STORIA MINIMA DELL’IDEA DI DIO NEL PRIMO MILLENNIO CRISTIANO -settima parte (la reazione anti-iconoclasta; l’imperatrice Irene)-

L’imperatore Leone IV, detto “il Càzaro” (1) succeduto al padre nel 775, si mantenne fedele all’iconoclastìa, ma, forse anche per l’influenza moderatrice della consorte, l’imperatrice Irene, che venerava in segreto le immagini sacre, non mise in atto provvedimenti duramente persecutori verso gli iconòduli e la sua azione in campo religioso risultò nei primi anni di regno piuttosto blanda. Ma fu proprio la scoperta di due icone nascoste sotto il cuscino nel giaciglio di Irene a scatenare le ire del sovrano che relegò la moglie in un monastero: da quel momento cominciò di nuovo a infierire la persecuzione contro coloro che veneravano le immagini dei santi.

Poco dopo però, nel 780, Leone IV venne a morte (2) e sul trono di Bisanzio salì il figlio di lui Costatino VI, il quale avendo solo nove anni e non avendo dunque l’età per governare, fu posto sotto la reggenza della madre. Costei iniziò subito ad attenuare la politica iconoclastica, ma agendo con grande prudenza, senza apportare un improvviso e radicale cambiamento, poiché sapeva che i suoi nemici erano ancora assai potenti ed influenti; la sua opera si concretò soprattutto nel rimuovere gradualmente dalle alte cariche della chiesa e dello stato i fautori dell’iconoclastia, sostituendoli con persone di suo gradimento. Questo processo di rinnovamento della classe dirigente laica ed ecclesiastica dell’impero culminò nel 784 con la forzata abdicazione del patriarca Paolo IV, al cui posto venne designato l’iconòdulo Tarasio.

Rilievo in avorio raffigurante l’imperatrice Irene conservato al Museo del Bargello di Firenze.

In effetti dobbiamo sottolineare che gli inizi del regno furono piuttosto difficili per Irene, la quale dovette reprimere la congiura ordita dai cinque fratelli del defunto marito, con la complicità del logoteta del dromos (una sorta di ministro dell’interno) Gregorio e dello stratego di Sicilia Elpidio, per destituire lei e il figlio e imporre sul trono il maggiore di essi Nicèforo.

Nel 782 dovette poi affrontare una nuova guerra contro gli Arabi del califfato di Bagdad i quali sotto la guida di Harun ar-Rashid (“Aronne il ben guidato”), -che è il sovrano protagonista di tante novelle delle “Mille e una notte”-, figlio del califfo abbasside al-Mahdi (e che sarebbe poi divenuto califfo egli stesso nel 786 alla morte del fratello al-Hadi, che aveva regnato un solo anno), avevano invaso l’Anatolia e si erano spinti fino sulle rive del Bosforo alle porte di Costantinopoli. Nonostante la loro marcia vittoriosa però le truppe di Harun al-Rashid si trovavano alquanto isolate e sarebbero state sconfitte se uno dei migliori generali bizantini, l’armeno Tatzates, non avesse defezionato accordandosi con il condottiero arabo, che gli concesse di tornare alla natia Armenia in qualità di governatore. Il tradimento di Tatzates fu attribuito dalle fonti storiche antiche alla sua gelosia nei confronti del ministro Staurakios, il più fidato collaboratore di Irene, comandante dell’esercito bizantino, che fu fatto prigioniero da Harun ar-Rashid e liberato dopo che fu firmata la pace; ma è probabile che egli, fedele al regime iconoclastico, temesse di perdere la sua carica e la sua posizione, e magari di essere imprigionato, avendo avuto sentore del nuovo corso che Irene si apprestava ad inaugurare.

Per liberarsi così dalla pressione araba Irene fu costretta ad accettare un armistizio che contemplava il gravoso versamento di un tributo annuo di ben 90.000 dinari d’oro al califfo di Bagdad. La guerra si concluse con bilancio assai pesante per i Bizantini, poiché gli Arabi avevano compiuto gravi devastazioni e conquistato un ricchissimo bottino che sfiorava i 200.000 dinari d’oro, oltre a provocare crudeli massacri di uomini e animali durante le loro scorrerie; ma con la fine, sebbene poco gloriosa per l’Impero Bizantino, del conflitto, l’imperatrice potè dedicare le sue energie al principale obiettivo a cui mirava, ovvero la restaurazione del culto delle immagini. Inoltre l’esito deludente della campagna militare contro gli Arabi in Anatolia fu compensato, almeno in parte, dalla vittoria conseguita nel 783 da Staurakios contro gli Sclaveni, le tribù slave che avevano occupato la parte sud-occidentale della penisola balcanica, fino al Peloponneso, per la quale il ministro di Irene celebrò il trionfo.

Combattimento tra Arabi e Bizantini.

Una volta rafforzata la sua posizione, Irene, con la collaborazione di Tarasio, cominciò a apprestare i preparativi per un nuovo concilio che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto abrogare i decreti del concilio di Hieria del 753 e riabilitare il culto delle immagini. Il nuovo concilio si riunì a Costantinopoli nella chiesa dei S.S. Apostoli il 31 luglio 786, ma fu ben presto interrotto dalla violenta irruzione di un contingente di guardie imperiali ostili al culto delle immagini che resero impossibile la prosecuzione delle sedute. La scaltra Irene però non si perse d’animo: mandò le truppe che sostenevano gli iconoclasti in Asia Minore a combattere contro gli Arabi, con i quali l’anno precedente erano riprese le ostilità in seguito al suo rifiuto di continuare a versare il tributo, mentre dispose il trasferimento nella capitale di quelle a lei fedeli.

Così l’anno seguente potè essere convocato un altro concilio a Nicea (secondo di Nicea, settimo concilio ecumenico)(3), al quale presero parte ben 367 prelati, nel corso del quale furono revocati i decreti del concilio di Hieria, si proclamò, adducendo testimonianze scritturali e patristiche, che le immagini sacre potevano essere oggetto di venerazione (“pròskinesis”), -ma non di adorazione (“latreia”)-, e che la liceità e l’opportunità del loro impiego nella liturgia e nella devozione pubblica e privata derivavano dalla realtà dell’incarnazione e quindi la riaffermavano contro le tesi di tutti coloro che la negavano -o perché ritenevano Cristo solo uomo e non vero dio, sia perché al contrario sostenevano che il Verbo divino avesse assunto solo una veste corporea esteriore, ma non la natura umana (si veda quanto abbiamo detto nella prima parte della presente trattazione)-, di modo che “Chi venera l’icona, venera l’ipostasi di colui che vi è inscritto”; di conseguenza si comminò la scomunica a tutti i seguaci dell’iconoclastìa, nei quali si vedevano comunque degli eretici, che in pratica negavano il dogma dell’incarnazione divina.

Quanto alle opera pittoriche raffiguranti Maria e i santi, esse secondo i padri conciliari non devono essere reputate delle mere espressioni artistiche, ma delle riflessioni sulle verità di fede e/o degli “exempla” di virtù eroiche, tese a spronare l’esercizio della carità e a rafforzare la fede: esse avrebbero dunque una funzione essenzialmente didattica ed anagogica.

Benché modesta fosse la partecipazione dei prelati occidentali all’adunanza (una quindicina in tutto), il concilio avvenne con l’approvazione di papa Adriano I, del quale erano presenti due inviati e di cui fu letta una lettera con la quale egli esprimeva la sua concezione sul valore e il significato delle immagini sacre, richiamando gli insegnamenti dei suoi predecessori su tale tema.

Stranamente però quando gli atti finali del concilio furono inviati a Carlo Magno, questi, -o per meglio dire i suoi consiglieri in materia ecclesiastica (4)-, espresse forti riserve sulle decisioni ivi adottate, sostenendo che i padri conciliari fossero caduti nell’estremo opposto, arrivando a giustificare un culto superstizioso delle raffigurazioni sacre. L’opposizione del sovrano franco è stata attribuita ad errori e inesattezze nella traduzione in latino che sembravano accentuare la difesa dell’iconodulia oltre i limiti della dottrina ortodossa: in particolare il fatto che il termine “pròskynesis” fosse stato reso con “adoratio” lasciava intendere l’idea errata che uguale culto dovesse essere tributato a Dio e all’immagine; ma è probabile che l’ostilità di Carlo Magno fosse dovuta anche al timore che la piena accettazione dei deliberati del concilio significasse perpetuare l’autorità dell’Impero Romano d’Oriente sul vasto stato che era riuscito a conquistare -e che dopo pochi anni sarebbe stato proclamato “sacro Romano Impero”-, che dunque avrebbe continuato a trovarsi in condizione di inferiorità. Invano papa Adriano I si sforzò di persuadere l’imperatore a sottomettersi ai decreti conciliari, ma questi rimase irremovibile.

Infatti tra il regno franco e la chiesa cattolica occidentale si era ormai instaurato un legame assai forte che di fatto aveva già sostituito quello tra il papato e l’imperatore d’oriente, mentre quest’ultimo si era al contrario gravemente indebolito e deteriorato. Per questo alla fine il papa non solo diede ragione a Carlo Magno, che era divenuto il garante della sua autorità politico-religiosa e della sua sovranità territoriale, ma gli concesse di convocare un sinodo a Francoforte nel giugno del 794, al quale intervennero prelati provenienti quasi soltanto dalla Gallia e dalla Germania, che fu presieduto dai legati papali Teofilatto e Stefano, nel quale di fatto veniva sconfessato il II concilio di Nicea, di modo che si giunse a una sorta di rovesciamento delle posizioni, per cui ora era l’occidente a condannare la venerazione delle immagini, pur senza arrivare alla persecuzione degli iconòduli.

Invero il citato sinodo, oltre che per respingere la dottrina sulle immagini sacre proclamata dal II concilio di Nicea (o per meglio dire la versione di essa conosciuta in occidente), fu indetto anche per condannare le tesi cristologiche e trinitarie formulate da Elipando, arcivescovo di Toledo, e da Felice di Urgel, considerate una riproposizione dell’adozianismo e del nestorianesimo (dei quali abbiamo parlato nella prima parte della presente trattazione).

Nel 784 Elipando, vescovo di origine visigota, -e proveniente quindi dalla popolazione che aveva governato in Spagna fino alla conquista musulmana nel 711-, aveva avuto una disputa con il presbitero Migezio, da lui accusato di predicare una dottrina eretica secondo la quale Dio si sarebbe rivelato come Padre in Davide, come Figlio in Gesù e come Spirito Santo in S. Paolo così che il Cristo, inteso come “figlio di Dio” non sarebbe esistito (o per meglio dire “stato”) prima dell’incarnazione (5). L’arcivescovo di Toledo aveva confutato la tesi di Migezio operando una distinzione tra il Cristo-Dio e il Cristo-uomo: il primo è figlio di Dio a tutti gli effetti per generazione e natura, mentre il secondo è figlio di Dio solo per adozione. Per corroborare l’autorevolezza della sua dottrina, Elipando si rivolse a Felice, vescovo di Urgel, cittadina della Spagna settentrionale, nell’attuale Catalogna, -che però dipendeva dalla “Marca Spagnola”, e dunque compresa nei domini di Carlo Magno-, il quale godeva fama di insigne teologo. Questi diede il suo sostegno ad Elipando, trovando in alcuni passi nelle opere dei Padri della chiesa, nonché nella terminologia impiegata nella liturgia mozarabica (quella in uso nella penisola iberica fino all’XI secolo), -quali “homo adoptivus” riferito a Gesù Cristo-, elementi che potevano suffragare la sua interpretazione. Con l’intervento di Felice si riaccese la polemica, poiché egli ed Elipando furono accusati di aver aderito all’eresia nestoriana da Beato, abate di Libana, ed Eterio, vescovo di Osma, i quali a loro volta vennero qualificati come monofisiti.

Felice di Urgel convocato in un sinodo tenutosi a Ratisbona nel 792 ripudiò la sua dottrina teologica; ma poi, dopo essere tornato nella sua diocesi, si recò a Toledo dove fu ospitato da Elipando e dove ritrattò la sua precedente sottomissione; egli anzi accentuò ulteriormente la sua tesi adozianista definendo Gesù Cristo “deus nuncupativus” (Dio per denominazione, e quindi per convenzione) e mantenendosi ad essa fedele nonostante le condanne subite nel concilio di Francoforte e in quello successivo di Cividale del Friuli nel 796, e le confutazioni prodotte contro di lui ed Elipando da altri autorevoli teologi quali Paolino II, patriarca di Aquileia (“Libellus sacrosyllabus contra Elipadum”; “Libri tres contra Felicem”), ed Alcuino di York (“Libellus adversus Felicis haeresim”).

Al successivo concilio di Aquisgrana Felice, convinto della bontà delle sue ragioni, preferì presentarsi di persona e quivi sostenne una lunga e articolata disputa con Alcuino, il maggior teologo ortodosso occidentale del tempo. Per sottrarsi alle persecuzioni Felice di Urgel si rassegnò ad abdicare ancora una volta alla sua idea, ma nonostante questo venne mandato a Lùgdunum (Lione) e quivi tenuto prigioniero fino alla sua morte sopravvenuta nell’816 (o 818). Stando però a quanto risulta da alcuni suoi scritti posteriori alla disputa con Alcuino, egli nella sua coscienza continuò a professare la dottrina che aveva dovuto simulare di respingere per sfuggire alla sopraffazione dei poteri congiunti di chiesa e stato. Suoi seguaci sono attestati essere sopravvissuti in Spagna sotto il dominio islamico, più tollerante di quelli cristiani, fino al X secolo.

Tornando alla questione dell’iconodulia, la posizione prevalente emersa nel sinodo di Francoforte è stata sintetizzata nei cosiddetti “Libri Carolini”, -o meglio “Capitulare de imaginibus”-, un tempo attribuita a Carlo Magno stesso, poi ad Alcuino a ad altri dotti della sua corte, ma quasi certamente opera di Teodolfo, vescovo di Aurelianum (Orleans). In essi si sostiene che le immagini sacre non abbiano altro compito se non quello di suscitare il ricordo nelle menti dei fedeli attraverso l’intuizione (ovvero l’osservazione sensoriale) di esse: si suppone infatti che tali manufatti siano utili in quanto coloro che guardino le immagini siano già a conoscenza dei fatti che esse illustrano e delle virtù che intendono promuovere, avendoli appresi tramite altre forme di insegnamento (la comunicazione verbale o la lettura).

In apparenza le argomentazioni dei “Libri” sembrano riecheggiare la concezione di Gregorio Magno che abbiano visto nella quarta parte; ma in effetti vi è con esse una non irrilevante differenza poiché per quest’ultimo l’immagine serve per ammaestrare il popolo analfabeta sulle verità della fede, mentre per l’autore dei “Libri Carolini” immagine e insegnamento scritto o orale (“sermo”) non sono assolutamente equivalenti; tuttavia la raffigurazione sensibile può essere di ausilio al secondo.

L’autore di questo scritto sottolinea altresì il carattere convenzionale della qualifica di una rappresentazione figurativa come “immagine sacra” (quel che distingue un’immagine di Maria Vergine o di Venere è solo il “titulus”) per cui ritiene che non vi sia una relazione sostanziale, ma solo accidentale, tra “significante” e “significato”. Di conseguenza nega il principio, già enunciato da Basilio di Cesarea, che il culto tributato all’immagine passa al “prototipo”, ossia al soggetto che essa rappresenta (6).

L’opposizione di Carlo Magno alle decisioni del II concilio di Nicea, sebbene fondate in parte su un malinteso, portarono a un deterioramento dei rapporti con l’imperatrice Irene, in seguito al quale fu cancellato il progettato matrimonio del figlio di lei Costantino VI con la principessa Rotrude (del quale abbiamo accennato nella parte precedente), figlia del re franco e della sua terza moglie Ildegarda, del quale si parlava ormai da sei anni, e per concludere il quale era anche stato inviato alla corte di Aquisgrana un maestro greco di nome Eliseo, con la missione di istruire nella lingua e nei costumi ellenici quella che avrebbe dovuto essere una futura imperatrice bizantina. Irene scelse allora per il figlio una nuova fidanzata, Maria, proveniente da Amnia in Paflagonia e nipote di san Filarete l’Elemosiniere, con al quale fu concluso un fastoso matrimonio nel 788.

Quando ebbe raggiunto la maggiore età, Costantino avrebbe dovuto esercitare il governo in proprio, ma egli continuò ad essere sottomesso alla madre, di cui subiva l’influenza e l’energica determinazione: Irene infatti, benché anteponesse il nome del figlio a tutti gli atti e gli editti ufficiali, di fatto continuava ad esercitare il potere imperiale. Invano il giovane imperatore cercava di sottrarsi al controllo della madre e del suo potente ministro Staurakios, fino a che, stanco e frustrato per il fatto di non riuscire ad assumere in pieno la dignità che gli spettava, nel gennaio del 790 tramò, o comunque aderì, ad una congiura ordita da alcuni ufficiali che sostenevano i suoi diritti.

Irene quella volta si limitò a punire il figlio con uno schiaffo e a rinchiuderlo per breve tempo in un’ala del palazzo imperiale; ma in seguito a una nuova sconfitta dell’esercito bizantino da parte degli Arabi nel settembre successivo scoppiò una rivolta delle truppe che destituirono Irene e rimisero sul trono Costantino a pieno titolo. Accadde però che meno di due anni dopo l’imperatore, il quale non possedeva grande attitudine all’esercizio del potere, e quindi si trovava in notevoli difficoltà, si vide costretto a richiamare al suo fianco la madre Irene dal “palazzo di Eleuterio”, dove era stata relegata, per beneficiare della sua consumata esperienza nell’arte di governo.

Ma nonostante il ritorno di Irene a corte, vi furono ancora insuccessi bellici, i quali a loro volta provocarono disordini interni. A questo si aggiunsero le travagliate vicende familiari di Costantino: egli nel 795 si era separato dalla moglie Maria,- dalla quale aveva avuto due figlie, Eufròsine e Irene-, per unirsi in modo illegittimo alla sua amante Teodota, dama di corte dell’imperatrice, da lui proclamata “augusta”, atto che aveva suscitato la sdegnata reazione del clero, in particolare del monaco Teodoro, allora monaco nel monastero di Sakkudion in Bitinia, ma che in seguito avrebbe ricevuto l’appellativo di “Studita”, -dal nome del monastero di “Studion” del quale fu eletto igumeno-, cugino di Teodota, il quale si oppose con forza a quell'”unione adulterina”. Costantino VI rinchiuse la moglie in un convento, -come era abituale prassi per le persone altolocate della corte di cui ci si voleva liberare-, ma non riuscì a persuadere il patriarca Tarasio, fedele a Irene, a celebrare il nuovo matrimonio, che fu costretto a rimandare fino a quando non trovò un prelato disposto a benedire l’unione, il presbitero Giuseppe, igùmeno del monastero di Kathara nell’isola di Itaca.

Teodoro Studita non solo contestò la validità delle nuove nozze di Costantino, ma, sostenuto e affiancato nella sua posizione intransigente da suo zio Platone, superiore del “Sakkudion”, affermò che era degno di condanna anche il presbitero Giuseppe, che aveva celebrato il matrimonio, e financo il patriarca Tarasio, il quale, pur disapprovando il connubio con Teodota, non aveva punito né l’imperatore né Giuseppe. Venne sollevata in tal modo la cosiddetta “questione moicheiana” (da “moicheia” = adulterio) che pose Teodoro, Platone e la maggior parte dei monaci del Sakkudion in conflitto non solo con l’imperatore, ma altresì con il patriarca di Costantinopoli. Costoro nel settembre del 796 furono arrestati, incarcerati e poi esiliati a Tessalonica in Macedonia, dove giunsero il 25 marzo 797.

Ma nel frattempo il malcontento per la vita privata dell’imperatore, giudicato dal popolo un peccatore che dava pubblico scandalo, aumentava sempre più, estendendosi a tutti i monasteri ed infine anche all’esercito, che in un primo tempo si era mostrato favorevole a Costantino. Di questa complicata situazione approfittò allora Irene, la quale in seguito a una sommossa orchestrata dai suoi fautori, riuscì a riassumere in pieno il potere imperiale. Ella fece arrestare il figlio, che fu rinchiuso nella sala della Porpora dove ventisei anni prima aveva visto la luce, e poi subì la crudele pena dell’accecamento, a causa della quale probabilmente morì, sebbene alcuni cronisti asseriscono sia vissuto ancora per alcuni anni (tanto che come vedremo nella parte successiva apparve anche un impostore che pretendeva di essere Costantino VI).

Irene richiamò dall’esilio Teodoro e Platone, che si trasferirono nel monastero di Studion a Costantinopoli, insieme a molti dei monaci che li avevano seguiti nella protesta e nella conseguente punizione, e si riconciliarono con il patriarca Tarasio, il quale, dopo l’avvento -o per meglio dire il ritorno- di Irene alla guida dell’impero, aveva condannato l’ex-imperatore e il presbitero Giuseppe che aveva celebrato il discusso secondo matrimonio di Costantino VI.

Nel frattempo a Roma era morto papa Adriano I e fu eletto a succedergli il presbitero di S. Susanna con il nome di Leone III che fu consacrato il 27 dicembre 795, descritto dai cronisti coevi come uomo pio e alieno dai desideri mondani. Egli, nonostante gli iniziali proponimenti di subordinare l’autorità di Carlo Magno sui vasti territori che questi aveva ereditato e su quelli che aveva conquistato, e in generale il potere civile, alla guida del papa, finì poi per mostrarsi sempre più acquiescente alla volontà del sovrano franco, il quale al contrario mirava ad assumere nei confronti della chiesa occidentale e del papato una funzione simile a quella che fino a pochi anni prima aveva esercitato il “basileus” bizantino, che era capo della chiesa oltre che dello stato, come testimoniano anche i suoi interventi in materia dogmatica. In tal modo il nuovo papa aveva suscitato i malumori e poi la crescente opposizione di buona parte dell’aristocrazia romana, così che molti esponenti di quest’ultima, tra cui soprattutto il primicerio Pasquale, nipote del precedente pontefice, cominciarono a diffondere voci calunniose sulla condotta di Leone III, accusandolo di spergiuro e lascivia.

Ma poiché tali voci sembravano non avere credito alla corte di Carlo Magno, il suddetto Pasquale e il sacellario Càmpulo (7) tramarono una cospirazione ai danni del papa: essi con gli sgherri ai loro ordini il 25 aprile del 799, festa di S. Marco, assaltarono la processione guidata da Leone III, che si recava dalla basilica del Laterano alla chiesa di S. Lorenzo in Lucina, e riuscirono a rapirlo con l’intenzione di applicare su di lui il brutale trattamento (accecamento e taglio della lingua) che abbiamo visto altre volte a quei tempi era usuale riservare agli avversari politici. Nella confusione del momento, Leone III riuscì a rifugiarsi nella chiesa di S. Silvestro in Capite, donde però i congiurati lo trascinarono via per tradurlo prigioniero nel monastero di S. Erasmo al Celio. Sopraggiunsero però il cubiculario Albino ed altri dignitari fedeli al pontefice, che lo trassero da quel luogo e grazie al cui aiuto potè riparare in S. Pietro; essi avvisarono poi dell’accaduto Winichis, duca di Spoleto, il quale aveva avuto da Carlo Magno il compito di proteggere, ma anche di sorvegliare il papa. Quest’ultimo condusse il pontefice nella sua città e gli diede poi una scorta di armati per consentirgli di recarsi a Paderborn presso il re franco, che era allora impegnato in una campagna militare contro i Sàssoni.

Giuramento di Leone III (affresco di Raffaello Sanzio nella “Stanza dell’incendio di Borgo” in Vaticano).

Alla corte di Carlo Magno giunsero però da Roma anche le lamentele dei congiurati che chiedevano al re di pronunciarsi in merito alle accuse mosse al papa. Intervenne allora Alcuino di York, il principale consigliere del sovrano in materia ecclesiastica, il quale assunse la difesa di Leone III, che, essendo papa non poteva essere giudicato da alcuno e tanto meno da un’autorità laica; nello stesso tempo tuttavia il dotto maestro della scuola palatina sottolineava come su Carlo Magno, difensore della fede e della sede apostolica romana, incombesse la responsabilità di guidare il popolo cristiano in un momento in cui il romano pontefice, colui che nel cristianesimo occidentale era il vicario di Cristo e la suprema autorità spirituale, era stato cacciato da Roma, mentre l’altra istituzione cardine dell’ordine terreno, ovvero l’Impero, che incarnava il potere temporale, era allora rivestita da una persona, -Irene-, la quale, sia per aver eliminato il legittimo imperatore, -Costantino VI-, sia per il fatto di essere donna (poiché nella visione di Alcuino in alcun modo la somma autorità poteva essere detenuta da una rappresentante del sesso femminile), era considerata un’usurpatrice: dunque per Alcuino e i teologi occidentali la sede imperiale era vacante.

Fu così che nel novembre 799 Leone III potè tornare a Roma accolto trionfalmente dal clero e dal popolo. Ma poco dopo dovette subire una sorta di processo intentato contro di lui dai suoi nemici (Pasquale, Campulo e altri esponenti della  nobiltà romana) davanti ad un’adunanza di prelati e di funzionari franchi e romani, ma i loro addebiti non risultarono comprovati per cui gli accusatori del papa furono arrestati e inviati in Germania.

Nell’agosto dell’800, dopo aver domato la rivolta dei Sassoni (8) e completato la conquista della Sassonia, Carlo Magno partì per l’Italia e nel novembre successivo pervenne a Roma, dove dopo una settimana dal suo arrivo, convocò un’altra assemblea di dignitari per giudicare ancora delle accuse rivolte al pontefice. Ma gli accusatori di Leone III, che erano stati all’uopo rimandati nell’urbe dalla Germania, ancora una volta non seppero dimostrare in modo valido le loro asserzioni, per cui la delicata questione fu risolta ricorrendo a un solenne giuramento che il papa prestò sui vangeli il 23 dicembre con il quale dichiarava di essere innocente dei delitti che gli erano stati attribuiti (9). Chiarita l’innocenza di Leone III, i suoi accusatori furono riconosciuti colpevoli di calunnia e lesa maestà e condannati a morte, pena che tuttavia evitarono per l’intercessione del papa che chiese fosse loro fatta grazia della vita.

Ma nell’assemblea convocata a Roma si decise pure che Carlo Magno, il quale aveva conquistato un dominio pari, sia per estensione territoriale, sia per autorità, a quello degli antichi cesari, avrebbe meritato l’attribuzione del titolo imperiale, che, come abbiamo sopra ricordato, in quel momento era considerato vacante; inoltre la nobiltà romana pensava che in tal modo Roma sarebbe tornata capitale dell’Impero.

L’incoronazione del sovrano franco e “patricius Romanorum”, che così veniva promosso a imperatore, e dunque capo politico della cristianità, ebbe luogo durante la messa di Natale celebrata da Leone III nella basilica di S. Pietro in Vaticano, -dove i riti natalizi erano stati spostati dalla basilica liberiana (S. Maria Maggiore), in cui di solito avvenivano-. La cerimonia non si svolse però seguendo l’ordine ormai consolidato che aveva nell’Impero Romano d’oriente: qui il patriarca di Costantinopoli incoronava l’eletto dopo che questi era stato acclamato imperatore dal popolo, significando in tal modo che la chiesa riconosceva e legittimava la scelta operata dai cittadini (10); questa volta invece il pontefice pose la corona sul capo di Carlo Magno prima dell’acclamazione a imperatore da parte del popolo romano.

Sembra, a quanto riferiscono i cronisti del tempo, e in particolare Eginardo, il biografo di Carlo Magno, che questa variazione rispetto alla normale prassi delle incoronazioni imperiali abbia suscitato il disappunto del neo-eletto imperatore, il quale, a ragione, riteneva che in questo modo il papa volesse sottolineare la sua superiorità e la subordinazione del potere laico a quello ecclesiastico.

Con questo atto si consumava virtualmente la divisione del mondo cristiano (intendendo con tale espressione non tanto un contenuto dogmatico -poiché le dottrine teologiche, come abbiamo avuto modo di vedere più volte nella nostra ricerca, sono state spesso assai dibattute e controverse- quanto un ambito culturale) e di quella che oggi viene definita “civiltà occidentale” (categoria che peraltro va presa con molta cautela, poiché le “civiltà” e le “culture” non sono certo compartimenti stagni, ma si influenzano e si interpenetrano reciprocamente e sono anzi il frutto di molteplici scambi e di mutui influssi) in due branche. In effetti chiesa occidentale e chiesa orientale mantennero ancora per due secoli e mezzo una difficile e contrastata unità, più formale che sostanziale, spesso lacerata da incomprensioni e profonde discordie (come nel caso dello “scisma di Fozio”, del quale abbiamo già parlato); ma ormai il solco, -che già esisteva da secoli e si era vieppiù approfondito-, non si sarebbe più colmato, almeno a livello dottrinale e istituzionale e avrebbe alla fine portato alla definitiva separazione nel 1054 (anche se, -com’è ovvio e come abbiamo osservato poc’anzi-, Europa occidentale latino-germanica cattolica ed Europa orientale greco-slava ortodossa non erano mondi del tutto lontani ed estranei).

Non possiamo altresì fare a meno di osservare come mentre in oriente la chiesa, nonostante occasionali dissidi, fu sempre subordinata al potere imperiale cosi che non si manifestarono mai profondi conflitti tra i due poteri, in occidente al contrario il conflitto, spesso lacerante, tra papato e impero e più in generale tra potere civile e potere religioso contraddistinse per molti secoli lo sviluppo storico di tali istituti. Tale conflitto permanente, pur se in un’alternanza di relativo equilibrio e di aperta e aspra lotta, anche armata, aveva la sua origine e la sua radice proprio nell’atto fondativo del Sacro Romano Impero e nella pretesa del papato di dirigere l’azione civile e politica propria dell’Impero; il quale a sua volta tentava nella persona dei singoli imperatori di sottrarsi alla continua, pesante e soffocante ingerenza e tutela della chiesa.

CONTINUA NELL’OTTAVA PARTE

Note

1) tale appellativo gli è stato attribuito a causa della nazionalità di sua madre, la principessa Tzitzar (“Fiore”), figlia di Bihar, khan dei Càzari dal 731 al 736, che assunse poi il nome di Irene al momento del battesimo, prima moglie di Costantino V (le altre due si chiamavano rispettivamente Maria ed Eudochia). La popolazione dei Càzari, di origine asiatica e di lingua altaica (turca) aveva costituito un vasto stato tra il mar Caspio, il mar Nero, il Caucaso e le steppe eurasiatiche dopo aver sgretolato la “Grande Bulgaria”, di cui abbiamo parlato nella nota n.6 alla terza parte della presente ricerca. Tale entità statale aveva contribuito in modo determinante a contenere l’espansione degli Arabi del califfato Ommayade nell’Europa orientale e nell’Asia nord-occidentale e pertanto aveva instaurato amichevoli legami di alleanza con l’impero bizantino. In un secondo tempo i legami con Bisanzio si allentarono mentre si rafforzavano quelli con la dinastia arabo-persiana degli Abbassidi, subentrata a quella degli Ommayadi, che avevano detenuto il califfato dal 661 al 750, e con la quale vennero stabilite anche alleanze matrimoniali. Ma il declino e la fine dell’impero càzaro fu provocata dall’espansione del principato russo di Kiev il cui sovrano Svjatoslav nel 969 conquistò Itil, la capitale dei Càzari, che si trovava presso il delta del Volga, non lontano dall’attuale Astrachan (città che a sua volta venne fondata dai Tartari nel XIII secolo).

2) per alcuni egli sarebbe stato avvelenato in seguito a una congiura ordita da Irene.

3) l’ultima sessione del concilio fu tenuta a Costantinopoli.

4) sebbene sia infondata la credenza che il fondatore del SRI fosse analfabeta, di certo, così come la maggior parte dei sovrani dell’Europa occidentale, egli non possedeva una cultura approfondita. Tuttavia promosse la rinascita culturale nei territori del suo impero soprattutto tramite l’opera della “Schola palatina” di Aquisgrana e dei dotti che vi insegnarono, in primis il teologo e grammatico Alcuino di York. Secondo il suo biografo Eginardo conosceva bene il latino, mentre il greco lo comprendeva soltanto, e coltivava con passione le arti liberali, ma aveva scarsa dimestichezza con la scrittura (tanto che stando ad altre fonti egli sarebbe stato in grado di scrivere solo il proprio nome).

5) questa concezione presenta affinità con quella di Sabellio e dei sabelliani (si veda al riguardo la nota 3 della prima parte della nostra trattazione).

6) risalta dunque dal “Capitulare de imaginibus”, -ma in generale da tutta la questione relativa alla venerazione o comunque all’impiego di immagini religiose-, l’ambiguità del concetto di “arte religiosa”: un’opera figurativa può essere “religiosa” quanto al soggetto, ma assai poco spirituale nella “sostanza”, cioè nella capacità di ispirare nell’osservatore un impulso al trascendente o un moto verso l’interiorità dove “habitat Deus”; così come viceversa un’opera di carattere profano, nel senso che non rappresenta personaggi ed eventi biblici, può esprimere in forma simbolica contenuti profondamente spirituali. Si potrebbe anzi affermare che solo un’arte “simbolica” si presti a comunicare idee ed esperienze di tipo “mistico”, oltre che filosofico, e sia dunque la meno inadeguata a rendere realtà non legate all’esperienza sensoriale (sul senso in cui si debba intendere il “simbolo” si veda la definizione data da Clemente di Alessandria, riportata nella VI parte di ENIGMI, MISTERI E PARADOSSI del 6 febbraio 2017). In tal modo dunque l'”arte sacra” dovrebbe essere tale non tanto per il suo contenuto oggettivo, ma per il carattere e potere “evocativo”.

7) sulle cariche alla corte pontificia in quel periodo storico si veda la nota n. 10 alla sesta parte.

8) i Sassoni si erano ribellati più volte ai Franchi soprattutto per la “conversione” forzata al cristianesimo imposta loro con la violenza e per la distruzione sistematica dei loro luoghi di culto e in particolare l’abbattimento degli alberi sacri che rappresentavano l'”albero cosmico” Irminsul (corrispondente al frassino Yggdrasil degli Scandinavi), che attraversa le tre regioni degli Inferi, della Terra e del Cielo e che sostiene il mondo.

9) questa soluzione fu adottata anche perchè esisteva il precedente, espressamente richiamato in quella sede, dell’analogo giuramento, o giustificazione, o discolpa, pronunciato da papa Pelagio I nel 556 del quale abbiamo parlato nella terza parte della presente ricerca.

10) “de facto” la successione all’Impero d’Oriente avveniva per via ereditaria, ma in linea teorica e giuridica era il popolo, e tramite esso la divina provvidenza, che designava l’imperatore.

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