benefici indotti da Senmurv: quando Kamak spiega le sue possenti ali sul mondo impedisce alle acque meteoriche di scendere al suolo per dissetarlo, la siccità si abbatte sulla Terra, i fiumi e le sorgenti si prosciugano, i pozzi si disseccano, causando la morte degli uomini e degli animali: Kamak li divora come un normale volatile becca i chicchi di granaglie. Ma l’eroe Karshasp, -una figura di distruttore di mostri che presenta notevoli analogie con l’Eracle ellenico (1)-, scaglia su di lui una pioggia di dardi, fino a che la malefica creatura non soccombe. L’opera di Kamak che ghermisce col becco uomini e animali è descritta anche come l’esatto contrario di quella di Cenamrosh, il quale invece colpisce col becco solo i nemici dell’Iran, ed è quindi un difensore del popolo.

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Simurgh con il guerriero Esfandiar.

Ma è soprattutto nell’epopea che costituisce la materia e la principale fonte di ispirazione dello “Shanameh” di Firdusi (940-1020 circa), il più grande poeta persiano, che Simurgh riveste una parte di non secondaria importanza, poiché appare come una delle figure principali nella storia di due dei più eccelsi eroi persiani, Rustam ed Esfandiar.

Nelle antiche cronache dei re Sassanidi si narra che un potente re, di nome Feriddun regnava su tutto l’Iran. Egli aveva tre figli: Sahlm, Tur ed Erag, fra i quali ripartì il suo vasto regno. Ad Erag, che era il figlio prediletto, lasciò l’impero dell’Iran, mentre a Sahlm e a Tur furono assegnati rispettivamente l’Anatolia e l’Asia centrale. I fratelli di Erag, gelosi per le preferenza accordatagli dal padre e bramosi di vendicarsi della presunta ingiustizia perpetrata ai loro danni, lo uccisero  e fuggirono poi nei loro regni. Fu così che ebbe inizia una lunga e sanguinosa guerra, funestata e alimentata da una catena di inestinguibili odi e vendette, che durò moltissimi anni e vide contrapporsi i due più forti popoli che avevano fatto parte dell’impero di Feriddun: gli Irani, discendenti di Erag, e i Turani, discendenti di Tur.

Tra i molti principi e guerrieri che combattevano per l’uno o per l’altro dei contendenti, si distinse in particolare Sam, figlio di Nariman, un principe del Segestan valorosissimo e fedele al re dell’Iran, destinato ad essere il genitore di un grande eroe. Un  giorno la sposa di Sam diede alla luce un bellissimo bambino, il quale però, assai stranamente, aveva i capelli bianchi. Questa particolarità spiacque assai all’eroe che ravvisò in quel fatto un cattivo presagio e il segno che l’insolito infante avesse origini demoniache. Per tale ragione egli comandò che il bimbo fosse portato sulla vetta del monte Elburz. Ma il meraviglioso uccello Simurgh, che viveva sulla montagna, trovò il bambino mentre andava in cerca di cibo per i suoi pulcini, lo salvò e lo allevò nel suo nido insieme ai suoi piccoli in quelle aspre solitudini.

Quando ormai erano trascorsi parecchi anni, una notte Sam sognò che suo figlio abitava sulla montagna dove per suo ordine era stato abbandonato. Turbato dal sogno, decise di andare a cercarlo ed infatti lo trovò mentre stava lottando con un grosso lupo. Il fanciullo era forte e magnifico e Sam riconobbe in lui la magnanimità della sua stirpe, così che si fece riconoscere quale suo vero padre, lo prese con sé e lo condusse al suo palazzo, dove gli fece impartire l’educazione principesca che gli competeva, chiamandolo con il nome di Zal. Ma prima di lasciare Simurgh che con affetto e devozione materni si era preso (o presa, poiché in effetti sembra che l’uccello sia di sesso femminile) cura di lui, quest’ultimo gli donò una delle sue penne: qualora si fosse trovato in pericolo, e avesse bruciato la penna, egli sarebbe accorso in suo aiuto.

Alcuni anni dopo Zal si unì in matrimonio con una bellissima principessa chiamata Rudabeh e divenne padre del più nobile e valoroso degli eroi persiani, quel Rustam per il quale i poeti cantarono “Possano gli dei conservarlo fino alla fine dei secoli!”. Nel giorno della nascita di Rustam, il meraviglioso volatile che già aveva allevato Zal si posò sul palazzo reale, riempiendo di sgomento e di ammirazione tutto il popolo, che accorse stupefatto ad assistere all’eccezionale evento. Era tanto enorme che con le ali aperte copriva la reggia e parte del parco che la circondava; le sue piume e penne erano scintillanti come gemme e sfavillavano al Sole. Il parto di Rudabeh infattti si presentava alquanto difficoltoso, e dunque Zal aveva ritenuto opportuno chiedere il soccorso di Simurgh per mezzo della penna che questi gli aveva dato. L’uccello suggerì di anestetizzare la madre con vino prima di eseguire un’incisione su un fianco della partoriente (in pratica operò un parto cesareo), dalla quale fu estratto il piccolo Rustam, inoltre prescrisse le erbe con le quali curare la ferita, che fu completamente sanata allorché essa venne toccata con la penna di Simurgh.

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Rustam doma il cavallo Rakhsh.

Trascorsi gli anni dell’infanzia, venne l’adolescenza e Rustam, ormai grande e vigoroso, stupiva tutti per la sua forza, la sua magnanimità e il suo indomito ardimento, che gli consentivano di affrontare qualsiasi pericolo. Un giorno si sparse la voce che nella foresta intorno alla città un cavallo imbizzarrito galoppava all’impazzata diffondendo spavento. Rustam si recò nella foresta, si nascose dietro un albero ed attese l’animale. Quando egli arrivò, correndo con la forza di un uragano, l’eroe gli saltò in groppa e tenendogli saldamente le orecchie lo domò. Dopo di che se ne tornò in città cavalcando il cavallo ormai divenuto mansueto, tra l’ammirato stupore di tutto il popolo. Quel cavallo, che si chiamava Rakhsh, divenne l’abituale cavalcatura e il fido compagno di Rustam nelle sue avventure seguenti. In questo episodio si può vedere una chiara analogia con quello analogo che vede protagonisti Alessandro Magno e il suo cavallo Bucèfalo, il quale dopo essere stato da lui domato divenne il suo inseparabile compagno.

Quando Rustam e Rakhsh furono feriti dalle frecce di Esfandiar, -un altro dei grandi eroi persiani, che fu l’antagonista e il rivale di Rustam-, quest’ultimo ricorse all’aiuto di Simurgh, il quale estrasse i dardi e curò le ferite di entrambi. Simurgh, che era pure dotato di virtù profetiche e conosceva i segreti del destino, avvertì il suo protetto che colui che avesse ucciso Esfandiar sarebbe stato dannato in questo mondo e nell’al di là. Egli, che si era bagnato nella fontana dell’invincibilità, avrebbe potuto essere abbattuto solo da uno strale intagliato nel legno di una pianta di Tamerice che l’avesse colpito tra gli occhi. Nonostante l’ammonimento di Simurgh, Rustam non intende arrendersi e accetta che si compia il suo destino: il magico uccello lo trasporta allora alla pianta prodigiosa dove con un suo ramo ed una piuma del volatile viene confezionato il dardo fatale a due punte, con il quale in seguito Esfandiar viene trafitto. In questa storia sono assai evidenti le similitudini con diversi altri personaggi mitologici, -in particolare per la vulnerabilità solo in un determinato punto del corpo e/o a una determinata arma-: il greco Achille; Balder e Sigurd (ovvero Sigfrido) nella mitologia germanica; l’eroe indù Duryodhana, ecc.

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Gli Uccelli radunati per scegliere il loro re.

Osserviamo peraltro che nelle descrizioni, peraltro scarne e approssimative, specialmente quelle presenti nei testi più antichi, e ancor più nell’iconografia fino al periodo sassanide, si notano numerose contraddizioni e oscillazioni: sembrerebbe che Simurgh non sia un vero e proprio uccello ma un essere ibrido, un po’ come il grifone: infatti sembra avere una testa canina, sebbene in genere prolungata in un becco, e talora anche le zampe di cane, si dice inoltre che allatti i suoi piccoli, e pertanto avrebbe nutrito con il suo latte e così mantenuto in vita il fanciullo Zal, come è narrato nel poema di Firdusi.

Mentre nell’Avesta Simurgh (o meglio Saena) appare come un vero e proprio uccello, in testi successivi la sua natura oscilla tra quella di uccello e di mammifero: ad esempio nel Bundahisn (“La Creazione Originaria”), -testo pahlavico di età sassanide che fornisce ampie informazioni sui miti e le credenze della religione mazdaica e sulla civiltà iranica pre-islamica-, in alcune parti è descritto come uccello che depone le uova, in altre come una sorta di pipistrello, che riunisce in sé le caratteristiche del cane, della talpa e dell’uccello, poiché vola come quest’ultimo, ha i denti simili a quelli di un cane e scava una tana come la talpa.

Alla fine del periodo sassanide e poi nell’Iran islamico Simurgh riacquista però una natura e un aspetto prettamente ornitico e nelle figurazioni pittoriche e plastiche appare simile al pavone o al gallo, o a un ibrido tra i due con elementi propri anche dei rapaci (becco, artigli).

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Gli Uccelli davanti a Simurgh.

Simurgh è poi il protagonista, nel significato mistico ed allegorico che la sua figura aveva sempre più assunto, del poema “Il Verbo degli Uccelli” (“Mantiq at.Tahir”), del poeta persiano Farid ad-Din Attar (1142-1220), pubblicato nel 1177. In esso si narra che tutti gli uccelli del mondo si riunirono per stabilire chi tra essi dovesse diventare il loro re. L’ùpupa, il più saggio tra di essi (2), afferma che l’unico che potrà degnamente divenire il loro capo è il leggendario Simurgh, e li convince a partire alla ricerca del misterioso volatile che incarna l’essenza dell’universo e che vive sulle vette del misterioso monte Qaf. Nella interminabile peregrinazione che dovrà condurli al cospetto del loro futuro sovrano si trovano a dover attraversare sette valli: la valle della ricerca (Talab), quella della carità (Eshq), quella della conoscenza (Marifat), del distacco (Istighnah), dell’unità (Tawhid), dello stupore (Heyrat) e infine la valle della privazione e dell’annullamento in Dio (Fuqur wa Fana). La maggior parte degli uccelli soccombe durante il lungo viaggio; solo trenta sopravvivono e raggiungono infine al castello posto sopra un’alta montagna dove vive Simurgh. Ma quando entrano in quella che dovrebbe essere la dimora del misterioso pennuto, si trovano in un’ampia sala tutta rivestita di specchi, dove essi vedono la loro immagine riflessa all’infinito. Nel finale l’omofonia tra il nome dell’uccello e l’espressione persiana “si murgh” (trenta uccelli) vuole svelare questa identificazione tra il volatile simbolo dello Spirito Universale e gli eletti che riescono a comprenderne la presenza in sé stessi.

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Un’ùpupa (Upupa epops).

Nella storia principale si inseriscono altresì altri brevi racconti, che si possono considerare apologhi e parabole, con intento didattico e parenetico, che completano l’insegnamento mistico del poema e ne chiariscono il significato profondo

Di questa storia suggestiva e densa di insegnamenti esistono anche delle versioni più semplici e ridotte tramandate nella narrativa popolare persiana e di altri paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale, una delle quali è la seguente:

In una selva ombrosa sulle pendici di un’amena collina viveva un tempo il popolo degli Uccelli. molti percoli minavano la loro esistenza e tra di essi si manifestavano sempre più rivalità e discordie.

Un giorno l’uccello più vecchio, con la testa spelacchiata e le zampe raggranchite cominciò a intonare un insolito canto, solenne e ammonitore, con il quale intendeva rinnovare nei suoi concittadini la memoria e la coscienza della loro antica grandezza: “Guai a voi uccelli della foresta! Voi avvolti nelle tenebre dell’avidità, della stoltezza, delle liti insensate! Nascete e morite senza sapere il perché. Eppure voi, popolo degli Uccelli siete destinati alla Grande Opera!”.

Gli uccelli chiesero al loro compagno che così profetava quale mai fosse la Grande Opera: “Che cosa è questa Grande Opera? Non bastano forse i guai e le fatiche che tutti i giorni dobbiamo affrontare per sopravvivere?”. L’anziano uccello sbattè gli occhietti e disse con tono severo: “Dunque ve ne siete dimenticati. L’esilio comincia con l’oblio, la rimembranza è l’inizio della redenzione!”. Gli uccelli si guardavo l’un l’altro esterrefatti e increduli per quanto andava proclamando quel savio pennuto, il quale così continuò: “Non ricordate la piuma d’oro che cadde dal cielo? Noi, popolo degli Uccelli, abitanti dell’aria, e della terra, dobbiamo trovare Simurgh”.

Una piccola capinera con voce esile ed esitante chiese: “Ma chi è Simurgh? E dove lo dovremmo trovare?”. “Simurgh è l’uccello d’oro” rispose l’anziano volatile. “Egli è lo splendore dell’universo.270px-Conference_of_the_birds Le sue piume rifulgono dei colori dell’arcobaleno; la sua coda meravigliosa oscilla con tenui e armoniosi movimenti e spande intorno a sé una luce dorata. La sua voce è così melodiosa che tutte le creature ammutoliscono per ascoltarlo, ammaliate dal suo canto. Egli è il nostro re! Ecco la sua piuma!”. E così dicendo mostrò loro una piuma sfavillante.

Da quel momento gli uccelli consacrarono tutti i loro sforzi alla ricerca di Simurgh: alcuni si diressero verso est, altri ad ovest, altri ancora a nord o a sud. Gli altri animali chiamavano gli uccelli “il popolo di Simurgh” e li consideravano impazziti. La ricerca durò per anni e d anni, e in quella finora vana attesa di trovare Simurgh si consumavano i secoli e le generazioni e molti uccelli stremati e stanchi avevano rinunciato a raggiungere la meta che si erano prefissi, così che lo stuolo immenso di uccelli che erano partiti si era vieppiù assottigliato. Un gruppo ardimentoso e ormai sparuto di animosi volatili persistette però nell’affannosa, e già quasi disperata, ricerca. Il profeta pennuto che aveva additato loro questa meta, prima di morire, aveva raccontato che Simurgh nidificava sull’albero del bene  e del male, e che, pur assomigliando vagamente al pavone, non aveva nulla in comune con lui. La sua dimora era il “Kaff”, la grande cordigliera circolare che costituisce il confine del mondo, al di là di sette oceani inaccessibili.

“Tentiamo ancora” dissero, “se tra un mese e un  giorno non avremo trovato l’uccello dello splendore, desisteremo”. Lo stormo era composto da più di mille uccelli, tutti determinati a conseguire l’oggetto della loro ricerca.

Dopo non molto si trovarono a sorvolare un mare grigio e oscuro: era il mare dell’Oblio; alcuni non riuscirono a superarlo e tornarono indietro. Altri toccarono terra, ma ben presto un altro oceano apparve sotto le loro ali: il mare della Solitudine. Solo alcuni lo attraversarono: lo stormo si assottigliava sempre di più, gli uccelli rimasti erano meno di trecento, quando giunsero al mare di Sangue. Era così caldo che molti di essi morirono durante la trasvolata a causa delle sue venefiche esalazioni.Foto4

Ma anche chi era riuscito a superarlo sapeva che un altro ostacolo lo aspettava: un mare amarissimo, il mare delle Lacrime, che si estendeva a perdita d’occhio… Poi lo stormo, ormai decimato, dovete attraversare l’oceano delle Voci: sembrò loro che amici e parenti li chiamassero sussurrando: “Tornate! Tornate! Tornate!”; e molti infatti non seppero resistere alle voci che si levavano da quel mare insidioso e tornarono indietro.

Giunsero quindi al sesto mare, quello della Vertigine: correnti d’aria impetuose facevano precipitare gli uccelli ardimentosi che tentavano di trasvolare quel mare periglioso opponendosi con tutte le loro forze agli arei vortici: sembrava loro di volare non più in avanti, ma in verticale.

Superata anche questa difficilissima prova, arrivarono infine al settimo mare, quello dell’Annullamento, che era l’ultimo ostacolo; l’acqua era cristallina, limpida, biancastra: essi volavano, ma avevano la sensazione di rimanere sempre fermi.

Lo stormo di intrepidi uccelli da mille si era ridotto ad una trentina. essi erano riusciti a ad attraversare quei sette mari densi; avevano affrontato fatiche, pericoli e insidie al limite estremo delle loro possibilità, erano sfuggiti a stento alla morte. Ma ora finalmente erano giunti alla fine del loro impervio cammino: davanti a loro occhi si innalzava la montagna dello splendore, sul quale si apriva il giardino delle meraviglie ed in esso la reggia di Simurgh.

Quando, quasi increduli di aver ottenuto quello che bramavano, entrarono nel palazzo, si trovarono in una immensa sala, tutta rivestita di specchi, che rimandavano all’infinito l’immagine di trenta uccelli spauriti, stremati, sfiniti da quell’interminabile viaggio… Allora essi compresero: essi stessi erano Simurgh, e Simurgh era ciascuno di essi e tutti loro.

Come possiamo notare, in questo racconto le sette valli che gli uccelli devono attraversare per giungere all’agognata meta divengono, in maniera forse visivamente ed icasticamente più efficace, sette mari inaccessibili e che richiamano esperienze e sofferenze esistenziali, oltre che stati mentali e di coscienza.

Inoltre la descrizione dell’uccello dello splendore, di Simurgh che il pennuto anziano e saggio espone nella sua esortazione ai compagni ad intraprendere la strada della sua ricerca, pur se generica, senza dubbio rimembra assai l’aspetto sfavillante e variopinto della Fenice nella tradizione occidentale; tanto che si può affermare che le due figure, sebbene la loro origine sia diversa e indipendente l’una dall’altra, si siano in qualche modo influenzate reciprocamente, sia nell’aspetto, sia nel simbolismo mistico.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

Note

1) tra gli altri esseri mostruosi da lui annientati ricordiamo il drago Srovar, il lupo Peshan (il quale a sua volta è simile al lupo Fenrir della mitologia germanica) e il demone delle acque Gandharva. Quest’ultimo si si ritrova anche nei Veda, i testi sacri Indu, come divinità minore, poi divenuta capostipite di una classe di spiriti). Alle imprese del  mitico eroe persiano si è ispirato in anni recenti un video-gioco inventato in Iran.

2) la fama dell’Upupa (Upupa Epops) nelle antiche tradizioni del vicino e medio Oriente, e in particolare nel mondo islamico, è attestata da diverse leggende, delle quali si ha un’eco anche nel Corano, laddove nella sura XXVII (vv. 22-44) si parla dell’upupa che per prima descrisse a re Salomone (Sulayman) le meraviglie del regno di Saba e della sua regina, -chiamata Balkis, -o Belkis-, nel testo coranico (mentre nella Bibbia non se ne cita il nome)-, e fece poi da intermediaria e messaggera tra i due fino alla visita compiuta da Balkis al sovrano israelita.

In un testo del mistico iraniano Fadlallah al-Astarabadi (1340-1394), questi afferma di aver fatto un sogno nel quale mentre si trovava nel giardino della sua dimora di Astarabad gli apparve Salomone; al richiamo di costui giunse un’upupa, la quale a sua volta condusse un corvo. Per comando di Salomone, il corvo fu spennato e gettato implume oltre il muro di cinta del giardino, Secondo l’interpretazione data dal mistico, Salomone rappresentava Dio, l’Upupa lo Spirito (“Rukh”) e il Corvo l’Anima (“Nafs”).

Nella famosa commedia di Aristofane “Gli Uccelli”, l’Upupa è presentata come una sorta di capo dei pennuti, ai quali i protagonisti dell’opera, gli ateniesi Pistetero ed Evèlpide (nomi che Ettore Romagnoli nella sua pregevole traduzione italiana rese come “Gabbacompagni” e “Sperabene”), si rivolgono affinché persuada gli altri volatili a fondare con loro una mirabile città posta tra Cielo e Terra che dovrà intercettare le offerte dedicate dagli uomini agli dei.

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2 Risposte a “UCCELLI DEL MITO – SIMURGH -educatore degli eroi e simbolo del “Sè” divino-”

  1. Sono brasiliana. Grazie tante – il testo è bellissimo. Ritornerò qui per leggere tutto. Um abraço. Ana

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