STORIA MINIMA DELL’IDEA DI DIO NEL PRIMO MILENNIO CRISTIANO -ottava parte (ripresa e fine dell’iconoclastia)-

Com’è facilmente comprensibile l’incoronazione a imperatore di Carlo Magno e la proclamazione del “sacro Romano Impero” da parte di Leone III, con cui si delegittimava non solo l’autorità di Irene, ma in fondo lo stesso Impero d’Oriente, suscitò indignazione ed ira in quest’ultimo. Ma in realtà lo stesso neo-imperatore, conscio della fragilità e instabilità della sua posizione, nonchè della subordinazione di fatto al pontefice romano che il suo nuovo titolo comportava, cercava una base più solida al suo potere divenuto “imperiale”: per tale ragione egli avanzò una proposta di matrimonio ad Irene, che in qualche modo riprendeva i termini e si proponeva gli obiettivi di quella analoga che alcuni anni prima era stata prospettata tra l’imperatore Costantino e la principessa Rotrude, figlia di Carlo Magno. Se tale proposta fosse stata accolta, l’Impero d’Oriente e quello d’Occidente dopo più di quattro secoli si sarebbero finalmente riuniti, ma soprattutto sia lui sia l’imperatrice bizantina avrebbero potuto rinsaldare reciprocamente i fondamenti giuridici e politici, -incerti sia per l’uno che per l’altra-, del loro potere “universale”. Ed Irene in un primo tempo parve voler aderire alla lusinghiera proposta; ma poi le pressioni dei suoi consiglieri e l’influenza della corte bizantina la dissuasero dall’accettare l’offerta del nuovo signore dell’occidente. Fu soprattutto il suo nuovo favorito, Ezio, -il quale aveva scalzato Staurakios dalla sua posizione di più influente consigliere-, il principale responsabile della rottura delle trattative matrimoniali, poiché l’unione tra i più potenti sovrani del mondo cristiano di quel tempo avrebbe fatalmente significato il declino della sua fortuna; ma soprattutto perché codesto ambizioso e ambiguo ministro aveva concepito il disegno di elevare al soglio imperiale suo fratello Leone, stratego di Tracia e di Macedonia.

La chiesa di S. Giorgio a Tessalonica, detta la “Rotonda”, trasformazione del mausoleo di Galerio.

Già negli anni precedenti egli aveva cercato di insidiare l’egemonia esercitata a corte da Staurakios, accusandolo anche di mirare al trono. Al fine di riacquistare la sua posizione di preminenza presso Irene, quest’ultimo suscitò allora una rivolta contro il rivale in Cappadocia, ma la rivolta fallì, anche a causa della sopravvenuta morte per malattia di Staurakios nel giugno dell’800. Ezio, che già deteneva la carica di stratego del tema di Anatolikon, acquisì anche il comando di quello di Opsikion: questi due temi erano i più importanti e più ricchi di tutto l’Impero Bizantino, e colui che li amministrava godeva certamente di una posizione dominante nell’ambito dello stato. In tale veste l’astuto dignitario si scontrò più volte con gli Arabi con esito alterno (vittoria nell’800, seguita da una sconfitta l’anno seguente).

Ma la posizione di preminenza conquistata da Ezio aveva suscitato la gelosia e l’ostilità di molti altri ministri e dignitari, i quali, avendo avuto sentore delle sue intenzioni di insediare sul trono il fratello Leone, -sul quale riteneva evidentemente di avere un forte ascendente, tale da consentirgli di guidare l’azione di governo-, pensarono di prevenire le sue mosse. Essi tramarono così un’ennesima congiura di palazzo che il 31 ottobre 802 detronizzò Irene e proclamò imperatore il logoteta Niceforo. Ma alla deposizione di Irene contribuì senza dubbio anche il malcontento negli ambienti militari per la sua politica estera poco incisiva, e in particolare i risultati nell’insieme deludenti delle campagne militari contro il califfato abbasside di Bagdad, al quale l’imperatrice si adattò più volte a versare degli onerosi tributi.

Mappa di Costantinopoli nell’VIII secolo.

Tuttavia il popolo e la maggior parte del clero erano favorevoli a Irene e quando in città si sparse la notizia della sua destituzione il popolo insorse in sua difesa; ma al fine di evitare inutili massacri la sovrana, preferì rinunciare spontaneamente al trono. Niceforo le aveva promesso che le avrebbe consentito di vivere nel palazzo dell’Eleuterio; ma poi per timore che fosse tentata di riassumere il potere o che potesse prestarsi a manovre contro di lui, la esiliò prima nell’isoletta di Prinkipos nel mar di Marmara e poi nell’isola di Lesbo, dove Irene si spense in solitudine il 7 agosto 803. Fu tumulata a Prinkipos -l'”Isola dei Principi”-, l’isoletta così chiamata perché destinata a luogo di detenzione e di esilio di membri delle case reali bizantine caduti in  disgrazia, nel monastero da lei fatto costruire, dove già riposavano le spoglie mortali di suo figlio Costantino: come il potere aveva drammaticamente separato madre e figlio, così la morte li aveva riuniti.

Ricordiamo altresì che Eufrosine, figlia di Costantino e di Maria di Amnia, dopo essere divenuta sposa all’imperatore Michele II il Balbo -o il Balbuziente-, dispose l’edificazione di un monastero a Livadia, dove furono trasportati i resti mortali dei sui genitori dall’isola di Prinkipos, mentre le spoglie di Irene erano già state traferite nella chiesa degli Apostoli a Costantinopoli.

Per il merito di aver convocato il VII concilio ecumenico, con il quale fu posta fine, sia pure temporaneamente, all’eresia iconoclasta, Irene e suo figlio, che già nella seduta conclusiva del II concilio di Nicea erano stati acclamati come “nuovi Costantino ed Elena”, furono canonizzati dal patriarca Fozio (1). Irene, la quale, oltre che munifica protettrice del clero, che beneficò in ogni modo, si rivelò illuminata mecenate delle arti e delle lettere, secondo la tradizione era bellissima e appassionata, nonché oltremodo ambiziosa, -tanto che per molti aspetti si può accomunare ad altre famose sovrane dell’antichità quali l’egiziana Hatscepsut, l’assira Semiramide, la greco-egizia Cleopatra VII Tea Filopàtore, Zenobia di Palmira-, e così fu rappresentata da scrittori e poeti che si ispirarono alla sua vita nelle loro opere (come ad esempio nella tragedia “Irene” di Voltaire scritta nel 1778).

Il nuovo “basileus”, pur non essendo propriamente un iconoclasta, per distinguersi dall’orientamento fin troppo favorevole ai monasteri che aveva caratterizzato il regno di Irene, e che era sgradito a coloro che ne avevano sostenuto l’ascesa al potere, adottò una linea di governo opposta a quella di lei in materia ecclesiastica, tornando ad uno stretto controllo dell’autorità imperiale sull’operato dei prelati e dei monaci. Alla morte di Tarasio, avvenuta poco dopo quella di Irene, egli promosse l’elezione a patriarca di Costantinopoli di un suo fautore, anch’egli di nome Niceforo. Questi in un sinodo da lui convocato  e presieduto nell’806 riabilitò e reintegrò nel suo ufficio l’igùmeno Giuseppe, colui che aveva celebrato il secondo matrimonio di Costantino VI, che, come abbiamo visto in precedenza, era stato deposto dalla carica da Tarasio.

In seguito a tale atto, l’igùmeno Teodoro, posto a guidare il celebre monastero dello “Studion”, -da cui l’appellativo di “Studita” con cui divenne noto e che abbiamo già visto come uno dei strenui oppositori sia dell’iconoclastia, sia della validità e della legittimità del secondo matrimonio di Costantino VI-, elevò una vibrata protesta e quando Giuseppe riprese a svolgere il ministero sacerdotale, ruppe la comunione con il patriarca Niceforo. In tal modo però egli ed i suoi seguaci si attirarono le ire del nuovo sovrano e del nuovo patriarca i quali fecero arrestare Teodoro Studita, suo zio Platone e suo fratello Giuseppe, arcivescovo di Tessalonica, che vennero poi condannati all’esilio.

Nell’808 poi l’imperatore convocò un altro sinodo che si riunì nel gennaio dell’809 e nel quale, oltre a scomunicare i suddetti prelati e a confermare la riabilitazione dell’igùmeno Giuseppe, si ribadì la validità del matrimonio di Costantino con Teodota: per tale ragione in una lettera al monaco Arsenio, Teodoro definì quell’assemblea ecclesiastica “moechosynodos”, “sinodo dell’adulterio”. La sua coscienza infatti non poteva in alcun modo tollerare il principio della cosiddetta “economia dei santi”, ovvero che in determinate circostanze era opportuno accettare un male minore e che quindi in nome della “ragion di stato” si potesse calpestare quella che per lui era una inderogabile legge divina.

Nell’811, il 25 (o 26) luglio, Niceforo I morì durante la guerra contro i Bulgari guidati dal khan Krum nella sanguinosa battaglia di Pliska (2) e gli succedette il figlio Staurakios. Ma poiché quest’ultimo era stato gravemente ferito alla colonna vertebrale nelle medesima battaglia in cui aveva perso la vita il padre, dopo poco più di un mese, prostrato dalle atroci sofferenze, abdicò in favore del cognato Michele Rangabè (nome proprio della sua famiglia), -marito di sua sorella Procopia- (3); questi richiamò dall’esilio Teodoro, il quale divenne il suo più ascoltato consigliere in materia religiosa. La pace fu però di breve durata, poiché i Bulgari che in quel periodo costituivano la principale minaccia per l’impero, e in particolare per la capitale, mossero nuovamente verso Costantinopoli e nell’estate dell’813 inflissero a Michele I una terribile sconfitta presso la città di Adrianopoli (4).

L’esercito proclamò allora basileus Leone, detto l’Armeno (Leone V). Con lui si riaccese la persecuzione iconoclasta: egli fece rimuovere l’immagine di Cristo della Chalkè, la porta di bronzo del Sacro Palazzo, che Irene aveva fatto rimettere al suo posto (e che come si ricorderà Leone III l’Isaurico aveva tolto per primo nel 726, dando inizio alla persecuzione iconoclastica), -adducendo peraltro a pretesto per tale atto di volerla salvare da possibili profanazioni di alcuni militari iconoclasti-; costrinse ad abdicare dalla sua dignità il patriarca Niceforo, fautore dell’iconodulia, -invero già malato-, sostituendolo con un suo fedele, nonché convinto iconoclasta, Teodoto Melisseno; ripristinò la proibizione delle immagini sacre e perseguì tutti gli ecclesiastici che non si adeguavano alle sue disposizioni. In realtà il ritorno all’iconoclastia promosso dall’imperatore era dettato più, forse, che dalle convinzioni personali, da ragioni politiche: infatti la religiosità iconòmaca e iconoclasta era particolarmente radicata nelle regioni dell’Anatolia orientale, e in quelle, -come la Siria settentrionale e l’Armenia -,che in seguito a mutamenti territoriali dovuti agli eventi bellici passavano di frequente dai Bizantini agli Arabi e viceversa. Egli intendeva quindi in tal modo assicurarsi la fedeltà di quel ceto agricolo-militare che costituiva la base sociale dell’impero nelle regioni di confine, nonché nell’Anatolia centrale, dove spesso i suoi membri emigravano dalle zone più orientali per sfuggire all’espansione islamica (5). D’altro canto la ripresa dell’iconoclastia ebbe l’effetto di riunire in un unico fronte i seguaci dell’iconodulia che si erano separati in merito alla “questione moicheana”.

In seguito a tali fatti, ancora una volta Teodoro Studita assunse la guida della resistenza messa in atto dal clero che si richiamava all’ortodossia più rigida: nella Domenica delle Palme dell’815 guidò una solenne processione di più di mille monaci, che portavano le icone sacre intonando solenni inni di acclamazione e di lode in loro onore. Tale cerimonia religiosa che appariva come una palese sfida e disobbedienza al potere civile fu punita con severità dal governo iconoclasta di Leone V: Teodoro e molti dei suoi compagni furono incarcerati e torturati e infine esiliati in diversi luoghi dell’Asia Minore (6).

L’Impero Bizantino nell’814.

A sua volta Leone V nella Pasqua dell’815 aveva indetto un sinodo nella basilica di S. Sofia con il quale intendeva abrogare le deliberazioni del II concilio di Nicea e rimettere in vigore i decreti del concilio di Hieria del 754, -nei quali si condannava e reprimeva il ricorso alle immagini sacre-; peraltro rispetto al concilio di Hieria si abbandonò la qualifica delle icone come veri e propri idoli che colà vi era stata formulata, sostenendo altresì che esse non fossero sacre di per sé, e pertanto non potessero rivelare la gloria della santità. Al contrario si accreditò l’idea che l’autentica immagine materiale che rimandava a Dio fosse un cristiano che vivesse santamente; e si proclamò altresì che “coloro che hanno reso la loro adorazione alle immagini inanimate hanno favorito e continuato gli errori del passato, sia circoscrivendo in una figura terrena quanto non può essere circoscritto, sia separando la carne dalla divinità”. Pertanto veniva messa al bando “l’ingiustificata manifattura delle menzognere icone che è stata adottata con tanta audacia e anzi dopo aver sottoposto ad equo giudizio l’adorazione delle icone insensatamente ammessa da Tarasio, ed avendola ricusata, dichiariamo non valida l’assemblea da lui presieduta [il secondo concilio di Nicea] poiché concesse un onore eccessivo alla pittura resa coi colori, in particolare […] con l’accensione di candele e lampade e con l’offerta di incenso, segni di culto propri dell’adorazione (“latrìa”)”.

In quel consesso però il patriarca Teodoto Melisseno non riuscì a mantenere l’ordine e a frenare le intemperanze dei più accaniti e fanatici iconoclasti i quali non solo discriminarono i vescovi iconoduli, ma giunsero financo al punto di insultarli e schernirli.

Tuttavia nel complesso sotto il governo di Leone V la persecuzione degli iconòfili non fu sistematica e non raggiunse, se non in rari casi, le forme dure e violente che aveva assunto al tempo di Costantino V. E così pure con il suo successore Michele II il Balbo (820-829), il quale all’inizio del suo regno mantenne una relativa tolleranza verso tutti i gruppi religiosi, compresi i Pauliciani-. Costui, -con il quale ebbe inizio la dinastia “amoriana” (cosiddetta da Amorium, la città della Frigia donde proveniva)- era salito al trono dopo essere stato imprigionato dal predecessore che lo aveva accusato di cospirazione; ma i suoi sostenitori riuscirono a liberarlo e dopo aver assassinato Leone V lo proclamarono imperatore il 25 dicembre 820. Poco dopo però dovette affrontare una rivolta scoppiata in Cappadocia e guidata da un certo Tommaso, di origine slava, ex-ufficiale dell’impero, il quale asserendo di essere l’imperatore Costantino VI, scampato alla morte, aveva radunato intorno a lui un numeroso esercito costituito da diseredati e da membri di minoranze etniche e religiose. Anche grazie al sostegno del califfo abbasside Al-Mamun, questo strano personaggio, un po’ avventuriero e un po’ riformatore sociale, che aveva anche ricevuto una sorta di investitura dal patriarca ortodosso di Antiochia Giobbe (817-826), riuscì ad occupare buona parte dell’Asia Minore. Forte di questo successo, il ribelle nell’822 tentò di dare l’assedio alla stessa Costantinopoli, con la manifesta intenzione di assumere la porpora imperiale che secondo lui gli spettava di diritto. Intervenne allora il khan dei Bulgari Omurtag, -che dopo le rovinose guerre degli anni precedenti si era riconciliato con i Bizantini- con il cui determinante aiuto fu tolto l’assedio alla capitale; Tommaso riuscì a sfuggire con quanto rimaneva del suo esercito, ma dopo essere stato sconfitto nella città di Arcadiopoli, fu catturato e condannato a morte. Poiché tra i seguaci di Tommaso si contavano molti pauliciani ed altri eretici appartenenti alle più varie sette -tra cui quella, alquanto strana, degli “Athinganoi”(7)-, dopo la sconfitta dei ribelli l’atteggiamento di Michele II si fece più severo e molto meno tollerante in materia di religione e a farne le spese furono, come abbiamo visto, soprattutto i pauliciani. Questo cambiamento gli alienò in parte il favore delle popolazioni, così come il fatto che dopo essere rimasto vedovo della prima moglie Tecla, che gli aveva dato due figli, tra cui il suo futuro successore Teofilo, abbia voluto unirsi in matrimonio con Eufrosine, la figlia di Costantino VI, togliendola dal convento nonostante ella avesse preso il velo da diversi anni.

Michele II mantenne un atteggiamento che si potrebbe definire neutrale sulla questione del culto delle icone: egli mise fine alla politica persecutoria di Leone l’Armeno, facendo richiamare dall’esilio tanto l’ex patriarca Niceforo quanto Teodoro Studita; proibì ogni discussione sulle immagini, vietando che altre, oltre quelle esistenti, ne venissero prodotte e poste nei luoghi di culto, ma nel medesimo tempo non promosse la loro distruzione. Alquanto significativa del suo orientamento è la risposta che egli diede a Teodoro Studita, che voleva indurlo a ristabilire l’iconodulia: “Quantunque le osservazioni che mi avete sottoposto siano elevate e oneste, non intendo aderire ad esse: fino ad ora non ho mai venerato qualsivoglia immagine, per cui come è giusto che io rimanga nella mia opinione, è ugualmente giusto che voi perseveriate nella vostra. Non intendi oppormi ad alcuno ma non desidero che siano erette altre immagini nella città di Costantinopoli. Fuori della capitale fate quello che volete”.

Con l’avvento al trono di Teofilo, si rafforzò ulteriormente l’indirizzo iconomaco della corte bizantina, che divenne allora decisamente iconoclasta. Il nuovo imperatore infatti nell’830 indisse un altro concilio, -detto “concilio delle Blacherne” dal luogo ove si tennero le sedute, ovvero la basilica di S. Maria delle Blacherne (le Blacherne, come abbiamo già precisato erano uno dei quartieri più rinomati di Costantinopoli, sito su una collina affacciantesi sul Corno d’Oro), luogo ove erano conservate molte reliquie (o presunte tali), tra le quali assai venerato era un velo di Maria (detto “maphorion”)-  i cui deliberati inasprirono ulteriormente la repressione del culto delle icone e nell’837 elevò alla cattedra patriarcale il suo ex-precettore Giovanni Morochàrziamos, detto “il Grammatico”, famoso teologo ed erudito, il quale da iconodulo che era si era convertito all’iconoclastia, -non si sa quanto per convinzione e quanto per opportunismo- in occasione del concilio dell’815.

Tuttavia questa seconda fase dell’iconoclasmo ebbe una rispondenza assai minore nella società bizantina del tempo e nella stessa famiglia imperiale si veneravano le immagini sacre, in particolare la consorte del sovrano, Teodora (8).

Immagine dell’imperatrice Teodora II.

Costei alla morte di Teofilo avvenuta nell’842 si trovò a governare l’impero in nome del figlio Michele che aveva solo tre anni; gli iconofili premevano per un immediato ritorno all’ortodossia, ma l’imperatrice tergiversava perché non voleva che la memoria del marito ne uscisse menomata. Pertanto, come già aveva fatto Irene a suo tempo, procedette per gradi: destituì Giovanni il Grammatico sostituendolo con l’iconofilo Metodio (9), il quale, d’accordo con lei, nel marzo 843 radunò un nuovo sinodo in cui venne condannata l’iconoclastìa e restaurata. -questa volta definitivamente-, la venerazione per le immagini sacre nei termini stabiliti dal II concilio di Nicea del 787. L’autorevole adunanza si concluse con una solenne processione che si snodò per le vie di Costantinopoli da S. Maria delle Blacherne a S. Sofia. -la principale basilica delle cristianità orientale-, dove le sacre icone vennero ricollocate al posto d’onore. In quella circostanza venne anche istituita la “Festa dell’ortodossia”, che si celebra tuttora nelle chiese orientali la prima domenica di quaresima.

La seconda fase dell’iconoclastia bizantina provocò una reazione di carattere più schiettamente filosofico da parte degli iconoduli, che talvolta fu definita impropriamente “scolastica”, per il ricorso alla logica aristotelica a sostegno delle proprie argomentazioni (10). Il movimento di difesa delle immagini fu animato sul piano teologico principalmente dal patriarca Niceforo, che propugnò il valore e l’ortodossia del culto delle icone nell'”Apologeticus Maior”, nelle tre “Confutazioni”( “Antirrhetikoi”), nel “Contra Eusebium et Epiphanidem” (che erano i principali riferimenti patristici degli iconoclasti); e da Teodoro Studita che espose la sua dottrina iconofila in tre “Confutazioni” -“Antirrhetikoi”- (da non confondere con quelle di Niceforo) e in alcune lettere.

Rifacendosi alla Metafisica e ad altre opere di Aristotele, Niceforo tentò di dare agli argomenti già esposti a suo tempo da Giovanni Damasceno un solido fondamento filosofico, definendo una relazione tra raffigurazione e soggetto della medesima nei termini delle categorie aristoteliche di “causa” ed “effetto”. Secondo Niceforo incarnandosi il Logos divino non assunse un’umanità astratta, ideale, ma corporea e concreta: di conseguenza tale umanità completa implicava la possibilità di essere “descritta poiché se Cristo fosse stato incircoscrivibile, sua madre Maria con la quale condivideva la natura umana avrebbe dovuto essere anch’ella incircoscrivibile”. Come si potrà dunque notare alla base della controversia sul culto delle immagini sta ancora una volta il nodo capitale di come sia da intendere la “natura umana” in Cristo e in quale relazione sia con quella divina.

Anche Teodoro Studita nelle sue opere cercò di superare lo scoglio della natura umana attribuita a Cristo e assunta nella sua totalità che come abbiamo osservato nelle parti precedenti costituisce il “punctum dolens” nell’intricata questione di come si possano legare tra loro “umanità” e “divinità”, senza sminuire, o addirittura negare, l’una o l’altra (questione che a nostro modesto avviso non è mai stata risolta, né lo sarà mai, in modo soddisfacente, se non in una prospettiva di tipo sostanzialmente deistico e gnostico -ovvero l’uomo che diviene “dio” allorché prende coscienza della sua realtà divina interiore e si solleva così da tutti i condizionamenti esteriori e deteriori, ovvero il “peccato” nella visione cristiana ortodossa-).

Il timore di cadere nel nestorianesimo aveva impedito a molti teologi di considerare Cristo “vero uomo”, il che implica una coscienza umana individuale, e dunque un’ipostasi umana separata. Gli iconoclasti insistevano nell’affermare che Cristo in virtù dell'”unione ipostatica” tra divinità e umanità, fosse incircoscrivibile e che dunque nessuna immagine dipinta o scolpita potesse darne un’idea adeguata. Ma Teodoro sosteneva al contrario che, essendo in Cristo l’ipostasi, -o in altri termini la “persona”- sia divina sia umana, l’immagine di quest’ultima, -umana-, proprio in virtù dell’unione inscindibile con l’altra, rimanda a quella divina: l’immagine può rappresentare solo un’ipostasi, cioè una “persona”, e non una “natura”, o una “sostanza” poiché esse non sono concepibili e rappresentabili. Sempre secondo lo Studita su un’icona di cristo l’unica iscrizione appropriata è “o On” (“L’Essente”, “Colui che è”, -come Dio disse a Mosè nel roveto ardente, in quanto non è solo immagine dell’uomo Gesù, ma del Logos incarnato, e pertanto nella sua figura il capo dovrebbe sempre essere circondato dal nimbo crucifero con tale iscrizione.

In tal modo, come scrive il teologo John Meyendorff, si volle significare che “la fede religiosa poteva esprimersi non soltanto in preposizioni, in libri o in un’esperienza personale, ma anche attraverso l’esperienza estetica, nonché mediante gesti e atteggiamenti esteriori davanti alle immagini sacre. Questo implicava una filosofia della religione, così che la liturgia e la coscienza religiosa coinvolgevano tutte le facoltà umane senza escluderne o relegarne alcuna nell’ambito del profano” (11).

Note

1) la chiesa ortodossa venera come santi tutti i sovrani che indissero e presiedettero i concili ecumenici da essa riconosciuti, -vale a dire i primi sette-: Costantino I il Grande (280 circa-337) e Flavia Elena, sua madre (248 circa-329), con ricorrenza il 21 maggio (I concilio di Nicea -325-); Teodosio I (347-395), il 17 gennaio (I concilio di Costantinopoli -381-); Teodosio II “il Giovane” (401-450), il 29 e 30 luglio, ed Eudossia, sua sposa (401-460), il 13 agosto e il 10 settembre (concilio di Efeso -431-); Marciano (392-457), il 16 febbraio e Pulcheria (399-453 (concilio di Calcedonia -451-); Giustiniano (482-565) e Teodora (500 circa- 548), il 14 novembre (II concilio di Costantinopoli -553-); Costantino IV Pogonato (654-685), il 28 giugno (III concilio di Costantinopoli -680-681-): Costantino VI (771-805), il 9 agosto, e Irene (I. “la Giovane”), il 7 agosto, -insieme il 28 novembre- (II concilio di Nicea -787-). Altri imperatori e imperatrici bizantini canonizzati sono: Arcadio (377 circa-408) (festa il 27 agosto); Maurizio (539-602) (28 novembre); Giustiniano II Rinotmeto (669-711) (15 luglio e 2 agosto); Teodora di Costantinopoli, sposa di Teofilo e madre di Michele III (800 circa-867), (11 febbraio); Basilio I il Macedone (812 circa-886) (29 agosto); Teofano, prima moglie di Leone VI (16 dicembre); Niceforo II Foca (912 circa-969) (11 dicembre); Anna Paleologa (Giovanna di Savoia) (1306 circa-1359), sposa di Andronico III e madre di Giovanni V (6 agosto); Costantino XI Paleologo Dragases, ultimo “basileus” dell’Impero d’Oriente caduto sulla mura di Costantinopoli quando la città venne conquistata dai Turchi Ottomani di Maometto II (1405-1453)(20 maggio).

2) Niceforo I era il primo imperatore dopo Valente, perito nel 378, che lasciava la vita sul campo di battaglia: questo episodio sia per il luogo ove avvenne, in quella che era l’antica Tracia, sia per il periodo dell’anno, il pieno dell’estate, sia per l’esito disastroso per gli imperiali rimembrava la battaglia di Adrianopoli in cui l’imperatore Valente fu sconfitto dai Visigoti.

3) Staurakios spirò l’11 gennaio dell’812.

4) fu proprio questa critica situazione a indurre Michele I ad un accordo con Carlo Magno con il quale riconosceva il nuovo “impero d’occidente” e definiva i confini con esso.

5) come abbiamo detto in precedenza è incerto quanto l’islamismo abbia influito sull’iconoclastia. E’ assai improbabile un’influenza diretta di tipo dottrinale, -sebbene alcune della argomentazioni addotte dagli iconoclasti, specie quelli più accesi (carattere idolatrico delle immagini, impossibilità di rappresentare Dio in forma concreta, e dunque carattere blasfemo della sua raffigurazione, ecc.) sembrino riecheggiare analoghe concezioni dell’Islam, religione assolutamente aniconica-; molto più probabile, per non dire certo, un condizionamento culturale indiretto, nel senso che gli imperatori iconòmachi e iconoclasti si volevano accattivare il consenso di coloro che potevano simpatizzare con l’Islam per la sua spiritualità più sobria ed austera (e non è un caso che l’iconoclasmo avesse particolare seguito tra i militari).

6) alla fine fu concesso a Teodoro Studita di prendere dimora nell’isola dei Principi, o Prinkipos, (il luogo dove erano stati sepolti Irene e Costantino VI) dove spirò l’11 novembre 826. Egli è venerato come santo sia dalla chiesa ortodossa che da quella cattolica.

7) il termine “Athinganoi” significa letteralmente “intoccabili”: ma tale denominazione non era dovuta al fatto che il contatto fisico con loro fosse ritenuto fonte di contaminazione dagli estranei al gruppo -come per i “fuori-casta” indiani-, bensì perché al contrario essi stessi temevano ed evitavano di essere toccati da persone non appartenenti alla loro setta. Da quanto sappiamo da alcuni anonimi scrittori dell’epoca, e in particolare da un continuatore della “Cronaca” di Teofane il Confessore, che li presenta come una setta giudaica eretica, abbinavano l’osservanza della legge mosaica ad alcuni elementi cristiani, quali il battesimo, e a credenze astrologiche, ed erano famosi come veggenti e indovini (tanto che pure alcuni imperatori si avvalsero dei loro consigli). Secondo la formula di abiura imposta loro quando venivano arrestati avrebbero anche praticato la magia e rivolto invocazioni ai demoni “Soron, Sochon e Archè” (nei quali è forse da ravvisare una triade di lontana origine gnostica). Nelle loro dottrine, per quel poco che se ne conosce, sono state riconosciute analogie con le sette giudeo-cristiane degli Ebioniti e dei Melkidesechiani -che a loro volta fondevano elementi giudaici ortodossi (osservanza delle legge mosaica) con spunti filosofici cristiano-gnostici-, nonché con l’ebraismo samaritano, specie gli insegnamenti di Dositeo (su tale argomento si vedano anche la prima e la terza parte di “osservazioni sulla nascita del cristianesimo” del 6 settembre e 9 ottobre 2016; e la prima e seconda parte della presente trattazione pubblicate il 29 luglio 2017); ma per alcuni altri aspetti, in particolare le rigide norme di purità rituale, -da cui gli “Athinganoi” trassero il nome-, rimembrano altresì gli Esseni. Dalla denominazione “Athinganoi” (che in greco popolare bizantino si pronunciava “azingani”) deriva quasi certamente quella di “Tsigani” o “Zigani”, con il quale si designa quell’insieme di tribù nomadi emigrate dall’India nei primi secoli dell’era volgare e che proprio in quel periodo fecero la loro apparizione nelle regioni circum-mediterranee orientali. E’ da escludere però che tali tribù nomadi, ovvero gli “Zingari”, discendano da membri della setta, -o viceversa che quest’ultima sia nata o si sia sviluppata nel suo ambito-; l’attribuzione agli “Zigani” di tale nome deriva probabilmente da un’estensione per analogia delle qualità ascritte agli “Athinganoi” (soprattutto quella di essere indovini e ciarlatani) anche agli antenati degli “Zingari” (termine che a sua volta dovrebbe essere un’ulteriore trasformazione di “Zigani”), cioè ai Rom e ai Sinti (così come avvenne altre volte quando i nomi di gruppi ereticali furono attribuiti in senso negativo ad altri gruppi giudicati poco affidabili dalla società dominante).

8) Teodora, anch’essa di origine armena, come molte delle famiglie allora più illustri nell’Impero bizantino, era stata scelta come moglie di Teofilo dall’imperatrice Eufrosine che l’aveva preferita alla famosa poetessa Cassia, che le era parsa un po’ troppo arguta e vivace. Come abbiamo visto nella quarta parte Teodora promosse un dura persecuzione contro tutti i dissidenti religiosi e in particolare i pauliciani.

9) Metodio aveva già subito persecuzioni e prigionia sotto il governo di Leone V e di Michele II, anche perchè latore di una missiva di papa Pasquale I che esortava Michele II ad abbandonare con fermezza l’iconoclastia.

10) sebbene spesso nei testi di storia, di filosofia e di teologia si affermi che la chiesa orientale non abbia conosciuto la “scolastica”, cioè l’analisi dei testi sacri e la volontà di trovare una conferma dei dogmi religiosi con l’ausilio della filosofia e della logica, in particolare quella aristotelica, ed anzi si identifichi in questa pretesa assenza uno dei tratti qualificanti che distinguono tradizione cristiana occidentale e orientale, questo non è del tutto vero, poiché anche nella teologia e financo nella mistica orientali ampio fu il ricorso a categorie e ad argomentazioni di carattere logico-filosofico. Certamente la “scolastica” intesa come “dimostrazione” dell’esistenza di Dio e giustificazione della fede (o meglio dei “preambula fidei”) con argomenti razionali e filosofici è estranea alla spiritualità orientale, di carattere essenzialmente mistico come abbiamo più volte sottolineato; tuttavia talora anche nella teologia orientale si ricorse ad argomentazioni che volevano dimostrare come Dio sia un “ente necessario”: un esempio lo abbiamo visto nell’opera di Giovanni Damasceno citata nella nota n.9 alla quinta parte della presente ricerca del 10 settembre 2017): la verità è “illuminazione” e il ricorso a strumenti filosofici serve solo a chiarire sul piano logico il dato di fede, che non è di certo una tesi fantastica e irrazionale, ma aderisce alla ragione e supera l’esame dell’intelletto. In sostanza la filosofia è sì solo un'”ancella” della teologia, ma un’ancella pressoché indispensabile. In questo senso la teologia bizantina e orientale in genere si riallaccia al neoplatonismo di Plotino e Porfirio: con la filosofia si può trovare Dio, ma solo con lo slancio mistico lo si può “conoscere” e “sentire”, sia pure in modo imperfetto.

11) per comprendere a fondo questa affermazione, e in generale il significato e la portata di tutta la lunga controversia sulle immagini sacre, alla quale abbiamo dedicato una lunga trattazione (che peraltro non è finita, poiché il dibattito sull’iconoclastia si prolungò con ulteriori strascichi e ricomparve anche molti secoli più tardi in diversi ambiti religiosi e storico-culturali) si deve tenere presente che il culto delle immagini sacre ebbe ed ha tuttora nella cristianità orientale un’importanza di molto superiore a quella che ha ed ha avuto in quella occidentale, anche nel cattolicesimo popolare dei paesi latini. La venerazione per le icone si manifesta in forme assai accentuate ed esagerate, esprimendosi con ripetuti segni di croce, genuflessioni, osculazioni nei momenti e nelle circostanze più diversi, specie alla fine delle funzioni religiose. In passato in alcuni luoghi, soprattutto in Russia, l’iconolatria giunse a tali eccessi che le manifestazioni di pietà verso le icone prevalevano e mettevano in ombra le stesse celebrazioni eucaristiche, dando luogo ad un vero e proprio culto superstizioso pubblico e privato, in cui l’oggetto di pietà, che dovrebbe solo rimandare al soggetto che vi è rappresentato, assumeva una sacralità intrinseca, tale da ricordare quasi la teurgia praticata da taluni circoli neoplatonici nel III ed IV secolo (a parte il fatto che le icone ortodosse non “parlavano”). Per rimediare a tale stato di cose Nikon, patriarca di Mosca e di tutte le Russie dal 1652 al 1666, con l’aiuto dello zar Alessio Michailovic, adottò varie riforme liturgiche e disciplinari miranti a restaurare la liturgia costantinopolitana e a riportare la chiesa russa nell’alveo di quella greca. Tali riforme suscitarono però l’opposizione dei cosiddetti “vecchi credenti” (“raskolniki”), guidati dal prete Avvakum, i quali furono duramente perseguitati, ma la cui chiesa è giunta fino ai nostri giorni.

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