OSSERVAZIONI SULLA NASCITA DEL CRISTIANESIMO – appendice seconda (la “santa sindone”)- quarta parte

Nel 1506 papa Giulio II (Giuliano della Rovere)(1503-1513) con la bolla “Romanus Pontifex” acconsentiva in forma ufficiale alla pubblica devozione della sindone posseduta dai Savoia: in tale atto, pur non essendo proclamata in via definitiva l’autenticità della reliquia, essa non veniva nemmeno smentita, e se ne stabiliva la ricorrenza liturgica il 4 maggio.

Durante la notte tra il 3 e il 4 dicembre 1532 scoppiò un incendio a Chambery nella cappella ove la sindone era custodita, a seguito del quale il lenzuolo, -che era contenuto in uno scrigno ligneo ripiegato dodici volte su sé stesso-, riportò danni di una certa entità, in particolare bruciature ai bordi dei punti ove esso era ripiegato: I rammendi e i restauri, probabilmente maldestri, che vennero eseguiti in quella circostanza offrirono poi numerosi pretesti ai sostenitori dell’autenticità della sindone per opporsi agli esiti degli esami al “carbonio 14” e delle analisi chimico-fisiche compiute nel XX secolo, che dimostravano senza ombra di dubbio essere il telo un manufatto risalente al XIII-XIV secolo; tali esami, al dire di costoro, sarebbero stati invalidati sia dagli effetti dell’incendio in sé (alte temperature, combustione di lembi della tela e della teca che la conteneva), che avrebbero alterato le caratteristiche fisico-chimiche del lenzuolo, sia dal fatto che la parte di tessuto analizzato e dichiarato medioevale sarebbe stato quello impiegato per rammendare il telo. Ma in tale ipotesi è evidente che dall’esame del carbonio avrebbe dovuto risultare come epoca di produzione del tessuto stesso il XVI secolo ( e non il XIV), per cui codeste argomentazioni appaiono del tutto prive di fondamento.

Nel 1578 il duca Emanuele Filiberto fece trasportare la sindone da Chambery a Torino, -dove nel frattempo era stata spostata la capitale del ducato (1)-, anche per abbreviare il cammino di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, il quale aveva manifestato l’intenzione di venerare l’insigne (presunta) reliquia, e in questa città il telo rimase poi in via definitiva (salvo occasionali spostamenti), prima nel duomo e poi, dal 1694, nella splendida cappella barocca edificata su disegno dell’architetto Guarino Guarini (1624-1683).

L’interno della cappella della Santa Sindone a Torino in una fotografia dell’800.

Durante l’ostensione effettuata nel 1898 nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario dell’emanazione dello “Statuto Albertino”, l’avvocato torinese Secondo Pia, fotografo dilettante, ebbe dal re Umberto I il permesso di fotografare per la prima volta la sindone. Il negativo della fotografia scattata in quella circostanza si rivelò come una sorta di “positivo” facendo apparire una figura dall’aspetto piuttosto inquietante, per non dire minaccioso, e comunque ben più espressiva di quella impressa sul telo, che è assai labile e si può discernere solo osservando il lenzuolo a una distanza di non meno di due metri. L’immagine fotografica divenne da allora molto più nota della figura sbiadita che appare al naturale sulla sindone, venendo immancabilmente riprodotta in tutti i testi e gli articoli giornalistici che trattino del reperto.

Nel 1988 la sindone di Torino fu sottoposta all’esame del “carbonio 14” da ben tre diverse commissioni di esperti, ciascuna in modo indipendente dalle altre, e tutte approdarono alla conclusione che il drappo era stato tessuto in un’epoca oscillante tra il 1260 e il 1390, vale a dire nell’arco temporale entro il quale è compreso l’anno -il 1353- a cui risale la prima sicura attestazione del manufatto.

Alcuni anni prima erano stati eseguiti anche diversi esami sulle presunte tracce ematiche che appaiono sul lenzuolo. L’esito del primo di questi studi, compiuto nel 1980 da Walter Mac Crone, accertò la presenza di numerosi pigmenti minerali (ocra rossa, cinabro) e vegetali (alizarina) spesso utilizzati dai pittori nel ME e sembrò dunque confermare la natura di dipinto della figura impressa sul telo. Analisi successive, compiute nell’ostinato tentativo di voler dimostrare a tutti i costi l’autenticità del reperto trovando in esso tracce di sangue, hanno evidenziato la presenza sul lenzuolo di emoglobina. Ma anche il risultato di tale nuovo esame è stato contestato, poiché i presunti sedimenti di emoglobina potrebbero essere in realtà di ossido di ferro (e di altri sali di ferro), ed essere quindi di origine inorganica -e non organica-. Inoltre è stato fatto notare che il sangue ancora fluido versato su un tessuto avrebbe dovuto lasciare macchie informi e non segni così nettamente delineati che ricalcano le fattezze di un corpo; e che esso non potrebbe scorrere all’esterno della chioma, tenendo conto della posizione assunta dall’ipotetico soggetto umano.

Dai dati sopra indicati e da quelli esposti nelle parti precedenti della presente trattazione si evince oltre ogni ragionevole dubbio che la sindone di Torino non può essere il drappo, o uno dei drappi che avvolse le spoglie di Cristo -o per meglio dire di uno dei personaggi, quello condannato a morte, su cui fu costruita la figura del “figlio di Dio” fondatore della religione cristiana-, che sarebbe stato conservato da uno degli apostoli (per quanto nei testi canonici non vi sia alcun cenno di tale fatto) e che per vie misteriose sarebbe riapparso nella Francia medioevale. In effetti i reperti archeologici e le testimonianze indirette delle fonti potrebbero in qualche modo conciliare le diverse versioni riportate nei vangeli riguardanti la sepoltura e la pretesa resurrezione di Gesù: il trattamento funebre riservato a quest’ultimo avrebbe potuto comprendere l’avvolgimento in un lenzuolo (“sindon”), in cui però collo, polsi e caviglie erano assicurate con fasce o lacci (“othonia”), mentre il capo era stato ricoperto da un fazzoletto (“soudarion”). Ma certamente sia per la non rispondenza con la testimonianza dei vangeli -canonici ed extracanonici- e con le usanze funerarie coeve; sia per l’evidente incompatibilità dell’aver il telo accolto un cadavere con le peculiarità spaziali, anatomiche e mediche che esso presenta (e di cui abbiano parlato nella prima parte); sia a seguito dei risultati delle numerose analisi biochimiche e fisiche, che hanno dato esito univoco, si può escludere che la sindone fatta passare per il drappo funebre di Cristo sia da identificare con quella di cui parlano gli evangelisti.

Sebbene quella di cui abbiamo trattato fino ad ora sia di gran lunga la più nota e la più venerata, esistono, o quanto meno esistevano, un cospicuo numero di altri teli e sudari spacciati come la “vera” sindone di Cristo, la cui ostensione e venerazione è ora peraltro desueta, sia perché in alcuni casi inghiottiti nei segreti e talora inesplicabili meandri della storia, sia perché distrutti nel corso di eventi bellici e politici (in particolare durante la Rivoluzione francese), sia perché durante gli ultimi decenni sono stati prudentemente tolti dalla circolazione dall’autorità ecclesiastica, la quale, a differenza di quanto avveniva in passato, ha accreditato come possibile “vera” sindone solo quella conservata a Torino. Secondo alcune testimonianze il numero delle sindoni un tempo presenti in varie chiese e monasteri ammonterebbe addirittura a quaranta, ma di certo se ne contano non meno di una ventina, delle quali la maggior parte si trova, o si trovava, in Francia, giuntavi nella medesima epoca e per le stesse vie con le quali vi era arrivata la più conosciuta, quella di Lirey (cosicché è legittimo sospettare che molte siano copie di un unico originale giunto dall’oriente nel periodo delle crociate).

LA SINDONE DI BESANCON

Di esse la più riputata dopo quella di Lirey, poi giunta prima a Chambery e poi a Torino, -e che anzi fino al XVII secolo godeva di maggior credito di quest’ultima-, è quella che veniva custodita e venerata a Besançon (città di lingua francese, capoluogo della Franca Contea, ma che dopo aver fatto parte del regno di Borgogna, fu sottoposta alla sovranità del SRI germanico, e poi alla Corona spagnola, fino a che nel 1678 fu stabilmente annessa alla Francia in seguito alla pace di Nimega).

A differenza della sindone di Torino, in questo sudario è riprodotta solo la parte anteriore della presunta figura di Cristo; anche le dimensione sono diverse: da una descrizione risalente al XVIII secolo, apprendiamo che il telo misurava 8 piedi per 4 (equivalenti a 2,60 x 1,30 m) -mentre quella di LIrey-Torino è più grande, avendo una lunghezza di 4,36 m per una larghezza di 1,10 m-.

Secondo una leggenda l’imperatore romano d’Oriente Teodosio II avrebbe fatto dono del telo a Chelidonio vescovo di Vesontio (il nome della città in età gallo-romana) nel 445. L’erudito A. Varin dichiarò nel 1714 di aver rinvenuto un antico manoscritto in un convento nel quale sarebbe stata confermata la circostanza della donazione tramandata dalla pia leggenda. Per parte sua invece Beda il Venerabile (672-735) racconta nelle sue omelie -in particolare nell'”Homilia VII in die natali divi Bendicti”(2)- che la sindone sarebbe rimasta nel santo sepolcro donde alcuni giudei la asportarono fraudolentamente; Movio, re dei Saraceni (3), avrebbe sottoposto la reliquia alla prova del fuoco, ma un vento impetuoso la sottrasse alle fiamme e la posò tra le braccia di un cristiano.

Un’altra tradizione vuole invece che la sindone sia stata portata a Besancon agli inizi del XIII secolo dopo essere stata trafugata a Costantinopoli da Ottone IV de la Roche durante il sacco che la gloriosa capitale dell’Impero Bizantino aveva dovuto subire nel 1204 ad opera dei Franchi e dei Veneziani. Il cavaliere francese avrebbe mandato la preziosa reliquia a suo padre, il quale a sua volta l’avrebbe affidata alla custodia dell’arcivescovo di Besançon, Amedeo di Dramelay, che la collocò nella cattedrale di S. Stefano.

Nel marzo del 1349 un fulmine abbattutosi sulla cattedrale provocò un rovinoso incendio che distrusse gli arredi del tempio e buona parte delle reliquie ivi conservate. La sindone non fu più ritrovata, per cui si pensò fosse stata anch’essa arsa dalle fiamme. Tuttavia, stando alle argomentazioni addotte alcuni secoli dopo dal dotto erudito Jean-Jacques Chifflet (1588-1660), il quale nel 1624 pubblicò un’opera sulla sepoltura di Gesù Cristo e le bende che ne avevano involto il corpo (“De linteis sepulchralibus Christi Salvatoris”), il rimbombo del tuono che aveva accompagnato il fulmine che aveva causato l’incendio aveva a tal punto frastornato le menti degli abitanti della città da far perdere a tutti la memoria, cosicché nessuno ricordò più il punto ove era riposta la reliquia e pertanto se ne smarrirono per il momento le tracce. Ma nel 1377 essa fu miracolosamente ritrovata e tornò nella cattedrale a dispensare numerose grazie; ma in seguito se ne persero ancora le tracce fino a che la reliquia riapparve nel 1523, a seguito del crollo di una parete nella cattedrale di S. Stefano che riportò alla luce l’incavo in cui era stata celata.

Dall’anno della sua definitiva riscoperta si hanno notizie più frequenti e precise sul culto reso alla sindone di Besancon: è a partire da quell’anno infatti che le cronache affermano avvenissero due ostensioni annuali della sindone: una nel dì di Pasqua e l’altra la domenica seguente l’Ascensione, dalle quali venivano attirati nel capoluogo della Franca Contea fino a 30.000 pellegrini. In occasione della cerimonia per impedire che nell’eccesso del fervore religioso la folla potesse involontariamente recare alcun danno alla sindone, essa era mostrata dall’alto di una galleria che sovrasta il cornicione della chiesa; inoltre il 3 maggio, festa dell'”Invenzione della Croce” (ovvero del suo ritrovamento da parte di S. Elena), essa veniva portata in solenne processione per le vie della città.

Dal 1528 il sudario era conservato nel tabernacolo di una cappella della cattedrale di S. Stefano, di cui tre religiosi possedevano le chiavi; poi nel 1669 fu trasferito nell’abside della chiesa di S. Giovanni, detta “abside della S. Sindone”. In seguito però, a causa del crollo del campanile, avvenuto nel febbraio del 1729, che si abbattè sull’abside ove era conservata la sindone, quest’ultima fu collocata in una nicchia sul lato posteriore dell’altare maggiore della chiesa, protetta da cinque cofani, posti uno dentro l’altro, le cui cinque chiavi erano date in custodia a cinque diversi ecclesiastici.

Nel 1544 il lenzuolo liberò la città di Besançon da una terribile pestilenza e in memoria di cotale avvenimento venne istituita la confraternita della S. Sindone deputata a tributare con continuità i più solenni onori e le più devote preghiere all’insigne reliquia. Ma ad essa è stata attribuita un enorme quantità di miracoli, tra i quali perfino la resurrezioni di morti (un po’ come sarebbe accaduto per la croce di Cristo trovata da S. Elena), di cui esiste ancora testimonianza negli archivi ecclesiastici; ma la sua “specialità” sembra fosse la guarigione dalle malattie degli occhi.

L’avvento della rivoluzione comportò la fine della sindone di Besancon (così come di molte altre reliquie più o meno venerabili presenti in terra francese): il 24 luglio 1794 il manufatto fu portato davanti alla Convenzione Nazionale che ne decretò la distruzione: la tela fu tagliata e se ne ricavarono dei legacci poi utilizzati negli ospedali (non è dato sapere che nella nuova funzione loro assegnata i brandelli della sindone abbiano compiuto altri miracoli) (4).

LA SINDONE DI COMPIEGNE

La sindone conservata un tempo a Compiègne nella chiesa dell’abbazia di S. Cornelio era un drappo lungo due canne (circa 2,36 m), presumibilmente di cotone o di lino tessuto alla maniera di Damasco e intriso di essenze aromatiche, e abitualmente racchiuso all’intero di una teca dorata, come attesta il verbale della ricognizione eseguita nel 1628, e che godette di notevole venerazione fin dall’XI secolo. Su questa tela, -diversamente da quanto avviene nella maggior parte delle altre sindoni-, non si distingue alcuna figura, e in questo caso si deve dedurre che i monaci ai quali era affidata non siano ricorsi all’opera di un pittore per soddisfare la credulità dei devoti. Si racconta che codesto sudario sarebbe stato donato a Carlo Magno dall’imperatrice bizantina Irene poco prima dell’800 (quando i due principali sovrani della cristianità accarezzavano l’idea di una matrimonio che avrebbe riunito l’impero d’Oriente e quello d’Occidente) insieme alla tunica di Cristo e ad altre importanti e venerabili reliquie, le quali in un primo tempo furono conservate in un monastero nei pressi di Aquisgrana, -la capitale dello stato carolingio-, poi però Carlo il Calvo (5) lo fece trasferire a Compiègne sua città prediletta. Sembra che sia stata conservato nella chiesa di S. Cornelio fino al 1840; quell’anno la sindone fu irrimediabilmente rovinata a causa della sbadatezza di una domestica, la quale, con l’intento di ridonare al tessuto il primitivo candore, la immerse in un calderone d’acqua calda, provocandone la dissoluzione. Secondo altre fonti però la sindone di Compiegne sarebbe stata data alle fiamme nel 1793, al tempo dei furori iconoclasti dei rivoluzionari, e sarebbe stato risparmiato solo il “subligàculum”, -cioè quella sorta di perizoma indossato da Cristo sulla croce-, che sarebbe poi a sua volta stato distrutto in modo fortuito nel XIX secolo.

LA SINDONE DI CADOUIN

La sindone mostrata fino all’800 a Cadouin, cittadina del Perigord, regione della Francia meridionale, era non meno celebre delle precedenti, e avrebbe dovuto essere la più degna di venerazione, dal momento che il suo culto è stato autorizzato da ben quattordici bolle pontificie, -emanate in massima parte dai pontefici avignonesi-. Essa è un drappo di lino e seta, con due bande laterali colorate e ricamate. Cominciò ad essere conosciuta nel paese transalpino dal XII secolo, quando la si volle accreditare come un trofeo tolto ai musulmani durante la prima crociata e si disse che era stata importata in Francia da Ademaro de Monteuil, vescovo di Le Puy, legato papale in Terrasanta, il quale ne sarebbe entrato in possesso dopo la conquista di Antiochia. Stando a quanto narra una pia leggenda un prete la portò nel paese pirenaico nel 1115, avendola nascosta nella parte superiore di una botte colma di vino che egli aveva separato dal liquido sottostante con una tavoletta di legno; egli la pose nella sua chiesa, ma tenendola sempre celata, poiché temeva di esserne derubato. Ma nonostante la circospezione dell’ecclesiastico, i religiosi dell’abbazia cistercense di Cadouin vennero a sapere del tesoro che egli possedeva; costoro, approfittando di un incendio che si era sviluppato nella chiesa in assenza del prete, accorsero nella chiesa con il pretesto di voler spegnere l’incendio e sottrassero il recipiente che conteneva il telo. Il sacerdote saputo il fatto cercò in ogni modo di farsi restituire la reliquia, me senza alcun risultato; tutto quello che potè ottenere fu di essere ammesso nel monastero e di vedersi affidata la custodia della sindone vita natural durante.

L’ornamentazione della sindone di Cadouin.

In effetti però la prima menzione certa della reliquia si trova in un documento, -un atto di donazione  compiuto da Simone IV di Montfort (1165-1218)(6) a favore dell’abbazia-, risalente al 1214. Poiché il luogo ove era conservata la sindone si trovava proprio lungo il cammino che i pellegrini provenienti via terra dall’Europa centro-orientale percorrevano per recarsi al santuario di S. Giacomo di Compostella in Galizia, nel nord della Spagna, molti di essi facevano una sosta per venerare anche l’insigne reliquia e cotanto afflusso di devoti accrebbe enormemente la prosperità del monastero.

Tuttavia anche il sudario di Cadouin risentì dei turbinosi eventi prodottisi nel periodo della “guerra dei Cent’anni” e per evitare che il telo potesse subire danni, -e in particolare per timore che fosse trafugato dagli Inglesi-, l’abate Bertrando di Moulins nel 1392 la fece trasferire in segreto nella cattedrale di Tolosa, ritenuto un luogo più sicuro. Sembra che anche il re Carlo VI “il Folle” tenesse in altissima considerazione la reliquia, -più che la sindone di Lirey-, tanto che nell’imminenza della festa di Pentecoste del 1399 comandò al conestabile Louis de Sancerre di portarla a Parigi, dove rimase per cinque mesi, tornando poi a Tolosa. Quando il lungo conflitto ebbe termine, nel 1453, i monaci di Cadouin chiesero di poter rientrare in possesso della reliquia, ma i cittadini di Tolosa, volendo continuare a fruire dei benefici che essa recava loro, rifiutarono di restituirla. Per questo alcuni monaci di Cadouin, per recuperare il drappo ricorsero a uno stratagemma: con il pretesto di voler venerare la reliquia riuscirono ad avere le chiavi dello scrigno che la conteneva e ne fecero fare copie, grazie alle quali poterono così rubare la sindone. Tuttavia l’operazione non ebbe buon fine poiché per evitare di essere intercettati dai tolosani, pensarono di riporre temporaneamente il loro tesoro in un’altra abbazia, quella di Obazine; come era prevedibile, anche quella volta i religiosi dell’abbazia vollero tenere per sè un reliquia così preziosa (e così redditizia), per cui ne nacque una lite tra le due abbazie. Infine, per mettere fine alla disputa, nel 1482 il re Luigi XI dispose la restituzione della sindone all’abbazia di Cadouin, con l’aggiunta di un indennizzo di 4.000 lire tornesi.

Da allora l’afflusso di pellegrini nella cittadina riprese, ma cominciò a declinare nella seconda metà del XVI secolo quando la Francia fu sconvolta dalle guerre di religione tra i cattolici e gli ugonotti (protestanti calvinisti), -i quali, ovviamente, secondo l’insegnamento del teologo loro maestro (Calvino), ricusavano il culto delle reliquie-. Pertanto nel 1644 il vescovo de Lingendes si sentì in dovere di pubblicare una storia apologetica della reliquia vanto della sua diocesi per riaffermarne l’autenticità contro gli attacchi di protestanti e scettici. in tal modo egli riuscì ad attirare di nuovo la venerazione dei pellegrini, come testimonia il grande pellegrinaggio del “penitenti azzurri di S. Gerolamo di Sarlat” avvenuto nel 1651 con quale si voleva impetrare la pacificazione del paese nel periodo della “Fronda” (la guerra civile che oppose una parte della nobiltà alla monarchia francese e al cardinale Mazzarino, reggente in nome del re Luigi XIV, allora minorenne). Pure a questa sindone erano attribuiti innumerevoli miracoli, compresa la resurrezione di alcuni defunti.

Nel 1789, alla vigilia della rivoluzione, il telo scampò ad un incendio e fu salvato dal sindaco che lo tenne nascosto negli anni in cui più infuriava l’estremismo rivoluzionario, fino all’ostensione dell’8 settembre 1797, che potè avvenire quando, con l’avvento del “Direttorio”, la situazione si era normalizzata.

Nuovi dubbi sull’autenticità della reliquia risorsero nei primi anni del 900, e studi accurati eseguiti nel 1934 provarono senza fallo che la sindone era un falso: da tale esame si scoprì infatti che gli ornamenti delle bande di seta inserite lateralmente nel tessuto sono in realtà iscrizioni arabe in caratteri cufici, che contengono la tradizionale proclamazione di fede in Allah con la quale si apre ciascuna delle sure del Corano (“Bismillah ar-Rahaman ar-Rahim…”: in nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso…!”). Nell’iscrizione si citano inoltre i nomi del califfo fatimide d’Egitto Al-Mustali (regnate dal 1095 al 1101) e del suo visir Al-Afhdal Abu’l-Qasim Shahansha. Queste scoperte permisero di datare il telo agli inizi del governo di Al-Mustali e alla conquista di Gerusalemme ad opera dei Crociati nel 1098; ed in effetti esso mostra tutte le caratteristiche di un manufatto egiziano di quell’epoca. Non possiamo fare a meno di osservare che in quest’uso disinvolto di un drappo di fattura musulmana, spacciato per il lenzuolo funebre di Cristo, sia lecito vedere un lodevole esempio di dialogo interreligioso “ante litteram”. Nel 1988 la sindone fu oggetto di un accurato restauro, dopo di che fu riposta nel locale museo.

LA SINDONE DI CARCASSONA

Questa reliquia -detta anche “Saint Cabouin”-, di cui si ha notizia dagli inizi del XIV secolo, più che una sindone è un velo di seta di lunghezza inferiore al metro per cui fu identificato nel sudario ove fu avvolto il capo di Gesù, secondo quanto attestato nel vangelo di Giovanni (cap. XX). Essa sarebbe giunta in Francia alla fine del XIII sec., portatavi da due monaci agostiniani fuggiti da S. Giovanni d’Acri allorché la città, ultimo avamposto dei crociati in Palestina, fu conquistata nel 1291 dall’esercito arabo comandato dal sultano d’Egitto Al-Ashraf Al-Khalil. Secondo la leggenda legata al “Saint Cabouin”, la reliquia medesima avrebbe scelto di stabilirsi nella città di Carcassona, poiché non riuscivano a trovare la strada per Tolosa, ove intendevano recarsi. Dalla fine del XIV secolo fu custodita in una nuova cappella edificata ad hoc e poiché la devozione dei fedeli alla reliquia aumentava vistosamente, facendo concorrenza alla non lontana sindone di Cadouin, della quale abbiamo trattato sopra, nel 1403 i frati cistercensi custodi di quest’ultima intentarono causa agli agostiniani di Carcassona, accusandoli di aver rubato una parte della loro sindone. Ma la disputa fu risolta a favore degli agostiniani dal papa avignonese Benedetto XIII (sulla situazione durante il “Grande Scisma d’Occidente” si veda la nota n.9 della parte precedente), il quale decretò che il sudario apparteneva ad essi, e diffidò i cistercensi dal reclamarne il possesso.

Nel XIV sec. la sindone di Carcassona fu venerata particolarmente di cavalieri di quei luoghi, i quali trascorrevano nella cappella ove era custodita la “veglia d’armi”, ovvero la notte precedente l’ordinazione  a cavaliere, che doveva essere trascorsa nella preghiera e nella penitenza. Nel 1970 il telo venne traferito nella cattedrale di S. Michel e nel 1991 fu anch’esso sottoposto all’esame del “carbonio 14”, dal quale risultò essere un manufatto risalente al XIII secolo.

IL SUDARIO DI OVIEDO

Il “sudario di Oviedo”, -città che si trova nella regione delle Asturie, nella Spagna settentrionale-, è un panno di lino avente le dimensioni di 86×53 cm nel quale, come per il precedente, sarebbe stato involto il capo di Gesù secondo quanto leggesi nel vangelo di Giovanni. Su di esso si scorgono alcune sbiadite macchie ritenute di sangue e ad analisi microscopiche sono state rinvenute tracce di balsami e granuli di pollini. La prima testimonianza su di esso sembra essere un passo presente nel diario del pellegrino Antonino di Piacenza, che si recò in Terrasanta nel 570, in cui si riferisce di un “sudario del sepolcro di Cristo”, che si sarebbe trovato nella cripta di un monastero sulle rive del Giordano nei pressi di Gerico, ma che egli non vide con i propri occhi. Ma la storia più completa, -sebbene non molto attendibile- della reliquia è quella che si trova nel “Liber Testamentorum”, opera di Pelagio, vescovo di Oviedo dal 1101 al 1130, -anno in cui deposto dalla carica-, scomparso nel 1153.

L’arca ove è custodito il sudario nella cappella delle reliquie nella cattedrale di Oviedo.

Egli afferma che il sudario, proveniente dal sepolcro di Gesù, fu collocato insieme ad altre inestimabili reliquie in un’arca di legno di cedro e custodito a Gerusalemme, ove rimase fino al 614 allorchè la città fu conquistata dai Persiani guidati dal loro re Cosroe (Kushraw) II Parviz (“il Vittorioso”), -regnate dal 590 al 628-. In quel frangente un monaco di nome Filippo riuscì a sfuggire all’assedio dell’esercito persiano, portando seco l’arca con le reliquie. Egli riuscì a riparare ad Alessandria; ma due anni dopo anche questa città fu occupata dalle milizia dei Sassanidi, per cui il monaco per mettere in salvo le preziose reliquie fuggì ancora una volta, giungendo dopo in lungo tragitto via mare nella penisola iberica.

Sbarcato a Cartagena, egli consegnò l’arca con le reliquie a S. Fulgenzio, vescovo di Ecija, il quale a sua volta l’avrebbe ceduta a S. Leandro, suo fratello e vescovo di Siviglia, -cosa in realtà impossibile in quanto il suddetto Leandro, vescovo dal 579 al 600 era morto ormai da parecchi anni alla data dell’arrivo in Spagna del monaco Filippo-. Dopo la dipartita di Leandro, -seguendo sempre la ricostruzione di Pelagio-, lo scrigno passò in proprietà a Isidoro (560-636), il suo successore (nonché fratello) alla guida della diocesi di Siviglia, -celebre teologo ed erudito, reputato soprattutto per l’pera enciclopedica “Etymologiae” (che già abbiamo citato in diversi nostri articoli)-, il quale però lo donò al suo discepolo S. Ildefonso (607-667). Quando questi nel 657 fu consacrato vescovo di Toledo e primate di Spagna, portò seco l’arca con il sudario nella capitale del regno ispano-visigotico.

Dopo l’inizio dell’invasione degli Arabi nel 711, il regno visigotico di Spagna cadde rapidamente sotto il dominio musulmano. Pertanto, per porre in salvo il sudario e le altre reliquie dalla possibile profanazione o altri danni derivanti dalle vicende belliche, essi, riposti in una nuova arca di legno di rovere, furono trasferiti a Oviedo, nel piccolo regno delle Asturie che non era stato conquistato dagli Arabi. Secondo un’altra tradizione invece il sudario e altre reliquie non furono recati subito a Oviedo, ma prima sarebbero stato celati in un romitorio sul Monte Sacro, un’altura che si trova a circa 10 km dalla città asturiana. Solo nell’840 il re delle Asturie Alfonso II il Casto (759-842), volendo dare una degna sistemazione a un simile tesoro trasportò l’arca con tutte le reliquie che essa conteneva a Oviedo che egli aveva scelto come capitale del regno in luogo di Pravia, e fece edificare una cappella nell’interno del suo palazzo, detta in seguito “Càmara Santa”, dove essa fu accolta in via definitiva, e che dal XIV secolo fu incorporata nella cattedrale gotica di S. Salvador.

La penisola iberica al tempo di Alfonso II delle Asturie.

Durante il regno di Alfonso il Casto (7) furono anche scoperte in Galizia (il cui territorio insieme al Leon rientrava nel regno delle Asturie) le presunte reliquie di S. Giacomo il Maggiore. La città di Iria Flavia, dove esse erano state ritrovate, divenne poi sede del celebratissimo santuario di Santiago de Compostela una delle mete principali dei pellegrinaggi medioevali e per tale ragione si accrebbero di importanza anche le reliquie conservate a Oviedo poiché i pellegrini che si recavano a Santiago il più delle volte non mancavano di fare una sosta in quella città per venerarle.

Un documento datato 14 marzo 1075 (di cui esiste una copia nell’archivio della cattedrale di Oviedo risalente al XIII sec.) attesta che il giorno precedente era avvenuta una ricognizione del contenuto dell’Arca santa alla presenza di Alfonso VI, re di Castiglia e Leòn (1065-1109), di cui fu eseguito un preciso inventario, in cui compare l’espressa menzione del sudario di Cristo. Il sovrano ordinò anche di ricoprire l’arca con un prezioso rivestimento d’argento, lavoro che venne però completato dopo la sua morte per opera della regina Urraca sua figlia, come testimonia la data incisa sul metallo (1113).

Un’altra ricognizione del contenuto dell’arca avvenne al tempo del vescovo Diego Aponte de Quinones (1585-1598), allorché il re Filippo II volle che fosse eseguito un nuovo inventario. Il sudario viene solitamente offerto alla devozione dei fedeli tre volte all’anno: il venerdì santo, nel dì della festa dell’Esaltazione della Croce, -il 14 settembre-, e nell’ottava di quest’ultima ricorrenza liturgica, che corrisponde alla commemorazione di S. Matteo apostolo (il 21 settembre).

Anche su questo reperto è stata effettuata la famosa prova del “carbonio 14”, il cui esito ha portato a concludere che l’epoca a cui esso risale sia la fine del VII secolo (ovvero quelle in cui cominciarono ad aversi le prime testimonianze del telo).

Note

1) il trasferimento della capitale era avvenuto nel 1562, dopo che il ducato di Savoia si fu liberato dal dominio francese al quale aveva dovuto per buona parte soggiacere dal 1536 al 1559.

2) il “dies natalis” di un santo nella liturgia cattolica è in pratica la data della morte terrena che corrisponde alla sua “nascita” in  Cielo.

3) personaggio quasi certamente da identificare con Mu’awiya (603-680), primo dei califfi della dinastia Ommayyade, residente a Damasco, il quale successe nel califfati ad Alì, genero di Maometto, e regnò dal 661 alla morte.

4) l’accanirsi dei rivoluzionari contro le reliquie e altri elementi propri del culto cattolico negli anni più caldi della Rivoluzione francese, il 1793 e il 1794, era dovuto in parte al fatto che essi nella loro ideologia illuministica vedevano in tali oggetti e nella venerazione loro tributata delle forme di riprovevole superstizione; ma anche e soprattutto al carattere di simboli della monarchia e dell'”ancièn regime” che le manifestazioni esteriori della religione cattolica avevano assunto, nonché al fatto che la devozione alle reliquie e alle immagini sacre da parte dei pellegrini costituiva una notevole fonte di reddito per il clero (pertanto, pur in un contesto storico assai diverso, le motivazioni dei rivoluzionari riprendevano sotto questo aspetto sia quelle degli iconoclasti dell’Impero Bizantino, sia le sarcastiche critiche dei protestanti -in specie di Giovanni Calvino- contro il culto di immagini e reliquie).

5) Carlo, figlio di Ludovico I il Pio e nipote di Carlo Magno, re dei Franchi, re d’Aquitania, di Provenza, d’Italia e imperatore del SRI dall’875 all’877. L’appellativo con il quale è noto (“il Calvo”) non è dovuto al fatto che fosse affetto da calvizie (sembra anzi che come gli altri membri della sua famiglia fosse dotato di una folta chioma), ma perché si era fatto rasare il capo all’atto dalla sua nomina ad “abate laico” dell'”abbazia Sancti Dyonisii” in segno di filiale sottomissione alla chiesa cattolica (in contrasto quindi con l’abitudine dei sovrani e dei guerrieri franchi di portare capigliature fluenti).

6) egli è rimasto tristemente noto per gli eccidi compiuti durante la prima fase della “crociata” indetta da papa Innocenzo III contro gli Albigesi, i seguaci della dottrina dei Càtari che avevano grande seguito in quel periodo nella Linguadoca e nella Provenza, e contro i signori che li proteggevano o li tolleravano, in particolare il conte Raimondo VI di Tolosa.

7) sebbene non sia mai stato canonizzato ufficialmente, Alfonso il Casto delle Asturie, -che fu in buoni rapporti con Carlo Magno-, godette di una certa venerazione come santo nella Spagna settentrionale: le sue spoglie infatti, tumulate nella cattedrale di S. Salvador erano annoverate tra i “corpora sanctorum martyrum” custoditi in detta chiesa, ai quali egli aveva ridato il dovuto onore. Inoltre aveva combattuto la dottrina adozianista propugnata da Elipando di Toledo e Felice di Urgel (si veda al riguardo la settima parte della “Storia minima dell’idea di Dio…” del 6 ottobre 2017), che era invece stata protetta da uno dei suoi predecessori, Mauregato (re dal 783 al 788). Alfonso II di Asturie e Galizia non deve essere confuso con Alfonso II d’Aragona (1157-1196), detto parimenti “il Casto”.

/ 5
Grazie per aver votato!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *