SULLA TASSONOMIA DELLE SPECIE ANIMALI E VEGETALI (seconda parte)

A seguito dell’avanzamento degli studi biologici e naturalistici dopo la scomparsa di Linneo, la classificazione da lui ideata fu più volte ritoccata e modificata e alle categorie in essa contemplate altre ne furono aggiunte, quali il “tipo”, che ha il suo fondamento nelle affinità della struttura morfologica delle specie, -e che nel corso del 900, dopo lo sviluppo degli studi genetici venne sostituito dal “philum”, il quale tiene conto soprattutto dei legami filogenetici tra gruppi diversi, ma accomunate da una comune discendenza-, che comprende diverse classi; la “sottoclasse”, che riunisce diversi ordini; la “famiglia”, introdotta quale gruppo intermedio tra l’ordine e il genere, e che divenne una delle più importanti specificazioni tassonomiche (e quella più frequentemente presa in considerazione ed impiegata dai profani, anche a sproposito).

Con la conoscenza sempre più approfondita delle diversità biologiche degli animali e delle piante e delle modalità di trasmissione dei caratteri ereditari dai genitori ai figli, i naturalisti conclusero che le varie specie non sono effetto di una creazione “ex nihilo”, ma piuttosto il risultato di variazioni ereditarie verificatesi nelle differenti linee di discendenza da antenati comuni, attraverso una lunga serie di processi evolutivi. Per esprimere con maggiore precisione la parentela derivante dalla comune discendenza, gli studiosi di tassonomia, come si è detto sopra, ritennero necessario aggiornare la classificazione istituita da Linneo, per cui i principali gruppi sistematici attualmente in uso, elencati secondo un ordine crescente di affinità, -dal più vasto al più esiguo- sono i seguenti: REGNO (REGNUM), PHILUM (TIPO) -DIVISIONE per le Piante-, CLASSE (CLASSIS), ORDINE (ORDO), FAMIGLIA (FAMILIA), GENERE (GENUS), SPECIE (SPECIES). Molto spesso gli studiosi hanno ritenuto opportuno adottare dei gradini intermedi nella gerarchia, che di solito sono indicati aggiungendo i prefissi “sopra”, “sotto”, “infra” ai nomi delle sette categorie sopra elencate; talora si trovano anche i termini “sezione”, “coorte” e “tribù” per descrivere altri livelli intermedi. A differenza però dei sette gradi fondamentali della tassonomia vegetale e animale, tali sottogruppi non sono riconosciuti da tutti i botanici e gli zoologi; inoltre, anche quando vengono accettati, raramente un organismo vivente viene collocato entro tutte le categorie secondarie intermedie che compongono la sequenza completa, che si può riassumere nel seguente elenco: REGNO, sottoregno, infraregno, sezione, coorte, TIPO (DIVISIONE), sottotipo (sottodivisione), superclasse, CLASSE, sottoclasse, infraclasse, tribù, superordine, ORDINE, sottordine, infraordine, superfamiglia, FAMIGLIA, sottofamiglia, GENERE, SPECIE, sottospecie.

Precisiamo che è definito “taxon”, -plurale “taxa”-, (da cui “tassonomia”) qualunque raggruppamento di organismi abbastanza distinto dagli altri da poter ricevere una propria denominazione entro la gerarchia sopra esposta; il “taxon” designa il contenuto della categoria e si riferisce ad esseri viventi considerati in concreto (mentre la categoria sistematica è un’astrazione). “Categoria sistematica” è il grado che viene attribuito a un “taxon” nell’ambito della classificazione istituita da Linneo (e poi modificata e approfondita). Ad esempio i Mammiferi sono un “taxon”; la loro categoria sistematica è la “classe”; i Perissodattili sono essi pure un “taxon”, ma la categoria sistematica è l'”ordine” (quello a cui appartiene la famiglia degli Equidi).

Una “specie” è una popolazione, o un gruppo di popolazioni, costituita da individui i quali, nel loro habitat naturale, possono effettivamente o potenzialmente incrociarsi, generando discendenti fertili: questa peculiarità è ritenuta la prova che essi sono legati da una stretta parentela genetica. Sebbene i singoli individui appartenenti ad una data popolazione possano manifestare notevoli differenze esteriori, temporanee o permanenti, a seconda dell’età, del sesso, delle condizioni climatiche e di altri fattori, codesta circostanza non infirma l’unità della specie di cui fanno parte, e che è attestata dalla loro capacità di riprodursi con il connubio tra di essi. Peraltro tali variazioni devono sempre essere oggetto di attento studio da parte dei naturalisti per poter stabilire con certezza l’appartenenza di un individuo ad una determinata specie.

“Specie” si può altrimenti definire come un insieme di individui dai caratteri morfologici simili fra di essi più di quanto non siano rispetto ad altri gruppi di individui, caratteri dovuti ad un patrimonio genetico comune stabile e trasmissibile alla discendenza.

Un “genere” è un gruppo di specie che mostrano strette affinità filogenetiche: infatti i membri delle diverse specie di un dato genere hanno una maggior quantità di aspetti morfologici, anatomici e funzionali comuni che diversi; e d’altro canto hanno più caratteri in comune l’un l’altro di quanti ne abbiano con specie di altro genere, pur se affine.

Una “famiglia” comprende un insieme di generi imparentati, ovvero aventi un cospicuo numero di caratteri ereditari comuni; un “ordine” è costituito da più famiglie affini; una “classe” riunisce un gruppo di ordini che presentano delle significative omologie; mentre il “phylum” e la “divisione”, -come abbiamo detto in precedenza- raggruppano tutti gli organismi, animali o vegetali, in cui si ravvisi in modo evidente la medesima struttura anatomica, morfologica e funzionale.

Lo studio della tassonomia e i tentativi di costruire una classificazione degli esseri viventi secondo criteri obiettivi di affinità derivanti dalla discendenza di diversi gruppi da antenati comuni progressivamente differenziatisi, ha incontrato e incontra non di rado difficoltà ed ostacoli. Infatti la ricostruzione della filogenesi di molti animali e piante presenta spesso numerose lacune, specialmente quanto più si risalga nel tempo ad ere geologiche remote le cui testimonianze biologiche, costituite per lo più da fossili, sono scarse ed incomplete, spesso insufficienti per poter riconoscere con accettabile approssimazione l’intera storia dei gruppi vegetali e animali.

Pertanto la carenza di  informazioni adeguate e di dati accertabili con obiettività e sicurezza induce gli studiosi di tassonomia a fare affidamento soprattutto sulle rassomiglianze anatomiche e morfologiche fra gli organismi viventi per determinarne la parentela biologica.

Ma le rassomiglianze, anche notevoli, non sono sempre il risultato di reali affinità; mentre d’altra parte animali o piante strettamente imparentati, talvolta persino membri della medesima specie, possono differire alquanto nel loro aspetto fisico esterno. Infatti spesso organismi non affini, ma viventi in habitat simili, avendo analoghe abitudini e dovendo affrontare situazioni e difficoltà di sopravvivenza non molto diverse possono sviluppare un’evoluzione convergente e mostrare dunque non poche similitudini esteriori.

Per poter dunque operare una valida classificazione è d’uopo distinguere tra diverse forme di somiglianza, quelle puramente estrinseche e quelle dovute all’ereditarietà.

L'”omologia” è la somiglianza tra individui (o parti di essi) che derivano da antenati comuni e nella quale si manifesta una reale affinità. Se si esamina la struttura degli arti in un uomo e in un gatto, si potrà constatare che il numero, le dimensioni relative e l’ordinamento delle ossa sono simili. Significative corrispondenze trovansi pure nell’origine embrionale di codesti arti, e in varia misura nei muscoli, nervi e vasi sanguigni ivi presenti. Tali somiglianze mostrano con indiscutibile chiarezza che il braccio umano e la zampa anteriore di un felino sono strutture omologhe, sebbene le funzioni delle due appendici siano dissimili: l’arto anteriore del gatto viene usato principalmente per la locomozione e solo in via secondaria per afferrare e trattenere oggetti, mentre il braccio dell’uomo è impiegato in modo quasi esclusivo per la seconda funzione. Simili omologie possono vedersi nelle ossa dell’arto anteriore di una balena, di un uccello, di un rospo, di uno squalo, per quanto essi adempiano ad una multiforme varietà di funzioni comprendenti la deambulazione, il volo e il nuoto. Le omologie possono riconoscersi in molte altre strutture di Vertebrati e Invertebrati.

“Analogia”, -più di rado detta anche “omoplasia”-, è invece il termine applicato alla somiglianza di funzione quando essa non sia dovuta ad una comune origine, ma derivi da un processo adattativo che ha condotto ad una similare evoluzione di un membro o di un organo. Spesso, ma non sempre, le strutture analoghe evidenziano alquante apparenti uguaglianze esteriori: le ali delle Farfalle, ad esempio, sono analoghe, ma non omologhe, di quelle degli Uccelli e dei Pipistrelli; l’arto raptatore della Mantide religiosa e il braccio umano mostrano affinità nella struttura d’insieme ed essendo ambedue impiegati per afferrare e trattenere oggetti, anche nella funzione che svolgono. Poiché le appendici corporee si originano in maniera del tutto diversa negli Insetti e nei Vertebrati, tali articolazioni sono tra di esse analoghe, ma assolutamente non omologhe. Nel mondo dei vegetali, un esempio significativo è quello offerto dal fusto e dalle foglie succulente delle piante appartenenti alla famiglia delle Euforbiacee viventi nel continente antico e in parallelo da quelle proprie della famiglia delle Cactacee nel continente nuovo, sviluppatesi in modo analogo in ambienti ugualmente aridi e semidesertici, originandosi da progenitori alquanto distanti nell’albero filogenetico.

Come si è accennato sopra, l’età, il sesso e le differenze genetiche possono produrre enormi diversità tra i membri di una medesima specie. E’ del tutto normale che i diversi stadi di sviluppo degli individui determino fondamentali -ed entro certi limiti ovvie- differenze nelle dimensioni e nella forma tra piccoli, giovani e adulti.

Femmina, maschio (con le corna a palchi) e piccolo di Cervo pomellato (Axis axis).

Queste differenze sono tanto più accentuate in quegli animali che si sviluppano con un ciclo vitale complesso, così che non di rado le somiglianze fra i diversi stadi sono scarsissime, o addirittura inesistenti. Senza uno studio scientifico, o quanto meno una prolugata e attenta osservazione, non si riuscirebbe a trovare alcuna relazione tra la larva, la pupa e l’immagine (cioè l’adulto) dei Lepidotteri, che appaiono, e in effetti sono, assai diverse; le differenze morfologiche che appaiono durante il ciclo vitale di molti parassiti sono ancora più pronunciate, tanto che in passato le loro forme larvali sono spesso state attribuite a generi e specie tutt’affatto diverse.

Il “dimorfismo sessuale”, la disuguaglianza tra i caratteri fisici della femmina e del maschio sono di solito piuttosto evidenti, ma in talune specie di animali davvero marcatissime: ad esempio, la presenza nel cervo maschio di un paio di corna non di rado imponenti nell’età adulta avanzata e la loro assenza nella Cerva femmina è una caratteristica ben nota della loro specie, -così come di moltissimi animali Artiodattili dotati di corna-. Ma le differenze tra individui di sesso diverso si complica assai in alcuni gruppi animali, e segnatamente negli Insetti sociali -quali Api, Formiche, Termiti-, nei quali si riscontra un “polimorfismo sessuale”, poiché oltre al dimorfismo tra maschi e femmine, in molte specie compare pure il dimorfismo tra individui sterili (operaie, soldati) ed individui fecondi (regine, re, fuchi).

Ma pure in gruppi di animali della medesima età e sesso, si possono osservare sostanziali difformità tra esemplari diversi da attribuire all’azione di geni particolari: tale polimorfismo genetico può causare una notevole dissomiglianza tra soggetti appartenenti alla stessa specie.

Infine non si deve tralasciare il fatto che molti animali presentano un aspetto diverso a seconda della stagione (dimorfismo stagionale); tipica in particolare la caratteristica propria di alquanti Mammiferi e Uccelli viventi ad elevate latitudini ovvero in alta montagna che durante l’inverno cambiano la loro livrea assumendo una pelliccia o un piumaggio quasi completamente bianco, onde mimetizzarsi con l’ambiente circostante innevato, -ad esempio l’Ermellino (Mustela ermìnea), la Lepre alpina (Lepus timidus Varronis) e la Pernice bianca (Lagopus mutus helveticus).

Come abbiamo detto nella prima parte della presenta trattazione, con l’approfondirsi delle ricerche e l’ampliarsi delle conoscenze, che specie negli ultimi due secoli hanno consentito di riconoscere e denominare uno sterminato numero di organismi vegetali e animali, fu fortemente avvertita la necessità di adottare regole univoche a cui la nomenclatura scientifica debba attenersi.

Pertanto, in merito agli Animali, nel corso del IV Congresso Internazionale di Zoologia del 1898 fu istituita una commissione permanente per la nomenclatura, che fu incaricata di redigere un insieme di norme concernenti la nomenclatura e atte a predisporre un giudizio super partes nel caso di controversie relative sia alla priorità della scoperta di una specie nuova, sia all’attribuzione di una specie nota ad altra specie o altro genere, sia alla individuazione dei caratteri determinanti di nuovi raggruppamento zoologici. La commissione preparò allora un Codice Internazionale di Nomenclatura che fu approvato durante il successivo congresso zoologico internazionale svoltosi a Berlino nel 1901 e che, pur avendo subito alcune revisioni, nelle linee fondamentali rimane tuttora il punto di riferimento della nomenclatura zoologica.

La nomenclatura viene aggiornata ogni sei anni; per tutti gli eventuali nuovi “taxa” e le nuove specie è indispensabile produrre la “diagnosi”, -ossia la descrizione accurata-, in lingua latina, la documentazione che siano stati effettivamente pubblicati i risultati degli studi che hanno condotto alla scoperta e l’indicazione dell’olotipo (l’esemplare “standard” sulle caratteristiche del quale è stata descritta per la prima volta una specie e che è considerato il rappresentante di riferimento della specie stessa).

Le regole contenute nel Codice possono essere riassunte in forma semplificata nei seguenti punti:

1)la denominazione degli Animali è uninominale per i sottogeneri e per tutti i gruppi ad essi superiori; binominale per le specie; trinominale per le sottospecie;

2) vengono impiegate parole latine o latinizzate, oppure considerate e trattate come tali, nel caso non siano di origine classica (1);

3) il nome generico consiste in una parola unica, scritta con iniziale maiuscola e usata come sostantivo al nominativo singolare;

4) allorché un genere è diviso in sottogeneri, il sottogenere tipico -che è di solito il più diffuso, o comunque quello conosciuto e studiato per primo- porta il medesimo nome del genere, il nome sottogenerico si scrive tra parentesi e maiuscolo fra quello generico e quello specifico: ad es., “Luria (Luria) lurida” (si tratta di un mollusco conchifero appartenente alla famiglia dei Cipreidi);

5) i nomi di specie e sottospecie si scrivono con iniziale minuscola uno di seguito all’altro, accordandoli sul piano grammaticale al nome generico: “Luria (Luria) lurida lurida”:

Gasteropodo “Luria lurida” presente nel Mar Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico centrale.

6) si considera autore di un nome scientifico colui che per primo lo ha pubblicato con una definizione o una descrizione, il nome dell’autore si cita scrivendolo di seguito al nome scientifico: ad es. “Murex (Bolinus) brandaris” Linneo;

7) quando in seguito a studi più approfonditi si ritiene opportuno trasferire una specie da un genere ad un altro, il nome dell’autore del nome specifico si conserva nella notazione ma posto tra parentesi: “Cypraea lurida” Linneo passa a “Luria (Luria) lurida” (Linneo);

8) con la decima edizione del “Systema Naturae” di Linneo si inizia l’applicazione generale della nomenclatura binominale in zoologia: la data di pubblicazione di quest’opera pertanto, -nel 1758-, è presa come punto di partenza per le eventuali questioni di priorità tra gli autori; non viene ammesso alcun nome antecedente, che non sia stato ripreso o confermato in tale libro;

9) il nome di una famiglia si forma aggiungendo la desinenza “-idae” alla radice del nome di uno dei generi del gruppo ( di solito quello ritenuto più rappresentativo perché più conosciuto, più diffuso o studiato per primo). Per comporre il nome delle sottofamiglie si aggiunge la desinenza “-inae” alla radice del genere preso come tipico della sottofamiglia stessa.

Nel Codice Internazionale di Nomenclatura si precisa inoltre che nel Regno Animale due generi distinti non possono avere lo stesso nome e similmente nell’ambito di un dato genere a due specie non può essere attribuita la medesima denominazione. Essendo peraltro i nomi botanici e zoologici distinti, un medesimo nome potrebbe in teoria essere attribuito sia a Piante sia ad Animali, ma questa pratica è vivamente sconsigliata.

A differenza della tassonomia animale, i cui “taxa”, ad eccezione delle famiglie e sottofamiglie, -come abbiano visto sopra-, hanno denominazioni liberamente scelte (di solito però sulla base di una consolidata e antica tradizione)(2), le categorie della tassonomia vegetale sono quasi tutte determinate da suffissi prestabiliti, che sono i seguenti:

per la divisione “-PHYTA”; per la sottodivisione “-PHYTINA”; per la classe “-OPSIDA”; per la sottoclasse “-IDAE”; per il superordine “-ANAE”; per l’ordine “-ALES”; per il sottordine “-NEAE”; per l’infraordine “-ARIA”; per la superfamiglia “-ACEA”; per la famiglia “-ACEAE”; per la sottofamiglia “-OIDEAE”; per la tribù “-EAE” (come si può notare, tali nomi sono in parte di genere femminile, in parte, -quelli delle divisioni, sottodivisioni, classi, infraordini e superfamiglie-, di genere neutro.

Come per gli animali tuttavia è raro che una specie vegetale venga classificata entro tutte codeste categorie sistematiche. Per quanto riguarda ad esempio la Rosa, la sua posizione sistematica è così definita: regno: PLANTAE; divisione: MAGNOLIOPHYTA; classe: MAGNOLIOPSIDA; ordine: ROSALES; famiglia: ROSACEAE ;sottofamiglia: ROSOIDEAE; genere: ROSA; specie: CANINA (e molte altre specie: Gallica; Centifolia, Damascena; Tea; ecc.).

Osserviamo inoltre che nelle classificazioni recenti, in particolare quella proposta nel 1966 dall’insigne botanico russo-armeno Armen Leònovic Takhtajan (1910-2009), le divisioni PINOPHYTA, GINGKGOPHYTA, CYCADOPHYTA e GNETOPHYTA hanno sostituito l’ampia divisione delle GIMNOSPERME delle classificazioni antiche, mentre la divisione delle MAGNOLIOPHYTA sostituisce quella delle ANGIOSPERME, e si suddivide a sua volta nelle due vaste classi delle LILIOPSIDA (già dette “Monocotiledoni”) e delle MAGNOLIOPSIDA (prima “Dicotiledoni”).

Dopo la svolta impressa da Linneo agli studi biologici e ai criteri di classificazione del mondo animale e vegetale, gli sviluppi principali della botanica e soprattutto della zoologia si ebbero a seguito dell’apparizione delle dottrine evoluzionistiche elaborate da J. B. de Lamarck (1744-1829) e da C. Darwin (1809-1882); in seguito con la scoperta dei meccanismi che governano la trasmissione dei caratteri genetici ereditari ad opera di J. G. Mendel (1822-1884). Queste teorie e scoperte influenzarono profondamente e furono anzi i fattori determinanti nelle aggiunte e modifiche alla sistemazione tassonomica degli esseri viventi.

Come abbiamo visto in precedenza una vaga intuizione di un principio evoluzionistico era già presente negli autori classici, in particolare in Aristotele, per il quale tutti gli esseri, benché creati in modo distinto gli uni dagli altri, avevano subito un certo numero di cambiamenti e adattamenti prima di assumere la forma definitiva, ed anche successivamente potevano in parte modificarsi sebbene in misura minima in conseguenza delle abitudini e delle esperienze di vita acquisite. Tale convinzione rimase in pratica immutata fino al XVIII secolo, quando sulla scia delle scoperte e intuizioni di Linneo, cominciarono ad affacciarsi le prime teorie complesse sull’evoluzione degli esseri viventi, non solo come mutamento di creature semplici in altre sempre più complesse, ma pure come loro differenziazione e specializzazione nella morfologia e nel comportamento, e dunque non solo in senso “verticale”, ma anche “orizzontale”, così che l’insieme degli esseri viventi appariva non più come una “scala”, ma come un “albero” che nella sua crescita diventa sempre più ramificato.

Com’è noto, la differenza principale tra la teoria evoluzionistica di Lamarck e quella darwiniana è che per il primo l’evoluzione è il risultato della trasmissione ereditaria di caratteri acquisiti dai membri di una specie in conseguenza di comportamenti da essi adottati per meglio soddisfare le loro esigenze; per Darwin invece l’evoluzione deriva, o meglio si attua attraverso la “selezione naturale” tra gli individui di una determinata specie. Questa ipotesi presuppone che nell’ambito di una medesima specie compaiano periodicamente delle “variazioni” (3), che possono essere più o meno propizie all’esistenza nell’ambiente frequentato da essa: gli individui in cui si manifestano le nuove caratteristiche favorevoli sopravvivono e le perpetuano nelle future generazioni, mente gli altri tendono a scomparire.

In particolare, nella “teoria dell’eredità dei caratteri acquisiti” elaborata da Lamarck l’evoluzione procederebbe con i seguenti passi: 1) gli esseri viventi e le parti che li costituiscono tendono spontaneamente ad assumere strutture più complesse e ad aumentare le loro dimensioni; 2) qualora un organo venga adoperato con frequenza e intensità si accrescerà e diverrà più robusto ed efficiente; al contrario se il suo uso sarà ridotto, venendo addirittura a mancare del tutto, si produrrà l’atrofizzazione dell’organo stesso; 3) lo sviluppo di un nuovo organo deriva da una sopravvenuta necessità e dai movimenti ed attività che essa determina e mantiene; 4) i mutamenti causati dai suddetti principi durante la vita del singolo organismo vengono ereditate dalla prole, con la conseguenza che tali mutamenti si sommano tra di loro nel corso del tempo. Famoso è l’esempio citato dal Lamarck delle Giraffe: esse in origine avrebbero avuto il collo di lunghezza “normale”, ma poi nel tentativo di brucare le foglie dai rami alti degli alberi si sarebbero sforzate con crescente intensità di allungare il collo, e il risultato di questo sforzo protrattosi per millenni sarebbe l’attuale configurazione morfologica dell’animale, poiché i graduali mutamenti acquisiti sarebbero stati trasmessi alla discendenza.

I presupposti della teoria darwiniana della “selezione naturale” sono invece: 1) nascono molti più esemplari vegetali e animali di quanti ne sopravvivano e giungano alla maturità; 2) nell’ambito di ciascuna specie si producono incessantemente variazioni individuali di ogni sorta e di vario grado; 3) fra le diverse varianti riscontrabili si instaura una competizione e in seguito alla selezione naturale che ne deriva si ottiene la conservazione degli esemplari che abbiano acquisito i caratteri più favorevoli per prosperare nell’ambiente in cui devono vivere.

Celeberrimo esempio del modo in cui dovrebbe agire l’evoluzione darwiniana è quello offerto dai “Fringuelli delle isole Galapagos” (i quali in effetti non sono propriamente “fringuelli” come quelli europei, ma uccellini appartenenti alla sottofamiglia dei Geospizini, compresa a sua volta nella famiglia dei Traupidi e nell’ordine dei Passeriformi) dal cui studio il naturalista britannico trasse l’ispirazione per formulare la sue teoria. Da un unica specie di “Fringuello” giunta sull’arcipelago dal continente americano si sarebbero via via differenziate specie diverse in ciascuna isola in conseguenza dell’adattamento alle diversità ambientali e al differente tipo di alimentazione adottato da esse (insettivora, frugivora, granivora, ecc.).

Dobbiamo peraltro precisare che Darwin nella sua opera sottolineò soprattutto il principio di “adattamento all’ambiente” e la “lotta per l’esistenza” era per lui soprattutto uno sforzo, compiuto dalle specie e dai singoli individui, per sopravvivere agli agenti ostili e adeguare il modo di vita alle condizioni esterne. Fu negli sviluppi successivi del darwinismo e nell’impostazione impressa da alcuni discepoli di Darwin (come H. Spencer) alla dottrina originale del loro maestro che divenne determinante l’dea della “supremazia del più forte”, e del conflitto interspecifico e interindividuale, ritenuta poi a torto la sintesi del pensiero di Darwin. In effetti per quest’ultimo non sopravvive il più forte, ma il più adattabile, e, nei gradini superiori della scala biologica, il più intelligente.

E’ bene, -anzi è indispensabile-, avere chiaro che l’evoluzione darwiniana è una teoria scientifica e dunque, come qualsiasi teoria scientifica, può essere accettata o respinta in tutto o in parte, ma è assolutamente improprio trarre da essa indebite inferenze “metafisiche”, -nel senso etimologico del termine-, cioè che vadano oltre la “fisica”, che travalichino il campo della natura materiale, il solo dove la scienza è competente. Essa propone una spiegazione sul “come” (che è il dominio della scienza, della “fisica” in senso aristotelico), non sul “perché” (che è il dominio della filosofia, della “metafisica”), e nemmeno può spiegare in che modo sia iniziato e si sia sviluppato l’affascinante fenomeno detto “vita”: pertanto non può entrare in contraddizione o in conflitto con le filosofie spiritualistiche ed idealistiche (a meno queste non invadano a loro volta il campo della scienza)(4)(5).

D’altro canto è più che evidente che, se si adotta una concezione rigorosamente meccanicistica dei fenomeni naturali, o di qualunque aspetto del reale, che sarebbero dunque una concatenazione predeterminata di eventi necessari, non si riesce a comprendere a quali fattori sarebbero da attribuire le “variazioni” (nella versione originaria di Darwin) o le “mutazioni genetiche” (nella forma attuale del “neodarwinismo”) che starebbero alla base dei meccanismi dell’evoluzione e che dunque verrebbero apportati da cause sconosciute o non identificate. Allo stesso modo sarebbe difficile spiegare in modo scientifico per quale ragione nell’economia funzionale della natura da poche forme viventi inziali si sia sviluppato un numero esorbitante di specie animali e vegetali (la “biodiversità”) enormemente superiore alle necessità sia della complessa rete della Natura, sia dei singoli ecosistemi.

Come tutte le teorie scientifiche del passato, del presente e del futuro, che abbiano una coerenza logica e siano suffragate da dati verificabili e verificati (per quanto i dati “oggettivi” di necessità debbano venire interpretati e non abbiano una valenza probante in sé stessi), il darwinismo, -o meglio il “neodarwinismo”, poiché la teoria del grande naturalista nella sua forma originaria è ormai da tutti considerata superata-, è valido come “ipotesi di lavoro”, che contribuisce ad apportare luce su un aspetto della dimensione fisica dell’esistenza e offre strumenti al progredire della scienza biologica, ma non certo come una “verità assoluta”, una conoscenza indiscutibile e acquisita una volta per tutte (6).

Circa negli stessi anni in cui C. Darwin elaborava le sue tesi scientifiche, in modo del tutto indipendente un altro scienziato inglese, A. R. Wallace (1823-1913)(7), era giunto a conclusioni pressoché identiche studiando la flora e la fauna dell’Indonesia e dell’Australasia, sebbene nella sua formulazione egli enfatizzasse assai meno del suo collega naturalista la competizione tra specie e sottolineasse invece l’importanza dei condizionamenti e delle pressioni dell’ambiente. Egli durante la sua lunga campagna di studio nelle regioni tra Indocina ed Oceania, -svoltasi tra il 1854 e il 1862-, aveva notato che isole separate da uno stretto braccio di mare erano abitate da specie vegetali e ancor più animali assai diverse: questo braccio di mare che corre tra il Borneo e Celebes (o Sulawezi, come è spesso chiamata attualmente) e tra le isole di Bali e di Lombok nell’arcipelago della Sonda fu chiamato in suo onore “linea di Wallace”; esso divide la regione zoogeografica Orientale, -che comprende l’India, l’Indocina e la Cina meridionale e che è caratterizzata da Tigri, Elefanti, Rinoceronti, Scimmie, Uccelli appartenenti all’ordine dei Galliformi, ecc.- da quella Australiana, in cui dominano i Marsupiali.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) in effetti per i nomi scientifici degli animali e delle piante si è attinto largamente anche dal greco antico, sia con sostantivi e aggettivi di origine classica, sia con neoformazioni moderne attinte dal lessico ellenico. Nel primo caso abbiamo l’uso di nomi greci attribuiti a generi, che però il più delle volte non corrispondono esattamente all’animale con esso designato nell’antichità, il più comune e conosciuto in Europa, per il quale si è preferito il sostantivo latino, ma ad un genere ad esso simile spesso vivente in aree più esotiche: ad es. Alectoris (Gallina o Pernice), Alopex (Volpe), Chelidon (Rondine), Emys (Testuggine d’acqua dolce), ecc. (si confronti “Hriundo rustica” -la Rondine comune- con “Chelidon urbica” -il Balestruccio-). Talora per indicare una specie sono stati accostati il nome latino, -per il genere- e il nome greco -come specifico-: ad es. “Cervus elaphos”, il Cervo nobile, “Ursus arctos”, l’Orso bruno, ecc. Con la sempre più frequente scoperta di nuove specie a partire dell’epoca delle grandi esplorazioni geografiche nei secoli XV e XVI, i naturalisti si sbizzarrirono nell’attribuire ad esse nomi evocatori e significativi del loro aspetto e delle loro qualità e pertanto, specie dal 700 in poi attinsero a piene mano non solo alle lingue umane degli indigeni dei paesi donde provenivano, ma anche e soprattutto alle lingue classiche creando numerose neoformazioni linguistiche, -peraltro non sempre felici-, quali ad esempio “Myrmecophaga trydactila” (“Mangiaformiche con tre dita”, il Formichiere gigante), “Dendrobates leucomelas” (“Camminatore sugli alberi bianco-nero”, Anfibio Batrace della famiglia dei Dendrobatidi), “Heniochus acuminatus” (“Auriga -o cocchiere- appuntito”, Pesce Perciforme della famiglia dei Chetodontidi, cosiddetto per l’alta spina presente nella pinna dorsale assimilata ad un frustino), ecc. Spesso poi i nomi di nuovi generi e specie vegetali e animali furono creati per onorare e tramandare la memoria di scienziati, naturalisti, esploratori, ecc.: ad es. i generi di piante quali “Camelia”, a cui Linneo diede il nome del botanico austriaco Georg J. Kamel (1661-1706) che l’aveva per primo importata in Europa dall’Estremo Oriente; “Cattleya”, il più famoso genere di Orchidee tropicali, dal nome di William Cattley (1788-1835), coltivatore che per primo riuscì a far riprodurre in serra un esemplare di “Cattleya labiata”; “Eschscholtzia” da Johann F. Eschscholtz (1793-1831), botanico ed entomologo russo-tedesco; tra gli animali possiamo ricordare la “Gazzella di Thomson” -“Eudorcas (già “Gazella”) Thomsonii”- che trasse il nome dall’esploratore britannico Joseph Thomson; il “Cacatua di Leadbeater”, -“Lophochroa Leadbeaterii” (il cui nome significa “Ciuffo colorato di L.”), il cui nome ricorda l’ornitologo inglese Benjamin Leadbeater (1760-1837); ecc.

2) osserviamo peraltro che i nomi degli ordini in cui sono suddivise le classi dei Pesci e degli Uccelli terminano sempre con il suffisso “-formes” (“-formi” in italiano: ad es. Perciformi, Gadiformi, Acipenseriformi -Pesci-; Passeriformi, Galliformi, Caradriformi, ecc. -Uccelli-).

3) codeste “variazioni” non sono da confondere con le “mutazioni genetiche” che furono introdotte assai più tardi dopo la scoperta dei “geni” e della loro influenza nella trasmissione ereditaria.

4) la distinzione tra i due piani, -“fisica” e “metafisica”- cominciò a frasi strada a partire dalla cultura greca, in particolare con Aristotele che per primo la introdusse, e si affermò sia nel mondo europeo che in quello arabo islamico. In altri ambiti culturali dell’età antica e pure di epoche più recenti, -quali l’Egitto, la Mesopotamia, l’India, la Cina, l’America precolombiana-, “scienza ” e “religione” si intersecavano e si sovrapponevano in modo quasi inestricabile e le figure del sacerdote e dello scienziato si identificavano. Tuttavia, come risulta evidente, la dicotomia “fisica-metafisica”, chiara in ambito concettuale, talora a livello pratico tende a sfumare così che esistono aree culturali e “corpus” organici di conoscenze intermedi tra le due, poiché congiungono una parte tecnica fisico-scientifica e una parte teorico-interpretativa che si fonda essenzialmente su presupposti filosofici.

5) un esempio celebre e quanto mai significativo di indebita invasione della “metafisica” -in questo caso della religione dogmatica e teistica- nel campo della “fisica” si ebbe con la condanna di Galileo Galilei da parte del Sant’Uffizio e dell’inserimento delle sue opere nell'”indice dei libri proibiti” dalla chiesa cattolica. L’aporia propria di questa interferenza tra piano metafisico-religioso e piano fisico è ulteriormente evidenziata dalla successiva revoca della condanna -sopravvenuta peraltro nel 1825, quasi due secoli dopo la morte del grande scienziato-: che era avvenuto? era diventato vero quello che prima era falso, o la chiesa ammetteva di essersi sbagliata, e in questo caso come si concilia il ripensamento con la sua pretesa di infallibilità? Peraltro un  dogmatismo altrettanto esiziale e deleterio di quello religioso-fideistico è anche il dogmatismo scientista, ovvero la pretesa di dare una spiegazione unitaria ed esaustiva del reale in tutte le sue manifestazione sulla base dei principi scientifici, a cui si congiunge la svalutazione o la negazione di qualunque aspetto del mondo, della natura e dell’uomo che non rientri e non sia inquadrabile entro i suoi schemi.

6) si veda quanto abbiamo detto sulla definizione di “scienza” e l’idea di Karl Popper della conoscenza scientifica nell’articolo su I REGNI DELLA NATURA: IL CERCHIO DELLA VITA E DELLA COSCIENZA, del 14 luglio 2013.

7) di questo scienziato abbiamo già parlato nella quarta parte di MITI E MISTERI DI ATLANTIDE, del 17 gennaio 2015.

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