MITI E MISTERI DI ATLANTIDE (seconda parte)

Ed in effetti alcuni elementi delle descrizione di Atlantide sembrano riportare al mondo cretese-minoico.

Il sacrificio del toro nel rito che precedeva le adunanze dei re di Atlantide richiama senza dubbio l’importanza che questo possente animale aveva nei culti cretesi; e così la caccia praticata senza il ricorso ad armi metalliche con la quale veniva scelto l’esemplare destinato ad essere sacrificato si può ricollegare alle “taurocatapsia” raffigurata in alcuni affreschi rivenuti nei palazzi di Cnosso e di Festo (1).

Il toro appare strettamente legato a Creta anche in alcuni miti ellenici, che di certo derivavano, pur avendole più o meno rielaborate – e talora deformate-, dalle antiche tradizioni minoiche.figscultura1

Zeus rapisce la principessa fenicia Europa in forma di candido toro, conducendola poi sull’isola dove suo figlio Minosse fonderà la potenza del regno di Creta. E dal mancato sacrificio di un toro avrà origine la funesta storia del Minotauro, che forse giova qui ricordare: Minosse chiese al dio Poseidone di mandargli uno splendido bovino onde tributargli un degno sacrificio. Il dio del mare, esaudendo la preghiera di Minosse, fece uscire dalle acque marine un bellissimo toro bianco. Era talmente bello che a Minosse dispiacque ucciderlo per onorare Poseidone e così preferì destinare al sacrificio un altro bovino. Com’è comprensibile, questo comportamento suscitò le ire del dio, il quale pronunciò contro il re di Creta una terribile maledizione. Fu così che la regina Pasifae (2) , la consorte di Minosse, fu presa da una insana passione per l’animale che non era stato sacrificato a Poseidone. E tanta fu la sua follia che ella chiese e ottenne da Dedalo, il celebre inventore che, dopo essere stato esiliato da Atene, si era rifugiato Creta, di costruirle una mucca finta, con l’ausilio della quale potè empiamente congiungersi con il toro.  Da quello scellerato connubio nacque il Minotauro (3), il quale, oltre ad avere un aspetto mostruoso, era dotato di un’indole feroce e sanguinaria e fu per questo rinchiuso nel famoso “Labirinto”.

Pasifae con il Minotauro neonato su una "kylix" a figure rosse risalente al 330 a. C.
Pasifae con il Minotauro neonato su una “kylix” a figure rosse risalente al 330 a. C.

Ora non narreremo nei particolari e non approfondiremo il mito, uno dei più conosciuti del mondo ellenico, che vede protagonista l’eroe ateniese Teseo, il quale libera i giovinetti ateniesi che ogni nove anni avrebbero dovuto essere sacrificati alla voracità del Minotauro (4). In effetti nella figura di quest’ultimo è da riconoscere la suprema divinità taurina dei Cretesi, decaduta per gli Ateniesi, loro avversari, a crudele mostro che esige un tributo di vite umane dalle popolazioni sottomesse; e il mito del Minotauro denota senza dubbio che in un tempo remoto Atene aveva subito il predominio dei Minoici, i quali, prima della scomparsa della loro civiltà, avevano esercitato un’indiscussa egemonia sulle acque del Mediterraneo orientale (la “talassocrazia cretese”).

In un’interpretazione di carattere simbolico-mistico e psicanalitico il Minotauro (come in genere i “mostri” della mitologia) incarna gli impulsi violenti e irrefrenabili, le pulsioni più oscure e irrazionali che albergano nelle profondità dell’inconscio (il Labirinto, che nelle sue circonvoluzioni, nelle quali è quasi impossibile non smarrirsi, rappresenta in modo perfetto la complessità della psiche). Teseo, -l’IO-, può scovare il mostro e sconfiggerlo solo con l’aiuto del “filo di Arianna”, con cui riesce ad trovare la via nei meandri tenebrosi degli impulsi primordiali: Arianna, com’è ovvio, è il simbolo della ragione e dell’autocoscienza, con le quali può infine illuminare, domare e controllare le energie psichiche potenzialmente distruttive

Tuttavia non si può fare a meno di osservare come questa storia offra diversi elementi che si possono raffrontare con quanto viene detto da Platone su Atlantide: innanzi tutto, Creta, come Atlantide è rivale di Atene (anche se qui quest’ultima viene sconfitta, almeno in un primo tempo); il “labirinto” mostra alcune somiglianze con quell’insieme di cerchi concentrici comunicanti tra di loro per mezzo di corti canali sovrastati da ponti (e che quindi era anch’esso una sorta di labirinto) che circondava la capitale dell’isola perduta; Poseidone, che come abbiamo visto era stato il fondatore della potenza di Atlantide, ha una parte importante nell’inizio della storia.

Ed in effetti alcuni studiosi moderni hanno sostenuto che la leggendaria isola descritta da Platone fosse da identificare con Creta, o con qualche altra isola dell’Egeo dove si era sviluppata la civiltà minoica (in particolare con l’isola vulcanica di Thera, come avremo modo di vedere meglio in seguito).

Autori di notevoli studi al riguardo furono in particolare gli inglesi Edwin Swift Balch (1856-1927) e Kingdon T. Frost (1877-1914) e l’archeologo americano Ralph von Deman Magoffin (1874-1942); la tesi di costoro si fondava principalmente sul fatto che essi intendevano il termine “stoma” (in senso generico bocca), impiegato dal filosofo ateniese per indicare quello che di solito veniva, e viene tuttora interpretato, come lo stretto di Gibilterra come la foce del Nilo (che peraltro com’è noto è molteplice e non unica). In tal modo l’isola posta “di fronte allo stretto” (πρo τoυ στòματoς) significava per essi di fronte al delta del Nilo.

Tuttavia basta osservare una cartina geografica riproducente l’area del Mar Mediterraneo orientale per constatare che l’isola di Creta non è affatto posta di fronte al delta del Nilo (più o meno prospiciente al delta, sebbene a grande distanza è l’isola di Cipro, la quale pure fu candidata da alcuni studiosi ad essere identificata come la mitica terra scomparsa), ma assai più ad occidente.atlantide2 Volendo dare una giustificazione, -peraltro alquanto stiracchiata-, di questo assunto si potrebbe dire che l’isola di Creta si trova sulla rotta che devesi seguire da Atene per giungere alla terra dei Faraoni (e in questo senso “davanti” al delta del Nilo). Inoltre il sacerdote egizio afferma in modo esplicito che il continente dal quale venne l’esercito che si apprestava a sottomettere non solo Atene, ma anche l’Egitto stesso, e che fu sconfitto dagli Ateniesi, si trovava nel mezzo dell’Atlantico davanti alle Colonne d’Ercole. Di conseguenza appare alquanto improbabile che il nucleo costitutivo di Atlantide fosse l’isola di Creta, per quanto non sia da escludere che la civiltà minoica abbia poi in qualche modo ereditato alcuni aspetti di quella atlantidea e che nel volgere dei secoli a quella terra appartenente a un  favoloso passato siano stati attribuiti elementi culturali sviluppatisi poi a Creta e in altre isole dell’Egeo.

Miglior fortuna e maggior credito ha riscosso l’ipotesi che vorrebbe riconoscere l’Atlantide platonica nell’isoletta egeica di Thera (chiamata in epoca moderna Santorini), che in effetti era un tempo assai più vasta di quanto non sia ora e che fu sconvolta e si inabissò in gran parte in seguito alla catastrofica eruzione di un vulcano sottomarino (che esiste tuttora), avvenuta nel 1628 a. C. Questa ipotesi sostenuta già fin dagli anni ’30 dall’archeologo greco Spyridon Marinatos, parve essere confermata dal ritrovamento, avvenuto nel 1967, -nel corso delle ricerche condotte dallo stesso Marinatos-, nei fondali antistanti l’isoletta nell’arcipelago delle Cicladi, nei pressi del villaggio di Akrotiri, delle rovine di una maestosa città, con caratteristiche simili a quelle della civiltà minoica. L’insigne archeologo condusse gli scavi fino alla sua morte (sopravvenuta nel 1974 proprio a Thera a causa di una caduta nel sito archeologico); le investigazioni furono poi proseguite dal suo discepolo Christos Doumas.

E’ stato anche osservato che l’attuale conformazione dell’isoletta, ad anello incompleto che circonda una laguna in mezzo alla quale giace in stato di quiescenza il vulcano sottomarino, potrebbe essere quanto rimane del sistema di canali concentrici comunicanti col mare descritto da Platone. Un affresco scoperto tra le rovine di Akrotiri mostra una estesa città posta al centro della laguna che sembra corrispondere alla capitale di Atlantide. Inoltre nell’isola sono presenti rocce bianche, nere e rosse e tale caratteristica geologica costituirebbe il riscontro di quanto è detto nel “Crizia”, ove si precisa che la pietra nella quale furono intagliate  le strutture portanti e costruiti i muri della capitale avevano proprio questi colori.

L'affresco nel quale è stata vista una rappresentazione di Atlantide.
L’affresco nel quale è stata vista una rappresentazione di Atlantide.

Ma già in precedenza, nel 1960, un altro studioso greco, il geologo Anghelos Galanòpulos, aveva ipotizzato che Atlantide potesse identificarsi con l’isola di Thera, della quale era già ben nota la natura vulcanica. Per giustificare la sfasatura temporale tra la presunta epoca della fine catastrofica di Atlantide, risalente secondo Platone a 9000 anni prima dell’età di Solone, e la data dell’evento tellurico che sconvolse Thera egli sosteneva che fosse stato compiuto un errore cronologico e l’intervallo tra l’esplosione sismica e il periodo in ci visse Solone non fosse di 9000 anni, bensì di 900 (non si sa se tale ipotetico errore sia dovuto alle informazioni inesatte ricevute da Platone o sia da attribuire ad un refuso materiale di qualche amanuense che trascrisse l’opera).

Nell’elaborare la sua ipotesi, Galanòpulos si era riferito ad alcuni episodi narrati nella “Genesi” biblica (i “tre giorni di buio”; la divisione delle acque del Mar Rosso; ecc.) concludendo che in quel periodo una catastrofica esplosione vulcanica doveva essere stata avvertita ed avere causato danni più o meno gravi in tutta l’area che circonda il Mediterraneo orientale.

In seguito, nel 1973, dopo accurati studi la geologa Dorothy Vitaliano rilevò come la topografia di Atlantide descritta nel “Crizia” potesse adattarsi a quelle che dovevano essere le condizioni dell’isola di Thera prima della catastrofica eruzione che ne modificò la conformazione e ne ridusse notevolmente il territorio.thera-boxing-kids-777381 Tuttavia i reperti archeologici portati alla luce dagli scavi e l’esame geomorfologico e petrografico dei terreni e delle rocce sembrerebbero escludere che l’isola sia stata sconvolta da un repentino cataclisma (come fu ad esempio l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia nel 79): infatti non sono stati rivenuti scheletri od ossa isolate, monili o altri oggetti preziosi, il che induce  a credere che gli abitanti abbiano avuto la possibilità ed il tempo di mettersi in salvo prima di soccombere all’evento catastrofico, portandosi seco anche le cose di valore. Nei sotterranei delle abitazioni sono stati inoltre trovati utensili e scorte di viveri, e pertanto si è dedotto che gli isolani fossero abituati ad affrontare situazioni di emergenza causate da disastri naturali come terremoti e maremoti.

E’ probabile che si sia avuta una progressione negli eventi sismici: una prima fase, durata alcune settimane e caratterizzata da numerose scosse, dovette indurre la popolazione ad abbandonare l’isola, per poi farvi ritorno quando sembrava che il vulcano si fosse acquietato. Infatti dagli scavi appare che si stava cominciando a riparare i danni subiti: cumuli di macerie, focolari improvvisati, interventi di ristrutturazione nelle case, ecc. mostrano una ripresa delle attività umane nell’isola. Ma l’opera di ricostruzione fu interrotta dal risveglio dell’attività vulcanica, che spinse la popolazione a lasciare per sempre Thera e a salpare alla volta di Creta.

Allora ebbe inizio la fase parossistica dell’eruzione con una sequenza impressionante di fenomeni assai violenti che produssero dapprima un diluvio di pietre pomici, seguite poi da massi di maggiori dimensioni, e infine dalla caratteristica pomice rosa che ha reso celebre l’isola. Quindi il vulcano esplose: un enorme getto di materiali magmatici compressi e di gas surriscaldati fu lanciato in aria con inaudita violenza e raggiunse la stratosfera ad una velocità di 2000 Km orari, facendo udire tremendi boati dall’Africa centrale alla Scandinavia, dal Golfo Persico allo Stretto di Gibilterra. Le ceneri furono sospinte dall’esplosione e poi dai venti per centinaia di chilometri all’intorno, oscurando la luce solare per più giorni, tanto che sembrò che sulla terra fosse discesa una tenebra senza fine.vulcano

L’enorme esplosione aveva svuotato il gigantesco bacino magmatico sottostante l’isola provocando il crollo dell’edificio vulcanico; miliardi di metri cubi d’acqua si precipitarono in quell’abisso incandescente e a causa dell’altissima temperatura vaporizzarono velocemente. Questo processo innescato dall’eruzione e poi dall’esplosione del vulcano deve aver sollevato immense ondate -in pratica uno “tsunami”- che, oltre a completare la distruzione di quanto rimaneva di Thera, giunsero a infrangersi sulle coste di Creta, dell’Egitto e di altri paesi litoranei.

I profughi provenienti da Thera, -nonché da Creta e da altre isole dell’Egeo, anch’esse sconvolte, sebbene in misura minore, dall’immane disastro-, avrebbero portato in Egitto la memoria della tremenda calamità alla quale erano scampati, dove Solone l’apprese 900 anni dopo. Egli però avrebbe tradotto il nome egizio di Creta -“Keftui”- con “Atlantide”, poichè quell’isola veniva descritta come “Terra delle Colonne”, sorretta dal titano Atlante.

Dunque i risultati delle ricerche geologiche e archeologiche sull’esplosione vulcanica che sconvolse Thera sono in contrasto con quanto Platone afferma nel “Timeo”, che la fine di Atlantide sarebbe stata improvvisa e imprevista e che in essa perirono quasi tutti i suoi abitanti. Tra l’altro, come abbiano detto, il “Crizia”, -dialogo nel quale Platone tratta “ex professo” di Atlantide, fornendone una descrizione nel complesso abbastanza esauriente sia delle caratteristiche fisiche e geografiche sia delle istituzioni, (mentre nel “Timeo” ne parla incidentalmente)-, è un’opera incompiuta: essa si interrompe proprio quando l’autore accenna alla fine di questo continente tra mito e storia. Egli infatti asserisce che la prosperità e la fortuna di Atlantide si fondavano sulla virtù dei suoi abitanti e soprattutto sulla capacità di usare con saggezza degli straordinari (almeno per quelli che saranno poi gli “standard” dell’umanità successiva) poteri mentali e psichici dei quali erano dotati, sulla loro spontanea sintonia con le leggi divine, per cui tra di essi non avevano luogo l’avidità, l’ambizione, la concupiscenza che invece avvelenano l’esistenza degli uomini moderni.

Ma purtroppo anche tra di essi la virtù cominciò a un certo punto ad indebolirsi e a corrompersi, la luce divina si affievolì sempre più fino ad estinguersi, e i vizi si insinuarono nei loro cuori e giunsero a imperversare. Fu così che il sommo Zeus, costatando che la stirpe degli Atlantidi stava irrimediabilmente degenerando, decise di infliggere loro un adeguato castigo, affinchè potessero redimersi e fare ammenda dei loro peccati: a tal fine convocò tutti gli dei nella sua augusta dimora al centro dell’Universo, e disse… Qui il testo si interrompe, ma è facile dedurre che decretò l’immane cataclisma che causò la scomparsa di Atlantide. Tuttavia, poiché la punizione era “medicinale” -come usava dirsi un tempo- e il suo fine, -per così dire-, pedagogico, è certo che una parte della popolazione atlantidea avrebbe dovuto sopravvivere, e presumibilmente dare origine alle civiltà successive, in particolare quella egizia, trasmettendo loro alcune delle conoscenze e dei segreti del popolo di Atlantide.  Per questo, -come abbiano accennato nella prima parte dell’articolo-, certi studiosi hanno ipotizzato che esistesse un terzo dialogo platonico su Atlantide, chiamato “Ermocrate”, che avrebbe dovuto esporre la storia dei sopravvissuti.

E’ oltremodo evidente che questa narrazione (o meglio l’inizio della narrazione) rientra nello schema della divinità che decide di punire l’umanità corrotta e dimentica della sua origine divina che si ritrova nel mito del diluvio, presente nelle tradizioni di moltissimi popoli. Si potrebbe dunque pensare che, come sempre nelle narrazioni del diluvio, anche nell’ignota continuazione della storia di Atlantide fatta da Platone, la divinità stabilisca di salvare alcuni rappresentanti umani, mantenutisi relativamente puri, per dare poi inizio ad una nuova stirpe, o a una nuova umanità.

Ma, come il sacerdote egiziano rivela a Solone, l’umanità nella sua già lunga storia, della quale gli Ateniesi e i Greci avevano memoria solo quanto agli avvenimenti meno remoti, aveva conosciuto numerose conflagrazioni, per mezzo del fuoco o dell’acqua, attraverso le quali essa veniva rigenerata dopo l’inevitabile decadimento e corruzione ai quali andava incontro: ed infatti il fuoco e l’acqua sono gli elementi purificatori per eccellenza.

Fetonte guida il carro del Sole.
Fetonte guida il carro del Sole.

Di queste esplosioni catartiche tuttavia rimaneva un ricordo nelle tradizioni e nei miti di molti popoli: ed infatti il sacerdote cita espressamente il mito di Fetonte, il figlio del Sole, il quale dopo aver ottenuto con le sue insistenze di poter guidare il carro del padre e sostituirlo temporaneamente nel difficile compito di illuminare la terra, provoca a causa della sua inesperienza una grande catastrofe con l’abbruciamento della terra stessa. Abbiamo quindi in questo mito un esempio del primo tipo di “castigo-rigenerazione”, attraverso il fuoco.

Un altro celebre disastro catartico tramite l’elemento igneo è quello della distruzione di Sodoma e Gomorra -e le altre città della Pentapoli palestinese- descritto nelle Bibbia -Genesi, XIX, 11-29- (e che tra l’altro potrebbe in effetti adombrare l’esplosione vulcanica di Thera). A tale riguardo si noti che l’evento, piegato nel testo biblico ad un significato di “exemplum” moralistico, doveva in origine essere inteso come avente una dimensione ben più vasta, se non proprio universale, e non limitata ad una ristretta area della regione siro-palestinese: questo si deduce anche dal fatto che le figlie di Lot, -il nipote di Abramo scampato con la sua famiglia alla catastrofe-, si congiungono al padre dopo averlo ubriacato, non spinte da perversa lascivia, ma nella convinzione che essi fossero i soli esseri umani sopravvissuti e quindi con l’intento di perpetuare la stirpe.

Quanto al castigo per mezzo delle acque meteoriche, ovvero il diluvio vero e proprio, esso è attestato nelle religioni e civiltà più diverse e lontane, dall’America all’Estremo Oriente, ma la versione più nota, divenuta “canonica” è quella recepita nella Bibbia, che si fonda sul mito mesopotamico. Di quest’ultimo la redazione più recente (a parte quella biblica)-anteriore comunque all’VIII secolo a. C.   e meglio conosciuta è quella narrata nell'”Epopea di Gilgamesh” (poema del quale esistono peraltro diverse varianti), che ha come protagonista Utanapishtim: la sua storia è pressoché identica a quella di Noè, anche nei particolari, per cui non si può dubitare che si tratti del medesimo racconto, opportunamente adattato al monoteismo ebraico (5). Peraltro la narrazione del diluvio di cui fu superstite Utanapishtim e famiglia ha un precedente nell’epopea di Atrahasis, datata all’epoca del dominio del pronipote di Hammurabi, il re Ammisaduqa (circa tra il 1646 e il 1626 a. C.); quest’ultima a sua volta riprende la leggenda di Ziusudra, risalente all’epoca sumerica, sebbene conosciuta grazie a manoscritti di età assai più recente.Diluvio-Universale-2

Anche il sacerdote babilonese Beroso, vissuto al tempo di Antioco I Sotere, sovrano dell’impero seleucide dal 281 al 261 a. C., -figlio di Seluco, uno dei “diadochi” (successori) di Alessandro Magno, divenuto sovrano della Persia, della Mesopotamia e della Siria- ripropone nella sua opera, “Babyloniakà”, scritta in greco, la storia di Ziusudra, da lui indicato con il nome ellenizzato di Xisuthros, aggiungendo che molta gente pensava che sui monti d’Armenia si potessero ancora vedere il simulacro dell’arca e cercava di raschiare il bitume del quale era ancora rivestita per usarlo come amuleto ritenendolo dotato di miracolose virtù (6).

La versione greca del diluvio si discosta notevolmente  da quella mesopotamica, pur mantenendo nelle grandi linee gli elementi fondamentali del mito, -la collera della divinità verso l’umanità empia e peccatrice, i “giusti” che vengono risparmiati per dar vita ad una nuova popolazione, la costruzione dell’arca che naviga sulla terra allagata e si arena poi su un monte, ecc.-; il particolare più originale del mito ellenico è il modo al quale Deucalione e Pirra, i due sopravvissuti, ricorrono, su consiglio di Temi,- la titanessa che presiedeva all’ordine cosmico-, per ripopolare la terra: essi lanciano dietro le proprie spalle le “ossa della Grande Madre”, cioè sassi, ossa della terra, che una volta toccato il suolo diventavano esseri umani (maschi quelli lanciati da Deucalione e femmine quelli lanciati da Pirra) (7).

E’ evidente che i cataclismi provocati dall’acqua rimandano ad eventi atmosferici o geologici da cui derivarono immani inondazioni (come lo scioglimento degli estesissimi ghiacciai dopo le glaciazioni), mentre quelli causati dal fuoco sono la trasposizione mitica di catastrofiche eruzioni e esplosioni vulcaniche, nonché di scotimenti tellurici di enormi proporzioni.

Diversi altri autori antichi posteriori a Platone (tra i quali Erodoto, Strabone, Poseidonio, Plinio il Vecchio, Filone di Alessandria, Arnobio, Ammiano Marcellino, ecc.) parlano o accennano nelle loro opere al mitico continente scomparso, ma essi si limitano in genere a ripetere quanto aveva detto il grande filosofo ateniese, accettando oppure esprimendo dubbi sulla effettiva esistenza di Atlantide, collocandola comunque sempre nella più classica ubicazione oltre le “Colonne d’Ercole” nell’Oceano Atlantico (quando non la consideravano un’invenzione dall’intento e dal significato allegorico), senza aggiungere nuovi elementi o informazioni.

Notizie originali, e assai interessanti, ci fornisce invece Diodoro Siculo, storico greco vissuto nel I secolo a. C. (così chiamato perché nativo di Agira in Sicilia), autore di una monumentale “Biblioteca Storica” in 40 libri, dei quali però solo 15 sono giunti fino a noi, più frammenti e riassunti degli altri. Nei capitoli 53-61 del terzo libro tratta con notevole ampiezza della geografia e della storia di Atlantide e dei suoi abitanti, sui quali dà informazioni che divergono in molti punti con quelle esposte da Platone. Afferma che gli Atlantidi abitavano sul litorale dell’Oceano, in una terra molto fertile; che si distinguevano dai loro vicini per la loro pietà ed ospitalità e che pretendevano che il loro paese fosse stato la culla degli dei. Aggiunge che il loro impero si estendeva su quasi tutta la terra, ma principalmente verso occidente e verso settentrione.

Secondo Diodoro Siculo, il loro primo re non fu Poseidone, bensì Urano, il quale insegnò loro l’agricoltura e l’astronomia e li rese civili. Dopo la sua morte, i popoli di Atlantide gli tributarono onori divini e diedero il suo nome all’Universo, sia per la sua conoscenza dei fenomeni astronomici e naturali in genere, sia per manifestare la loro gratitudine. Diodoro mostra dunque di avere una concezione evemeristica (8) delle divinità, o almeno di alcune di esse, ovvero di accettare l’ipotesi che gli dei non siano altro che umani che furono benefattori del popolo e per questo considerati e ricordati dopo la loro morte come entità superiori.

Ma l’aspetto più originale nella versione di Diodoro della storia degli Atlantidi è la guerra che costoro avrebbero sostenuto contro le Amazzoni le quali, al dire dello storico, dimoravano nelle regioni dell’Africa settentrionali, confinanti con la stessa Atlantide.

Del racconto di Diodoro e delle relazioni tra Atlantide  e le Amazzoni abbiamo già ampiamente trattato in alcuni altri articoli, che invito i lettori a rivedere.

CONTINUA NELLA TERZA PARTE

Note

1) il termine “taurocatapsia” significa propriamente “afferrare il toro”: nell’antichità ne esistevano diversi tipi: quella documentata dalle raffigurazioni cretesi sembra essere una sorta di gioco acrobatico consistente nel saltare sul toro prendendolo per le corna; un “gioco” simile (probabilmente non molto gradito al povero toro che veniva sottoposto a questo trattamento) sembra fosse praticato talvolta anche in Egitto; un altro tipo di taurocatapsia, attestato soprattutto in Tessaglia e in Asia Minore, consisteva nella caccia al toro, o altro grande erbivoro, utilizzando solo lacci con i quali si doveva legare l’animale ed è quindi la stessa che Platone sostiene avvenisse ad Atlantide. Era comunque un esercizio assai diverso e decisamente meno crudele della famigerata “corrida”, tuttora praticata in alcune plaghe del mondo soprattutto di cultura iberica (di certo però assai pericoloso per coloro che vi si cimentavano!).

2) Pasifae era figlia di Helios, il Sole, e dell’oceanina Perseide, sorella di Circe e di Eeta. Il nome “Pasifae” (Πασιφαη)  significa “tutta splendente” (o, secondo un’altra interpretazione, “che splende per tutti”) e deriva da πας “tutto” e φαος “splendore”: è probabile quindi che in origine fosse il nome di una divinità astrale o un attributo della Luna (spesso anch’ella legata al toro, forse a motivo delle corna falcate dell’animale che rammentano il crescente lunare). In altre versioni,- come ad esempio in Igino, “Fabulae”, 40 -, l’insana passione le sarebbe stata ispirata come punizione da Afrodite, adirata con Pasifae perché trascurava il suo culto.

3) stando a quanto affermano Diodoro Siculo (Bibl. Hist. IV, 61) e la “Biblioteca di Apollodoro” (III;1) il vero nome del Minotauro (termine che significa propriamente “toro di Minosse”) era Asterio, -nome che già ebbe il re di Creta che aveva sposato Europa e adottato i figli da lei avuti con Zeus-; questo nome rimanda senza dubbio al carattere origininario di divinità astrale (solare o lunare) di questo essere, poi trasformato nell’interpretazione ateniese in un mostro feroce. Secondo Plutarco di Cheronea (“Vita di Teseo”, 16), che dà un’interpretazione razionalistica del mito, Pasifae non si era unita  a un toro, ma un uomo di nome Tauros e i fanciulli condotti a Creta da Atene non erano destinati ad essere divorati da un mostro, ma tenuti in schiavitù.

4) questo doloroso tributo era stato inflitto agli Ateniesi per scontare l’uccisione avvenuta ad Atene di Androgeo, uno dei figli di Minosse.

5) si tenga presente però che il “dio creatore” (e punitore) della “Genesi” è chiamato “Elhoim”, sostantivo plurale che significa “dei”. Tuttavia i verbi sono coniugati al singolare (in pratica si dovrebbe tradurre. “Gli dei disse: sia fatta la luce”, ecc.).

6) l’opera di Beroso è andata smarrita, ma ne rimangono frammenti ed estratti in testi di autori successivi, in particolare di Eusebio di Cesarea, storico e vescovo cristiano vissuto dal 265 al 340 circa.

7) Deucalione e Pirra ebbero poi con modalità più “normali” altri tre figli: Elleno, Anfizione e Protogenia. Dal primo, unitosi in matrimonio con la ninfa Orseide, nacquero Xuto, Eòlo e Doro, i capostipiti delle stirpi elleniche.

8) così detta perché fu formulata per la prima volta dallo scrittore Evèmero di Messene (340-260 a. C. circa).  Egli è noto per essere l’autore di un’opera a metà tra il romanzo e l’utopia politica, la ‘Ιερα’ αναγραφη’ (Sacra Scriptio), in cui racconta di aver intrapreso un lungo viaggio nel Mare Eritreo, durante il quale, dopo aver circumnavigato le coste dell’Arabia, giunse in un’isola, chiamata Panchaia, dove regnava un sistema sociale di tipo comunistico, -sebbene in forma attenuata (proprietà privata delle abitazioni, importanza della famiglia, ecc.)-. Qui egli afferma anche di aver visto una iscrizione posta su un’antichissima stele, fatta scolpire dallo stesso Zeus (che sarebbe stato quindi un re terreno), a perpetua memoria delle proprie opere, e dalla quale risultava che gli dei non erano altro che sovrani e benefattori i quali sulla terra sarebbero stati innalzati dalle popolazioni a dignità e natura divina. E’ evidente che l’isola descritta da Evèmero ha molte affinità con la stessa Atlantide.

 

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2 Risposte a “MITI E MISTERI DI ATLANTIDE (seconda parte)”

  1. Ancora complimenti.
    Una domanda, che sembrerà ingenua e probabilmente lo è: se è vero che il vulcano di Thera è esploso con una simile violenza, sparando magma e lapilli incandescenti a 2000 km orari, come si può pensare che sia rimasta traccia di corpi umani? Sarebbero stati inceneriti all’istante.
    Nel caso del Vesuvio si sono conservati i corpi di coloro che sono stati sepolti dalla cenere del vulcano esploso, ma non certo quelli di chi è esploso insieme con esso.
    Oppure mi sfugge qualcosa?

    1. In effetti se la distruzione fosse stata così totale, non si capisce neppure come abbiano potuto conservarsi parti architettoniche così cospicue dell’antica città che si trovava sull’isola (ed anche in ottime condizioni, da quanto si può arguire dalle testimonianze fotografiche). Tuttavia io. come si suol dire, “relata refero”… d’altra parte personalmente non credo proprio che Thera, o qualunque altra isola del Mediterraneo, sia da identificare con Atlantide. Anche perché, a mio parere, quest’ultima non è da intendere tanto come una terra ben precisa, esistente o esistita, ma piuttosto come una fase dell’umanità, anteriore a quella in cui si svilupparono le civiltà storiche più conosciute.

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