RIGHETTO, PICCOLO GRANDE EROE DEL RISORGIMENTO ITALIANO

Oltre alla grandi figure che hanno contribuito in modo determinante a realizzare il processo di unificazione nazionale, il nostro Risorgimento è caratterizzato da una miriade di figure “minori” (per importanza storica, non certo per virtù morali, patriottiche e civili), appartenenti a tutti gli strati sociali, spesso umili, che hanno scritto pagine gloriose, ma spesso poco o per nulla conosciute, della nostra storia. Esse sono anche una lampante e splendida dimostrazione di quanto siano false e menzognere le scempiaggini che negli ultimi decenni si vanno ripetendo da parte da parte di alcuni gruppi politici e di opinione sostenuti da nutriti stuoli di squallidi e spegevoli intellettualoidi da due soldi, nello stesso tempo ignoranti e opportunisti, i quali nei loro penosi libercoli sostengono che il Risorgimento  e l’Unità politica d’Italia, che ha consacrato nell’unità politica l’unità culturale, morale e civile della nazione italica, sarebbe stato un processo del tutto artificioso, imposto da ristrette cerchie politiche ed economiche per biechi, -ma non chiaramente precisati-, scopi di potere. Per questa gente la dedizione e il sacrificio profuso, in modo diverso, dagli intellettuali e combattenti italiani in buona parte del XIX secolo non sarebbe stato altro che un cinico strumento degli appetiti territoriali e delle ambizioni della casa di Savoia, un’operazione del “complotto giudaico-massonico” che certi ambienti vedono, in modo invero alquanto patetico e ridicolo, quale regista occulto di tutti i principali eventi, anche i più incompatibili e contraddittori, che hanno caratterizzato la storia moderna e contemporanea; null’altro che una conquista, una colonizzazione,-addirittura un “genocidio”!- perpetrati a danno di alcune aree del paese. Propalando simili assurdità mostrano di ignorare, o meglio fingono di ignorare, che il Risorgimento italiano fu soprattutto un processo di elaborazione di ideali, civili e morali, oltre che nazionali, strettamente legato a quella vasta trasformazione sociale, culturale e politica che si stava avendo in tutta l’Europa, e di cui fu la versione italiana, prescindendo da esso, o addirittura ignorandolo del tutto.

La bandiera della Repubblica Romana.
La bandiera della Repubblica Romana.

In Italia infatti il rinnovamento delle strutture civili era intimamente legato e non separabile dalla questione dell’unità e dell’indipendenza nazionale, tenendo conto anche del fatto che i cosiddetti “stati pre-unitari”, di fatto non erano altro che colonie dell’Austria, erano ormai morti e sepolti fin da prima della bufera napoleonica e furono resuscitati e tenuti in vita artificialmente per l’interesse dell’Austria e in generale per il timore delle altre potenze “mediterranee” in primis la Francia, che intervenisse un nuovo attore ad occupare la scena politica europea (1); non erano altro che stati fantoccio, comandati da tirannelli sanguinari, -peraltro sotto tutela esterna- , “zombies” della storia, destinati comunque a crollare una volta che fossero mutate le situazioni e le opportunità politiche che avevano indotto a mantenerli in piedi.

Come dicevamo, moltissime le figure che meriterebbero di essere ricordate; nel presente articolo tuttavia volgeremo l’attenzione a un eroe del Risorgimento che spicca oltre che per la generosità e l’ardimento dei quali diede prova, per la giovanissima età nella quale la sua giovane vita fu spezzata dalla barbarie straniera.

Righetto (il nome anagrafico non è mai stato accertato, ma forse non l’aveva neppure, essendo un trovatello) era un bambino di 12 anni, orfano di entrambi i genitori, il quale si guadagnava da vivere effettuando consegne per conto di un fornaio di Trastevere, che gli dava in cambio quel poco che gli bastava per sfamarsi. La sua compagna inseparabile era una cagnetta che egli aveva chiamato Sgrullarella.

Nell’estate del 1849 quest’umile fanciullo si trovò ad essere uno dei protagonisti dell’eroica difesa della Repubblica Romana contro le soverchianti forze dell’esercito francese che Napoleone Bonaparte, presidente dei francesi (e non ancora imperatore, poiché egli con patetica megalomania e nel vano disegno di emulare il suo omonimo avo si proclamerà tale due anni più tardi nel 1851) aveva inviato per rimettere sul trono papa Pio IX, -rifugiatosi a Gaeta, ospite del suo degno compare Ferdinando II di Borbone (2)- e restaurare così il malgoverno tirannico e reazionario del clero cattolico in Roma e nello stato ex-pontificio.

Nelle file di coloro che sostenevano la Repubblica Romana,- forse l’espressione più nobile e il momento più alto di tutto il Risorgimento-, erano accorsi patrioti da ogni parte d’Italia e talvolta anche dall’estero, ma nonostante il loro valore e il loro strenuo eroismo nel giugno del 1849 la difesa era ormai ridotta alo stremo nella morsa sempre più dura dell’assedio. Il generale Oudinot, comandante in capo delle truppe francesi, era riuscito ad insediare degli avamposti in alcuni punti strategici della città e da lì tempestava con continui bombardamenti le forze dei difensori e la popolazione romana tutta.

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La statua di Righetto eseguita da Giovanni Strazza nel 1851.

I cannoni inviati dal presuntuoso e meschino regolo (anche se ufficialmente presidente della II repubblica francese) transalpino martellavano senza tregua i bastioni del Gianicolo e le bombe cadevano a pioggia sull’Urbe arrecando morte e distruzione -certo con la benedizione del dio di cui Pio IX era il vicario e Napoleone l’ipocrita lacchè-.

Molti cittadini si sforzavano di impedire per quanto possibile quello scempio cercando di spegnere con uno straccio bagnato le micce delle bombe; questa operazione, pur se semplice, era assai rischiosa, poiché se non si era abbastanza lesti, si poteva saltare in aria, perdendo la vita o rimanendo segnati da un’orribile mutilazione, ma poteva rappresentare la salvezza per numerose persone inermi.

Inoltre il Ministero della Guerra della neonata repubblica a causa della carenza di armi e munizioni, aveva decretato una modesta ricompensa in denaro per chiunque avesse consegnato le bombe inesplose per poterle così riutilizzare contro l’esercito nemico, e anche questa disposizione aveva contribuito a indurre alquanti romani, specie donne e bambini, ad affrontare il grave pericolo.

Gustav von Hoffstetter, volontario garibaldino di origine svizzera, nella sua “Storia della Repubblica Romana del 1849”, nella quale, in forma di diario, narra le drammatiche vicende vissute dagli indomiti difensori di Roma dall’aggressione straniera, così scrive: “In questo giorno medesimo [13 giugno] in cui principiò il cannoneggiamento, la nostra gente si diede a raccogliere le palle nemiche, e noi ne accatastammo tante nel quartiere generale da poterne fornire la nostra artiglieria in caso di bisogno […]. L’intervallo medio tra la caduta e l’esplosione era di 10 o 12 minuti secondi […]. Non saprei a quale dei due motivi attribuire, se all’audacia o all’ignoranza del pericolo, il precipitarsi che faceva la nostra gente sur una bomba, per soffocarla, allorché essa ardeva alcuni secondi più del solito. Molte bombe ci furono in tal modo portate, aventi la spoletta o ricacciata dentro, o strappata, o tagliata via. Per ognuna si pagava uno scudo.” [parte I, cap. 2].

Tra i più alacri e svelti nello slanciarsi sulle bombe per soffocarle con la pezza bagnata vi era l’audace Righetto, il quale sempre seguito dalla sua fida amica cagnolina non si risparmiava per dare il suo umile, ma prezioso, contributo alla difesa di Roma dalle distruzioni del nemico. Egli aveva riunito un esiguo gruppetto di alcuni suoi coetanei, divenendo il migliore nell’esercitare quella rudimentale tecnica da artificiere.

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La copia in bronzo della statua del 1851 collocata a Roma nel parco del Gianicolo.

Fu proprio mentre cercava di spegnere una miccia che Righetto morì. Era il 29 giugno (due giorni prima che fosse promulgata la Costituzione della Repubblica Romana, quando ormai quel nobile esperimento,- più ancora di civiltà che politico- stava per soccombere alla brutale, barbara violenza decisa delle maggiori nazioni “cattoliche” che avevano aderito con filiale devozione all’appello del papa a compiere una missione certo ispirata dalla carità cristiana), ed egli si trovava sulla riva del Tevere, in una località denominata “Renella”, all’altezza del ponte Sisto. Una granata cadde accanto a lui si affrettò a raccattarla, ma non riuscì a spegnere la miccia, perché era troppo piccola e interna alla bomba, così che essa gli scoppiò tra le mani dilaniando anche colei che ormai era tutta la sua famiglia, la fedele cagnetta Sgrullarella.

Il piccolo patriota fu raccolto in condizioni disperate e disperati furono i tentativi di soccorso: l’ospedale di Santo Spirito, gremito da una moltitudine di combattenti e di civili feriti e mutilati, era troppo lontano e sulla strada per giungere ad esso pioveva una vera tempesta di ordigni bellici, che era pressoché impossibile schivare.

Il medico Romano Feliciani gli prestò le prime cure, indi lo fece trasportare nella sua abitazione in via Sistina e poi nella dimora di una anziana signora caritatevole, certa Maria Ranieri. Il bambino però era rimasto orrendamente mutilato e spirò dopo alcune settimane tra indicibili sofferenze.

La morte di Righetto e di altre persone che con generosa passione si dedicavano alla raccolta delle bombe inesplose indusse il governo della Repubblica a revocare la concessione della ricompensa a coloro che le avessero consegnate al comando militare, poiché troppo pericolosa e foriera di atroci disgrazie si era rivelata questa attività.

Ma la fama della tragica fine del ragazzino si diffuse presto, prima tra i garibaldini, per i quali egli divenne un eroico esempio, e poi presso tutta la popolazione di Roma, divenendo un simbolo della lotta e del sacrificio del popolo per la libertà contro l’oppressione brutale di potenti che tradivano nel modo più ignobile gli ideali morali e spirituali di cui affermavano di essere i detentori.

E fu proprio un garibaldino, il conte Pompeo Litta che nel 1851 fece eseguire dallo scultore Giovanni Strazza un piccolo monumento dedicato a Righetto, intitolato “l’Audace”, che espose nell’atrio del palazzo Litta di Milano, ove si trova tuttora [il palazzo è ora di proprietà delle Ferrovie dello Stato].

Solo molto più tardi anche nella città di Roma si provvide a ricordare degnamente questo umile martire degli ideali civili e morali del Risorgimento e dell’Italia, che ora molti osano irridere, o denigrare con ignobile tracotanza, mentre al contrario essi dovrebbero essere riscoperti affinchè la nostra patria, così in basso caduta negli ultimi decenni, -non solo e non tanto sotto il profilo economico, ma anche e soprattutto sotto l’aspetto civile, morale e culturale-, possa alfine riprendersi. Il 9 febbraio 2005 finalmente anche la città di Roma, che pure era stata teatro del suo sacrificio, rese omaggio a questo suo figlio, piccolo per età e costituzione, ma grande per animo e virtù: per iniziativa della regione Lazio in quella data fu inaugurata sul Gianicolo (luogo dedicato alle memorie della gloriosa Repubblica Romana) una statua di bronzo raffigurante Righetto, che spicca tra quelle degli eroici difensori della Repubblica.

La statua, opera dello scultore Pasquale Nava, è una copia di quella marmorea che si conserva a Milano. In essa il fanciullo è rappresentato a torso nudo, con un paio di calzoncini laceri, il braccio sinistro alzato nell’atto di aver strappato la miccia a una bomba. Tra le sue gambe, Sgrullarella, la fedele amica cagnolina, sua compagna di vita e di sventura. L’iscrizione sottostante la scultura così recita: A RIGHETTO, / GIOVANE TRASTEVERINO / SIMBOLO DEI RAGAZZI / CADUTI IN DIFESA DELLA GLORIOSA / REPUBBLICA ROMANA DEL 1849.

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Emblema della Repubblica Romana.

In effetti questo scultura nella sua semplicità offre un’immagine spontanea e fresca, forse più vera, del Risorgimento di quella talora eccessivamente paludata e solenne di molti monumenti ufficiali che ne rievocano le glorie, così come la figura di Righetto, con il suo eroismo “casalingo”, può forse parlare al cuore indifferente e cinico dell’uomo moderno più di quanto non lo possa fare la dedizione a un’ideale e il sacrificio eroico delle figure maggiori, valori ormai del tutto estranei ad un mondo pressoché deserto e sordo a qualsiasi aspirazione ideale.

Nel diario di Gustav von Hoffstetter viene citato un altro ardimentoso ragazzino che si faceva notare per il suo impavido zelo: “Dissi già più sopra che Manara (3) aveva preso seco per servo, da Anagni, un ragazzo di 12 anni. Questo giovinetto, anziché attendere ai suoi piccoli offici, fuggiva ogni mattina sul bastione, e facendosi dare dai soldati, che lo vedevano assai volentieri, un fucile, lo scaricava con grande destrezza contro i cannonieri francesi”.

Senza dubbio la commovente vicenda di Righetto richiama immediatamente alla memoria alcune figure del “Cuore” di Edmondo De Amicis -“storia d’un anno scolastico, scritta da un alunno di terza d’una scuola municipale d’Italia”-, dal quale essa sembra tratta. Penso in particolare alla “Piccola Vedetta Lombarda”, -racconto mensile di novembre-, ambientato durante la II Guerra d’Indipendenza; anche il protagonista di questa storia è un trovatello dodicenne, il quale perde la sua giovane vita trafitto da un proiettile nemico, mentre segnalava la presenza di truppe austriache ad un drappello di cavalleggeri di Saluzzo; e al “Tamburino Sardo” -racconto mensile di gennaio-, il quale durante la battaglia di Custoza, il 24 luglio 1848, viene incaricato da un rude e burbero capitano di consegnare una missiva di richiesta d’aiuto ai battaglioni dell’esercito sardo-piemontese. Incarico a cui egli assolve con ardimentosa tenacia, nonostante tutti gli ostacoli, e che gli costa l’amputazione della gamba sinistra, irrimediabilmente ferita dalla corsa e dallo strapazzo al quale l’aveva sottoposta per portare a termine la sua missione. E il suo generoso sacrificio alla fine gli attira il commosso riconoscimento del suo eroismo da parte del severo superiore.

E a questo proposito vorrei aggiungere che questo splendido libro a mio parere dovrebbe essere letto, e meditato, nelle scuole di tutta l’Italia, e tornare ad essere uno dei punti di riferimento dell’educazione morale e civile dei fanciulli, così come era un tempo, quando tutti genitori ne donavano una copia ai loro figlioletti, certi che ne avrebbero tratto sicuro giovamento.

IL BATTAGLIONE DELLA SPERANZA

Ma a proposito di giovanissimi patrioti che si impegnarono con nobile ardore e spesso si sacrificarono nella difesa della gloriosa Repubblica Romana non possiamo non ricordare il “Battaglione della Speranza”, un manipolo di eroi bambini, che si resero protagonisti di innumerevoli episodi rimasti pressoché sconosciuti o ingiustamente dimenticati.

Fin dal novembre 1847, -quando ancora sembrava che Pio IX avesse dato una svolta al governo pontificio e ad assecondare il processo di unificazione nazionale (4)-, un ex ufficiale piemontese, un certo Pantier (5), aveva radunato intorno a sé alcuni adolescenti romani e diede loro un particolare addestramento: nasceva così il “Battaglione della Speranza”, in seguito aggregato alla Guardia Civica Mobilizzata comandata dal colonnello Palazzi.

Il primo ottobre del 1848 questi ragazzini in divisa si riunirono in una locanda sita in via ella Lungara. Dopo aver eseguito alcune esercitazioni, i giovinetti si sedettero a mensa intorno a “Ciceruacchio”, -soprannome con il quale è noto il leggendario carrettiere romano Angelo Brunetti che fu poi protagonista con Garibaldi di un’epica fuga dalla caduta Repubblica verso la Romagna e il Veneto-, il quale improvvisò per loro i seguenti versi: “Viva la nuova Civica!/ Più non temiam perigli: / D’antichi eroi siam polvere, / Del Nono Pio siam figli” [poiché il papa era ancora considerato partecipe e guida nella lotta contro l’Austria].

Alcuni fanciulli appartenenti al "Battaglione della Speranza" in una stampa dell'800.
Alcuni fanciulli appartenenti al “Battaglione della Speranza” in una stampa dell’800.

Nel 1849 il “Battaglione”, – costituito da 33 piccoli militi-, partecipò alla difesa di Roma, distinguendosi soprattutto presso Porta S. Pancrazio, dove, intorno all’ottavo bastione diede prova di ardimento e determinazione.

Nel 1850, in una “Storia della Repubblica Romana”, scritta con intenti denigratori da uno scrittorucolo reazionario, così leggesi: “verso il cadere della Repubblica alla “Mobilizzata” [ovvero la Guardia Civica] si associò una compagnia di imberbi ragazzetti, che portava il nome di “Battaglione della Speranza”, titolo che esprimeva la speranza che doveano in esso nutrire i popoli, come in un semenzajo d’invitti campioni futuri. Ed esteri e nazionali tenevano in ridicolo questo corpo microscopico, i componenti il quale, nella maggior parte, avean bisogno tuttora delle cure materne della nutrice. A questi elementi si affidava la salvezza, anzi l’eternità della Repubblica Romana!”.

Eppure, nonostante lo sprezzante sarcasmo con il quale i retrogradi servi di papa e sovrani fantocci dell’italica penisola guardavano ai giovanissimi combattenti, il loro apporto alla breve, ma gloriosa, vita della Repubblica Romana non fu affatto inutile. anche la piccola formazione offrì il suo tributo di sangue alla causa repubblicana, con almeno quattro caduti, tutti dodicenni: tra di essi Vincenzo Matteucci, di origine romagnola, era morto il 3 giugno, mentre David Bucchi, Francesco Michelini e il tamburino Attilio Zampini caddero il 30 giugno. Tra i feriti, giova ricordare il quattordicenne Antonio Lizzani, appartenente a una nota famiglia romana di patrioti.

I piccoli membri di questa insolita formazione militare agivano spesso con sfrontata spavalderia: uno di essi, ad esempio, con l’aiuto di alcune persone che l’avevano sollevato, riuscì a strappare la penna rossa dal morione di una guardia svizzera, mentre un suo compagno si impadroniva dell’alabarda di un’altra.

Ma la difesa della Repubblica, per il breve tempo che potè durare, si avvaleva in ogni settore del prezioso ausilio di giovanissimi, se non addirittura di bambini: erano tamburini, corrieri, portaordini, attendenti -come il ragazzino di Anagni al seguito di Luciano Manara che abbiamo citato sopra-, ma spesso combattevano con un ardimento che sconfinava non di rado nell’incoscienza. I francesi erano incuriositi dalle vocine argentine squillanti che, oltrepassando i bastioni di Roma, sentivano giungere alle loro postazioni. Un giorno essi chiesero spiegazioni da un ufficiale italiano che era andato a parlamentare: “Sono i nostri giovanetti -rispose egli- che da 12 a 13 anni si arruolano nella truppa per combattere in difesa della libertà della Patria”.

Di particolare importanza era il compito svolto dai tamburini: questi ragazzetti che con fierezza orgogliosa e un po’ ingenua nelle loro sgargianti uniformi segnavano il passo dei soldati, si ritrovavano poi nei combattimenti scamiciati e laceri, -come si può osservare in una stampa di Luigi Calamatta-, per incitare alla lotta e alla resistenza, battendo con forza la “carica” con i loro tamburi.

Gioacchino Toma (1836-1893): "Piccoli patrioti".
Gioacchino Toma (1836-1893): “Piccoli patrioti”.

Emblematica la storia di un giovane ciociaro, Domenico Subiaco, nato a Ripi (Fr) il 4 dicembre 1832 da due contadini, Giovanni e Angela Maria Paparelli. Appena sedicenne, volle essere tra i difensori della Repubblica Romana, ma a causa della modesta statura, non venne ritenuto adatto a combattere. Non gli fu dunque consegnato un fucile, ma ricette la nomina a tamburino del X reggimento Fanteria e in tale veste partecipò a più di una battaglia.

Il 3 giugno egli si trovava sul Gianicolo, cotto il fuoco delle truppe del generale Oudinot; come racconta “Ceccarius” (6), Domenico sonò l’allarme e la carica; poi, al grido di “W l’Italia!” e “W Roma!”, “raccolse il fucile di un soldato caduto al suo fianco, sparando contro il nemico, ma una palla francese lo colpì nel mezzo della fronte”.

L’episodio è riferito anche da altre fonti, come la cronaca redatta da Camillo Ravioli, ufficiale del Genio: “Dall’alto della porta di S. Pancrazio tirò a petto scoperto, gettata l’uniforme, – e io lo vidi nel mattino di quel giorno stesso 3 giugno-, da dieci a dodici colpi contro i francesi che assalivano il bastione ottavo, facendosi porgere l’arma carica dai compagni che gli erano di sotto; finchè una palla nemica lo colpì nel parietale sinistro e lo gettò rovescio e moribondo a basso”.

In tutto dieci sono i tamburini che risultano caduto durante la difesa di Roma:

1) Attilio Zampini, di anni 14, di Roma, tamburino del “Battaglione della Speranza”;

2) Giovanni Gionchini, di anni 16, di Rimini, contadino, tamburino del 6° reggimento di Fanteria,

3) Domenico Subiaco, di anni 16, di Ripi, tamburino del 10° reggimento di Fanteria;

4) Ignoto, di anni 9, tamburino del 10° reggimento di Fanteria;

5) Felice Carlini, di anni 12, di Roma, milite civico, armaiolo;

6) Giuseppe Celli, di anni 16, di Roma, calzolaio;

7) Ambrogio Fraticelli, di anni 15, di Spoleto, volontario;

8) Vincenzo Matteucci, di anni 12, romagnolo, borghese;

9) Francesco Michelini, di anni 12, di Roma, lavorante alle barricate;

10) Lorenzo Brunetti, di anni 13, di Roma, popolano.

Si osservi che in questo elenco manca David Bucchi, che in altre fonti risulta invece caduto combattendo nel “Battaglione della Speranza”.

Lorenzo Brunetti era il figlio minore di “Ciceruacchio”, il quale in effetti non era morto nella difesa di Roma. Egli, dopo la caduta della repubblica, aveva seguito il padre, il quale, insieme a Giuseppe ed Anita Garibaldi, Ugo Bassi ed altri patrioti, si era diretto alla volta di Venezia, che ancora resisteva all’assedio delle forze austriache. Fu catturato con l’eroico genitore e ne condivise la sorte, finendo con lui fucilato a Porto Tolle, presso il delta del Po, alla mezzanotte del 10 agosto 1849 (proprio nella ricorrenza del suo onomastico!).

Note

1) questo lo si vedrà chiaramente nella politica “italiana” di Napoleone III, il quale non voleva certo un’Italia unita, ma aspirava a soppiantare il dominio austriaco con quello francese: nelle sue intenzioni, l’Italia settentrionale avrebbe dovuto costituire un regno con la dinastia dei Savoia; l’Italia centrale (ad eccezione della maggior parte del Lazio, da lui lasciato al papa) un altro regno governato da un Bonaparte; e infine nell’Italia meridionale la dinastia dei Murat avrebbe dovuto sostuire quella dei Borbone.

2) su quei due esecrabili individui non vale la pene spendere molte parole. Si vedano in proposito quanto si trova in alcuni interessanti siti e blog, quali il “Nuovo Monitore Napoletano”. Quanto alla marmaglia dei loro sostenitori, -i quali fanno dell’Unità d’Italia il capro espiatorio di problemi, inquietudini e squilibri attuali ( sul tale argomento avevamo già detto qualcosa in merito nell’articolo sui populismi italiani, argomento sul quale mi riprometto di tornare)-, le loro tesi patetiche e ridicole non meritano neppure confutazioni o smentite: sono talmente assurde ed arbitrarie che per sostenerle si deve essere animati o da un’abissale imbecillità o da una incommensurabile malafede (oppure dall’una e dall’altra, poiché le due cose non si escludono affatto).

3) Luciano Manara patriota milanese (1825-1849) che fu ferito a morte il 30 giugno 1849 da una fucilata proveniente da villa Spada.

4) in realtà è certo che questo papa non abbia mai avuto l’intenzione di assumere la parte di guida morale del liberalismo italiano, che ingenuamente (e inopportunamente) gli assegnavano alcune correnti del pensiero risorgimentale, -e in particolare il Gioberti-, e tanto meno rinunciare al potere temporale. Il  vero significato degli atti iniziali del suo pontificato, dettati più da momentanea indulgenza che non da una visione politica o ideale, fu frainteso; inoltre egli, dato il suo carattere irresoluto, in quegli anni convulsi si lasciò influenzare dalle circostanze e dalle spinte dei liberali, così come in seguito si lascerà costantemente guidare dagli elementi più retrivi e reazionari, come il perfido (nonchè dissoluto) cardinale Antonelli. D’altro canto è evidente che, se il potere temporale del papa e l’esistenza di uno “stato pontificio” o “della chiesa” erano, e sono, qualcosa di assolutamente anacronistico, vergognoso, e in stridente contraddizione con la dottrina di colui del quale il papa proclamavasi (e tuttora si proclama) il successore, il capo spirituale di una chiesa, con ambizioni “universali”-, -e che quindi dovrebbe essere “super partes”-, non poteva in quanto tale assumere in modo credibile la funzione di guida del riscatto nazionale di un popolo. Tuttavia, se egli fosse stato animato da un autentico slancio spirituale, avrebbe colto l’occasione per rinunciare al potere temporale, la cui perdita, -come dichiarò poi Paolo VI nel 1970 in occasione del primo centenario della “breccia di Porta Pia” e della riunione di Roma all’Italia-, fu una liberazione “provvidenziale” per la chiesa; liberazione peraltro che il papato a quel tempo voleva evitare con qualunque mezzo! a costo di scatenare o esacerbare guerre e conflitti, di causare indicibili sofferenze al popolo, soprattutto agli umili… Inoltre, in realtà la chiesa cattolica romana non ha mai davvero del tutto rinunciato al potere temporale, poiché ha il governo di uno stato, per quanto piccolo, ed esercita un pesante condizionamento nelle vicende politiche italiane. Per non parlare poi della cospicua indennità che, secondo quanto stabilito dal trattato del Laterano, continua a ricevere annualmente dalla Repubblica Italiana, quale “risarcimento” per la perdita dello stato pontificio!

5) su costui non sono riuscito a scoprire altre informazioni.

6) pseudonimo di Giuseppe Ceccarelli (1889-1972), giornalista e studioso della storia, delle leggende e delle tradizioni di Roma.

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