“QUEL SAVIO GENTIL CHE TUTTO SEPPE” ovvero VIRGILIO ED ORFEO (prima parte)

La prima parte di questo articolo è stata scritta nel 2011 in occasione del 2030° anniversario della scomparsa di Publio Virgilio Marone, sommo cantore di Roma antica e vate tra i più ispirati nelle letterature di tutti i tempi. Nella presente ricerca tuttavia intenderei ricordare il genio di Virgilio non tanto per i valori poetici e letterari espressi nei suoi carmi, quanto per gli aspetti filosofici che caratterizzano la sua opera, che non sono certo da considerare secondari e accessori: al contrario essi sono la chiave principale per comprenderne il significato più autentico. Cercheremo poi di approfondire il “mito” di Virgilio, che, sorto fin dall’epoca immediatamente successiva alla sua scomparsa terrena, si sviluppò poi sempre più nella tarda antichità e nel Medio Evo, fino a divenire fondamentale nella scelta operata da Dante nell’assegnare al vate latino la missione di “guida”  nel suo poema. Fin dai primi secoli seguenti la sua dipartita la figura di Vrigilio si trasfigurò nella leggenda, e fu conosciuta ed esaltata come quella di un sapiente, di un profeta, financo di un taumaturgo. In tale veste essa appare già nell’opera “Expositio Vergilianae continentiae secundum philosophos moralis” di Fabio Fulgenzio Planciade (V-VI sec.), e si consolida vieppiù durante il medio-evo latino, dando luogo ad un vero e proprio mito come si può constatare in opere quali la “Cronaca di Partenope”, scritta nel XIV secolo, ma certamente ispirata a tradizioni più antiche, ove Virgilio è rappresentato soprattutto quale un grande mago, che usa i suoi straordinari poteri a beneficio dell’umanità e che compie gesta mirabolanti onde risolvere i problemi che si presentano ai cittadini partenopei.Virgilio

La formazione filosofica di Virgilio avvenne nell’ambito dell’epicureismo alla scuola napoletana di Sirone e poi di Filodemo di Gàdara (1); e di certo questa dottrina con la sua idea “ascetica” del piacere (per quanto tale abbinamento -quasi un ossìmoro-, tra soddisfazione ed ascesi possa sembrare a prima vista incongruente), che induce a guardare dentro noi stessi per comprendere quello che è davvero importante, senza lasciarsi condizionare dall’ambiente e dalla società, e senza lasciarsi sopraffare da passioni distruttive, ebbe notevole influenza su di lui, anche perchè ben si accordava con il suo carattere schivo e poco propenso all’estentazione. L’invito alla conquista dell'”atarassia” (la pace interiore e l’indifferenza a i beni fallaci del mondo) era peraltro comune alle filosofie post-aristoteliche, che additavano nel dominio di sè , nella vittoria sugli impulsi e le emozioni il vero fine dell’esistenza e la possibilità di realizzare sè stessi, di poter davvero “vivere” e non “essere vissuti”, come canne trascinate e piegate dal vento mutevole e talora impetuoso dei desideri e delle passioni.

Tuttavia l’epicureismo professato da Filodemo, benchè aderente sul piano dottrinale al pensiero del maestro (in modo anzi pedissequo, poichè in realtà la scuola epicurea non ebbe alcun sviluppo autonomo dopo la morte di Epicuro e i suoi continuatori si limitarono a ripetere le teorie epicuree senza alcun apporto davvero originale), era alquanto annacquato e lontano, nella pratica, dal severo distacco e dalla concezione austeramente nobile di quest’ultimo: egli, più che un filosofo profondo, era un intellettuale mondano, come testimoniano anche i suoi componimenti poetici di carattere erotico e lascivo.

E’ quindi ipotizzabile, e probabile, che il giovane poeta, riservato e pudico qual era, nonostante il suo entusiasmo iniziale (testimoniato ad esempio dal quinto epigramma dei “Katà leptòn” -raccolta di liriche giovanili-, dove Virgilio dà il suo “addio” alla retorica e alla poesia per abbracciare la filosofia, come porto sicuro per la sua ansia di conoscenza) non si trovasse del tutto a suo agio in questo ambiente non molto in sintonia con la sua personalità; e che quindi, pur senza rinnegare la filosofia epicurea, per quanto si conciliava ed esprimeva alcune esigenze proprie del suo temperamento, in particolare il “vivere nascosto”, lontano dagli affari e dagli incarichi pubblici, si sia accostato alle dottrine orfiche e pitagoriche, che erano assai più in linea con la sua sensibilità, con il suo senso mistico della natura e della fratellanza di tutti gli esseri (e delle quali oltretutto doveva essere ancora mantenersi il ricordo in alcune aree dell’Italia meridionale, sebbene il periodo di massima diffusione della spiritualità orfica fosse ormai finito da secoli). Di questa “conversione”, sebbene non dichiarata, abbiamo indiscutibile testimonianza in tutta la sua opera: “La stessa sensibilissima vibrazione con cui il poeta esprime la vita e il dramma degli animali e delle piante… nasce da questa sua tendenza -nella quale mirabilmente si incontrano il temperamento nativo di Virgilio e la sua fede filosofica- a farsi animale, albero, astro, granello di polvere… perchè egli avverte che tutte queste forme della vita cosmica sono sostanzialmenrte affini, per identità genetica, alla forma umana” così scrive il celebre latinista Ettore Paratore nel suo mirabile libro “Virgilio” (Roma, 1945).

Questo sentimento di fratellanza universale, che sa cogliere in tutti gli esseri viventi delle forme transeunti, ma degne di profondo rispetto e attenzione, di un’unica realtà cosmica, palpita in tutte le opere di Virgilio, ma in modo assai evidente e significativo soprattutto nelle “Georgiche”, che traboccano, oltre che di una percezione panica della natura, e di un’esaltazione non vuotamente retorica di una vita che esprima la realtà autentica dell'”Io” (e non quella artificiosamente imposta dalle strutture e dalle convenzioni sociali), di commosse testimonianze della sensibilità e dell'”umanità” degli animali.

Mimiatura che illustra le Georgiche (nel "Virgilio Romano". codice del V secolo)
Mimiatura che illustra le Georgiche (nel “Virgilio Romano”. codice del V secolo)

E’ soprattuto il libro III, -nel quale viene trattato l’allevamento, in particolare di bovini, ovini e cavalli-, quello dove più si avverte tale sentimento: nei precetti esposti con consumata perizia, che manifesta una conoscenza diretta dell’argomento, è sempre assente qualunque preoccupazione grettamente utilitaristica, qualunque intenzione di bieco e spietato sfruttamento: l’animale è visto come un aiutante dell’uomo nella sua diuturna fatica e non come un passivo utensile o una mera fonte di sostentamento (si noti che nel poema non si accenna mai all’uccisione di esseri viventi per nutrirsene); ma è soprattutto la condanna delle sofferenze inutilmente inflitte dall’uomo alle altre creature viventi che (si veda ad esempio l’episodio della caccia degli Sciti ai cervi che bramiscono pietosamente mentre vengono trucidati con ingiustificata brutalità in mezzo alla neve: Georg. 371-375) che mostra la profondità di tale sentimento. E la partecipazione del poeta al dolore di questi esseri, dei quali con la sua grande anima sa comprendere in pieno l'”umanità”, è esaltata nel finale del libro III, dove viene descritta la terribile epidemia che aveva infierito nel Norico (2): in questa funesta circostanza, gli aninali, vittime del morbo, e gli uomini, i quali, privati del prezioso ausilio da essi prestato, si debbono sobbarcare alle dure fatiche che di solito impongono a buoi e cavalli, sono accomunati dalla medesima sciagura: i primi, con la loro fine straziante, ispirano al poeta alcuni dei suoi versi più commoventi: “Hinc laetis vituli moriuntur in herbis/ Et dulcis animas plena ad praesepia reddunt,/ Hinc canibus blandis rabies venit, et quatit aegros/ Tussis anhela sues ac faucibus angit obesis”(Gerg. 494-497)=”Così dunque muoiomo i vitellini nelle erbe fiorenti/ e rendono le loro anime mansuete davanti alle mangiatoie ricolme;/ così viene la rabbia agli affettuosi cani, la pertosse/ scuote e soffoca per la gola ingrossata i suini malati”; i secondi, che si rendono drammaticamente conto di quanto la loro vita dipenda dagli animali stessi, senza i quali essi sono deboli e miseri, mostrano il loro disperato smarrimento: “Ergo rastris terram rimantur, ipsis/ Unguibus infodiunt fruges, montisque per altos/ Contenta cervice trahunt stridenta plaustra” (Georg. 534-536)= “Per tale ragione [la morte degli aninali da soma] fendono penosamente la terra con i rastrelli/ con la sola forza delle unghie sotterrano le sementi/ e con il collo teso allo spasimo trascinano i carri stridenti per le alte montagne”.

Gruppo scultoreo rappresentante le "Georgiche" (opera di G. Menozzi) nel monumento a Virgilio in Mantova.
Gruppo scultoreo rappresentante le “Georgiche” (opera di G. Menozzi) nel monumento a Virgilio in Mantova.

Per questo sarebbe non solo riduttivo, ma fuorviante considerare la “Georgiche” un semplice poema didascalico sull’agricoltura, ad imitazione di “Le opere e i giorni” di Esiodo, il prototipo di tale genere di poesia nelle letterature classiche, o di altre simili opere, che furono composte soprattutto nel periodo ellenistico, tra le quali ricordiamo in particolare una, avente lo stesso titolo del poema virgiliano (“Gheorgikà”), composta da Nicandro di Colofone, -vissuto tra il II e il I secolo a.C.-, che, secondo Quintiliano (Institutio Horatoria, X,1,56), avrebbe ispirato diversi passi del poema stesso. Anzi si potrebbe dire che l’agricoltura sia soltanto il puinto di partenza, se non proprio il pretesto, per esprimere un’idea ben più profonda. E nel XV epigramma dei “Katà leptòn” (probabilmente apocrifo, anche perchè Virgilio, modesto qual era, non avrebbe mai lodato sè stesso in modo così compiaciuto) il nostro poeta è definito “più dolce di Teocrito [per le Bucoliche], più grande di Esiodo [per le Georgiche], e non inferiore ad Omero [per l’Eneide] (“Vate Syracosio… dulcior, Hesiodoque/ maior, Homereo non minor ore”); e sebbene questo epigramma quasi certamente non sia da attribuire a Virgilio stesso, senza dubbio il poeta aveva piena coscienza dell’originalità, della profondità e del valore della sua opera, così come ne erano consapevoli i contemporanei e tutti gli intellettuali romani posteriori, visto che la poesia latina dei secoli successivi è in gran parte tentativo di emulazione di quella che, pur senza nulla togliere agli altri grandi poeti di cui Roma si onorò, ne fu senza dubbio la vetta.

Nell’episodio finale che conclude il poema vediamo, oltre che un prannuncio della sua opera maggiore , -l’Eneide-, un chiaro e inequivocabile indizio del suo orientamento spirituale (che verrà poi ampiamente ed espressamente dichiarato nel IV libro dell’Eneide): infatti è qui introdotta la figura di Orfeo, il leggendario fondatore e diffusore della dottrina filosofico-mistica che concepisce il mondo quale espressione di un’unica mente divina e qulae drammatico scenario nel quale le anima individuali di tutti gli esseri viventi, attraverso innumeri trasformazioni e incarnazioni cercano de elevarsi alla divinità e di tornare alla primigenia unità, pur conservando il loro carattere e il loro slancio individuale.

Mosaico romano del II secolo raffigurante Orfeo che suona la lira.

Il libro IV delle Georgiche, che tratta dell’allevamento delle api – e si ricordi come il prodotto principale di questi operosi insetti, oltre ad avere una notevolissima importanza nell’economia, e nella dietetica antica, avesse un profondo significato simbolico di ricchezza spirituale-, ha il suo epilogo e il suo culmine in un episodio di struggente intensità (anche per la presenza di annotazioni intrise di altissima poesia, ad esempio quello dell’usignolo -Georg. 511-515-, al quale un crudele villico -incarnazione della bassezza e dell’ignoranza umane- ha distrutto il nido, ed effonde quindi il suo doloroso canto), che si potrebbe quasi considerare un episodio a sè stante, un “epillio” di tradizione alessandrina, ma è in realtà strettamente connesso al tema del libro.

L’episodio inizia con la sventura occorsa al pastore Aristeo, il quale trova gli sciami delle sue api completamente privi di vita. Con l’aiuto della madre, la ninfa Cirene, riesce a interrogare il dio marino Proteo, che tutto sa, ma che ben difficilmente può essere indotto  ad esporre le sue previsioni, e questi gli svela che si è trattato di una punizione per aver causato involontariamente la morte di Euridice, la sposa di Orfeo, quand’ella fu morsa da un serpente mentre fuggiva da lui, il quale, in preda a un’insana passione, la stava inseguendo. Proteo gli narra anche come Orfeo sia disceso nell’Ade per ritrovare Euridice e che, avendo commosso gli dei inferi con il suo canto sublime, sarebbe riuscito a ricondurla alla vita; ma, trasgredendo all’avvertimento di Plutone, si volge indietro per controllare se davvero ella stesse seguendo i suoi passi e così facendo la perde di nuovo.

E’ evidente come il castigo di Aristeo -la perdita delle api-, in effetti, più che un castigo, rappresenta una condizione, la condizione personale di una persona la cui mente, e il cui spirito, sono completamente ottenebrati da impulsi bestiali: la perdita delle api significa metaforicamente la perdita del senno, l’assenza di una dimensione autenticamente spirituale. Il principale prodotto delle api. il miele, nell’antichità era in qualche modo assimilato all’ambrosia, il cibo degli dei: esso infatti possiede virtù purificatrici, è dotato di un discreto potere di conservazione ed è per questo immagine e metafora di nutirmento divino e forza spirituale. Per Aristotele (Nat. Anim., 553-554) esso è cibo divino caduto dal cielo, che non solo purifica, ma anche rivela: è simbolo dell’illuminazione indotta dalla vera sapienza, strumento di comunicazione con il divino; e pertanto puiò essere accostato pure alla biblica “manna” (si veda in particolare Esodo, cap.XVI), -che oltre che cibo “materiale” incarnava l’idea di “nutrimento spirituale” e che, tra l’altro, nei vari, e talora contrastanti, modi con i quali è descritta in molti passi della Bibbia e dei commenti ad essa fatti è paragonata pure (almeno nel sapore) a “frittelle cotte nel miele” -. Inoltre è sempre stato associato alla soavità della poesia, al potere persuasivo dell’eloquenza, all’ispirazione divina, ed appare spesso in aneddoti e racconti leggendari riferiti alla vita, e soprattutto alla nascita, di poeti e filosofi -quali Omero, Saffo, Pitagora, Pindaro, Platone- nutriti e illuminati dal “miele” divino.

E per questo le api, che donano questo eccezionale alimento, nello stesso tempo fisico e spirituale, sono esseri misteriosi e sacri; e “Api” è un appellativo che veniva attribuito sia alle Ninfe, sia alle sacerdotesse di molte divinità legate alla Terra, alla Natura e all’agricoltura, come Demetra, Persefone, Rea, Artemide, nonchè alla vergine profetessa di Delfi, la “Pizia”, che effondeva con la sua voce solenne gli oracoli di Apollo,

Con un’interpretazione forse un po’ azzardata, ma certo non infondata, in una prospettiva propria della psicologia analitica, si potrebbe considerare Aristeo, che tra l’altro era anche’egli figlio di Apollo, e quindi suo fratellastro, un “alter ego” di Orfeo stesso, la sua “umbra”. -per usare un termine junghiano-, che ne incarna la pulsioni negative (“titaniche”), che devono però essere non tanto eliminate o soffocate, quanto rielaborate e trascese dalla coscienza. Tra l’altro poi Aristeo vive la sua finale catarsi quando le api gli vengono restituite (e quindi riacquista, o forse acquista, la saggezza).

Quella di Orfeo è la seconda discesa agli Inferi cantata da Virgilio, dopo quella nel poemetto giovanile “Culex” (“La zanzara”) -sul quale torneremo-, dove pure è esposta in breve la storia di Orfeo, e prima di quella, ben più ampia e solenne, narrata nel libro VI dell’Eneide: il che fa chiaramente capire quanto il destino ultraterreno dell’uomo stesse a cuore al poeta e gli ispirasse alcune dei suoi brani più belli e affascinanti.

Lo stretto legame tra poesia e rivelazione mstica, tra canto e sapienza, che è sempre più o meno presente in tutto il mondo antico, è quindi incarnato in modo esemplare dalla figura di Orfeo, sommo cantore e poeta, e nello stesso tempo depositario di una tradizione e di una rivelazione mistica.

Pure nelle “Argonautiche” di Apollonio Rodio, poeta greco del III sec. a.c., poema che tratta della sepdizione dgli Argonauti partiti alla volta della Colchide per la conquista del “vello d’oro”, Orfeo appare, oltre che il musico che allieta e sprona con il suo canto gli eroi, come un profondo conoscitore delle cose umane e divine, che li aiuta a risolvere complicate questioni e a superare situazioni difficili (3).

Orfeo, seconda la tradizione più comune, era figlio di Eagro, re della Tracia, e della musa Calliope; ma alcuni (4) asseriscono che lo stesso Apollo fosse il vero genitore. Egli con il suo canto sublime riusciva a deliziare e a commuovere tutti gli esseri viventi, e persino quelli non viventi, -come le rocce e le acque-,ad ammansire anche le più indomite fiere (5): il significato allegorico di questa divina dote di Orfeo è evidente: egli incarna la saggezza e la cosapevolezza, che riescono a piegare e a incanalare in una direzione costruttiva gli impulsi e le emozioni, anche quelli primordiali e violenti.

Orfeo ammansice le fiere col suo canto.
Orfeo ammansice le fiere col suo canto.

Nel racconto di Ovidio (Metamorfosi, libro X e versi 1-84 del libro XI), dopo la definitiva perdita di Eurdice, Orfeo vaga afflitto per le selve più impervie; fino a che, fermatosi in una ridente radura, comincia a cantare e a sonare la lira. Al suo canto accorrrono non solo gli animali della terra e dell’aria, ma pur anco le piante e gli alberi, così che il prato diventa una foresta rigogliosa. Ma a mettere fine a questa mirabile scena sopraggiunge uno stuolo di baccanti in preda a un delirante furore: queste forsennate, dopo aver fatto scempio degli animali che l’ascoltavano, uccidono anche lui, fanno a brani il suo cadavere e lo disperdono all’intorno. Ma la testa, che poi alla fine cade in un fiume, continua a mormorare un mesto canto, e la lira a suonare con le sue sette corde (6), mentre lo spirito di Orfeo può finalmente ricongiungersi con Euridice.

Si osservi come la sua morte sotto un certo aspetto sia simile a quella di Euridice: quest’ultima era sì perita per il morso di un serpente, ma soprattutto per colpa di Aristeo, il quale l’aveva inseguita spinto da una bramosia folle e incontrollabile, così che nella vana corsa per sfuggire alla sua insana passione aveva inavvertitamente calpestato il rettile ricevendone la morte. Allo stesso modo Orfeo era caduto vittima della follia erotica e sanguinaria di una turba di donne invasate. Si potrebbe pertanto interpretare la figura di Euridice (7) come l’anima di Orfeo, ovvero l’elemento luminoso e spirituale dell’uomo (quello “dionisiaco”, come vedremo meglio in seguito), che soccombe, almeno temporaneamente, all’elemento oscuro, materiale e irrazionale.

Secondo l’insigne storico delle religioni Edouard Schurè (in “I grandi iniziati”), Orfeo era un sacerdote di stripe reale dallo sguardo profondo e l’aspetto affascinante. Egli d’un tratto scomparve dalla sua patria, la Tracia; si diceva che fosse sceso agli Inferi, ma in realtà si era recato prima nell’isola di Samotracia, dove si celebrava il culto dei “Grandi Dei”, ovvero i “Cabiri”, e poi a Menfi in Egitto, dove apprese i misteri divini (si ricordi che anche Erodoto -Storie, II, 81 e 123- e Platone nel Timeo, nel Fedro, e altrove, parlano della sapienza egizia quale fonte di quella ellenica). In seguito tornò in patria, dove fondò la sua religione, che conciliava il culto lunare, ctonio e sfrenato dell’antico dio Dioniso, venerato in Tracia dai tempi più remoti, con il culto celeste, solare e spirituale di Apollo e di Zeus.

Dioniso rappresentato come grappolo in una pittura di una casa pompeiana.
Dioniso rappresentato come grappolo d’uva in una pittura di una casa pompeiana.

In tal modo Diòniso -chiamato poi anche Zagreo dai suoi seguaci- perdette i suoi primitivi caratteri orgiastici per divenire un dio di luce, un aspetto di Zeus, l’incarnazione dell’Assoluto e delle coscienza cosmica e individuale, il dispensatore della salvezza e della vita eterna attraverso la sua passione, morte e resurrezione, che si concretizza e si manifesta nel sacrificio del frutto della vite, il grappolo, che viene schiacciato per dare “vino”, ovvero il “sangue” di Dioniso, che salva e redime l’umanità: risulta evidente dunque che Dioniso (o Bacco) non è affatto -almeno nella concezione orfica e comunque nel simbolismo spirituale antico-  un dio dei licenziosi e degli ubriaconi, perchè il “vino” è solo immagine e simbolo del suo sacrificio redentore (come sarà poi nel cristianesimo); e oltretutto è da osservare che gli orfici, come i pitagorici, erano del tutto alieni dal consumo di bevande inebrianti, che ottenebrando la mente, ostacolano l’ascesa verso il divino.

La figura di Orfeo appare strettamente connessa a quella di Dioniso anche per la tragica fine, nella quale si può senz’altro vedere una sorta di “martirio”: egli infatti viene trucidato e sbranato dalle baccanti come lo fu Dioniso-Zagreo ad opera dei Titani nel mito cosmogònico e antropogonico della teologia orfica: potrebbe sembrare strano che proprio le baccanti le seguaci di Dioniso-Bacco abbiano compiuto questo crimine; ma si deve tenere conto da un lato che questa morte tragica lo accomuna e lo identifica con il dio; dall’altro che il Dioniso al centro della spiritualità orfica non è più quello della più antica tradizione tracia, che ispirava l'”enthusiasmòs”, un’estasi violenta e scomposta, che incaranava l’aspetto “tremendo” e distruttivo della divinità ( e che aveva quindi alcune somiglianze con l’indiano Shiva), ma ha subito una profonda rielaborazione filosofica e un’intima spiritualizzazione. Inoltre, secondo la versione del mito riportata da Ovidio, lo stesso Bacco, indignato da tale barbaro misfatto, punì le donne colpevoli dell’orrendo delitto trasformandole in alberi.

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE

1) Gàdara era una città ellenizzata della Palestina, che dal 63 a.C. fece parte della “Decapoli palestinese”, la confederazione di dieci città ellenistiche costituita da Pompeo dopo la conquista della Siria. Dopo alterne vicende, la Decapoli fu smembrata sa Traiano nel 106 e una parte fu annessa alla provincia di Giudea, un’altra alla provincia d’Arabia.

2) il Norico era una regione corrispondente all’incirca all’attuale Austria occidentale e Baviera meridionale. Era abitata da popolazioni di stirpe celtica, da una delle quali, i Norici, prese il nome. Fu protettorato romano dal II secolo a. C. e ufficialmente annessa a Roma nel 16 a.C.

3) come accade ad es. con le Sirene (Arg. IV, 891-919), con le Esperidi (Arg. IV, 1407-1418), con Tritone (Arg. IV, 1546-1559).

4) vedi “Biblioteca di Apollodoro”, I,9.

5) Orfeo che canta e suona la lira in mezzo a torme festanti di animali e piante che lo ascoltano rapiti è una scena spesso rappresentata nell’arte greca e romana: un celebre esempio è il mosaico pavimentale conservato al Museo Archeologico di Palermo, illustato nella foto .Il tema iconografico si ritrova poi frequentemente nell’arte paleocristiana, dovr la figura di Orfeo diviene immagine di Cristo, -ad es. nelle catacombe di S. Callisto e in quelle di Domitilla a Roma-.

6) grande è l’importanza e la valenza simbolica del numero 7 in tutte le tradizioni antiche ( 7 pianeti, 7 virtù, ecc.); questo numero, somma del ternario e del quaternario, aveva valore fondamentale nella metafisica pitagorica, e ha il significato di perfezione e pienezza.

7) il nome EURIDICE (da EURY=”larga” + DiKE=”norma, costume”) dovrebbe significare “magnanima, generosa”.

 

 

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *