STORIA MINIMA DELL’IDEA DI DIO NEL PRIMO MILLENNIO CRISTIANO -quinta parte (l’iconoclastìa bizantina)-

Sembra però che l’apologia dell’impiego delle immagini nel culto cristiano abbia avuto inizio nell’ambito delle polemiche tra cristiani e giudei. Presso questi ultimi, -i quali, come abbiamo ricordato nella parte precedente, nei primi secoli dell’era volgare avevano ampiamente utilizzato forme di arte figurativa nelle sinagoghe a scopo didascalico, oltre che illustrativo ed esornativo-, aveva di nuovo prevalso il rigorismo anti-iconico. Pertanto la loro posizione intransigente aveva suscitato la reazioni dei teologi e trattatisti bizantini: tra i primi documenti di questo sforzo di giustificare le immagini possiamo citare il “Katà Ioudaion” di Leonzio di Neapolis (città di Cipro) (inizi del VII secolo), il quale, citando a sostegno delle sue tesi diversi passi biblici, afferma che le immagini, come le reliquie del santi, sono di aiuto nelle devozione e sono oggetti visibili che rimandano alla contemplazione di Dio invisibile (è dunque un’argomento simile a quello già proposto da Basilio di Cesarea, e che sarà poi sostenuto da Giovanni Damasceno e, in epoca posteriore e in ambiente cattolico occidentale, da Ugo di San Vittore, -come abbiamo accennato nella parte precedente della nostra ricerca-).

Mosaico del V o VI secolo con i S.S. Cosma e Damiano nella cosiddetta “Rotonda” di Salonicco. Tale edificio edificato da Galerio agli inizi del IV secolo (forse come proprio mausoleo) fu poi trasformato on chiesa alla fine del IV sec. e dedicato ai santi Arcangeli. Dopo essere divenuto moschea nel periodo ottomano, nel 1912 fu di nuovo consacrato al culto cristiano con dedica a S. Giorgio.

Simili argomentazioni furono riprese in trattati posteriori, -come quelli di Anastasio il Sinaita e Stefano di Bostra, le “Quaestiones ad Antiochum ducem”, i “Trofei di Damasco”, ecc.), risalenti ad un epoca tra il VII e l’VIII secolo-, nei quali comparve la distinzione tra il culto di “latria” (adorazione), riservato unicamente a Dio, e il culto di “dulia” (venerazione) -detto anche “proskìnesis”-, tributato ai santi, simile a quello dovuto agli imperatori bizantini.

All’incirca nella medesima epoca il califfo Yazid II decretò che venissero distrutte le immagini dei cristiani esistenti nei territori sottoposti alla sua autorità e un tempo soggetti all’impero bizantino, e questo atto rafforzò le tendenze iconòmache e iconoclaste già presenti in vaste aree dell’Asia Minore, -e che come abbiamo visto erano sostenute sia dai monofisiti sia dai pauliciani-. Tre lettere scritte dal patriarca di Costantinopoli Germano (715-730) ci offrono la testimonianza di quanto fosse grave la situazione: egli si rivolge in tono drammatico ad alcuni vescovi (Giovanni di Synada, Costantino di Nicoleia, Tommaso di Claudiopoli), che inclinavano verso le tesi iconoclastiche e sostenevano che la chiesa fosse incorsa nel peccato di idolatria a causa della venerazione per le immagini: pur riconoscendo che Dio è incircoscrivibile e non può essere né concepito, né tanto meno rappresentato in forme sensibili, il prelato sostiene però che le icone servano a dimostrare la reale umanità di Cristo contro le concezioni docetistiche e monofisite e quindi non debbano essere disprezzate e tanto meno distrutte.

Ma in seguito alla decisa e convita adesione dell’imperatore Leone III l’Isaurico all’iconoclastia, Germano fu costretto ad abdicare. Secondo gli storici bizantini le motivazioni che indussero Leone III ad abbracciare il credo iconoclasta sarebbero molteplici: egli in primo luogo avrebbe subito le pressioni di alcuni vescovi dell’Asia Minore,- soprattutto di Costantino di Nicoleia, uno dei destinatari delle lettere del patriarca Germano che abbiamo citato sopra-; un altro fattore che avrebbe contribuito ad orientare il sovrano verso l’iconoclastia fu una serie di disastri naturali (tra i quali un devastante maremoto che sconvolse il mar Egeo nel 726), a seguito dei quali egli si sarebbe convinto che Dio fosse adirato per gli eccessi idolatrici a cui aveva condotto la venerazione delle immagini.

Ma, stando a quanto narra l’insigne storico Teofane il Confessore (“Cronaca”, anno 723-724), sembra che la causa principale che agì sull’imperatore sia stata l’influenza negativa di un ambiguo personaggio chiamato Bèzer. Costui era un cristiano che, fatto prigioniero dagli Arabi in Siria, si convertì all’Islam; ma poi, una volta liberato e ricondottosi presso i bizantini, era tornato all’antica fede, e si era accattivato l’amicizia di Leone per la sua forza fisica e le convinta adesione all’eresia, tanto da diventare il suo braccio destro. Tramite i suggerimenti di Bèzer, l’imperatore avrebbe dunque subito la suggestione della fede islamica che il suo protetto, benché formalmente tornato cristiano, non aveva abbandonato del tutto, e di conseguenza l’avversione per le immagini sacre, che, com’è noto, -in questo superando lo stesso ebraismo-, l’Islam condanna senza appello come idolatria.

Sull’influenza che la religione islamica avrebbe avuto nel sorgere del movimento iconoclasta e nell’ispirare i provvedimenti contro le icone di Leone III le opinioni degli storici sono discordanti, ma specie negli ultimi studi si tende a negare, o a limitare alquanto tale influenza. E’ comunque probabile che la scelta dell’imperatore bizantino sia stata determinata in parte da una sensibilità personale -tra l’altro possiamo ricordare che nonostante Teofane lo dica “isaurico” (cioè proveniente dall’Isauria)(1)-, è quasi certo che egli fosse nativo di Germanicia (o Germanicea) in Commagene, regione situata tra Anatolia e Siria, dove si era sviluppato anche il paulicianesimo, e in generale forti erano le tendenze iconòmache, monofisite e docetistiche-; per altro verso invece la sua opera iconoclasta rientra nella vasta opera di riforma dell’impero da lui intrapresa, per la quale egli intendeva combattere l’eccessiva forza e inframmettenza del clero nella vita pubblica e nel contempo togliere agli eretici, -soprattutto monofisiti e pauliciani-, che minavano l’unità dello stato, un forte elemento di polemica e di propaganda.

Mosaico nel palazzo imperiale di Costantinopoli.

Infatti il culto delle immagini, che aveva ormai assunto aspetti quasi idolatrici, ed era praticato e promosso soprattutto nei monasteri, non solo costituiva uno dei maggiori strumenti con i quali il clero esercitava una profonda influenza sul popolo, ma, attraverso le cospicue offerte che venivano largite dai fedeli, era pure una delle principali fonti di ricchezza di cui i monasteri disponevano. D’altro canto questa situazione alimentava un notevole malcontento nel ceto militare specie quello originario dell’Anatolia, -il quale per un lungo periodo fu il più forte sostenitore dell’iconoclastia-, e provocava l’irrisione e lo scandalo degli eretici e dei musulmani.

Quali siano state le ragioni che lo spinsero a tale politica religiosa, a partire dal 726 Leone III iniziò a contrastare ed avversare il culto delle immagini, emanando a tal fine un decreto con il quale si proibiva il culto delle immagini, pur senza condannarne in assoluto la presenza nelle chiese (2); pertanto sembra siano esagerate le accuse poi rivoltegli dagli iconoduli di avere comandato la distruzione di raffigurazioni religiose; in particolare gli fu attribuita la distruzione della venerata icona di Cristo posta sulla porta della “Chalkè” -la porta di bronzo- nel palazzo imperiale di Costantinopoli, -sostituita da una croce-.

In ogni modo il provvedimento suscitò reazioni violente: scoppiarono tumulti a Costantinopoli, e poi una rivolta nel tema dell’Ellade (ossia nella Grecia vera e propria), guidata dal “turmarca”(3) Agallianos Kontoskeles a cui si unì il “drungario” (ammiraglio) delle Cicladi Stefano il quale si diresse con una flotta nella capitale con l’intento di deporre Leone dal trono imperiale e insediare al suo posto un certo Cosma. Nella susseguente battaglia navale, avvenuta il 18 aprile 727, i ribelli vennero però sbaragliati grazie al “fuoco greco” (4) e l’usurpatore, catturato, fu condannato alla decapitazione.

In un primo tempo l’imperatore, che aveva ottenuto il sostegno di non pochi vescovi, specie nell’Asia Minore, si sforzò di convincere sia il patriarca di Costantinopoli, Germano, sia il papa di Roma, Gregorio II, della bontà e della legittimità del suo provvedimento, ma entrambi manifestarono una netta contrarietà alla politica religiosa del sovrano. In particolare, con il papa, che già aveva rifiutato l’aumento delle imposte (che riguardava anche le vastissime proprietà ecclesiastiche) deciso da Leone III per sopperire alle ingenti spese causate dalle lunghe guerre contro gli Arabi, -spese che rischiavano di provocare il dissesto dell’impero-, lo scontro fu aspro. In Italia non solo la popolazione civile, in cui già era forte il malcontento verso i Bizantini per l’inasprimento delle tasse, ma una parte delle stesse truppe bizantine, si opposero e protestarono vivamente contro l’abolizione del culto delle immagini.

Nel 727 fu ordito un attentato contro il papa, che sarebbe stato ispirato dallo stesso Leone III, ed i cui esecutori avrebbero dovuto essere  il “dux” bizantino di Roma Basilio, il cartulario Giordano, lo spatario Marino e il suddiacono Giovanni, detto Lurione, ma la trista operazione fallì, anche in seguito all’energica reazione del popolo romano, e pertanto Giovanni fu trucidato, Basilio fu rinchiuso in un monastero, mentre gli altri riuscirono a fuggire. Allora intervenne personalmente l’esarca di Ravenna Paolo, il quale marciò verso Roma alla testa di un esercito con l’intenzione di destituire il papa, ma la realizzazione del suo piano fu impedita dai Longobardi della Tuscia e del Ducato di Spoleto che ne fermarono la marcia. Nel frattempo in Roma anche contro il nuovo duca inviato da Leone III si accese un tumulto che portò alla deposizione a all’accecamento del funzionario bizantino.

A questo punto l’iniziativa passò al duca di Napoli, Esilarato, il quale si diresse verso l’Urbe con le sue truppe, ma fu fermato al confine tra i due ducati dalle forze fedeli al papa, rimanendo ucciso nello scontro.

Scoppiò una rivolta anche a Ravenna nel corso della quale perse la vita l’esarca Paolo, che tentava di dare esecuzione agli ordini dell’imperatore; per sedare il tumulto e recuperare il controllo della città da Bisanzio fu inviata una flotta che però dopo un’aspra battaglia fu sconfitta dai ribelli. Come successore di Paolo, fu nominato esarca Eutichio (nome che significa “Fortunato”), il quale però come il suo predecessore non riuscì nell’intento di attuare i provvedimenti iconoclastici. Egli, dopo essere sbarcato a Napoli, prima di condursi a Ravenna, ordì un attentato contro Gregorio II (o per meglio dire cercò di mettere in atto un progetto che aveva l’incarico di eseguire), e a tal fine mandò a Roma un suo emissario il quale con la complicità dei funzionari imperiali colà presenti avrebbe dovuto compierlo. Ma la congiura fu scoperta e, come era avvenuto l’anno precedente, il progetto fallì. Tuttavia Gregorio II con astuta lucidità non volle percorrere fino in fondo la strada della ribellione al potere imperiale -nonostante l’occasione che gli veniva offerta della controversia dogmatica sul culto delle immagini-, poiché sapeva bene che di questo si sarebbero giovati i Longobardi: costoro, una volta eliminati i Bizantini, avrebbero assoggettato Roma e il papato, e posto le premesse per la riunificazione dell’Italia, che la chiesa non voleva assolutamente, conscia che tale eventualità avrebbe compromesso irrimediabilmente il suo potere politico, già enorme, e destinato ad aumentare vieppiù, se in Italia non si fosse instaurata una forte entità e autorità statale.

Ed in effetti della situazione caotica in cui versava l’Esarcato di Ravenna avevano approfittato i Longobardi, il cui re, Liutprando, invase il territorio bizantino conquistando parecchie città dell’Esarcato (la Romagna) e della Pentapoli (parte delle Marche). In un secondo tempo però Liutprando si accordò con l’esarca Eutichio summenzionato e marciò verso Roma contro il papa, -anche con il fine di riportare all’obbedienza i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, che si erano sottratti alla sua autorità-. Ma poi mutò parere e addivenne con il pontefice ad un’intesa, insieme alla quale fece a quest’ultimo la famosa “donazione di Sutri”, -territorio della Tuscia romana da lui conquistato-, sulla natura della quale (ovvero se fosse di tipo privatistico o pubblicistico, e nel secondo caso se la donazione fosse al papa in quanto tale o in quanto rappresentante dell’imperatore) sussiste tuttora incertezza. Tuttavia sta di fatto che in seguito a tale intesa anche Eutichio fu costretto a venire a patti con il pontefice romano, riconoscendogli di fatto prerogative sovrane, per cui l’esarca di Ravenna rinunciava a esercitare la sua giurisdizione su Roma e il papa diventava a pieno titolo un capo politico che rispondeva direttamente all’imperatore. Pertanto questo accordo prefigura quelli che più tardi i papi stipuleranno con i sovrani franchi Pipino e Carlo Magno, cercando anche di forzare le loro intenzioni e di estorcere sempre più potere, e che portarono alla nascita ufficiale dello stato della chiesa (5).

Nel 730 Leone III rinnovò il decreto contro l’iconodulia e di fronte all’opposizione del patriarca Germano, il quale confermò di non voler accettare l’iconoclastia, se prima non si fosse discusso della questione in un concilio, destituì l’alto prelato, sostituendolo con un suo fedele di nome Anastasio. Ancora una volta le disposizioni dell’imperatore vennero respinte con durezza dal papato: Gregorio III che era succeduto al suo omonimo nel febbraio 731, il 1 novembre di quello stesso anno, riunì a Roma un sinodo a cui parteciparono novantatré vescovi, -tra i quali il patriarca di Grado Antonino e l’arcivescovo di Ravenna, Giovanni, i più alti prelati nelle province bizantine d’Italia (6)-,nel quale non solo ribadì, ed anzi proclamò in forma ufficiale, l’ortodossia e la liceità delle raffigurazioni di Cristo, della Vergine Maria e degli apostoli e dei martiri nel culto pubblico e privato, ma comminò la scomunica a chiunque avesse profanato o distrutto le immagini sacre.

L’esarca Eutichio, dopo lo smacco subito, non adottò provvedimenti contro il papa, che ormai considerava, ed in effetti era, -in seguito agli accordi che aveva dovuto accettare-, al di fuori della sua giurisdizione e lasciò dunque che Gregorio III se la vedesse direttamente con l’imperatore. Quest’ultimo invece reagì con vigore alle decisioni della chiesa di Roma ed inviò una flotta al comando dello stratego Manes, che però fu travolta da una tempesta nel mare Adriatico. Inoltre sottrasse le diocesi della Sicilia, Brutium (Calabria attuale) e Calabria (l’odierno Salento in Puglia), della Dalmazia e dell’Illirico alla giurisdizione ecclesiastica di Roma assegnandole al patriarcato di Costantinopoli (7)(8).

Soffitto di una chiesa della Cappadocia risalente al periodo dell’iconoclastìa.

Sul piano dottrinale la più decisa e autorevole opposizione all’iconoclastia. -e all’iconomachia-, venne da S. Giovanni Damasceno (675-749)(9). Egli espose le sue argomentazioni in favore dell’iconodulia in alcune opere tra le quali godettero di cospicua influenza soprattutto le “Contra imagines calumniatores orationes tres”, scritte introno al 730: in esse portando a sostegno delle sue tesi i commenti e le idee espressi dei padri della chiesa dei primi secoli, osservava che l’incarnazione e la nuova legge di Cristo avevano abrogato le norme dell’AT relative alle immagini e che il culto di un’icona rappresentante Cristo, la Vergine Maria o i santi non è da ritenersi adorazione della stessa, – e pertanto non costituiva idolatria-, ma serviva a propiziare l’ascesa dello spirito verso il prototipo. Istituendo inoltre un’analogia con le gerarchie angeliche descritte nel trattato dello pseudo-Dionigi l’Aeropagita (sul quale si veda quanto abbiamo detto nella XIII parte della ricerca sull’Asino e il Bue nel presepe del 25 giugno 2016), il Damasceno classificò diversi tipi di immagini e stabilì tra di esse una forma di gerarchia.

Molti storici moderni dubitano che davvero l’imperatore Leone III abbia davvero comandato o promosso l’iconoclastia vera e propria (cioè la distruzione delle immagini e la persecuzione di coloro che le veneravano); a sostegno della propria tesi essi (tra i quali citiamo Haldon e Brubaker) adducono varie testimonianze dirette e indirette: ad esempio in una lettera del patriarca Germano a Tommaso di Claudiopoli, scritta dopo l’editto del 730, il prelato, che pure era stato deposto dall’imperatore, non fa alcun riferimento a persecuzioni che egli avrebbe subito per aver avversato l’iconoclastia; la relazione di un pellegrino che visitò Costantinopoli e Nicea negli anni tra il 727 e il 729 in cui non si fa cenno a provvedimenti iconoclastici e persecuzioni di iconoduli; ecc.

Si presume dunque che l’attribuzione a Leone III di duri provvedimenti iconoclastici sia stata dovuta da un lato ad altri motivi di risentimento contro di lui (in particolare la sua politica fiscale e gli intenti moralizzatori), in parte all’ostilità verso il suo figlio e successore Costantino V, il quale era animato da sentimenti di avversione alle immagini sacre ben più incisivi e profondi.

Costui, passato alla storia con il poco onorevole appellativo di “Coprònimo”, -sulla cui origine la versioni sono discordanti: secondo alcuni perché durante il battesimo (per immersione) avrebbe insozzato il fonte battesimale; per altri a causa degli ingiuriosi epiteti con i quali fu vituperato dai suoi nemici, che lo accusarono di ogni nefandezza, compresa quella di celebrare riti turpi e sacrileghi (ma in effetti una spiegazione non esclude l’altra)-, era succeduto al padre nel 741; ma nell’anno successivo, mentre Costantino si stava recando al confine orientale dell’impero per combattere gli Arabi, il generale di origine armena Artavasde, -che gli era cognato, in quanto marito di sua sorella Anna-, sollecitato dalle pressioni degli iconòduli, ne approfittò per usurpare il trono e mise per il momento fine all’iconoclastia (o forse più esattamente iconomachia). Tuttavia le truppe fedeli ad Artavasde furono sconfitte a Sardi dall’esercito di Costantino così che il legittimo imperatore nel 743 potè tornare sul trono, continuando nella politica contraria alla venerazione delle immagini. Dopo il suo reinsediamento sul trono il sovrano fece subire la sua collera anche al patriarca Anastasio, il quale, nonostante le sue simpatie iconoclastiche, aveva incoronato Artavasde, e che pertanto dovette subire dure umiliazioni (come quella di essere portato a dorso d’asino per le vie di Costantinopoli per ludibrio del popolo).

Nei primi tempi del suo regno egli mostrò una certa prudenza, ma a partire dal 750 diede inizio a una vera e propria persecuzione degli iconoduli e promosse la distruzione sistematica delle immagini sacre. Non solo, ma per dare un solido fondamento dottrinale all’iconoclastia nel 753 (o 754) convocò un sinodo a Hieria, sulla riva asiatica del Bosforo, -ma che in un secondo tempo venne trasferito nella chiesa di S. Maria alle Blacherne (il quartiere più aristocratico di Costantinopoli), dove si concluse l’8 agosto 754-, al quale presero parte 338 vescovi e che si prolungò per più di sei mesi.

Solido aureo con l’effigie di Costantino V.

L’augusto consesso emise un risoluta condanna del culto delle immagini, proclamando che esso era una esecrabile idolatria ispirata da Satana in persona per corrompere il cristianesimo, e che la riproduzione artistica delle presunte fattezze di Cristo e dei santi era empia e sacrilega; infine fu lanciato l’anatema contro l’ex-patriarca Germano, contro Giovanni Damasceno e tutti i fautori dell’iconodulia. Al pari delle immagini il concilio dichiarò idolatrico il culto delle reliquie, affermando che solo l’eucarestia era degna di essere adorata, essendo l’unica vera entità materiale e sensibile in cui era presente la natura divina.

Costantino V stesso, -il quale, come diversi imperatori bizantini, nutriva un profondo interesse per le questioni teologiche-, espose le proprie argomentazioni in alcune opere, -delle quali però tra quelle rimaste è certamente sua solo le “Pèuseis”-. In tale scritto egli sostiene, allegando una raccolta di citazioni patristiche nelle quali trovavano riscontro le sue idee, che un’immagine per rendere in modo adeguato il soggetto che rappresenta, dovesse partecipare della medesima sostanza del suo prototipo. Ma tutte le immagini che raffigurano Cristo per forza di cose dovevano separare la natura umana dalla divinità, dal momento che la natura divina non può essere circoscritta nel tempo, nello spazio e nella materia: pertanto le rappresentazioni pittoriche di Cristo costituivano una vera e propria eresia; mentre per quanto riguarda la Vergine Maria e gli altri santi, le icone, costituite di materia inerte, offendevano la loro memoria e la loro santità, che esse non possono in alcun modo esprimere e rivelare.

Le tesi sostenute da Costantino V furono ampiamente discusse nel concilio di Hieria, che in pratica le fece proprie, proclamando che con il culto delle immagini sacre si sostituiva la venerazione di cose transeunti e prodotte dall’uomo all’adorazione del Creatore, l’unica legittima. In conseguenza delle statuizioni del concilio tutte le immagini sacre vennero rimosse dalle chiese, o distrutte e coperte nel caso di affreschi e mosaici, e sostituite o con simboli cristiani, come la croce, o con soggetti naturalistici come animali e piante, oppure con ornamentazioni astratte, simili agli arabeschi islamici. Per tale ragione, secondo alcuni storici dell’arte moderni, come l’Hauser, l’iconoclastìa avrebbe avuto il merito di rinnovare l’arte bizantina, che si sarebbe così svincolata dalla ormai stanca ripetizione di soggetti religiosi per lasciare il posto ad un ritorno al naturalismo di ascendenza ellenistica.

La più forte opposizione alla politica iconoclastica del sovrano si ebbe da parte dei monaci, i quali come abbiamo detto sopra erano i più strenui difensori del culto delle immagini; contro di essi si abbattè una feroce persecuzione, in specie dal 760 in poi, che talora divenne indiscriminata, colpendo tutti i monasteri senza fare alcuna distinzione al fatto che i monaci in essi ospitati fossero iconoduli o meno, e palesando dunque come, al di là della semplice iconoclastia, scopo dell’imperatore e di una parte notevole della corte e dell’esercito fosse quello di indebolire la potenza politica ed economica del clero e di confiscare le cospicue ricchezze di cui esso disponeva.

Particolarmente zelante in quest’opera di distruzione delle icone e di repressione del monachesimo si dimostrò lo stratego del tema di Tracia, Michele, detto Lacanodracone (“drago di verdura” o “di insalata”, espressione sarcastica equivalente a “tigre di carta” e simili  per significare che presumeva della sua forza assai più di quanto essa fosse). Egli nel dì di Pasqua del 767 fece irruzione nel monastero di S. Giovanni il Teologo, -detto “Pelekete” (“scolpito con l’ascia”)-, in Bitinia, sottoponendo i monaci a crudeli torture; 38 di essi furono portati ad Efeso, rinchiusi in una stanza sotterranea ed ivi sepolti vivi; dopo di che ordinò di radere al suolo il monastero stesso. Alcuni dopo, nel 770 o 771, radunò tutti i monaci e le suore del suo tema nello “tzykanisterion” (10) di Efeso e impose loro o di abbandonare la vita monastica e sposarsi; oppure di subire l’accecamento e l’esilio a Cipro.

Tra le vittime più illustri della persecuzione si ricorda Stefano di Costantinopoli il Giovane, igumeno del  monastero di Monte Sant’Aussenzio in Bitinia, il quale dopo aver subito l’esilio a Crisopoli, -sobborgo della capitale sulla sponda asiatica del Crono d’Oro- e nell’isola di Proconneso, e una lunga prigionia fu infine trucidato e del suo cadavere fu fatto scempio per le vie di Costantinopoli (11).

Mentre in Oriente, e in specie nel tema della Tracia e in quelli dell’Asia Minore occidentale infuriava la persecuzione iconoclasta, i territori bizantini in Italia furono invece risparmiati dai provvedimenti di Costantino V, il quale anzi intrattenne buoni rapporti con papa Zaccaria, di origine greca (12), succeduto nel 741 a Gregorio III. Questi, che in un primo tempo aveva riconosciuto l’usurpatore Artavasde, cercando poi di tergiversare finchè la situazione a Costantinopoli non si fosse definitivamente chiarita, alla fine proclamò la sua obbedienza al legittimo sovrano nonostante la sua opera iconoclastica; quest’ultimo a sua volta mostrando un notevole realismo, -per non dire opportunismo-, politico, desistette dall’idea di imporre l’iconoclastia anche in Italia, atto che avrebbe di nuovo compromesso le relazioni col papa, inducendolo a riavvicinarsi ai Longobardi. Non solo, ma per suggellare la ritrovata armonia, donò a Zaccaria alcune vaste proprietà immobiliari site nella pianura pontina, tra cui le “masserie” di Ninfa e di Norma.

Eppure nonostante le reciproche concessioni, le relazioni tra il papato e Bisanzio tornarono a complicarsi, -come vedremo nella prossima parte-, soprattutto a causa dell’intervento dei Franchi, sollecitato da Zaccaria e dai suoi successori, che esercitarono una politica a dir poco spregiudicata, fonte di irreparabili disgrazie per l’Italia.

CONTINUA NELLA SESTA PARTE

Note

1) l’Isauria era una regione dell’Asia Minore meridionale, corrispondente a quella che in tempi più antichi era chiamata “Cilicia Trachea” (o “Cilicia Aspera” in latino), ovvero la parte occidentale della Cilicia. Essa assunse tale nome, -derivato dalla città di Isaura-, quando con la riforma di Diocleziano fu staccata dalla Cilicia orientale (la “Cilicia Pedia” o “Cilicia Campestris”) per formare una provincia a sé. Gli abitanti di quella regione, come della Cilicia in generale (che era stata una terra famosa per i suoi pirati astuti e spietati), erano considerati, -in base ai luoghi comuni sempre ricorrenti in tutti i tempi e luoghi nella storia dell’umanità-, individui rozzi, violenti e poco affidabili. A questo motivo, forse, si deve l’attribuzione di un’origine isaurica a Leone III da parte dei suoi avversari iconoduli, come lo storico Teofane.

2) poiché il testo integrale del decreto non è stato tramandato, -così come quello di uno seguente del 730 con il quale si ribadivano e si ampliavano le disposizioni del precedente-, non si può avere un’idea precisa del suo contenuto.

3) il “turmarca” era l’alto ufficiale che comandava una “turma”. Con tale nome in Roma antica si designava una unità di cavalleria equivalente alla centuria della fanteria. Nell’ordinamento dei “thèmata” bizantini era il nome di ciascuna della quattro brigate in cui era divise le armate di stanza nelle circoscrizioni (chiamate pure esse “thema”).

4) il “fuoco greco” era una miscela incendiaria di olio minerale e di zolfo, in seguito potenziata con salnitro (e talora altri ingredienti, quali nafta, alcool e calce viva) con cui si imbevevano delle palle di stoppa, -oppure delle fasce avvolte su frecce e altri proiettili-, che venivano poi lanciate sul nemico per mezzo di balestre o catapulte. Si ritiene che questa sorta di rudimentale esplosivo fosse stato inventato dai Cinesi. Un’altra tradizione vuole che esso sia stato importato a Costantinopoli dall’Egitto nel 671 da un certo Callìnico. Per molti secoli i Bizantini custodirono gelosamente il segreto della sua composizione precisa, poiché l’uso di tale miscela, che aveva la proprietà di bruciare anche sull’acqua, assicurava loro la supremazia sui mari consentendo facili vittorie.

5) in effetti la giustificazione dottrinale con la quale si è voluto giustificare il dominio temporale del papa, -che in effetti contraddice clamorosamente i principi evangelici-, è quella che esso avrebbe il fine di tutelare e garantire “la libertà e l’indipendenza della chiesa”: ma è più che evidente che tale assunto nasce da un concetto del tutto distorto di “libertà” e di “indipendenza”, che nella concezione dei teorici della “ierocrazia” cattolica equivalgono a privilegio, superiorità, intolleranza, e si congiungono a un malinteso “dovere” di imporre a tutti la “verità” e la “salvezza”, oltre che a sete di potere mondano.

6) si tenga presente che nell’organizzazione ecclesiastica di quel periodo tutte le diocesi dell’Italia centro-meridionale, -ovvero che si trovavano in quella che nell’ordinamento conferito all’impero da Costantino I costituiva la prefettura dell'”Italia suburbicaria”-, dipendevano direttamente dal “patriarca di Roma”, ovvero dal papa, e codesta situazione perdurava anche dopo la divisione politica di tale territorio tra Longobardi e Bizantini (e dunque non vi erano arcivescovi  e tanto meno patriarchi fino ai mutamenti introdotti dall’imperatore Leone VI). Per quanto riguarda l’Italia settentrionale, essa era suddivisa in tre province ecclesiastiche: di Milano, di Aquileia e di Ravenna, le quali corrispondevano quasi esattamente la prima alle due regioni augustee di “Transpadana” (XI) e “Liguria” (IX); la seconda alla “Venetia et Histria” (X), -più il Norico e parte della Dalmazia-; mentre la terza si estendeva sull'”Aemilia” (VIII). Sull’ordinamento ecclesiastico non aveva dunque influito la nuova organizzazione amministrativa introdotta da Diocleziano, e poi ritoccata da Costantino, che aveva ripartito l’Italia in “Suburbicaria” e “Annonaria”, e quest’ultima a sua volta nelle province di “Alpes Cottiae” (l’antica provincia omonima, più la IX regione augustea -Liguria- ), “Liguria et Aemilia” (antica Transpadana, più Emilia occidentale), “Venetia et Histria” (quest’ultima rimasta immutata rispetto all’omonima regione augustea) e “Flaminia et Picenum annonarium” (le attuali Romagna e Marche settentrionali). Nell’VIII sec. la provincia ecclesiastica di Milano si trovava dunque sotto la sovranità politica longobarda; quella di Ravenna era in parte sotto il dominio longobardo e in parte sotto quello bizantino (ma la sede del metropolita ricadeva nell’autorità di Bisanzio, essendo la capitale dell’Esarcato e dell’Italia bizantina); il patriarcato di Grado, sulle coste venete, era pure bizantino, ma, -come abbiano visto nella seconda parte della nostra trattazione, a proposito della scisma dei “Tre Capitoli”-, esso era uno sdoppiamento del patriarcato di Aquileia, che si trovava invece in territorio longobardo.

7) dopo la fine della devastante guerra gotica nel 553, che aveva lasciato l’Italia in disastrose condizioni economiche e sociali, con la “Pragmatica Sanctio pro petitione Vigilii”, emanata il 13 (o 14) agosto 554, il territorio italiano fu costituito in  “Praefectura Italiae” che corrispondeva all’incirca alla “diocesi italiciana” dell’ordinamento di Diocleziano e Costantino. Nella prefettura d’Italia, a richiesta di papa Vigilio,- il quale, come abbiano detto nella terza parte della presente ricerca, in quell’anno si trovava a Costantinopoli in condizione di semiprigionia-, fu estesa la legislazione bizantina, mentre i provvedimenti dei sovrani ostrogoti furono in genere confermati, -ma alcuni, in particolari quelli dell'”empio Totila”, furono abrogati-. Inoltre sul piano religioso erano assegnate al patriarca di Roma e di tutto l’Occidente, ossia al papa, anche le province ecclesiastiche della Dalmazia e dell’Illirico (quest’ultima comprendeva la gran parte della Grecia europea continentale). Alcuni anni dopo però, in seguito alla nuova disgrazia dovuta alla discesa dei Longobardi e alla conseguente perdita da parte dei Bizantini di buona parte dell’Italia, l’imperatore Maurizio (582-602) nel 584, affidò ad un esarca residente a Ravenna, l’antica capitale dell’Impero Romano d’Occidente, i residui territori bizantini nella penisola, invero alquanto frammentati e discontinui. L’esarca, era una sorta di vicerè, che godeva di larga autonomia amministrativa, e, come il patriarca di Costantinopoli dipendeva dall’imperatore, da esso dipendeva il pontefice romano.

8) i domini bizantini nell’Italia meridionale di Leone III si erano ridotti, dopo l’espansione del ducato longobardo di Benevento, e in seguito anche agli insediamenti più o meno stabili degli Arabi, -oltre che alla Sicilia, e ai ducati semi-indipendenti di Napoli, Amalfi e Gaeta-, alla Calabria (la parte meridionale della Puglia) e al Brutium (la Calabria attuale) centro-meridionale. Pertanto furono riuniti in un unico “thema”, detto “di Calabria”. Dopo le riconquiste della fine dell’VIII secolo e soprattutto del secolo IX, di cui fu artefice in specie lo stratego Niceforo Foca (830-896 circa)-da non confondere con l’omonimo imperatore che regnò nel secolo successivo-, con le campagne dell’885 e 886 i territori bizantini nell’Italia meridionale furono riorganizzati in due temi: quello di Longobardia, -che comprendeva in pratica la Puglia attuale-, e quello di Calabria. E’ da quel periodo che la regione che prima chiamavasi Brutium cominciò ad essere designata con il nome di “Calabria”, tuttora in uso. Alla metà del X secolo si aggiunse anche per alcuni decenni un tema di Basilicata, corrispondente all’incirca all’attuale regione, -salvo Matera, che era compresa nel tema di Longobardia-. Ma dalla fine del X sec. e poi nel secolo seguente a causa prima dell’effimera espansione del principato di Salerno, -sorto dalla divisione del ducato di Benevento nell’840-, e poi all’avanzata dei Normanni, i domini bizantini si restrinsero sempre più fino a scomparire del tutto, a beneficio della nascente monarchia normanna.

9) nato a Damasco da famiglia cristiana 15 anni dopo che la città era divenuta sede del  califfato degli Ommayadi, -nel 661-, aveva rivestito la carica di logoteta, -sorta di ministro delle finanze-, presso il califfo arabo, e in seguito si era ritirato in un monastero a Gerusalemme. La sua opera principale è la “Fonte della Conoscenza”, una esposizione sistematica della teologia ortodossa, che godette notevole fortuna nelle chiese orientali, ma non mancò di influenzare anche quelle occidentali, in particolare la terza parte, che fu tradotta in latino alla metà del XIII secolo da Burgundio di Pisa e servì da modello alle “Sententiae” di Pietro Lombardo. Le altre due parti sono costituite da una “Dialettica” di contenuto filosofico; e da una “Storia delle eresie”, dagli inizi del cristianesimo fino la suo tempo (e tra di esse è compreso l’Islam). Tra le argomentazioni impiegate dal nostro notevole è quella sull’esistenza di Dio, che ha sapore aristotelico e precorre quella analoga proposta alcuni secoli più tardi da Tommaso d’Aquino: tutte le cose di cui abbiamo esperienza sono mutevoli e soggette ad un incessante divenire; tali sono non soltanto gli enti sensibili, ma anche l’anima e gli angeli; tutto quanto diviene manifesta la propria condizione di essere creato, poiché tale condizione, -ossia il passare dal non essere all’essere-, è la radice di ogni divenire. Se l’esistenza di Dio risulta evidente dalle prove razionali, la sua essenza ci è però ignota: tutto quanto si può predicare di Lui, -che è ingenerato, incorruttibile, immutabile, eterno, ecc.-, è solo costituito da negazioni che non svelano l’essere positivo di Dio. E pure gli attributi affermativi, -che è l’uno, il bene, l’assoluto, la causa prima-, non sono adeguati per esprimere la sua natura: come per i neoplatonici e per Gregorio di Nissa, al quale il Damasceno si ispira, Dio è al di là della nostra possibilità di conoscenza: di Lui sappiamo soltanto che non possiamo pienamente conoscerlo.

10) il campo adibito al gioco detto “tzykanion”. Questo gioco, che doveva essere simile al “polo” moderno, veniva disputato tra due squadre di cavalieri i quali, impugnando un bastone terminante con un retino, dovevano spingere una palla di cuoio nella meta avversaria. Tale sport, che proveniva dalla Persia sassanide, era molto popolare tra l’aristocrazia bizantina.

11) fu poi venerato come santo con festa il 28 novembre.

12) abbiamo già ricordato Zaccaria per la sua condanna del culto degli angeli non citati nelle scritture canoniche (i quali sarebbero stati invocati per compiere opere di magia) in un sinodo romano celebrato nel 745 -si veda la XIII parte di “L’ASINO E IL BUE NEL PRESEPE” del 25 giugno 2016-.

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